Corte costituzionale
Sentenza 3 luglio 2025, n. 95

Presidente: Amoroso - Redattore: Viganò

[...] nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare), promossi con ordinanze del 30 settembre 2024 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Locri; del 24 settembre 2024 dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale; del 21 ottobre 2024 dal Tribunale ordinario di Busto Arsizio, sezione penale; del 3 ottobre 2024 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze; del 22 novembre 2024 dal Tribunale ordinario di Teramo; del 2 dicembre 2024 dal Tribunale ordinario di Locri, sezione penale; del 25 ottobre 2024 dal Tribunale di Firenze, sezione terza penale; del 13 gennaio 2025 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Locri; dell'11 novembre 2024 dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale; del 26 novembre 2024 dal Tribunale ordinario di Catania, sezione seconda penale; del 12 novembre 2024 dal Tribunale ordinario di Modena, sezione penale; del 5 febbraio 2025 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma e del 7 marzo 2025 dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale; iscritte rispettivamente ai numeri 201, 222, 232 e 233 del registro ordinanze del 2024 e numeri 4, 5, 8, 10, 17, 18, 20, 25, 33 e 50 del registro ordinanze del 2025; pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 45, 49, 52, prima serie speciale, dell'anno 2024 e numeri 5, 6, 7, 8, 9,11, prima serie speciale, dell'anno 2025.

Visti gli atti di costituzione di V. C., A. D. e O. G.; C. C.; P. G.; C. L.; M. D.M.; E.M. P.; E. B.; M. C.; D. N.; M. C.; V. P.; G. C.; G. P. e altri; M.M.B. C.; C.S. G.; F. N.; G. V.; L. B.; P. C.; M.G. N. e G. V.; nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 7 maggio 2025 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi gli avvocati e le avvocate Manlio Morcella per V. C.; Vittorio Manes, Giovanni Flora e Francesco Maria Falcinelli per P. G.; Vincenzo Maiello e Maria Donata Licata per G. C.; Giovanni Grasso per G. P. e per le altre parti costituite; Tommaso Guerini e Guido Aldo Carlo Camera per G. V.; Michele Nannarone e Nicola Di Mario per A. D. e O. G.; Angelica Maria Giusi Montalbano e Vincenzo Mellia per V. P.; Lorenzo Zilletti per M. C.; Ubaldo Minelli per C. C.; Donatella Donati per C. L.; Francesco Azzolina per C.S. G.; Giuseppe Lo Faro e Vincenzo Mellia per G. V.; Giovanni Borgna per L. B.; Francesca Ronsisvalle e Vincenzo Mellia per F. N.; Giovanni Fiorile e Giorgio Salvatore Antoci per P. C.; Calogero Domenico Licata per M.M.B. C.; Riccardo Martini per E.M. P.; Fulvio Francesco Simoni per M. D.M.; Gaetano Viciconte per M. C.; nonché gli avvocati dello Stato Ettore Figliolia e Massimo Di Benedetto per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 7 maggio 2025.

RITENUTO IN FATTO

1.- Con quattordici diverse ordinanze - tredici emesse da giudici di merito (iscritte ai numeri 201, 222, 232 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 4, 5, 8, 10, 17, 18, 20, 25 e 33 reg. ord. del 2025) e una dalla Corte di cassazione (iscritta al n. 50 del reg. ord. del 2025) - vengono sollevate questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare), che ha abrogato l'art. 323 del codice penale, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione (ordinanze iscritte ai numeri 201, 222, 232, 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 5, 8, 10, 18, 33 e 50 reg. ord. del 2025) o solo in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. (ordinanze iscritte ai numeri 4, 17, 20 e 25 del reg. ord. 2025), in relazione agli obblighi discendenti complessivamente dagli artt. 1, 5, 7, paragrafo 4, 19 e 65 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall'Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 agosto 2009, n. 116 (di seguito indicata anche come: "Convenzione di Mérida", "Convenzione", o "UNCAC").

Alcuni rimettenti dubitano altresì della legittimità costituzionale della disposizione abrogatrice in riferimento agli artt. 3 Cost. (ordinanza iscritte ai numeri 233 reg. ord. del 2024 e 33 reg. ord. del 2025) e 97 Cost. (ordinanza iscritte ai numeri 222 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 4, 8 e 33 reg. ord. del 2025).

1.1.- In relazione ai fatti oggetto dei giudizi principali, i rimettenti espongono quanto segue.

1.1.1.- Nell'ordinanza del 30 settembre 2024 (n. 201 del reg. ord. 2024), il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Locri riferisce di dover decidere, con rito abbreviato, sull'imputazione di abuso d'ufficio, ai sensi dell'art. 323 cod. pen., ascritta al responsabile dell'Area tecnica di un comune perché, nello svolgimento delle sue pubbliche funzioni, «avrebbe violato le specifiche regole di condotta espressamente impostegli dal R.D. n. 827/24 e dall'art. 21-quinquies legge n. 241/90 e senza attribuirgli alcun margine di discrezionalità», al fine di aggiudicare in via definitiva il contratto di compravendita di un immobile del patrimonio disponibile dell'ente comunale alla società che lo conduceva in locazione, previa revoca dell'aggiudicazione provvisoria in origine riconosciuta ad altro soggetto, costituitosi parte civile nel giudizio principale. Nella prospettazione d'accusa, la condotta si sarebbe risolta nell'intenzionale attribuzione di un ingiusto vantaggio alla società conduttrice dell'immobile, con ingiusto danno alla parte civile.

1.1.2.- Nell'ordinanza del 24 settembre 2024 (iscritta al n. 222 reg. ord. del 2024), il Tribunale ordinario di Firenze espone di dover statuire, all'esito del dibattimento, su imputazioni aventi ad oggetto reati contro la pubblica amministrazione, due delle quali incise dall'abrogazione disposta con la norma censurata.

La prima imputazione è relativa a un abuso d'ufficio continuato asseritamente commesso da una magistrata ordinaria in servizio presso una Procura della Repubblica, da due appartenenti all'Arma dei Carabinieri e da un privato. Gli imputati, in concorso tra loro, avrebbero concordato contenuti e tempistica di un decreto di sequestro preventivo d'urgenza, materialmente predisposto e adottato dalla magistrata, di una quota di una società a responsabilità limitata, in violazione di specifiche disposizioni di legge. Il sequestro avrebbe provocato un ingiusto danno alla società, procurando un correlativo e ingiusto vantaggio patrimoniale a un privato interessato all'acquisto delle relative quote societarie.

La seconda imputazione è relativa a una corruzione in atti giudiziari asseritamente commessa, in concorso tra loro, dalla medesima magistrata, da un ufficiale di polizia giudiziaria, da un avvocato e da un imprenditore. Secondo la prospettazione accusatoria, la magistrata avrebbe compiuto, in concorso con l'avvocato, una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio allo scopo di favorire l'imprenditore, sottoposto a indagini per associazione per delinquere e truffa, in cambio di utilità corrisposte dallo stesso imprenditore all'ufficiale di polizia giudiziaria, unito da una «duratura relazione personale» alla magistrata.

In particolare, la magistrata avrebbe tra l'altro: preavvisato l'imprenditore del compimento di un atto che avrebbe dovuto essere a sorpresa; predisposto una richiesta di archiviazione a lui favorevole; aperto un procedimento penale a carico di un luogotenente del Nucleo di Polizia tributaria che aveva condotto le indagini sull'imprenditore; acquisito la documentazione di tutte le attività di indagine svolte dal Nucleo nei suoi confronti, impedendo in tal modo che l'autorità di polizia giudiziaria trasmettesse la documentazione alla procura regionale della Corte dei conti, in relazione al procedimento per danno erariale promosso nei confronti dell'indagato.

Ritenendo doversi escludere in radice il conseguimento di alcuna utilità da parte della magistrata, e difettando la prova certa di un suo accordo con l'ufficiale di polizia giudiziaria, il giudice a quo prospetta una possibile riqualificazione in abuso d'ufficio di questa seconda ipotesi accusatoria formulata a carico dell'imputata.

1.1.3.- Nell'ordinanza del 21 ottobre 2024 (iscritta al n. 232 reg. ord. del 2024), il Tribunale ordinario di Busto Arsizio espone di dover decidere, nelle forme del giudizio ordinario, sulle imputazioni di abuso d'ufficio, nella forma tentata o consumata, contestate a cinque persone in relazione alla partecipazione alle procedure selettive comunali per il conferimento di consulenze e incarichi dirigenziali, in violazione dell'obbligo di astensione in presenza di conflitto di interessi.

La questione sollevata sarebbe rilevante nonostante che, nel caso di specie, l'abuso d'ufficio sia contestato in via alternativa rispetto ad altre imputazioni (turbata libertà degli incanti, ai sensi dell'art. 353 cod. pen., e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, ai sensi dell'art. 353-bis cod. pen). Il rimettente rileva infatti che, «in caso di contestazione alternativa, ben potrebbe il Giudice pronunciarsi [...] sulla insussistenza di una delle imputazioni e poi, nel prosieguo, in merito all'altra». La questione sarebbe egualmente rilevante anche se «si ritenesse che la contestazione alternativa, riguardando il medesimo fatto storico, impedisse una decisione autonoma su ognuna delle due imputazioni» poiché, «nel caso in cui permanesse nel nostro ordinamento il delitto di cui all'art. 323 c.p.», il Tribunale non potrebbe prosciogliere immediatamente gli imputati ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., ma dovrebbe proseguire l'istruttoria dibattimentale.

1.1.4.- Nell'ordinanza del 3 ottobre 2024 (iscritta al n. 233 reg. ord. del 2024), il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Firenze riferisce di dover decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero nei confronti di alcuni degli imputati per fatti qualificati come abuso d'ufficio. Gli imputati - il rettore e il pro-rettore di una università, nonché professori universitari e direttori generali di una azienda ospedaliera universitaria e di una clinica ospedaliera - sono accusati di avere commesso vari illeciti nell'ambito di concorsi universitari per posti di professore ordinario e associato, in particolare mediante: a) il turbamento del procedimento amministrativo di programmazione per la chiamata a posti di personale universitario docente presso il dipartimento di chirurgia e medicina; b) la predeterminazione «a monte» dei vincitori di concorso ancora prima che questi fossero banditi; c) l'artata predisposizione dei parametri di valutazione dei titoli, specificamente calibrati sui profili professionali dei candidati preferiti; d) l'impedimento di qualsiasi esercizio di una scelta discrezionale da parte della commissione selezionatrice.

Le condotte sarebbero state tenute, in ipotesi di accusa, in violazione di specifiche regole di condotta previste dalla legge e dell'obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio, e avrebbero procurato ai professori assunti l'ingiusto vantaggio patrimoniale pari alla progressione economica conseguente al conferimento del posto, a discapito degli altri aspiranti muniti di titolo prioritario di legittimazione nei settori scientifico-disciplinari esclusi dalla programmazione per la chiamata o svantaggiati dalla artata predisposizione dei parametri di valutazione.

1.1.5.- Nell'ordinanza del 22 novembre 2024 (iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025), il Tribunale ordinario di Teramo riferisce di dover decidere nelle forme del giudizio ordinario, all'esito di lunga e complessa istruttoria dibattimentale, su imputazioni di tentato abuso d'ufficio.

Gli addebiti riguardano l'asserito compimento, da parte del direttore generale dell'Agenzia regionale per la tutela ambientale e dal dirigente del Servizio gestione rifiuti regionale, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e dalle quali non residuavano margini di discrezionalità, di atti idonei finalizzati a procurare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale ad un'azienda regionale, e in particolare ad evitarle gli esborsi conseguenti alla procedura prevista dalla legge in caso di potenziale contaminazione del sito industriale, così consentendole di portare a definizione la vendita di due lotti di sua proprietà.

1.1.6.- Nell'ordinanza del 5 dicembre 2024 (iscritta al n. 5 reg. ord. del 2025), il Tribunale ordinario di Locri riferisce di essere investito, ai sensi dell'art. 673, comma 2, del codice di procedura penale, di un incidente di esecuzione con il quale l'istante chiede di revocare la sentenza (non appellata e ormai irrevocabile) che lo aveva prosciolto dall'imputazione di abuso d'ufficio per estinzione del reato per prescrizione.

1.1.7.- Nell'ordinanza del 25 ottobre 2024 (iscritta al n. 8 reg. ord. del 2025), il Tribunale di Firenze riferisce di dover decidere su un'imputazione per abuso d'ufficio in relazione a un bando di concorso per l'assegnazione di un incarico di insegnamento in un dipartimento di medicina sperimentale e clinica di un'università, bando che sarebbe stato artatamente predisposto e gestito per favorire immeritatamente un candidato.

1.1.8.- Nell'ordinanza del 13 gennaio 2025 (iscritta al n. 10 reg. ord. del 2025), il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Locri espone di essere stato investito della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di persona imputata, tra l'altro, di abuso d'ufficio.

Gli addebiti riguardano una pluralità di condotte illecite con le quali l'imputato, nello svolgimento delle funzioni di direttore dell'Area dei servizi veterinari di un'azienda sanitaria provinciale, avrebbe favorito l'ambulatorio veterinario di cui era titolare il figlio, danneggiando la concorrenza presente sui territori limitrofi. In particolare, egli avrebbe omesso di astenersi in presenza dell'interesse proprio e del prossimo congiunto e, in violazione di specifiche regole di condotta, prive di margini di discrezionalità, avrebbe intenzionalmente arrecato un danno ingiusto ai richiedenti l'autorizzazione sanitaria per l'apertura di nuovi ambulatori o per la prosecuzione dell'attività di quelli già esistenti, impedendo od ostacolando le procedure volte al rilascio delle autorizzazioni, sì da evitare che le attività dei richiedenti potessero porsi in concorrenza con quella del figlio.

1.1.9.- Nell'ordinanza dell'11 novembre 2024 (iscritta al n. 17 reg. ord. del 2025), il Tribunale ordinario di Bolzano riferisce di dover tra l'altro decidere, nelle forme del giudizio ordinario, su di un'imputazione di abuso d'ufficio continuato.

Secondo l'ipotesi accusatoria, i due imputati - l'uno nella sua qualità di sindaco di un comune, l'altra nella duplice veste di socia accomandataria e legale rappresentante della società beneficiaria del provvedimento, nonché di assessore alla cultura del medesimo comune e appartenente allo stesso partito politico del coimputato - avrebbero concorso tra loro affinché venisse illecitamente rilasciata alla società una concessione edilizia relativa alla realizzazione di un parcheggio in assenza dei presupposti di legge, con contestuale danno ingiusto alla persona che aveva presentato un progetto alternativo di parcheggio sul proprio terreno, non approvato dal comune.

1.1.10.- Nell'ordinanza del 26 novembre 2024 (iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025), il Tribunale ordinaria di Catania riferisce di dover decidere, nelle forme del giudizio ordinario, nei confronti di cinquantuno imputati - rettori, docenti universitari, ricercatori e personale amministrativo - accusati di avere posto in essere, nella gestione di concorsi universitari per l'assegnazione di incarichi di insegnamento, condotte integranti diversi reati, tra i quali quello di abuso di ufficio e di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, ai sensi dell'art. 353-bis cod. pen.

