Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 5 giugno 2025, n. 29458
Presidente: Pezzullo - Estensore: Mele
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 18 febbraio 2025, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha confermato la decisione del Tribunale che aveva ritenuto [omissis] responsabile del reato di cui all'art. 595, comma 3, c.p. commesso ai danni di [omissis], condannandola alla pena di giustizia.
I giudici del merito hanno ravvisato gli estremi del delitto contestato nella condotta tenuta dalla [omissis], consistente nella pubblicazione sul social-network "TikTok", tramite un profilo alla stessa riconducibile, dei video in cui pronunciava nei confronti di [omissis] le espressioni offensive riportate nel capo di imputazione.
2. Avverso tale sentenza l'imputata, a mezzo del difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, articolando due motivi di censura, di seguito riassunti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p.
2.1. Il primo motivo denuncia vizio di violazione di legge in relazione all'art. 595 c.p. La sentenza impugnata avrebbe ritenuto sussistente tale reato, pur affermando la presenza della persona offesa al momento della pronuncia delle frasi offensive, laddove invece tale presenza esclude la configurabilità della diffamazione. Nella specie, come affermato dalla stessa Corte territoriale, i video erano stati realizzati in diretta tramite la piattaforma "TikTok", venendo visualizzati da molteplici utenti, compreso il [omissis]. La presenza, come in questo caso, anche virtuale della persona offesa, oltre che dei terzi e dell'offensore, integrerebbe la fattispecie depenalizzata dell'ingiuria aggravata.
2.2. Il secondo motivo denuncia il vizio di motivazione per avere la Corte territoriale omesso di valutare il motivo di appello con cui si chiedeva l'applicazione dell'art. 599 c.p. Invero, secondo la ricorrente, le offese da costei pronunciate rinvenivano la propria causa nello stato d'ira in lei provocato dalle precedenti «frasi bullizzanti» pronunciate dalla persona offesa nei confronti del figlio gravemente malato dell'imputata.
Alla mancata valutazione di tale motivo di appello conseguirebbe il travisamento della richiesta di integrazione istruttoria che l'imputata aveva avanzato in appello, con cui chiedeva di essere ammessa alla prova contraria, tramite l'audizione di un teste che avrebbe dovuto attestare l'esistenza di precedenti video realizzati dal [omissis] offensivi sia della [omissis] sia di suo figlio.
3. Il Procuratore generale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
4. Con successiva memoria in data 28 maggio 2025, il difensore dell'imputata ha replicato alle conclusioni del PG, svolgendo ulteriori considerazioni a sostegno del ricorso.
5. Con memoria in data 29 maggio 2025, l'avv. [omissis], difensore di [omissis], costituito parte civile, ha chiesto il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Il primo motivo è privo di pregio.
2.1. Secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la differenza tra l'ingiuria, ora non prevista più come reato, e il delitto di diffamazione - differenza rilevante per la clausola di salvezza prevista dall'esordio dell'art. 595, comma 1, c.p. - risiede nella presenza ovvero assenza del destinatario delle espressioni offensive: mentre nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore (Sez. 5, n. 10313 del 17 gennaio 2019, Vicaretti, Rv. 276502-01, la quale ha ritenuto immune da censure la decisione di merito che aveva qualificato come diffamatorie le espressioni profferite dal ricorrente ad alta voce, in assenza della persona offesa, che tuttavia le aveva udite, perché impegnata in una conversazione telefonica con uno dei soggetti presenti nella stanza in cui le parole offensive erano state pronunciate).
2.2. Diviene dunque dirimente, ai fini della sussistenza del reato in esame, delineare il concetto di "presenza". Se tradizionalmente esso implica necessariamente la presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, di offeso e terze persone, i moderni sistemi tecnologici ne rendono necessaria una specificazione, consentendo questi di realizzare situazioni in cui si può ravvisare una presenza virtuale del destinatario delle affermazioni offensive, sostanzialmente equiparabili alla presenza fisica (call conference, audioconferenza o videoconferenza: Sez. 5, n. 34484 del 6 luglio 2018, Badalotti, non massimata; Sez. 5, n. 13252 del 4 marzo 2021, Viviano, Rv. 280814-01).
Per tale motivo occorre procedere ad una valutazione caso per caso: se l'offesa viene profferita nel corso di una riunione a distanza (o "da remoto"), tra più persone contestualmente collegate, alla quale partecipa anche l'offeso, ricorrerà l'ipotesi della ingiuria commessa alla presenza di più persone (Sez. 5, n. 10905 del 25 febbraio 2020, Sala, Rv. 278742); di contro, laddove vengano in rilievo comunicazioni (scritte o vocali), indirizzate all'offeso e ad altre persone non contestualmente presenti (nell'accezione estesa alla presenza "virtuale" o "da remoto"), ricorreranno i presupposti della diffamazione, come la giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato quanto, per esempio, all'invio di e-mail (Sez. 5, n. 13252 del 4 marzo 2021, Viviano, cit.; Sez. 5, n. 29221 del 6 aprile 2011, De Felice, Rv. 250459), ovvero all'invio di messaggi contenenti espressioni offensive nei confronti della persona offesa su una chat condivisa anche da altri soggetti, nel caso in cui la prima non li abbia percepiti nell'immediatezza, in quanto non collegata al momento del loro recapito (Sez. 5, n. 28675 del 10 giugno 2022, Ciancio, Rv. 283541-01).