Osserva il Tribunale che la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione esclude l'operatività dell'art. 353-bis cod. pen. nel caso di alterazione del procedimento volto all'assegnazione di incarichi universitari, sicché - stante l'avvenuta abrogazione del delitto di abuso d'ufficio - il processo dovrebbe essere definito «con un'assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato», sia per i fatti già contestati ai sensi dell'art. 323 cod. pen., sia per quelli che fossero così riqualificati.

1.1.11.- Nell'ordinanza del 12 novembre 2024 (iscritta al n. 20 reg. ord. del 2025), il Tribunale ordinario di Modena riferisce di dover decidere con rito ordinario, tra l'altro, su due imputazioni di abuso d'ufficio.

La prima è relativa a condotte illecite che il dirigente del Servizio autorizzazioni e controlli ambientali di una provincia avrebbe commesso nella procedura di rinnovo dell'autorizzazione integrata ambientale in favore di una società, previo accordo con i due coimputati (l'amministratore delegato e il presidente del consiglio di amministrazione della stessa società). Dalle condotte sarebbe derivato alla società beneficiata un ingiusto vantaggio patrimoniale di «rilevante entità», consistente nella possibilità di continuare a procedere con i conferimenti di rifiuti nonostante il superamento della capienza massima della discarica, nell'evitare gli oneri di chiusura dell'impianto esaurito e nel poter predisporre un progetto di grande ampliamento della discarica.

Al medesimo pubblico ufficiale è poi contestata la dolosa omissione delle comunicazioni previste dalla vigente normativa ambientale, sebbene egli fosse consapevole del superamento dei valori di concentrazione della soglia di contaminazione del sito gestito dalla medesima società. Anche in questo caso, il dirigente pubblico avrebbe intenzionalmente procurato alla società un vantaggio patrimoniale di rilevante entità, «consistente nell'evitare di eseguire le onerose procedure di prevenzione, caratterizzazione, ripristino e messa in sicurezza o bonifica del sito».

1.1.12.- Nell'ordinanza del 12 novembre 2024 (iscritta al n. 25 reg. ord. del 2025), il Tribunale di Modena riferisce di dovere decidere, con rito ordinario, di un'imputazione per abuso d'ufficio a carico di un'architetta, nella sua duplice veste di dirigente dell'Area tecnica di un comune (comprendente anche l'Area edilizia privata) e direttrice generale della società patrimoniale del medesimo comune.

Secondo la prospettazione d'accusa, l'imputata, rilasciando un parere tecnico favorevole a un intervento edilizio in violazione della normativa urbanistica in vigore, avrebbe indotto in errore la Giunta comunale, che avrebbe autorizzato l'intervento alla stregua di una struttura temporanea, in area inedificabile, quando invece si trattava di una nuova costruzione. In tal modo, l'imputata avrebbe procurato «al committente l'ingiusto vantaggio patrimoniale di realizzare e successivamente condurre un'attività commerciale che non avrebbe potuto essere, di contro, autorizzata».

1.1.13.- Nell'ordinanza del 5 febbraio 2025 (iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma riferisce di essere stato investito della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova da parte di due imputati del delitto di abuso d'ufficio tentato.

I fatti riguardano il tentativo, da parte di un candidato e di un componente della commissione esaminatrice di un concorso per cinquecento posti di magistrato ordinario, di alterare l'andamento e l'esito del concorso medesimo mediante plurime violazioni di legge (in particolare relative agli obblighi di astensione nel caso di rapporti personali tra commissario e candidato, all'adozione di criteri per la valutazione omogenea degli elaborati scritti, e al dovere di annullamento dell'esame dei concorrenti che si siano fatti riconoscere), allo scopo di far conseguire al candidato il vantaggio ingiusto consistente nel superamento del concorso e nell'assunzione della funzione di magistrato.

1.1.14.- Infine, nell'ordinanza del 21 febbraio 2025 (iscritta al reg. ord. n. 50 del 2025), la Corte di cassazione, sezione sesta penale, riferisce di essere stata investita del ricorso avverso la sentenza con la quale la corte d'appello ha confermato la condanna di un imputato per abuso d'ufficio.

Nella prospettazione d'accusa, l'imputato, nella sua qualità di segretario comunale e in concorso con il presidente del consiglio comunale, in violazione della disciplina del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) sulle modalità di dimissioni dalla carica di consigliere comunale, avrebbe intenzionalmente procurato un danno ingiusto al capogruppo del partito di opposizione, facendolo illegittimamente decadere dalla carica di consigliere comunale.

In particolare, secondo i giudici di merito il segretario comunale, omettendo di astenersi in presenza di un conflitto di interessi, avrebbe redatto due note e un parere che attestavano la regolarità delle dimissioni asseritamente rese dal consigliere comunale, pur in carenza dei presupposti di legge, provocando intenzionalmente alla persona offesa un danno ingiusto, patrimoniale e non patrimoniale.

1.2.- In punto di rilevanza, tutte le ordinanze di rimessione espongono di dover fare applicazione della disposizione censurata.

L'abrogazione della disposizione incriminatrice dell'abuso d'ufficio imporrebbe infatti, nei giudizi di cognizione, l'immediata declaratoria di non doversi procedere per abolitio criminis, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen.; e, nella fase di esecuzione, la revoca della sentenza ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen.

Nei giudizi di cognizione, in particolare, l'accoglimento delle questioni, e il conseguente ripristino della disposizione incriminatrice abrogata, consentirebbero invece ai giudici a quibus di pronunciare sentenza di condanna, laddove fosse ritenuta sussistente la responsabilità penale degli imputati; ovvero di pronunciare assoluzione per cause diverse dalla abolitio criminis.

A tale ultimo riguardo, numerose ordinanze richiamano la giurisprudenza costituzionale in forza della quale a integrare il requisito della rilevanza è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e la pronuncia di accoglimento possa influire sull'esercizio della funzione giurisdizionale, quantomeno sotto il profilo del percorso argomentativo della decisione nel processo principale o sul relativo dispositivo.

1.3.- Ancora in punto di ammissibilità delle questioni, i rimettenti si mostrano tutti consapevoli della preclusione che, in linea di principio, incontra il sindacato costituzionale di costituzionalità in malam partem, in ragione della riserva di legge in materia penale di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.

Essi ritengono tuttavia che tale preclusione non operi rispetto alle questioni ora proposte.

1.3.1.- Numerosi giudici a quibus richiamano anzitutto le decisioni con le quali questa Corte ha derogato a tale generale preclusione e, in particolare, quelle che hanno ammesso la sindacabilità in malam partem delle norme contrarie agli obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell'art. 11 o dell'art. 117, primo comma, Cost. Le questioni sollevate rientrerebbero in questa eccezione, assumendosi nelle ordinanze di rimessione la contrarietà della disposizione censurata all'obbligo sovranazionale, che deriverebbe dalla UNCAC, di non decriminalizzare l'abuso di ufficio (così le ordinanze iscritte ai numeri 201, 222, 232 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 4, 5, 8, 10, 17, 18, 20, 25 e 33 reg. ord. del 2025) o, quanto meno, di non arretrare rispetto al complessivo livello di efficacia ed effettività nella prevenzione degli abusi funzionali intenzionalmente posti in essere dagli agenti pubblici in danno dei privati (ordinanza iscritta al n. 50 reg. ord. del 2025).

1.3.2.- Alcuni rimettenti, a supporto dell'ammissibilità delle questioni sollevate in riferimento all'art. 3 Cost., evocano altresì le decisioni che hanno ammesso la sindacabilità in malam partem delle cosiddette norme penali di favore (ordinanze iscritte al n. 233 reg. ord. del 2024 e al n. 33 reg. ord. del 2025, nella quale il rimettente suggerisce che «il raffronto tra la incriminazione [di cui all'art.] 353 del codice penale e la norma abrogativa dell'abuso d'ufficio potrebbe valere [...] a leggere quest'ultima, nello specifico settore, come una norma penale di favore, suscettibile del giudizio di illegittimità costituzionale», dal momento che sottrarrebbe, «senza alcuna ragione giustificatrice, una categoria di soggetti dall'attuazione della norma penale generale»).

1.3.3.- Altri rimettenti ancora sollecitano questa Corte ad allargare ulteriormente le maglie del sindacato in malam partem, ammettendolo anche in relazione a diversi parametri costituzionali, laddove la norma censurata produca un effetto grave e sistemico sul principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione di cui all'art. 97 Cost. (ordinanze iscritte al n. 222 reg. ord. del 2024 e al n. 8 reg. ord. del 2025) o lasci privi di tutela i diritti fondamentali del cittadino lesi dalle condotte degli agenti pubblici (ordinanza n. 4 reg. ord. del 2025, nella quale si prospetta che l'art. 28 Cost., nella parte in cui dispone che «i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti», aprirebbe lo spazio per una nuova eccezione al principio della «riserva di legge parlamentare in materia penale»).

In particolare, il Tribunale di Firenze (ordinanza iscritta al n. 222 reg. ord. del 2024) sostiene che il quadro normativo attuale sarebbe profondamente mutato rispetto a quello scrutinato in precedenti occasioni, e comunque non più in grado di assicurare adeguata protezione ai valori tutelati dal parametro costituzionale evocato, tanto più a fronte delle modifiche riduttive di altre fattispecie penali nel frattempo operate dal legislatore (quale quella che avrebbe interessato l'art. 346-bis cod. pen., relativo al traffico di influenze illecite).

In termini analoghi, il Tribunale di Teramo (ordinanza iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025) osserva che, sebbene la natura sussidiaria della sanzione penale imponga il ricorso all'incriminazione solo quando, secondo una valutazione rimessa al discrezionale apprezzamento del legislatore, le altre e meno severe soluzioni si rivelino insufficienti o inadeguate, sarebbe tuttavia inammissibile che la riduzione dell'area penale sia sempre insindacabile, specie quando ciò «finisca per negare qualsivoglia forma di tutela a valori di rilevanza costituzionale primaria quali quelli che conformano l'azione amministrativa». In questa prospettiva, la specificità dell'intervento legislativo oggetto di censura, rispetto alle riformulazioni in senso restrittivo della fattispecie apportate in passato, consentirebbe il superamento degli argomenti con i quali, in precedenza, questa Corte aveva dichiarato l'inammissibilità del sindacato costituzionale sulle norme che avevano circoscritto la portata del reato di abuso ufficio. Se, infatti, le precedenti riformulazioni della fattispecie di abuso d'ufficio in senso restrittivo avevano determinato un fenomeno di abolitio criminis parziale, lasciando residuare una forma, seppure ridimensionata, di tutela dell'imparzialità dell'azione amministrativa, oggi la legge n. 114 del 2024 sarebbe intervenuta «su quella medesima area di tutela elidendola definitivamente».

1.4.- In punto di non manifesta infondatezza, in relazione alla denunciata violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. (o del solo art. 117, primo comma, Cost.), gli argomenti dei rimettenti, pur condividendo un nucleo comune di censure imperniate sulla violazione degli obblighi internazionali discendenti dalla UNCAC, si sviluppano lungo due direttrici parzialmente diverse.

1.4.1.- La prospettazione di fondo delle tredici ordinanze provenienti dai giudici di merito (supra, da 1.1.1. a 1.1.13.) è che l'abrogazione dell'art. 323 cod. pen. avrebbe violato l'obbligo che discenderebbe dalla UNCAC - interpretata alla luce delle spiegazioni fornite dalla Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against Corruption, elaborata dall'Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine e dei criteri fissati nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati - di mantenere nell'ordinamento la norma incriminatrice dell'abuso d'ufficio, e dunque di non abrogarla, laddove già presente nella legislazione interna al momento della ratifica (cosiddetto divieto di regresso o obbligo di stand still).

Le disposizioni della UNCAC dalle quali discenderebbe tale obbligo sono individuate, da alcuni dei rimettenti, nel solo art. 19 (ordinanze iscritte ai numeri 4, 20 e 25 reg. ord. del 2025) e, da parte dei più, nel combinato disposto degli artt. 7, paragrafo 4, e 19. In qualche ordinanza sono aggiunte all'elenco ulteriori disposizioni, da leggersi unitamente alle prime, in una interpretazione sistematica e finalistica del trattato che ne valorizzi l'oggetto e le finalità: l'art. 1 (ordinanze iscritte al n. 1 e al n. 17 reg. ord. del 2025); l'art. 5 (ordinanza iscritte al n. 17 reg. ord. del 2025); l'art. 65 (ordinanze iscritte ai numeri 222, 232 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 8, 17, 18, 33 e 50 reg. ord. del 2025).

1.4.1.1.- Sul piano dell'interpretazione letterale, è constatazione pressocché trasversale a tutte le ordinanze, pur con accenti e sfumature diverse, che il dato testuale dell'art. 19 UNCAC, dedicato all'abuso di funzioni, non ponga uno specifico obbligo di incriminazione in capo agli Stati membri. La disposizione, infatti, impegnerebbe gli Stati solo a prendere in considerazione («shall consider adopting») l'introduzione del reato.

Del pari condiviso è il richiamo alle spiegazioni fornite nella Legislative guide sulla diversa natura delle disposizioni della UNCAC, che non esprimerebbero tutte lo stesso livello di cogenza («do not all have the same level of obligation»), ma si distinguerebbero in tre categorie:

(a) un primo gruppo includerebbe le disposizioni che impongono «mandatory requirements», ossia una «obligation to take legislative or other measures» (un vero e proprio obbligo di adottare misure legislative o di altro tipo);

(b) un secondo gruppo, nel quale rientrerebbe l'art. 19, in materia di abuso d'ufficio, indicherebbe «optional requirements», che sanciscono una «obligation to consider» (un obbligo di prendere in considerazione);

(c) un terzo gruppo sancirebbe mere «optional measures», ossia misure che «States parties may wish to consider» (misure che gli Stati hanno la facoltà di prendere in considerazione).

Alla stregua di quanto previsto per le disposizioni del secondo tipo dal paragrafo 12 della Legislative guide (secondo cui gli Stati parte «are urged to consider adopting a certain measure and to make a genuine effort to see whether it would be compatible with their legal systems»), le disposizioni riconducibili alla categoria (b) non sarebbero meramente facoltative e non esprimerebbero semplici raccomandazioni, ma fonderebbero un vero e proprio obbligo per gli Stati membri di fare un ragionevole sforzo per verificare se l'introduzione di una determinata ipotesi di reato sia compatibile con il proprio ordinamento.

Dal che, secondo alcuni rimettenti (ordinanze iscritte al n. 201 e al n. 233 reg. ord. del 2024), deriverebbe la conseguenza che, ove tale compatibilità fosse riscontrata, lo Stato sarebbe obbligato a introdurre la fattispecie incriminatrice.

1.4.1.2.- Per la gran parte dei giudici a quibus, invece, sebbene la disposizione convenzionale non imponga un obbligo di criminalizzazione (ciò per cui la Convenzione di Mérida utilizza la diversa locuzione «shall adopt»), ma un mero obbligo di prendere in considerazione l'introduzione del reato («shall consider adopting»), sarebbe l'esegesi teleologica e sistematica della stessa disposizione, letta in rapporto all'oggetto e allo scopo del trattato e in combinato disposto con altri articoli a dimostrare l'esistenza, quanto meno, di un obbligo convenzionale di «non regresso» rispetto alle incriminazioni già esistenti nell'ordinamento nazionale e compatibili con esso.

Verrebbero in rilievo, in particolare, l'oggetto, le finalità e l'approccio multilivello della UNCAC. Significativi, al riguardo, sarebbero gli obiettivi di contrasto espressi dal preambolo e dall'art. 1 UNCAC (che include nelle finalità della convenzione «la promozione e il rafforzamento delle misure volte a prevenire e combattere la corruzione in modo più efficace»), così come la circostanza che, nella materia penale, le disposizioni del terzo capitolo del trattato vincolerebbero gli Stati contraenti a integrare la propria legislazione penale prevedendo una molteplicità di illeciti a carattere corruttivo, ove gli stessi non siano già disciplinati come reati dal diritto interno, e impegnerebbero i contraenti a criminalizzare non solo le ipotesi tradizionali o più gravi di corruzione, ma anche condotte intermedie, spesso propedeutiche alla conclusione di accordi corruttivi in senso stretto.

Ai fini di una corretta interpretazione sistematica e teleologica della Convenzione, poi, andrebbero considerate, in una lettura coordinata, anche altre disposizioni: l'art. 5, secondo cui «[c]iascuno Stato Parte [...] elabora e applica o mantiene politiche contro la corruzione efficaci e coordinate che [...] rispecchino i principi dello stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d'integrità, di trasparenza e di responsabilità»; l'art. 65, paragrafo 1, da cui discenderebbe la doverosità dell'attuazione degli obblighi internazionali previsti dalla convenzione stessa; il paragrafo 2 dello stesso articolo, da cui si desumerebbe che quelli imposti dalla convenzione sono soltanto standard minimi di tutela, restando nella facoltà degli Stati parte di adottare misure più rigorose; l'art. 7, paragrafo 4, a mente del quale «[c]iascuno stato si adopera, conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti d'interesse» («Each State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its domestic law, endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that promote transparency and prevent conflicts of interest»).

L'art. 19 UNCAC, letto alla luce delle indicazioni interpretative contenute nella Legislative guide e, soprattutto, in correlazione al citato art. 7, paragrafo 4, della stessa Convenzione, dispiegherebbe dunque una diversa efficacia vincolante a seconda che lo Stato aderente abbia o meno già adottato nel proprio ordinamento la fattispecie di abuso d'ufficio. In particolare, a) lo Stato parte che non abbia introdotto il reato prima dell'adesione alla UNCAC, sarebbe tenuto a valutare concretamente e seriamente la sua introduzione in conformità al proprio diritto interno, dovendo compiere uno sforzo reale per vedere se esso sia compatibile con il proprio ordinamento giuridico; b) lo Stato parte che invece, come l'Italia, contempli già nel proprio ordinamento il reato e abbia, dunque, già positivamente valutato la conformità della fattispecie rispetto al proprio diritto interno - essendo tenuto a mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse (art. 7, paragrafo 4) - sarebbe tenuto a non abrogare la fattispecie già vigente. E ciò tanto più se l'abrogazione non sia accompagnata dalla contestuale adozione di alcuna misura preventiva o repressivo-sanzionatoria caratterizzata da concreta ed effettiva dissuasività.

1.4.1.3.- Una conferma dell'esistenza di un tale «divieto di regressione» si trarrebbe, secondo uno dei rimettenti, anche dall'atteggiamento del legislatore che, successivamente alla ratifica della UNCAC, pur nel susseguirsi di novelle che hanno interessato l'art. 323 cod. pen., mai avrebbe mostrato di voler mettere in discussione la rilevanza penale dell'abuso d'ufficio, neppure con la legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), con la quale sarebbe stata rimodulato in maniera organica e sistematica l'intero Titolo II del codice penale, addirittura aggravando la pena prevista dall'art. 323 cod. pen. (ordinanza iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025).

1.4.1.4.- Secondo altri rimettenti, ulteriore indice della sussistenza di un obbligo internazionale e di una possibile violazione della Convenzione si trarrebbe dalle preoccupazioni espresse per l'abrogazione del reato di abuso di ufficio (oltre che per la limitazione dell'ambito di applicazione del reato di traffico di influenze illecite) nella Relazione annuale della Commissione UE sullo Stato di diritto per il 2024, adottata a Bruxelles il 24 luglio 2024 (ordinanze iscritte ai numeri 201 e 222 reg. ord. del 2024 e al n. 10 reg. ord. del 2025).

1.4.1.5.- In alcune ordinanze, infine, si osserva che la scelta di depenalizzare l'abuso d'ufficio si porrebbe in controtendenza rispetto alla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta contro la corruzione, che sostituisce la decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio e la convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell'Unione europea, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, considerato che tale proposta di direttiva, in attuazione proprio della UNCAC, all'art. 11, impegnerebbe gli Stati membri a prevedere espressamente come reato l'abuso d'ufficio (ordinanze iscritte ai numeri 201 e 222 reg. ord. del 2024).

1.4.2.- Diversa è la prospettazione svolta nell'ordinanza della Corte di cassazione (supra, 1.1.14).

La Sezione rimettente individua l'obbligo rilevante rispetto al sindacato di costituzionalità, al metro degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., non già in un dovere di incriminazione o di non decriminalizzazione dell'abuso d'ufficio, che reputa insussistente, bensì nel più ampio obbligo di mantenere standard di efficace attuazione della UNCAC nel suo complesso, nonché rispetto allo specifico obiettivo di efficace attuazione dei sistemi di prevenzione della corruzione.

Ad avviso del rimettente, i vincoli per il legislatore derivanti dagli obblighi internazionali in materia penale, rilevanti ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost., non si esaurirebbero negli obblighi di criminalizzazione, come sarebbe stato chiarito da questa Corte nella sentenza n. 28 del 2010. Oltre agli obblighi di criminalizzazione previsti dalla UNCAC, verrebbero qui in rilievo gli obblighi «di efficace persecuzione, di perseguimento e di mantenimento degli standard di efficacia stabiliti nella prevenzione della corruzione»: obblighi rispetto ai quali la penalizzazione delle condotte di abuso di ufficio sarebbe rilevante «quale strumento normativo specificamente destinato a rendere efficace ed effettivo il sistema di prevenzione della corruzione, favorendo la trasparenza e prevenendo i conflitti di interesse».

Nell'abrogare il reato di abuso di ufficio, il legislatore non avrebbe correlativamente rafforzato «il livello di prevenzione, a livello amministrativo, contro le condotte abusive e la violazione dell'imparzialità da parte dei pubblici agenti in danno dei privati, come imposto dagli articoli 1, 7, quarto comma, 19 e 65, primo comma, della Convenzione di Merida». E ciò in contrasto con quanto previsto dall'art. 7, paragrafo 4.

Quest'ultima disposizione, infatti, porrebbe «uno specifico obbligo ("ciascuno Stato si adopera") di perseguimento degli standard di efficace prevenzione della corruzione sanciti dalla Convenzione, mediante l'adozione di "sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse"». Inoltre, come si evincerebbe dall'uso del verbo «maintain», essa obbligherebbe gli Stati contraenti «a impegnarsi a preservare gli standard di tutela raggiunti e, dunque, [ad] astenersi dall'adottare misure, legislative o amministrative, che comportino il regresso rispetto al livello di attuazione raggiunto nel perseguimento degli scopi della Convenzione».

Tale obbligo non comporterebbe, invero, che le norme penali interne necessarie a garantire l'obiettivo debbano rimanere cristallizzate al livello più rigoroso che hanno attinto (e non escluderebbe in radice la riduzione delle aree di illiceità penale o, persino, l'esclusione del ricorso alla sanzione penale). Esso, però, attribuirebbe alle norme attuative della convenzione una particolare «forza di resistenza» all'abrogazione, che le sottrarrebbe a novazioni legislative non conformi al vincolo posto dal trattato.

L'abrogazione del reato di abuso di ufficio avrebbe, dunque, violato questo specifico obbligo, in quanto non sarebbe stata «compensata» dall'adozione di meccanismi, preventivi o repressivi, penali o amministrativi volti a mantenere il medesimo standard di efficacia ed effettività nella prevenzione degli abusi funzionali intenzionalmente posti in essere dagli agenti pubblici ai danni dei cittadini.

Inadeguati, in tal senso, sarebbero «i rimedi preventivi anticorruzione (quali quelli introdotti dal decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97)», perché gli stessi «riguard[erebbero] molto marginalmente i comportamenti dei singoli funzionari e si concentr[erebbero] sull'organizzazione dell'azione complessiva dell'amministrazione, senza assumere alcun effetto specifico nei confronti della singola azione illecita».

Analoghe considerazioni varrebbero per i rimedi giurisdizionali, onerosi e non sempre attivabili, «in quanto, non di rado, le prevaricazioni dei pubblici agenti si tradu[rrebbero] non in atti amministrativi, ma in meri comportamenti, come tali non impugnabili».

La disciplina amministrativa dei conflitti di interesse, per altro verso, sarebbe «frammentaria e non sempre coerente».

Neppure i sistemi disciplinari, «estremamente frastagliati», fornirebbero una risposta soddisfacente, considerato che «le sanzioni disciplinari per la violazione dell'obbligo di astensione previsto nei vari codici deontologici richiesti dall'art. 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, [sarebbero] difficilmente applicabili ai dirigenti di più alto livello per i quali più che la responsabilità disciplinare vale quella di risultato, in forza dell'art. 21 dello stesso decreto, e non oper[erebbero] per gli amministratori eletti». D'altra parte, questi rimedi sarebbero azionabili soltanto su denuncia del privato, stante l'assenza, nel procedimento disciplinare, di incisivi poteri di istruttoria e della possibilità di intervento della persona offesa.

Nemmeno la responsabilità contabile ed erariale, infine, assicurerebbe «una prevenzione efficace e adeguata degli abusi funzionali commessi in danno dei privati», in quanto tale sistema di responsabilità sarebbe «incentrato sul danno arrecato allo Stato e non [sarebbe] attivabile a fronte di danni subiti meramente dal privato».

1.5.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate in riferimento all'art. 3 Cost., le due ordinanze che evocano tale parametro sviluppano argomenti in parte coincidenti.

1.5.1.- A parere del GUP del Tribunale di Firenze (ordinanza iscritta al n. 233 reg. ord. del 2024) l'abrogazione della fattispecie incriminatrice dell'abuso d'ufficio sarebbe irrispettosa del «principio di uguaglianza, in particolare nella sua specificazione della necessaria ragionevolezza nell'esercizio del potere legislativo».

Per effetto dell'abolitio criminis si sarebbe prodotta, infatti, «una disparità di trattamento giuridico e sanzionatorio tra fattispecie analoghe o con fattispecie esprimenti un disvalore oggettivo ancor più lieve rispetto a quello della fattispecie abrogata».

A titolo esemplificativo, il giudice a quo addita l'incongruenza logica della depenalizzazione dell'abuso d'ufficio a fronte della persistente rilevanza penale del rifiuto od omissione di atti di ufficio, ai sensi dell'art. 328 cod. pen. In tal modo, si sarebbe scelto di punire condotte omissive le cui conseguenze dannose potrebbero essere molto meno gravi di quelle discendenti dalle condotte commissive che integravano l'abuso d'ufficio, lasciato privo di sanzione penale.

Particolarmente rilevante, in relazione alle imputazioni del procedimento a quo, sarebbe poi la discrasia rispetto ai fatti di cui all'art. 353 cod. pen. (che punisce la condotta di chiunque, con violenza o minaccia, o con altri mezzi collusivi o fraudolenti, turbi la gara in un pubblico incanto o in una licitazione privata) e all'art. 353-bis cod. pen. (che punisce analoghe condotte realizzate nella fase precedente all'emanazione del bando di gara). Considerato che, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione, nel caso di abusi commessi nella predisposizione dei bandi o nello svolgimento dei concorsi per l'accesso al pubblico impiego non sarebbero configurabili né il delitto di turbata libertà degli incanti, né quello di turbata libertà di scelta del contraente, l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio avrebbe privato di qualsiasi presidio penale tali procedure, mantenendo rilevanza penale solo all'irregolare svolgimento dei pubblici incanti, nonostante la pari importanza di ambedue i settori ai fini del buon andamento della pubblica amministrazione.

1.5.2.- Anche il GIP del Tribunale di Roma (ordinanza iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025) evidenzia che, a seguito dell'abrogazione, le condotte di favoritismo intenzionale, in violazione della legge, riguardanti l'ambito delle procedure concorsuali pubbliche sarebbero rimaste prive di sanzione penale, a differenza di analoghe condotte in settori omogenei, quali quelle che «violano la correttezza delle procedure che conducono alla scelta del contraente e allo svolgimento della gara nelle procedure di appalto pubblico», punite dagli artt. 353 e 353-bis cod. pen.

In questa prospettiva, il vulnus all'art. 3 Cost. deriverebbe dalla manifesta arbitrarietà della scelta di abolire il reato di abuso d'ufficio, in una con l'irragionevolezza di mantenere l'incriminazione per fatti che sarebbero omogenei rispetto a quelli sanzionati dalla disposizione abrogata. Il risultante assetto normativo, infatti, sarebbe connotato da una «rilevante disparità nell'ambito dello stesso settore della pubblica amministrazione», essendo stato introdotto «in modo irragionevole, un trattamento di favore per i soggetti che partecipano ai procedimenti di selezione del personale dipendente dello Stato rispetto a quelli che si occupano di procedure per l'acquisto, da parte della pubblica amministrazione, di beni o servizi». La norma abrogatrice dell'abuso d'ufficio, pertanto, assumerebbe la fisionomia di una norma penale di favore, che sottrarrebbe «senza alcuna ragione giustificatrice, una categoria di soggetti dall'attuazione della norma penale generale».

1.6.- Ancora in punto di non manifesta infondatezza, in relazione alla violazione dell'art. 97 Cost. (denunciata con le ordinanze iscritte ai numeri 222 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 4, 8 e 33 reg. ord. del 2025), i giudici rimettenti, con argomentazioni variamente articolate, prospettano tutte, nella sostanza, che l'abrogazione della fattispecie incriminatrice, tanto più in quanto non accompagnata dall'introduzione di illeciti amministrativi o dal potenziamento di misure di prevenzione di condotte lesive del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione, avrebbe creato un vuoto di tutela contro le particolari modalità di aggressione di tali valori di rilievo costituzionale, in precedenza contrastate dal delitto di cui all'art. 323 cod. pen.

1.6.1.- In particolare, il Tribunale di Firenze (ordinanze iscritte al n. 222 reg. ord. del 2024 e al n. 8 reg. ord. del 2025) lamenta che l'abolizione di tale reato, sia nella forma dell'abuso per violazione di legge che per omessa astensione, sia quale abuso di danno che di vantaggio:

- avrebbe inibito la repressione e la tutela sul piano penale non solo nei casi di violazione di legge intenzionalmente posta in essere dal pubblico agente per danneggiare o favorire taluno (casi che erano ormai limitati ai più gravi, obiettivi e conclamati, in ragione della riformulazione in senso restrittivo della fattispecie operata con l'art. 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale», convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120), ma anche in quelli di mancata astensione, in presenza di conflitto di interessi o di situazioni di incompatibilità. Delle condotte finora incriminate dall'art. 323 cod. pen., infatti, rimarrebbero sanzionate penalmente solo quelle che integrano il cosiddetto peculato per distrazione (limitato, tuttavia, alla distrazione di denaro o cose mobili), in forza della introduzione della nuova fattispecie di cui all'art. 314-bis cod. pen. («Indebita destinazione di denaro o cose mobili») ad opera dell'art. 9 del decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 (Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2024, n. 112, nonché le forme «abuso d'ufficio "per omissione", tuttora incriminate dall'art. 328 cod. pen.;

- avrebbe depotenziato, indirettamente, lo stesso obbligo di astensione del pubblico ufficiale in caso di conflitto di interessi, tenuto conto che nella giurisprudenza di legittimità la disposizione abrogata fungeva, in un tempo, da norma repressiva della violazione dell'obbligo di astensione e da norma fondativa dell'obbligo stesso, specialmente in settori nei quali l'obbligo non era oggetto di una specifica disciplina;

- e avrebbe prodotto un effetto ulteriormente restrittivo dell'ambito di applicazione del reato di traffico di influenze illecite, già fortemente inciso dalla riformulazione dell'art. 346-bis cod. pen. ad opera dell'art. 1, comma 1, lettera e), della legge n. 114 del 2024. La definizione di «mediazione illecita» introdotta con il nuovo art. 346-bis cod. pen. (ossia quella posta in essere «per indurre [...] a compiere un atto contrario ai doveri d'ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito»), avrebbe subito, infatti, una grave limitazione indiretta, derivante dal fatto che l'«atto contrario ai doveri d'ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito» non potrebbe più essere integrato da fatti riconducibili all'abrogato abuso d'ufficio.