Si è perciò affermato che si configura il delitto di diffamazione, ove manchi la possibilità di interlocuzione diretta tra autore e destinatario dell'offesa, che resti deprivato della possibilità di replica, vale a dire quando tra l'offensore e l'offeso non sia possibile instaurare un rapporto diretto, reale o virtuale, che garantisca a quest'ultimo un contraddittorio immediato, con possibilità di replica (ex plurimis, Sez. 6, n. 17563 del 23 marzo 2023, Amurri, Rv. 284592).
In applicazione di tali principi, questa Corte ha ritenuto che integra il delitto di diffamazione aggravato da mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, la dichiarazione offensiva resa nel corso di un'intervista televisiva, alla quale il destinatario, non presente, abbia replicato parzialmente inviando un "sms" al conduttore, in quanto, ai fini della configurabilità dell'ingiuria, è necessario che tra l'offensore e l'offeso si instauri un rapporto diretto, reale o virtuale, che garantisca a quest'ultimo un contraddittorio immediato, attuato con modalità tali da assicurare una sostanziale "parità delle armi" (Sez. 5, n. 5982 del 10 novembre 2022, dep. 2023, Fedeli, Rv. 284220-01). In sostanza, tale pronuncia ha evidenziato come le situazioni equiparate alla presenza fisica devono essere caratterizzate da un rapporto diretto tra offensore e offeso, il quale non sussiste nell'ipotesi di comunicazione attraverso il mezzo televisivo.
2.3. Ritiene il Collegio che la situazione che si verifica con riguardo alle frasi pronunciate in un video pubblicato sui social-media, nella specie "TikTok", sia sotto più profili analoga a quella esaminata dalla sentenza Fedeli. Invero, al momento della trasmissione del video "in diretta", la circostanza che la persona offesa vi abbia assistito non consente di affermarne la presenza nel senso sopra specificato, atteso che la pur prevista possibilità di inserire contestualmente dei "commenti" alle immagini e alle frasi pronunciate nel video costituisce uno strumento di interlocuzione limitato che non mette in rapporto diretto e paritario offensore e offeso e perciò non garantisce un contraddittorio immediato, reale ed effettivo (Sez. 6, n. 17563 del 23 marzo 2023, Rv. 284592; Sez. 5, n. 5982 del 10 novembre 2022, Rv. 284220).
È poi da considerare che, nella specie, i video incriminati sono rimasti presenti sulla piattaforma social anche successivamente e sono stati visti e "condivisi" da numerose persone. In tal caso è evidente che debba essere esclusa la presenza della persona offesa, mancando senz'altro la possibilità per la stessa di replicare in via immediata alle dichiarazioni offensive.
2.4. Può pertanto affermarsi che integra il delitto di diffamazione, aggravato da mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, la dichiarazione offensiva resa nel corso di un video pubblicato sui social-media al quale il destinatario non sia presente fisicamente, ma abbia assistito "in diretta da remoto", atteso che la possibilità di inserire "commenti" non assicura un rapporto diretto con l'offensore né un contraddittorio immediato ed in forme adeguate, rispettose di una sostanziale "parità delle armi".
La Corte d'appello ha correttamente applicato i principi giurisprudenziali consolidatisi in materia con una motivazione logica e coerente che, come tale, si sottrae alle censure della ricorrente.
3. Il secondo motivo è generico perché non si confronta con la sentenza impugnata.
La Corte di appello ha specificamente replicato alla censura che invocava la causa di non punibilità della provocazione di cui all'art. 599 c.p., evidenziando come nelle espressioni dello [omissis] non vi fosse alcun fatto ingiusto altrui, tale da provocare lo stato d'ira dell'imputato determinandone la controreplica.
Al riguardo rileva il Collegio come la valutazione di fatto operata dalla sentenza impugnata risulti corretta e logica, laddove ha ritenuto che ai fini dell'integrazione della causa di non punibilità non sono sufficienti generici atteggiamenti scortesi tenuti dalla persona offesa. Invero, benché il fatto ingiusto altrui ricorra anche quando consista nella lesione di regole di civile convivenza, è necessario che esso sia apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo, dovendosi invece escludere la rilevanza della mera percezione negativa che di detta violazione abbia avuto l'agente (ex plurimis, Sez. 5, n. 21133 del 9 marzo 2018, Rv. 273131). Nel caso in esame, peraltro, le frasi asseritamente pronunciate dalla persona offesa sono state indicate dall'imputata in modo del tutto generico, come risulta dallo stesso ricorso.
4. Ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla costituita parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Reggio Calabria con separato decreto di pagamento.
5. Deve infine essere disposto - ai sensi dell'art. 52 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e in caso di diffusione del presente provvedimento - l'oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti del processo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputata alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Reggio Calabria con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 d.lgs. 196/2003, in quanto imposto dalla legge.
Depositata il 12 agosto 2025.