Evidenzia, inoltre, il rimettente che il legislatore sarebbe intervenuto in maniera drastica sul sistema dei reati contro la pubblica amministrazione, eliminando importanti presidi penali a tutela del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione, senza adeguatamente considerare gli effetti della parziale abolitio prodotta dalla riformulazione della fattispecie nel 2020 e delle altre riforme medio tempore entrate in vigore, tutte convergenti nel senso di ridurre significativamente la possibilità di effetti "paralizzanti" della minaccia della sanzione penale sulla attività discrezionale del pubblico amministratore (la cosiddetta "paura della firma").

Tra gli elementi che sarebbero stati trascurati, il rimettente indica: a) l'esiguo numero di procedimenti per abuso d'ufficio incardinati dopo la riforma del 2020; b) la profonda revisione della giurisprudenza di legittimità, attestatasi sulla irrilevanza delle violazioni di principi generali di imparzialità, buon andamento e trasparenza o di generici obblighi comportamentali; c) le maggiori tutele introdotte dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari) a garanzia di iscrizioni tempestive e «non avventate» nel registro delle notizie di reato da parte degli uffici di procura, dell'assenza di effetti pregiudizievoli discendenti dalla semplice iscrizione nel registro delle notizie di reato (al cui riguardo è richiamata la sentenza n. 21 del 2024 di questa Corte), nonché del «ben più rilevante "filtro" effettuato, sia in fase di indagini preliminari ex art. 408, comma 1, c.p.p., sia in udienza preliminare, ex art. 425 comma 3 c.p.p., con archiviazione e declaratoria di non luogo a procedere, in difetto di ragionevole previsione di condanna».

Per contro, sarebbero gravi gli effetti sistemici connessi all'abrogazione dell'art. 323 cod. pen., considerata la platea dei potenziali destinatari della fattispecie incriminatrice, tra i quali pubblici ufficiali titolari di poteri rilevantissimi, in grado di incidere pesantemente su diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, e considerata altresì l'inadeguatezza, rispetto allo strumento penale, degli altri sistemi di protezione del privato cittadino.

In definitiva, la scelta di abrogare l'art. 323 cod. pen. non sarebbe riconducibile a un legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, ma sarebbe arbitraria e avrebbe prodotto un vuoto di tutela dei beni costituzionalmente protetti dall'art. 97 Cost., tale da giustificare l'intervento ripristinatorio di questa Corte.

1.6.2.- Sviluppando argomenti in larga parte coincidenti con quelli proposti dal Tribunale di Firenze, anche il Tribunale di Teramo e il GIP del Tribunale di Roma (ordinanze iscritte ai numeri 4, 5 e 33 reg. ord. del 2025) delineano un quadro di severo vulnus alla «tutela dei diritti del privato a fronte degli atti di favoritismo e di deliberata prevaricazione del pubblico agente nell'esercizio delle funzioni» che, per effetto dell'abrogazione, si sarebbe prodotto. Tale vulnus sarebbe aggravato dalla scelta di non bilanciare l'abolizione del reato con l'introduzione, quanto meno, di un corrispondente illecito amministrativo. Considerata anche la contestuale riduzione del campo applicativo dell'art. 346-bis cod. pen. e il modesto spazio operativo coperto dalla nuova fattispecie di cui all'art. 314-bis cod. pen., il vulnus in parola si sostanzierebbe nella attribuzione «al funzionario pubblico [di] un potere assoluto, suscettibile di essere impunemente impiegato quale strumento di aggressione della libertà dei privati, in violazione dei valori costituzionali che governano l'azione amministrativa» (così l'ordinanza iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025).

Sarebbero, così, «rimaste prive di qualunque tutela penale le diverse ipotesi in cui un pubblico ufficiale, che si trovi in una situazione di conflitto di interessi, ometta di astenersi dall'adozione di una decisione da assumere in relazione al proprio Ufficio, ovvero, in violazione di norme che non prevedono discrezionalità, faccia uso del potere a lui conferito per favorire o danneggiare taluno, procurando, a seconda dei casi, vantaggi o danni ingiusti» (ordinanza iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025).

2.- In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili e, in via gradata, infondate. La difesa dello Stato sviluppa, complessivamente, gli argomenti di seguito sintetizzati.

2.1.- In via preliminare, l'Avvocatura eccepisce l'inammissibilità per inadeguata motivazione sulla rilevanza delle questioni sollevate con le ordinanze iscritte:

- al n. 233 reg. ord. del 2024 (supra, 1.1.4.), perché il giudice a quo «assolutamente nulla di concreto e specifico» avrebbe argomentato in relazione alla rilevanza della questione in riferimento al caso sottoposto al suo esame, limitandosi a segnalare che l'abuso d'ufficio è uno dei reati oggetto dell'imputazione formulata dal pubblico ministero a carico di alcuni degli imputati; né avrebbe precisato che, in caso di dichiarazione di incostituzionalità, si troverebbe a dover pronunciare un decreto di rinvio a giudizio e non una sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen.;

- al n. 4 e al n. 17 reg. ord. del 2025 (supra, rispettivamente 1.1.5. e 1.1.9), per omessa motivazione in ordine alla possibilità di un proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. e alla possibilità che i reati siano estinti per prescrizione;

- al n. 18 e al n. 20 reg. ord. del 2025 (supra, rispettivamente 1.1.10 e 1.1.11.), per omessa motivazione in relazione alla possibilità di un proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. e al perdurante rilievo penale dei fatti contestati dopo la riforma in termini restrittivi della fattispecie, apportata dal d.l. n. 76 del 2020, come convertito;

- al n. 33 reg. ord. del 2025 (supra, 1.1.13.), per omessa motivazione riguardo alla possibilità di un proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen.

2.2.- L'interveniente eccepisce, altresì, la non pertinenza del parametro dell'art. 11 Cost., che darebbe «copertura costituzionale» al diritto eurounionale e sarebbe stato evocato impropriamente, rispetto agli obblighi internazionali pattizi, dalle ordinanze iscritte ai numeri 201, 222, 232 e 233, reg. ord. del 2024 nonché ai numeri 5, 8, 10, 18, 33 e 50 reg. ord. del 2025.

2.3.- Il nucleo centrale delle difese in rito dell'Avvocatura generale dello Stato, tuttavia, è rappresentato dall'eccezione di inammissibilità delle questioni, al metro di tutti i parametri evocati, in relazione all'effetto in malam partem di un loro eventuale accoglimento.

2.3.1.- Viene richiamata, al riguardo, la «granitica giurisprudenza» costituzionale secondo cui, «in linea di principio, sono inammissibili questioni di legittimità costituzionale che tendano ad ottenere declaratorie di incostituzionalità con effetti in malam partem nell'ambito del diritto penale sostanziale». In applicazione del principio, sarebbero, quindi, generalmente inammissibili le questioni volte a conseguire il ripristino di norme incriminatrici abrogate (come nei casi in esame) o di discipline penali sfavorevoli.

L'abrogazione dell'art. 323 cod. pen. non sarebbe sussumibile in alcuna delle eccezioni a tale generale principio enucleate dalla giurisprudenza di questa Corte.

In particolare, non ricorrerebbe la deroga inerente alle norme contrarie ad obblighi sovranazionali, considerato che tutte le sentenze direttamente o indirettamente richiamate dai giudici a quibus (in particolare, la sentenza n. 37 del 2019, nonché le sentenze n. 32 del 2014 e 28 del 2010, menzionate nella prima) non sarebbero pertinenti, perché relative a casi in cui i rimettenti avevano invocato una fonte di diritto eurounionale, e non di diritto internazionale pattizio.

In questa prospettiva, l'Avvocatura lamenta la totale mancanza di motivazione sulla assimilazione tra diritto internazionale pattizio e diritto eurounionale operata dai rimettenti, incurante delle rilevanti diversità delle due fonti di obblighi.

2.3.2.- Quanto alle censure sollevate in riferimento all'art. 97 Cost., le ragioni esposte da questa Corte nella sentenza n. 8 del 2022 a sostegno dell'inammissibilità delle questioni volte a conseguire il ripristino di norme incriminatrici abrogate non sarebbero affatto inficiate dalle «sopravvenienze» che i rimettenti adducono come ragione giustificatrice di un nuovo esame della medesima questione, a causa del supposto indebolimento della tutela della imparzialità della pubblica amministrazione: ciò in quanto la motivazione dell'inammissibilità riposerebbe, in quella sentenza, su «chiare considerazioni che nulla avevano a che vedere con il livello di tutela, più o meno robusto, dell'imparzialità» della pubblica amministrazione. Questa Corte, d'altra parte, non si sarebbe mai spinta «a sancire né a lasciar intendere che ragione dell'inammissibilità fosse una valutazione in concreto sul livello di garanzia delle singole componenti normative che, nei vari settori dell'ordinamento, in quel momento storico contribuivano a tutelare l'imparzialità».

2.3.3.- Inammissibili, alla luce della giurisprudenza costituzionale, sarebbero anche le questioni sollevate in riferimento all'art. 3 Cost., rispetto alle quali non ricorrerebbe la deroga consentita in caso di norme penali «di favore». Anche a tale riguardo è richiamata la sentenza n. 8 del 2022, ove si afferma che tale qualifica compete alla norma penale che «stabilisca, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni compresenti nell'ordinamento», e si aggiunge che «[l]a qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell'area di rilevanza penale». In tal caso, infatti, «la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell'ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte».

Sarebbe infondata, pertanto, la tesi (prospettata nell'ordinanza iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025, in riferimento ai rapporti fra la disposizione censurata e l'art. 353 cod. pen.) «secondo cui una norma che abroga un reato potrebbe rilevare come norma penale di favore sol perché la giurisprudenza aveva ricondotto a tale reato delle condotte parzialmente sovrapponibili a quelle che, se calate in fattispecie pacificamente diverse, possono avere rilievo penale».

2.4.- Nel merito, tutte le questioni sarebbero comunque infondate.

2.4.1.- Le censure incentrate sull'asserito contrasto con l'art. 117 Cost., per violazione degli obblighi sovranazionali, sarebbero prive di fondamento per l'assorbente ragione che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici rimettenti, una corretta esegesi del testo della UNCAC, rispettosa del dato letterale e sistematico e dei criteri di interpretazione posti dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, renderebbe evidente che nessuna delle disposizioni del trattato obbliga gli Stati a introdurre il reato di abuso d'ufficio o, nel caso in cui già lo abbia fatto, a mantenerlo nell'ordinamento interno.

L'unico obbligo previsto dalle norme pattizie sarebbe quello, contenuto nell'art. 19, di «prendere in considerazione» l'introduzione del reato di abuso di funzioni. Un obbligo, dunque, di natura «soltanto procedurale», che impegnerebbe lo Stato a compiere la verifica di compatibilità del reato con il proprio diritto domestico; senza che, peraltro, dall'esito eventualmente positivo di tale verifica discenda l'obbligo di introdurre il reato.

Sarebbe del resto la stessa Legislative Guide (alle pagine 76 e 83-84) a qualificare espressamente l'abuso di funzioni come «non mandatory offence».

Né alcun obbligo di introdurre, e men che meno di mantenere, tale incriminazione potrebbe farsi derivare da una lettura combinata di due norme - quelle contenute nell'art. 7, paragrafo 4, e nell'art. 19 UNCAC - tra loro assai eterogenee, per formulazione letterale, ambito di applicazione e collocazione sistematica.

L'indicato art. 7, paragrafo 4, collocato nel Titolo II, relativo alle «Misure preventive» (e, pertanto, né nel Titolo I, relativo alle «Disposizioni generali», né nel Titolo III, relativo alla «Incriminazione, individuazione e repressione»), riguarderebbe le questioni relative alla trasparenza nel settore pubblico, e non la rilevanza penale della condotta di abuso di funzioni per approfittamento. Il testo della disposizione, lungi dal trattare «di quella specifica figura criminale che è l'abuso d'ufficio», consegnerebbe agli interpreti un «indirizzo generale», limitandosi a prevedere che gli Stati compiano «uno sforzo significativo» nella prospettiva indicata.

Simili considerazioni varrebbero anche in relazione all'art. 65, paragrafo 1, UNCAC, parametro «assolutamente neutrale e irrilevante», perché si limiterebbe a «ribadire la necessità che gli Stati contraenti assicurino l'esecuzione degli obblighi in capo a loro incombenti in forza della Convenzione», senza imporre esso stesso nuovi obblighi e senza prevedere alcunché in relazione all'abuso d'ufficio.

La difesa dello Stato, peraltro, denuncia l'«esito pratico illogico e irragionevole» che restituirebbe la proposta interpretativa dei rimettenti, non obbligando gli Stati a introdurre la fattispecie incriminatrice dell'abuso di funzioni, e «al contempo tuttavia obbligando gli Stati che già avessero nell'ordinamento tale fattispecie a non rimuoverla».

2.4.2.- Sarebbero parimenti da disattendere - rispetto alle censure riferite all'art. 97 Cost., ma anche alla questione sollevata dalla Corte di cassazione, al metro degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. - le conclusioni dei rimettenti circa l'indebolimento complessivo del livello di tutela del bene giuridico costituzionalmente rilevante, atteso che l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio non avrebbe tolto alcunché «agli innumerevoli altri strumenti, di diritto penale ma non solo, che presidiano l'imparzialità della pubblica amministrazione, tanto nella prospettiva della prevenzione, quanto in quella della repressione».

A titolo esemplificativo, l'Avvocatura generale dello Stato richiama: i numerosi delitti che compongono «l'universo dei reati contro la pubblica amministrazione»; l'introduzione del nuovo reato di cui all'art. 314-bis cod. pen. (fattispecie delittuosa che la giurisprudenza di legittimità avrebbe già considerato in regime di continuità normativa con l'abuso d'ufficio in relazione alle ipotesi di cosiddetto abuso distrattivo di fondi pubblici); le norme che obbligano i pubblici dipendenti all'astensione in caso di conflitto di interesse; le possibili conseguenze, anche disciplinari, della mancata astensione; le sanzioni, anche penali, nelle quali può incorrere il pubblico dipendente che dichiari dolosamente la falsa insussistenza di cause di incompatibilità; la possibilità di annullare provvedimenti adottati in violazione di legge; la responsabilità erariale e contabile quando la condotta offensiva dell'imparzialità abbia cagionato un danno alle pubbliche finanze; la possibilità per i soggetti, privati o pubblici, danneggiati da condotte illecite di chiedere il risarcimento dei danni subiti.

«[I]l livello di tutela, globalmente considerata, che l'ordinamento appresta in relazione all'imparzialità e al buon andamento nella pubblica amministrazione» sarebbe, insomma, «ancora robusto», così come «effettiva» sarebbe «la capacità dell'ordinamento di contrastare il malaffare».

2.4.3.- Ancora rispetto alla questione sollevata dalla Corte di cassazione, poi, viene denunciata come «intrinsecamente contraddittoria» la stessa impostazione argomentativa del giudice a quo, che rinviene il supposto difetto di costituzionalità non, sic et simpliciter, nell'avere lo Stato italiano abrogato il reato di abuso d'ufficio, ma nell'averlo abrogato senza compensare l'abbassamento di tutela del principio di imparzialità con l'inserimento di altre sanzioni, anche extrapenali, o addirittura di misure puramente preventive. In tale situazione, sarebbe «impensabile la pronuncia di incostituzionalità che ripristini la rilevanza penale della fattispecie abrogata, proprio perché [sarebbe] lo stesso [g]iudice a quo a non contestare che l'abrogazione del reato sarebbe stata costituzionalmente compatibile (se accompagnata da qualche altra misura compensativa, addirittura solo preventiva)».

2.4.4.- Anche le questioni sollevate in riferimento all'art. 3 Cost. sarebbero prive di fondamento, difettando i presupposti per un «giudizio triadico» in cui apprezzare il trattamento irragionevolmente diverso di situazioni analoghe.

3.- Si sono costituite in giudizio le seguenti parti dei procedimenti principali:

- nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 222 reg. ord. del 2024 (supra, 1.1.2), gli imputati A. D., O. G., C. C., C. L., P. G.;

- nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 232 reg. ord. del 2024 (supra, 1.1.3.), gli imputati M. D.M., E.M. P., E. B.;

- nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 233 reg. ord. del 2024 (supra, 1.1.4.), gli imputati M. C., D. N., M. C.;

- nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025 (supra, 1.1.10), gli imputati V. P., G. C., G. P., R. P., R. R., M.C. P., O. L., G. L., M.M.B. C., C.S. G., F. N., G. V., L. B., P. C., M.G. N.;

- nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 20 reg. ord. del 2025 (supra, 1.1.11), l'imputato G. V.;

- nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 50 reg. ord. del 2025 (supra, 1.1.14), la parte civile V. C..

3.1.- Nei giudizi relativi alle ordinanze iscritte al n. 222, n. 232 e al n. 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 18 e 20 reg. ord. del 2025, tutte le parti chiedono che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.

3.1.2.- Nei rispettivi atti di costituzione, le parti propongono argomentazioni analoghe a quelle svolte dall'Avvocatura generale dello Stato, incentrate: sulla preclusione di un sindacato costituzionale con effetti in malam partem nella materia penale sostanziale (cui le questioni sollevate dai rimettenti non farebbero eccezione); sulla inesistenza di obblighi di incriminazione o divieti di abrogazione, derivanti dalla UNCAC, in relazione all'abuso d'ufficio; sulla infondatezza, nel merito, di tutte le censure.

3.1.3.- Alcune parti eccepiscono altresì l'irrilevanza delle questioni, dovendo il giudice comunque pronunziare sentenza di proscioglimento per altre ragioni, ossia:

- perché i reati sarebbero estinti per prescrizione (così la difesa di C. C. e, con argomenti illustrati nella memoria depositata in prossimità dell'udienza, la difesa di A. D., O. G. e C. L., tutti nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 222 reg. ord. del 2024);

- perché il reato di abuso di ufficio sarebbe stato contestato in alternativa a quello di cui all'art. 353 cod. pen. (così la difesa di E.M. P., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 232 reg. ord. del 2024);

- perché i fatti contestati avrebbero perso rilevanza penale già per effetto della riformulazione in termini restrittivi della fattispecie incriminatrice, operata dall'art. 23, comma 1, d.l. n. 76 del 2020, come convertito (così le difese di V. P., C.S. G. e, con argomenti illustrati nella memoria depositata in prossimità dell'udienza, altresì G. P., R. P., R. R., M.C. P., O. L. e G. L., tutti nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025).

In un caso, quale motivo di irrilevanza della censura di violazione dell'art. 3 Cost., viene prospettato che la risoluzione della questione dovrebbe semmai comportare «un riequilibrio verso il basso» di fattispecie penali estranee alla cognizione del giudice a quo (così la difesa di D. N., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 233 reg. ord. del 2024, in riferimento al reato di cui all'art. 328 cod. pen., posto dal rimettente a raffronto con l'art. 323 cod. pen.).

3.1.4.- In aggiunta agli argomenti svolti dall'Avvocatura generale dello Stato, o a loro ulteriore specificazione, viene evidenziato quanto segue in ordine alla ritenuta inammissibilità delle questioni prospettate:

- questa Corte non avrebbe mai affrontato esplicitamente la tematica relativa all'ammissibilità di una declaratoria di illegittimità costituzionale con effetti in malam partem di una norma, che preveda l'abrogazione di una preesistente fattispecie penale o la modifichi in senso più favorevole, per contrasto con gli obblighi internazionalmente assunti dall'Italia;

- per un verso, infatti, la sentenza n. 37 del 2019 (nella quale questa Corte ha affermato che un controllo di legittimità costituzionale, con potenziali effetti in malam partem, «può risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell'art. 11 o dell'art. 117, primo comma Cost.») sembrerebbe semplicemente fare riferimento ai principi espressi nella sentenza n. 32 del 2014, che, a sua volta, non avrebbe affrontato direttamente il tema della compatibilità o incompatibilità delle norme (denunciate come costituzionalmente illegittime) rispetto ad obblighi sovranazionali, ma si sarebbe limitata ad osservare «come la "ripresa dell'applicazione delle norme sanzionatorie" già contenute nel D.P.R. n. 309/1990, in conseguenza della declaratoria di incostituzionalità, trovasse giustificazione (anche) negli obblighi di penalizzazione in materia di traffico illecito di stupefacenti previsti dalla Decisione quadro n. 2004/757/GAI dell'Unione [e]uropea»; per altro verso, quanto alla sentenza n. 28 del 2010, si tratterebbe di una pronuncia «con la quale questa Corte aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale di una norma non penale (art. 183, comma 1 lett. n) del D.lgs. 152/2006), che escludeva dalla nozione di rifiuto, in contrasto con le Direttive Europee in materia, le ceneri di pirite». La declaratoria di illegittimità costituzionale di tale norma extrapenale, quindi, avrebbe comportato non già la reviviscenza di una norma penale abrogata, ma semplicemente la riespansione del perimetro di applicazione della disciplina sui rifiuti (difesa di M. D.M., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 232 reg. ord. del 2024; propone considerazioni analoghe, in ordine alla non pertinenza delle sentenze richiamate dal rimettente, anche la difesa di E. B., nel medesimo giudizio);

- alla generale preclusione delle pronunzie ablative in malam partem, per l'assoluta inderogabilità che connoterebbe il principio di riserva di legge di cui all'art. 25 Cost., «anche quando confligge con altri principi costituzionalmente significativi», non potrebbe, quindi, farsi eccezione sulla base di quanto affermato nelle sentenze di questa Corte sopra richiamate, riguardanti casi diversi e non pertinenti (difesa di P. C., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025).

3.1.5.- Per quanto concerne, infine, la ritenuta infondatezza nel merito delle questioni, i difensori degli imputati costituiti svolgono i seguenti argomenti ulteriori rispetto a quelli già articolati dall'Avvocatura generale dello Stato:

- quanto all'art. 19 UNCAC, dalla sua formulazione non potrebbe ricavarsi «alcun obbligo di natura assoluta, connotato da perentorietà e inderogabilità al punto da risultare costituzionalmente sindacabile quale fonte di "inattuazione sopravvenuta"» (difesa di G. C., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025; in termini analoghi, rimarcando l'inesistenza di un obbligo internazionale di cui il legislatore debba tenere conto nella rimodulazione dell'area di rilevanza penale, cioè nell'esercizio di una prerogativa costituzionalmente garantita al Parlamento dall'art. 25, secondo comma, Cost., anche la difesa di G. V., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 20 reg. ord del. 2025);

- la norma da ultimo richiamata porrebbe soltanto un obbligo di prendere in considerazione l'introduzione del reato di abuso d'ufficio nell'ordinamento interno: obbligo al quale il legislatore avrebbe adempiuto, come confermato dalla introduzione della nuova fattispecie di cui all'art. 314-bis cod. pen. Tale innovazione legislativa, infatti, dimostrerebbe che «la fattispecie prima cristallizzata nell'art. 323 c.p. è stata ponderata dal Legislatore», che l'avrebbe «in parte mantenuta nell'alveo dell'illecito penale, opportunamente sanzionato, in parte esclusa, in virtù dell'abrogazione della "porzione di illecito" non "veicolata" sub art. 314-bis cod. pen.» (difesa di D. N., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 233 reg. ord. del 2024);

- la netta distinzione fra obblighi e facoltà di incriminazione nella sistematica della Convenzione, con la limitazione dei primi «all'oggetto indispensabile dell'accordo internazionale, cioè la repressione delle condotte criminose più gravi e/o più strettamente legate al fenomeno corruttivo ampiamente inteso» e la previsione delle seconde per le «manifestazioni criminose meno gravi e/o non immediatamente rientranti negli obiettivi di contrasto espressi dal Preambolo e dall'art. 1 della Convenzione», troverebbe conferma negli atti adottati dagli organismi creati dalla stessa Convenzione, ossia la Conferenza degli Stati parte della Convenzione e il Segretariato, che formulano agli Stati parte la raccomandazione di prevedere, ove non lo avessero già fatto, le fattispecie di reato di cui agli artt. 15, 16, paragrafo 1, 17, 23 e 25, «vale a dire proprio le disposizioni in cui è utilizzata la formula "shall adopt"» (difesa di G. V., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 20 reg. ord. del 2025);

- il fatto contemplato dall'art. 323 cod. pen. costituirebbe «ancora, pur dopo l'abrogazione della norma, un illecito, perseguibile sia sotto il profilo amministrativo che contabile, disciplinare e civile»; considerato il carattere «punitivo» che possono rivestire le sanzioni amministrative e la loro riconducibilità, in ambito internazionale, alla nozione di «sanzioni penali», sarebbe quindi soddisfatta la previsione contenuta nell'art. 19 della UNCAC: a prescindere dalla sua cogenza, infatti, la norma, nel riferirsi a «misure che abbiano il "carattere di illecito penale"», includerebbe anche le sanzioni amministrative (difesa di P. C., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025);

- sotto altro profilo, l'invito ad adottare misure preventive del conflitto di interessi, contemplato all'art. 7, paragrafo 4, UNCAC, insieme a quello indirizzato al rafforzamento dei meccanismi di trasparenza, non potrebbe essere interpretato «come rivolto alle sole forme di tutela apprestate dal diritto penale», ma andrebbe collocato, più propriamente, «nel quadro di una strategia integrata di intervento, ove l'impiego della risorsa penalistica [...] non può che maturare nel registro della sussidiarietà, ponendosi, così, quale ultima Thule rispetto al variegato arsenale di congegni sanzionatori contemplati dall'ordinamento» (difesa di G. C., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025);

- l'abrogazione dell'art. 323 cod. pen. non avrebbe prodotto un vuoto di tutela incompatibile con gli obiettivi UNCAC, i quali sarebbero «comunque assicurati da tutta una serie di altri meccanismi di tutela, ed in particolare dalle altre fattispecie penali contenute nel capo I, titolo II del codice penale, concernente i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione»; contro gli abusi del pubblico ufficiale, inoltre, il privato avrebbe a disposizione il rimedio della tutela giurisdizionale amministrativa, che consente «la possibilità di impugnare il provvedimento amministrativo proprio per il vizio dell'eccesso di potere-sviamento di potere» (difesa di L. B., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025);

- l'assunto per cui l'abrogazione dell'art. 323 cod. pen. avrebbe determinato un vuoto di tutela sarebbe, in ogni caso, «argomento irrilevante ai fini del giudizio di costituzionalità», perché la abolitio sarebbe frutto di «una scelta che appartiene al potere legislativo, valutabile unicamente sotto i profili dell'opportunità politica, ma è ben lungi da comportare una qualsivoglia violazione di parametri costituzionali» (difesa di P. C., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025);

- l'abolitio criminis si inserirebbe «in un più ampio disegno di razionalizzazione del sistema penale», volto ad evitare «il rischio di una criminalizzazione eccessiva dell'azione amministrativa» e a garantire «maggiore certezza giuridica ai pubblici funzionari», in ossequio al principio di determinatezza della norma penale sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost. (difesa di M.G. N., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025);

3.2.- Nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 50 reg. ord. del 2025, la parte civile V. C. chiede invece che la Corte dichiari la illegittimità costituzionale della disposizione censurata dal rimettente.

La parte contesta nel merito le ragioni poste dal legislatore alla base della scelta abrogativa ed evidenzia che l'abolizione del reato di abuso d'ufficio e la rimodulazione del reato di traffico di influenze illecite avrebbero prodotto un «vuoto repressivo», facendo venir meno presidi di tutela penale avverso «condotte spesso immediatamente prodromiche alle azioni di corruzione (o in ogni caso alle azioni contra ius), mirate ad alterare il buon funzionamento e la imparzialità della P.A.». Né tale criticità sarebbe stata superata «dall'inappagante tentativo di recupero della area depenalizzata dalla abrogazione dell'art. 323 c.p. mediante la introduzione del delitto previsto dall'art. 314 bis c.p., rubricato "Indebita destinazione di denaro o cose mobili"», stante la solo parziale continuità normativa tra le due fattispecie.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, alla stregua di una interpretazione letterale, logica e sistematica delle norme pattizie, la parte sostiene che dalla UNCAC (letta alla luce dei criteri ermeneutici fissati dalla Convenzione di Vienna) discenderebbe un obbligo internazionale di «stand still» o un «divieto di regresso», che impedirebbe allo Stato di abolire il delitto di abuso d'ufficio, in quanto già presente nella legislazione interna al momento della sottoscrizione del trattato.

Al tempo stesso, la parte ritiene che una ulteriore base normativa dell'obbligazione internazionale sarebbe da rintracciare nell'art. 27 della Convenzione: questa norma, nel prevedere l'obbligo di incriminare («Each State Party shall adopt») la «participation in any capacity such as an accomplice, assistant or instigator in an offence established in accordance with this Convention» (ossia la partecipazione in qualsiasi veste, quale complice, assistente o istigatore, a un reato stabilito conformemente alla presente Convenzione), si riferirebbe a tutti i reati stabiliti conformemente alla convenzione, «ivi compresi le non-mandatory offences, quando previste negli ordinamenti degli Stati aderenti al Trattato».

Altri argomenti a sostegno della lettura proposta sarebbero ricavabili da «plurime disposizioni, racchiuse sotto il Capitolo IV del Trattato delle Nazioni Unite contro la Corruzione, intitolato "International Cooperation"»: in particolare, dall'art. 46, rubricato «Mutual legal assistance», paragrafo 9, si trarrebbe l'evidenza che, rinunciando a punire i fatti di abuso, lo Stato italiano potrebbe non accordare più la cooperazione internazionale, sulla base dell'assenza del requisito della «dual criminality», venendo così meno a quell'obbligo di ampia collaborazione cui lo impegnerebbero gli artt. 43 («States Parties shall cooperate in criminal matters in accordance with articles 44 to 50 of this Convention») e 46, paragrafo 1, della convenzione («State Parties shall afford one another the widest measure of mutual legal assistance in investigations, prosecutions and judicial proceedings in relation to the offences covered by this Convention»).

A differenza del giudice rimettente, pur riconoscendo che «la sanzione penale non è l'unico strumento attraverso il quale il legislatore può cercare di perseguire la effettività della imposizione di obblighi o di doveri, come quelli inerenti allo svolgimento di funzioni amministrative», la parte ritiene che «la forma di tutela più pregnante che possa essere accordata ad un bene giuridico si sostanzia solo e soltanto in quella penalistica»; con la conseguenza che, per rispettare l'obbligo discendente dall'art. 7, paragrafo 4, della UNCAC, di non attenuare gli strumenti di contrasto contro la corruzione, «giammai l'Italia avrebbe potuto depenalizzare il delitto di abuso di ufficio».

La parte, infine, richiama le sentenze di questa Corte dalle quali emergerebbe che «la retroattività della norma abrogativa di una fattispecie incriminatrice non esclude il suo assoggettamento allo scrutinio di legittimità costituzionale in materia di sindacato penale in malam partem» (sono citate le sentenze n. 148 del 1983 e n. 32 del 2014), e che «il possibile effetto "in malam partem" della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma abrogativa di un reato non inibisce la verifica della conformità di quest'ultima previsione, rispetto alle disposizioni di diritto internazionale pattizio: disposizioni che, in ragione degli artt. 11 e 117 Cost., [sarebbero] cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie» (sono richiamate le sentenze n. 28 del 2010 e n. 37 del 2019). Anche la giurisprudenza della Corte di cassazione, del resto, avrebbe accolto il principio per cui l'incostituzionalità della norma più favorevole impedirebbe la sua applicazione retroattiva ai fatti commessi nella operatività della normativa precedente.

4.- Con memorie di identico tenore depositate in ciascun giudizio il 15 aprile 2025, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito gli argomenti sviluppati a fondamento delle eccezioni di inammissibilità e infondatezza sollevate con gli atti di intervento.

5.- In prossimità dell'udienza pubblica hanno altresì depositato memorie le difese di vari imputati dei giudizi a quibus costituitisi innanzi a questa Corte.

5.1.- Nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 222 reg. ord. del 2024, le parti A. D., O. G., C. L. e P. G., che all'atto della costituzione si erano riservate l'illustrazione delle difese, hanno esposto i motivi a sostegno delle eccezioni di inammissibilità e infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal rimettente. Le argomentazioni difensive sono analoghe a quelle svolte dall'Avvocatura dello Stato e nell'interesse degli altri imputati costituiti e attengono, sostanzialmente, all'inammissibilità del sindacato costituzionale in malam partem in materia penale; alla insussistenza di condizioni che giustifichino una deroga a tale generale principio; all'inesistenza di obblighi di incriminazione o divieti di abrogazione, di matrice convenzionale, in relazione all'abuso d'ufficio.

In aggiunta, le parti puntualizzano i seguenti aspetti:

- le questioni sarebbero inammissibili in quanto irrilevanti, perché i reati loro rispettivamente ascritti sarebbero già estinti per prescrizione (difese di A. D., O. G. e C. L.);

- quanto alle censure di violazione dell'art. 97 Cost., «la norma, di carattere organizzativo-programmatico», si limiterebbe a fissare «gli standard di economicità, efficacia, efficienza ed obiettività dell'azione amministrativa» a cui il legislatore deve attenersi e mai potrebbe autorizzare la «riesumazione» di una norma incriminatrice oramai estromessa dall'ordinamento giuridico, atteso che tale prospettazione darebbe luogo ad una «immotivata sovrapposizione tra poteri dello Stato del tutto inammissibile in un ordinamento democratico ispirato al principio di stretta legalità (art. 25, comma 2, Cost.)» (difesa di A. D. e O. G.);

- in relazione a tale parametro, inoltre, per quanto l'abrogato art. 323 cod. pen. contribuisse a tutelare l'imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, da ciò non potrebbe ricavarsi un obbligo di incriminazione, che nella Costituzione sarebbe stabilito solo dall'art. 13, quarto comma. Il principio di frammentarietà, del resto, renderebbe «doverose ed inevitabili proprio quelle lacune di tutela che il ricorso agli obblighi di criminalizzazione penale intende invece scongiurare», mentre la «tendenziale frizione degli obblighi di incriminazione con i principi fondamentali in materia penale» (frammentarietà, sussidiarietà ed extrema ratio) comporterebbe «la necessità di restringere il più possibile il relativo perimetro di azione, limitandolo alle ipotesi - del tutto eccezionali - già enucleate dalla stessa Corte costituzionale, fra le quali indubbiamente non rientra l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio» (difesa di P. G.);

- l'art. 7 UNCAC sarebbe del tutto inidoneo a fondare «un supposto "divieto di regresso"», in considerazione del suo dato topografico e testuale, della sua natura programmatica, della sua «radicale inconferenza rispetto al delitto di abuso d'ufficio»; esso riguarderebbe, piuttosto, «quel fitto insieme di istituti extrapenali (id est: di carattere amministrativistico), volti a presidiare imparzialità e buon andamento da indebite interferenze private» (difesa di P. G.).

5.2.- Le parti M. D.M. (nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 232 reg. ord. del 2024), M. C. (nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 233 reg. ord. del 2024), V. P., G. P., R. P., R. R., M.C. P., O. L., G. L., F. N., G. V. e P. C. (nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025) hanno ribadito le posizioni difensive già illustrate nei rispettivi atti di costituzione, nel senso della inammissibilità e infondatezza delle questioni, salvo che per alcune considerazioni aggiuntive, di seguito sinteticamente richiamate:

- le questioni sollevate nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025 sarebbero prima facie irrilevanti, in quanto dalle stesse imputazioni risulterebbe l'insussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen., come riformulata in senso restrittivo nel 2020 (difesa di G. P., R. P., R. R., M.C. P., O. L., G. L., in rapporto alle rispettive imputazioni, nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025);

- quanto alla pretesa esistenza di un «divieto (internazionale) di regresso», in passato un simile divieto sarebbe stato ravvisato soltanto con riferimento al Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, adottato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, ma a fronte di una specifica disposizione - quella dell'art. 2 del Patto - che impone agli Stati parte l'obbligo di «conseguire progressivamente la piena realizzazione dei diritti "ivi riconosciuti" con tutti i mezzi appropriati, ivi compresa in particolare l'adozione di misure legislative». In termini analoghi si sarebbe espressa anche la Commissione interamericana dei diritti umani, con riferimento agli obblighi previsti dall'art. 26 della Convenzione americana sui diritti umani del 1969, anche in questo caso a partire da una specifica disposizione della Convenzione. Al contrario, la pretesa di inferire dalle disposizioni della UNCAC l'esistenza di un «obbligo internazionale di stand still» non troverebbe alcun fondamento nelle norme della Convenzione e negli strumenti interpretativi della stessa (difesa di M. D.M., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 232 reg. ord. del 2024);

- in relazione alla denunciata violazione dell'art. 3 Cost., per il diverso trattamento riservato ai fatti di abuso rispetto al rifiuto o alla omissione di atti d'ufficio (art. 328 cod. pen.), non convincerebbe «l'automatismo con il quale il Gup di Firenze attribuisce maggiore gravità astratta a un comportamento attivo rispetto a quello caratterizzato da mera inerzia», considerato anche che la diversità tra il settore dei pubblici concorsi e quello dei pubblici appalti giustificherebbe la scelta discrezionale del legislatore di differenziarne la disciplina penale (difesa di M. C. nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 233 reg. ord. del 2024);

- la prospettazione della Corte di cassazione, nell'ordinanza iscritta al n. 50 reg. ord. del 2025, si fonderebbe su un'interpretazione delle previsioni della UNCAC che non troverebbe riscontro né nel testo del trattato, né nella Legislative guide per la sua attuazione. Essa combinerebbe in un rapporto sinergico disposizioni attinenti ad ambiti di disciplina diversi e a «profili estremamente differenti nell'organizzazione alla lotta alla corruzione», attribuendo impropriamente valore di interpretazione autentica alla Legislative guide (difesa di V. P., nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025; considerazioni analoghe sono proposte, nello stesso giudizio, dalla difesa di: F. N., con riguardo alla lettura «combinata» che la Corte di cassazione propone di disposizioni eterogenee; P. C., che sottolinea come l'art. 7, paragrafo 4, UNCAC non contenga «alcun riferimento al fatto che "i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse" debbano essere mantenuti per il tramite del ricorso alla sanzione penale»; G. P., R. P., R. R., M.C. P., O. L. e G. L., sia sotto il profilo dell'attribuzione alla Legislative guide di un improprio «ruolo» di strumento di interpretazione autentica, sia per la impossibilità di trarre dall'art. 7, comma 4, UNCAC, «in modo tortuoso attraverso un'attività interpretativa complessa», un obbligo di incriminazione in violazione del principio di legalità);

- in ogni caso, non sarebbe condivisibile l'assunto per cui l'attuale apparato di presidi di tipo amministrativo, disciplinare e contabile sarebbe inidoneo «a tutelare il privato cittadino che sia vittima di comportamenti in precedenza qualificabili come abusi ex art. 323 c.p.». La Corte di cassazione, in tal senso, avrebbe omesso «di considerare i presidi esistenti a tutela dello Stato e del privato cittadino come un sistema complesso (ed efficace) di tutele»; ciò che non è più penalmente rilevante sarebbe rimasto, infatti, «un illecito dal punto di vista civile, amministrativo, disciplinare ed erariale, con conseguente possibilità per il cittadino (in sede civile o amministrativa) e per lo Stato (in sede erariale) di ottenere un ristoro dei danni subiti» (difesa di P. C., sempre nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025);

- con riferimento alla pretesa violazione degli obblighi internazionali, bisognerebbe poi distinguere tra obblighi internazionali e obblighi di fonte sovranazionale, ai quali soltanto sarebbe limitata la possibilità di un sindacato in malam partem. Quest'ultimo dovrebbe ritenersi circoscritto, in particolare, unicamente agli obblighi di derivazione eurounitaria, per i quali il principio di legalità sarebbe pienamente rispettato, considerato che per la competenza penale indiretta è previsto, alla luce del Trattato di Lisbona, un triplice livello di partecipazione dell'istituzione parlamentare. Né potrebbe farsi derivare in capo agli Stati membri della Unione europea alcun obbligo sovranazionale di incriminazione «dall'approvazione della Convenzione da parte della Comunità Europea», considerato che «la parte della Convenzione relativa agli obblighi di incriminazione non rientra in alcun modo nell'ambito delle competenze richiamate nella dichiarazione formulata al momento dell'adesione della Comunità europea» (limitata all'ambito della prevenzione). Queste conclusioni non sarebbero superate «dalla nota informativa depositata dalla Commissione Europea che chiarisce la modifica alle competenze delle istituzioni europee intervenuta per effetto del Trattato di Lisbona (richiamando, per esempio, gli art. 82 e 83 del TFUE)». sia perché la nota preciserebbe che essa «ha esclusivamente un valore informativo», sia perché «dovrebbe certamente valere la limitazione, scaturente dalla dichiarazione originaria, secondo la quale l'Unione Europea accetta le obbligazioni nascenti dalla Convenzione con riguardo a "its own public administration"» (difesa di G. P., R. P., R. R., M.C. P., O. L. e G. L., sempre nel giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025; nella prospettazione della difesa di G. V., nello stesso giudizio, gli obblighi internazionali limiterebbero invece la potestà legislativa statale e regionale solo nel caso di «norme della CEDU», che sarebbero le sole a poter assurgere a «norme interposte» in relazione al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost.).

5.3.- La parte civile nel procedimento di cui al giudizio relativo all'ordinanza iscritta al n. 50 reg. ord. del 2025, V. C., all'opposto, insiste perché venga dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata.

In aggiunta agli argomenti già spesi nell'atto di costituzione, la difesa allega alla propria memoria il parere pro veritate del Prof. Sergio Marchisio, secondo il quale, alla luce dei criteri ermeneutici propri del diritto internazionale:

- la UNCAC non conterrebbe raccomandazioni, ma norme vincolanti per le Parti contraenti titolari di diverse situazioni giuridiche soggettive;

- tali sarebbero anche le norme che impongono di prendere in considerazione l'adozione delle misure previste ("shall consider adopting") o le norme attributive di una facoltà giuridica ("Each State Party may adopt");

- dall'oggetto e dallo scopo della Convenzione sarebbe possibile ricavare in via implicita il principio di «stand still», risultando «incompatibile con la ratio della Convenzione ogni condotta statale che si risolva in un regresso normativo, attraverso la soppressione di reati o istituti già operanti a tutela della legalità pubblica»;

- tale principio impedirebbe agli Stati di smantellare le misure già esistenti, soprattutto se coerenti con i modelli previsti dal trattato;

- il divieto di depenalizzare il reato di abuso d'ufficio, ove già previsto nell'ordinamento di uno Stato contraente, costituirebbe una «clausola di salvaguardia minima, coerente con l'obbligo di "mantenimento degli standard di efficacia nella prevenzione della corruzione"».

Dal che la conclusione che l'abrogazione dell'art. 323 cod. pen. avrebbe violato gli obblighi internazionali, ponendosi «in contrasto con il minimo standard convenzionale di tutela, compromettendo il rispetto degli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione di Merida e compromettendo la realizzazione dell'oggetto e dello scopo dello strumento convenzionale», anche con riferimento agli obblighi posti in tema di cooperazione internazionale.

Nel parere pro veritate si prospetta anche la possibilità di una richiesta fondata sull'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea. Il rinvio pregiudiziale riguarderebbe l'interpretazione della decisione 2008/801/CE del Consiglio del 25 settembre 2008, relativa alla conclusione, a nome della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione. Avendo l'Unione europea approvato tale convenzione in data 12 novembre 2008, la stessa sarebbe divenuta parte integrante dell'ordinamento giuridico dell'Unione e, quindi, sarebbe vincolante per tutti gli Stati membri, ai sensi dell'art. 216, paragrafo 2, TFUE (secondo cui «gli accordi conclusi dall'Unione vincolano le istituzioni dell'Unione e gli Stati membri»). Quale accordo misto (ossia concluso anche dagli Stati membri in base ad una competenza della UE con essi condivisa) entrato a far parte del «diritto sovranazionale dell'Unione», la UNCAC consentirebbe la formulazione del rinvio pregiudiziale sull'interpretazione delle sue disposizioni, in particolare sulla portata dell'obbligo, per gli Stati membri, «di considerare l'introduzione» del reato d'abuso d'ufficio secondo l'art. 19; sulla compatibilità tra l'adempimento di tale obbligo e il comportamento di uno Stato, che già prevede nel suo ordinamento il reato di abuso di ufficio, consistente nell'abrogazione del reato stesso; sulla compatibilità fra tale condotta e la realizzazione in buona fede dell'oggetto e dello scopo della UNCAC.

Alla stregua di quanto esposto nel parere pro veritate, la parte ribadisce, quindi, in via principale la richiesta di una declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata.

In via «principale concorrente», laddove residuassero dubbi sulla interpretazione dell'art. 19 UNCAC, la parte sollecita questa Corte a formulare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea del seguente tenore: «[s]e, per gli Stati come l'Italia, che alla data di ratifica della Convenzione di Merida già annoveravano nel proprio ordinamento il reato di abuso d'ufficio, l'art. 19, da leggere pure in combinazione con gli artt. 1, 7 par. 4, 19 e 65 par. 1 del Trattato delle Nazioni Unite contro la Corruzione, osti alla adozione di una disposizione legislativa interna, abrogatrice del modello penale di abuso in atti d'ufficio».

6.- Ai sensi dell'art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l'Unione camere penali italiane (UCPI) ha depositato un'opinione scritta in qualità di amicus curiae in ciascuno dei giudizi relativi alle ordinanze iscritte ai numeri 201, 222, 232 e 233 reg. ord. del 2024 e al n. 50 reg. ord. del 2025, argomentando in senso contrario alle censure dei rimettenti e chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate. Le opinioni sono state ammesse, in tutti i giudizi indicati, con decreto presidenziale del 2 aprile 2025.

L'amicus curiae svolge considerazioni analoghe a quelle dell'Avvocatura generale dello Stato e delle difese degli imputati costituitisi in giudizio, riconducibili alla inesistenza di obblighi di incriminazione o divieti di depenalizzazione («stand still») di matrice pattizia e alla conseguente preclusione del sindacato di costituzionalità, poiché la censurata abrogazione dell'art. 323 cod. pen. non rientrerebbe in alcuna delle ipotesi di sindacato con effetti in malam partem in materia penale riconosciute dalla giurisprudenza di questa Corte.

Ad ulteriore specificazione degli argomenti già proposti dall'interveniente e dalle parti, nelle opinioni scritte sono evidenziati i seguenti aspetti:

- nella valutazione degli obblighi discendenti dalla UNCAC sarebbe rilevante la lettura del suo art. 65, laddove si prevede che «[c]iascuno Stato adotta le misure necessarie, comprese misure legislative ed amministrative, in conformità con i principi fondamentali del suo diritto interno, per assicurare l'esecuzione dei suoi obblighi ai sensi della presente Convenzione». Tra i «principi fondamentali del [...] diritto interno» rientrerebbero, infatti, «i principi di frammentarietà, sussidiarietà ed extrema ratio che intimamente connotano la materia penale e che sarebbero indubbiamente vulnerati, qualora l'unica possibile reazione sanzionatoria innescata dall'ordinamento, a fronte di abusi dei pubblici ufficiali, dovesse sempre e comunque avere carattere penale» (è richiamata, al riguardo, la sentenza di questa Corte n. 8 del 2022, punto 7 del Considerato in diritto);

- l'inesistenza di un obbligo d'incriminazione di matrice pattizia si trarrebbe non solo dal dato testuale e sistematico, ma anche dalla differenza lessicale tra la formulazione dell'art. 19 UNCAC e quella dell'art. 11 della proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla lotta contro la corruzione, che «indica espressamente la necessità di definire il reato di abuso d'ufficio tra le condizioni necessarie per perseguire gli obiettivi di lotta globale alla corruzione»;

- ipotizzare un «divieto di regresso» rispetto a una criminalizzazione che non è obbligatoria sarebbe irragionevole, perché così facendo «si legherebbe il divieto di depenalizzazione non ad un imperativo, ma ad una facoltà»;

- con le riforme del 1990, 1997 e 2020, il legislatore avrebbe «progressivamente contratto le condotte penalmente rilevanti dell'art. 323 c.p».; questa «attenzione» integrerebbe «una forma di "esame" e "considerazione"», rilevante ai fini dell'«adeguato vaglio» imposto agli Stati dall'art. 19 della Convenzione; all'esito di tale valutazione, il legislatore avrebbe «optato per l'abrogazione della disposizione, considerata distonica - per ragioni di politica criminale - nel sistema punitivo»;

- pur in assenza di un obbligo, l'Italia avrebbe introdotto «nell'alveo dei c.d. reati spia (condotte intermedie propedeutiche alla corruzione) l'art. 314-bis c.p. (Indebita destinazione di denaro o cose mobili)», una norma che fungerebbe «da contrappeso rispetto all'abrogazione dell'art. 323 c.p.», di cui sarebbe una «gemmazione per distacco». Oltre alla tutela penale, sarebbero inoltre presenti «diversi strumenti in funzione preventiva introdotti a partire dalla L. 190 del 2012 contro la corruzione».

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Le quattordici ordinanze di rimessione indicate in epigrafe e di cui si è analiticamente dato conto nel Ritenuto in fatto sollevano questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera b), della legge n. 114 del 2024, che ha abrogato l'art. 323 cod. pen., in riferimento complessivamente:

- all'art. 3 Cost.;

- all'art. 97 Cost.

- agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ovvero al solo art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli obblighi discendenti complessivamente dagli artt. 1, 5, 7, paragrafo 4, 19 e 65 UNCAC.

2.- Le ordinanze prospettano questioni analoghe, sicché i relativi giudizi meritano di essere riuniti ai fini della decisione.

2.1.- In sintesi, i rimettenti sostengono in primo luogo che la scelta legislativa di abolire il delitto di abuso di ufficio contrasterebbe con gli obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione di Mérida; con conseguente illegittimità costituzionale della disposizione censurata in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. (ovvero, secondo talune ordinanze, al solo art. 117, primo comma, Cost.).

Più in particolare, secondo le tredici ordinanze emesse da giudici di merito (ordinanze iscritte ai numeri 201, 222, 232 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 4, 5, 8, 10, 17, 18, 20, 25 e 33 reg. ord. del 2025), l'abrogazione del reato violerebbe le obbligazioni discendenti dalla UNCAC, dalla quale deriverebbe, a carico degli Stati parte che già prevedessero nel rispettivo ordinamento penale l'incriminazione dell'abuso d'ufficio al momento della ratifica della Convenzione, un "divieto di regresso" (o obbligo di stand still), e dunque il divieto di abrogare tale norma incriminatrice.

Con la propria ordinanza di rimessione (iscritta al n. 50 reg. ord. del 2025), la Corte di cassazione reputa invece che l'abolizione del delitto in questione abbia piuttosto determinato la violazione dell'obbligo di mantenere standard di efficace attuazione della UNCAC nel suo complesso, nonché rispetto allo specifico obiettivo di assicurare l'efficace attuazione dei sistemi di prevenzione della corruzione.

2.2.- Le ordinanze iscritte al n. 233 reg. ord. del 2024 e al n. 33 reg. ord. del 2025 dubitano poi della compatibilità della disposizione con l'art. 3 Cost., ritenendo che la scelta abrogativa del delitto di abuso d'ufficio costituisca il frutto di un esercizio irragionevole del potere legislativo, irrispettoso del principio di eguaglianza. Il legislatore avrebbe infatti creato irragionevoli disparità di trattamento tra condotte dotate di analogo contenuto offensivo, lasciando altresì prive di sanzione penale condotte più gravi di altre, che continuano a essere qualificate come reati.

2.3.- Infine, le ordinanze iscritte ai numeri 222 e 233 reg. ord. del 2024 e ai numeri 4, 8 e 33 reg. ord. del 2025 lamentano che l'abolizione del delitto di abuso d'ufficio abbia creato un vuoto di tutela contro aggressioni particolarmente gravi ai principi del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, con conseguente ulteriore vulnus all'art. 97 Cost.

3.- Devono essere anzitutto esaminate le numerose eccezioni di inammissibilità sollevate dall'interveniente Avvocatura generale dello Stato e dalle parti costituite.

Tali eccezioni possono essere distinte in due gruppi. Una prima serie di eccezioni, concernenti solo alcune delle ordinanze di rimessione, si appunta sull'asserita irrilevanza delle questioni prospettate, in relazione a carenze motivazionali in ordine alla necessità di fare applicazione della disposizione censurata nei singoli giudizi a quibus (infra, 4). Un secondo gruppo di eccezioni concerne invece, trasversalmente, tutte le ordinanze di rimessione, e si incentra sul divieto di questioni di legittimità in malam partem in materia penale (infra, 5).

4.- Prendendo le mosse dal primo gruppo di eccezioni, va preliminarmente ribadito che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, ex plurimis, sentenze n. 45 del 2024, punto 2 del Considerato in diritto, e n. 164 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto), ai fini della rilevanza delle questioni è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo e che la pronuncia di accoglimento possa influire sull'esercizio della funzione giurisdizionale quantomeno sotto il profilo del percorso argomentativo della decisione nel processo principale (ex plurimis, sentenze n. 25 del 2024 , punto 2.2. del Considerato in diritto, n. 249 del 2021, punto 6 del Considerato in diritto, n. 154 del 2021, punto 2.1. del Considerato in diritto; ordinanza n. 194 del 2022), specificamente - in materia penale - con riguardo alla formula di proscioglimento da adottarsi nel dispositivo, anche ove non muti l'esito assolutorio per l'imputato (sentenza n. 148 del 1983, punto 3 del Considerato in diritto, con principio successivamente ribadito, ex multis, dalla sentenza n. 394 del 2006, punto 6.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 28 del 2010, punto 7 del Considerato in diritto; sentenza n. 223 del 2015, punto 4.3. del Considerato in diritto).

Alla luce di tali criteri, nessuna delle eccezioni di inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza formulate in relazione alle singole ordinanze di rimessione merita accoglimento.

In particolare:

- contrariamente a quanto eccepito dalla difesa dell'imputato C. C., nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 222 reg. ord. del 2024, il giudice a quo ha ben chiarito che, quand'anche per gli imputati fosse già maturato il termine di prescrizione del reato, il collegio rimettente dovrebbe oggi pronunciare una sentenza di assoluzione «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato», ex artt. 129, comma 2, e 530, comma 1, cod. proc. pen., prevalendo la suddetta causa assolutoria sulla improcedibilità per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, stante il carattere di assoluta evidenza della abolitio criminis. L'accoglimento delle questioni prospettate aprirebbe invece necessariamente a esiti decisori diversi, anche solo sotto il profilo dell'eventuale formula di proscioglimento;

- contrariamente a quanto eccepito dalla difesa dell'imputato E.M. P. nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 232 reg. ord. del 2024, il giudice a quo ha fornito ampia e non implausibile motivazione della rilevanza della questione, anche a fronte di un'imputazione per abuso d'ufficio formulata, nel caso di specie, in via alternativa rispetto a quelle di turbata libertà degli incanti e di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Il rimettente ha chiarito, infatti, che la questione sollevata sarebbe rilevante perché «in caso di contestazione alternativa, ben potrebbe il Giudice pronunciarsi [...] sulla insussistenza di una delle imputazioni e poi, nel prosieguo, in merito all'altra». La questione sarebbe egualmente rilevante anche se «si ritenesse che la contestazione alternativa, riguardando il medesimo fatto storico, impedisse una decisione autonoma su ognuna delle due imputazioni». Infatti, «nel caso in cui permanesse nel nostro ordinamento il delitto di cui all'art. 323 c.p.», il Tribunale non potrebbe prosciogliere immediatamente gli imputati ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., ma dovrebbe proseguire l'istruttoria dibattimentale. Tale duplice motivazione supera ampiamente il vaglio di non implausibilità sulla motivazione in punto di rilevanza demandato a questa Corte, la quale ha già chiarito - proprio in un caso in cui era stata formulata una imputazione alternativa - che in tale ipotesi «il giudice è chiamato a misurarsi con entrambe le fattispecie alternativamente evocate» (sentenza n. 127 del 2017, punto 2 del Considerato in diritto);

- contrariamente a quanto eccepito dalla difesa dell'imputato D. N. (peraltro senza alcuna enunciazione delle ragioni dell'eccezione) e dall'Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 233 reg. ord. del 2024 il GUP rimettente ha fornito motivazione adeguata della rilevanza delle questioni, affermando: di dover decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero nei confronti di alcuni degli imputati per i fatti descritti nell'ordinanza e qualificati come abuso d'ufficio; di non poter ricondurre i fatti contestati ad altre fattispecie di reato; e di escludere che i reati si fossero estinti per prescrizione. L'accoglimento delle questioni inciderebbe dunque, come giustamente sottolinea il rimettente, «sulla possibilità di celebrare un processo, di addivenire a un giudizio di responsabilità penale per condotte certamente abusive (se verificate) o di proscioglimento nel merito»;

- contrariamente a quanto eccepito dall'Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025 il rimettente ha chiarito le ragioni della rilevanza della questione, riferendo di dover fare applicazione della disposizione abrogatrice della cui costituzionalità dubita, pronunciando sentenza di proscioglimento immediato degli imputati, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., perché il fatto non è più previsto come reato. Ove invece la questione di legittimità fosse accolta, ha proseguito il rimettente, il giudizio potrebbe proseguire per l'accertamento della responsabilità penale degli imputati: il che tra l'altro lascia chiaramente intendere che, ad avviso del Tribunale, non sussistono allo stato le condizioni per un proscioglimento immediato, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., per ragioni diverse dall'abolitio del reato;

- contrariamente a quanto eccepito dall'Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 17 reg. ord. del 2025 il rimettente ha pure chiarito la rilevanza della questione, precisando di dover fare immediata applicazione della disposizione abrogatrice con la sentenza di proscioglimento degli imputati perché il fatto non è più previsto come reato. Con ciò, ha proseguito il giudice a quo, resterebbe esclusa la possibilità di proseguire il giudizio e di giungere tanto a una sentenza di condanna e al conseguente vaglio della richiesta risarcitoria avanzata dalla parte civile, quanto al proscioglimento degli imputati con una formula assolutoria più favorevole di quella imposta dall'abrogazione del reato. Il giudice a quo, inoltre, ha motivato espressamente circa l'ininfluenza della eventuale maturazione del termine di prescrizione, sottolineando che i fatti contestati avrebbero perso, a seguito dell'abrogazione della fattispecie di reato, «qualsiasi connotazione criminosa che possa giustificare tale pronuncia di estinzione»: affermazione, quest'ultima, puntualmente confortata dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 15 dicembre 1999-14 gennaio 2000, n. 356);

- contrariamente a quanto eccepito dall'Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 18 reg. ord. del 2025 il rimettente ha fornito una motivazione sintetica, ma chiara, sulla rilevanza della questione, spiegando che, se fosse dichiarata l'illegittimità della norma abrogatrice, «si potrebbe giungere in ordine ai medesimi casi o ad un'assoluzione nel merito [...] o ad una condanna, con conseguenti ripercussioni favorevoli o sfavorevoli sia per gli imputati sia per le persone offese costituite parti civili», mentre in caso contrario non resterebbe che la declaratoria immediata di improcedibilità per abolitio criminis. Tale motivazione deve ritenersi sufficiente, non potendo pretendersi che il giudice a quo, considerato anche lo stato del giudizio principale (pendente nelle fasi di replica della discussione finale, a dibattimento di primo grado ormai chiuso, in un momento in cui una decisione di proscioglimento nel merito andrebbe assunta al metro dell'art. 530 cod. proc. pen), sia tenuto a fornire una motivazione puntuale di tutti gli elementi dai quali dipende l'an della responsabilità penale degli imputati, anticipando in questo modo valutazioni che hanno la propria sede naturale nella sentenza che concluderà il processo (in tal senso la già richiamata sentenza n. 27 del 2025, punto 3.2 del Considerato in diritto);

- contrariamente a quanto eccepito dall'Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 20 reg. ord. del 2025 il rimettente ha parimenti fornito una concisa, ma chiara, motivazione sulla rilevanza, illustrando di dover addivenire «automaticamente e immediatamente» - nell'ipotesi in cui non venisse dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata - a una sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen. per abolitio criminis;

- contrariamente a quanto eccepito dall'Avvocatura generale dello Stato, nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025, infine, il rimettente - lungi dall'omettere ogni motivazione sulla rilevanza delle questioni - si è soffermato specificamente sui rapporti fra proscioglimento nel merito, con la più ampia formula liberatoria «perché il fatto non sussiste» o «perché il fatto non costituisce reato», e proscioglimento perché il fatto non è più previsto come reato, ritenendo quest'ultima formula pregiudiziale rispetto alle altre, con valutazione certamente plausibile, anche alla luce della già citata giurisprudenza di legittimità in materia (Cass., n. 356 del 2000).

5.- Devono a questo punto essere esaminate le eccezioni, formulate dall'Avvocatura generale dello Stato e dalle difese degli imputati nei giudizi a quibus costituitisi innanzi a questa Corte, che mirano a una pronuncia di inammissibilità di tutte le questioni prospettate, in quanto tendenti a una pronuncia in malam partem in materia penale.

La direzione in malam partem delle questioni non è messa in dubbio da alcuna delle ordinanze di rimessione (né dall'unica parte costituita ad adiuvandum): oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale prospettati è l'art. 1, comma 1, lettera b), della legge n. 114 del 2024, che ha abrogato l'art. 323 cod. pen., in tal modo determinando l'abolitio del delitto di abuso di ufficio. L'auspicio di tutti i rimettenti è che questa Corte dichiari l'illegittimità costituzionale della disposizione abrogatrice, con conseguente ripristino dell'incriminazione abrogata. Con un effetto, dunque, (ri)espansivo dell'area di rilevanza penale rispetto alla scelta riduttiva compiuta dal legislatore del 2024.

Premessa una ricapitolazione della costante giurisprudenza costituzionale su presupposti e limiti di ammissibilità di questioni in malam partem in materia penale (infra, 5.1.), si vaglierà separatamente l'ammissibilità delle questioni in questa sede prospettate, con riferimento anzitutto agli artt. 3 e 97 Cost. (infra, 5.2.), e poi agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. (infra, 5.3.).

5.1.- Questa Corte ha recentemente ribadito che, in materia penale, «l'adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.». Tale principio, «rimettendo al "soggetto-Parlamento" (sentenza n. 5 del 2014), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394 del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla punibilità» (sentenza n. 8 del 2022, punto 4 del Considerato in diritto; nello stesso senso, più di recente, sentenza n. 84 del 2024, punto 2.2.1. del Considerato in diritto e ordinanza n. 29 del 2022, nonché in precedenza, ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto; n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto; n. 46 del 2014, punto 3 del Considerato in diritto; n. 324 del 2008, punto 5 del Considerato in diritto; n. 394 del 2006 punto 6.1. del Considerato in diritto; 161 del 2004, punto 7.1. del Considerato in diritto).

Il principio ammette tuttavia varie eccezioni, riassunte dalla sentenza n. 37 del 2019 (punto 7.1. del Considerato in diritto) nei termini seguenti.

5.1.1.- In primo luogo, viene in considerazione «la necessità di evitare la creazione di "zone franche" immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme - altrettanto irragionevolmente - un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006)» (sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).

La legittimità costituzionale di siffatte "norme penali di favore" è dunque scrutinabile da questa Corte, ancorché l'eventuale accoglimento della questione determini necessariamente un ampliamento dell'area di rilevanza penale, coperta dalla norma incriminatrice il cui ambito applicativo è destinato a riespandersi in conseguenza della pronuncia di illegittimità costituzionale.

5.1.2.- La seconda categoria di eccezioni riguarda i vizi genetici del provvedimento abrogativo, quando a essere censurato è lo «scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata» (sentenza 37 del 2019, punto 7.1 del Considerato in diritto; in termini analoghi, più recentemente, sentenza n. 8 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto, nonché - in precedenza - sentenza n. 46 del 2014, punto 3 del Considerato in diritto).

5.1.3.- Un terzo novero di deroghe è stato ammesso da questa Corte quando l'effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall'eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).

5.1.4.- Infine, un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può «risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell'art. 11 o dell'art. 117, primo comma, Cost.» (sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).

Un tale controllo è stato compiuto da questa Corte in relazione a una disposizione extrapenale che, sottraendo temporaneamente le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, aveva escluso, durante il periodo della sua vigenza, l'applicabilità delle sanzioni penali previste per la gestione illegale dei rifiuti. Rilevato il contrasto, di cui il giudice rimettente si doleva, tra tale disposizione e gli obblighi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di rifiuti, questa Corte ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., osservando in particolare che, «se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie [...], si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali. La responsabilità penale, che la legge italiana prevede per l'inosservanza delle fattispecie penali connesse alle direttive comunitarie, per dare alle stesse maggior forza, diverrebbe paradossalmente una barriera insuperabile per l'accertamento della loro violazione» (sentenza n. 28 del 2010, punto 7 del Considerato in diritto).

Il principio della prevalenza del rispetto degli obblighi sovranazionali rispetto alla generale preclusione di pronunce che determinino un effetto in malam partem in materia penale è stato, poi, incidentalmente ribadito dalla sentenza n. 32 del 2014, la quale - nel dichiarare l'illegittimità costituzionale di modifiche alla disciplina penale in materia di stupefacenti attuate in sede di conversione di un decreto-legge in violazione dell'art. 77 Cost. - ha ritenuto che il proprio sindacato non fosse precluso dai possibili effetti in malam partem della pronuncia, osservando che la reviviscenza della norma illegittimamente abrogata fosse imposta, tra l'altro, dalla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell'Unione europea, che l'Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.» (punto 5 del Considerato in diritto).

La stessa sentenza n. 37 del 2019 - che pure ha dichiarato inammissibili una serie di censure sollevate dal giudice rimettente nei confronti della disposizione che, nel 2016, aveva abrogato il delitto di ingiuria in relazione all'allegato contrasto di tale scelta legislativa con le norme di diritto internazionale dei diritti umani che tutelano i diritti all'onore e alla reputazione - ha fondato la propria decisione sul totale difetto di motivazione, da parte del rimettente, circa la sussistenza di uno specifico obbligo, derivante dal diritto internazionale, di assicurare la tutela del diritto in questione mediante l'adozione di sanzioni penali (punto 7.3. del Considerato in diritto). Il che ovviamente non esclude, ed anzi a contrario conferma, che - ove un obbligo di tutela penale sia effettivamente stabilito dal diritto internazionale - la sua violazione da parte del legislatore penale possa essere censurata innanzi a questa Corte.

5.1.5.- In tutte le ipotesi in cui è ammesso un sindacato in malam partem, peraltro, la giurisprudenza di questa Corte è univoca nel ritenere che, in forza del divieto di applicazione retroattiva della norma penale più sfavorevole di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., chi abbia commesso il fatto mentre era in vigore la disposizione più favorevole dichiarata costituzionalmente illegittima debba continuare a beneficiare di quest'ultima, in deroga ai normali effetti ex tunc delle sentenze di accoglimento della Corte.

L'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge penale che abroghi l'incriminazione preesistente o, comunque, preveda un trattamento penale più favorevole potrà invece dispiegare i propri effetti rispetto ai fatti posti in essere prima dell'entrata in vigore di quella legge, sotto l'impero di una legge penale più severa che, per effetto della pronuncia di questa Corte, dovesse essere ripristinata o in ogni caso veder riespandere il proprio ambito di applicazione.

In effetti, in tali ipotesi l'autore del fatto è stato posto in condizione di autodeterminarsi «sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo», sicché l'art. 25, secondo comma, Cost. non osterebbe a una sua condanna (sentenza n. 394 del 2006, punto 6.4. del Considerato in diritto). Né a tale condanna osterebbe il principio della generale retroattività della lex mitior, che la giurisprudenza di questa Corte ricava dall'art. 3 Cost. e, oggi, dall'art. 7 CEDU, per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost. (ampiamente sul punto, sentenze n. 63 del 2019, punto 6.1. del Considerato in diritto, e n. 236 del 2011, punto 11 del Considerato in diritto), trattandosi di principio che «deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale», e che comunque «in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima» (sentenza n. 394 del 2006, punto 6.4. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 143 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).

5.2.- Tutto ciò premesso, le censure formulate dai giudici rimettenti in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. sono inammissibili.

5.2.1.- Precedenti disposizioni legislative che, pur senza abolire il delitto di abuso d'ufficio, ne avevano significativamente ristretto l'ambito applicativo rispetto alla disciplina previgente sono già state censurate dinanzi a questa Corte in relazione ai medesimi parametri. Tuttavia, le relative questioni sono state dichiarate inammissibili - in particolare dalle sentenze n. 447 del 1998 e n. 8 del 2022 - proprio in relazione all'effetto in malam partem che sarebbe conseguito dal loro eventuale accoglimento.

La sentenza n. 447 del 1998 ha, in particolare, osservato che gli allora rimettenti non avevano indicato «l'esistenza di una norma costituzionale suscettibile di costituire essa stessa la base legale dell'incriminazione di tali condotte, e che possa dunque ritenersi direttamente violata dalla scelta del legislatore». Essi infatti si erano limitati, «da un lato, a lamentare una mera differenza di trattamento, che sarebbe di per sé ingiustificata, fra le condotte rese non più punibili e quelle per le quali permane invece la punibilità [...]; dall'altro lato, a sostenere che i principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione non sarebbero adeguatamente tutelati a causa della esclusione di taluni tipi di condotte dalla fattispecie di reato». Simili prospettazioni - si era rilevato - non possono fondare una questione di legittimità costituzionale mirante a estendere la portata di una norma incriminatrice «che si assuma troppo restrittiva nella individuazione delle condotte punite, in vista di una pronuncia di questa Corte che ne estenda la portata»: le pur indubitabili esigenze costituzionali di protezione di beni costituzionalmente rilevanti come l'imparzialità e l'andamento della pubblica amministrazione ben possono infatti «essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni (cfr. sentenza n. 317 del 1996)», in armonia con il principio di extrema ratio della tutela penale, cui il legislatore ricorre quando «lo ritenga necessario per l'assenza o la insufficienza o la inadeguatezza di altri mezzi di tutela».

Va d'altra parte escluso, aveva proseguito questa Corte, che possa «tradursi in una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento di situazioni omogenee, o in nome di esigenze di ragionevolezza o di armonia dell'ordinamento». Ciò in quanto la «mancanza della base legale - costituzionalmente necessaria - dell'incriminazione, cioè della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude radicalmente la possibilità di prospettare una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale» (sentenza n. 447 del 1998, punto 3 del Considerato in diritto).

Come ulteriormente chiarito dalla sentenza n. 8 del 2022 in relazione a un'analoga censura ex art. 3 Cost., «ove pure, in ipotesi, la norma incriminatrice (non qualificabile come norma penale di favore) determinasse intollerabili disparità di trattamento o esiti irragionevoli, il riequilibrio potrebbe essere operato dalla Corte solo "verso il basso" (ossia in bonam partem): non già in malam partem, e in particolare tramite interventi dilatativi del perimetro di rilevanza penale (sulla inammissibilità di questioni in malam partem basate sulla denuncia di violazione dell'art. 3 Cost., ex plurimis, sentenza n. 411 del 1995; ordinanze n. 437 del 2006 e n. 580 del 2000)» (punto 7 del Considerato in diritto).

5.2.2.- Questa Corte ritiene di dover riconfermare tali principi in relazione alle odierne questioni, le quali concernono una disposizione che addirittura abroga una precedente incriminazione, e mirano alla integrale reviviscenza di quest'ultima. E ciò in riferimento all'allegata violazione tanto dell'art. 3 Cost. (infra, 5.2.3. e 5.2.4.) quanto dell'art. 97 Cost. (infra, 5.2.5.).

5.2.3.- Quanto alla censura ex art. 3 Cost., i rimettenti si dolgono in sostanza della disparità di trattamento tra le condotte che non sono più punibili in seguito all'abrogazione dell'art. 323 cod. pen., e altre condotte, in tesi anche meno offensive, che conservano oggi rilevanza penale.

Sul punto, conviene preliminarmente sottolineare che il legislatore gode di ampia discrezionalità nella delimitazione delle condotte punibili. Tale discrezionalità deve essere invero sottoposta a un controllo particolarmente attento da parte di questa Corte in relazione alle scelte di incriminazione, in quanto necessariamente limitative dei diritti fondamentali della persona (sentenza n. 46 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto); ma deve essere riconosciuta in termini assai ampi rispetto alle scelte di non punire determinate condotte in precedenza incriminate, pur lesive di interessi costituzionalmente rilevanti o comunque meritevoli di tutela, sempre che il legislatore appresti altri strumenti di tutela di tali interessi, nell'ottica dell'extrema ratio della tutela penale - criterio, quest'ultimo, esso pure di rilevo costituzionale, alla luce del principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale (sentenze n. 84 del 2024, punto 3.2. del Considerato in diritto; n. 22 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).

Ma anche a prescindere da tale considerazione, la costante giurisprudenza costituzionale poc'anzi richiamata ha sempre escluso che una pronuncia di questa Corte possa intervenire a modificare il confine dei fatti penalmente rilevanti tracciato dal legislatore, con un effetto estensivo della responsabilità penale dei destinatari delle norme penali, soltanto per porre riparo a eventuali disparità di trattamento tra condotte sanzionate aventi, in ipotesi, analogo o minore disvalore. Un simile risultato, sinora, è sempre stato considerato precluso dalla riserva di legge in materia penale di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., che, invece, non si oppone alla riduzione dell'area di responsabilità penale tracciata dal legislatore a opera di questa stessa Corte, nell'ambito del proprio sindacato ex art. 3 Cost. (come accaduto, ad esempio, nella sentenza n. 508 del 2000, punto 4 del Considerato in diritto).

Da tale principio questa Corte non ravvisa ragioni cogenti per discostarsi (sulle ragioni che militano in favore del tendenziale rispetto degli orientamenti cristallizzati nei precedenti, sentenze n. 24 del 2025, punto 3 del Considerato in diritto; n. 203 del 2024, punto 4.5. del Considerato in diritto).

5.2.4.- Né la preclusione di un sindacato in malam partem in riferimento all'art. 3 Cost. potrebbe essere superata nel caso ora all'esame, come suggerisce il GIP del Tribunale di Roma nella propria ordinanza di rimessione (iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025), inquadrando la disposizione censurata come "norma penale di favore" che sottrarrebbe, «senza alcuna ragione giustificatrice, una categoria di soggetti dall'attuazione di una norma penale generale».

La categoria delle "norme penali di favore" rispetto alle quali è ammesso un sindacato di legittimità costituzionale comprende infatti - secondo quanto di recente ribadito da questa Corte - quelle norme «che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni compresenti nell'ordinamento [corsivo aggiunto]. L'effetto in malam partem conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di tali norme non vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione, rappresentando una conseguenza dell'automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria. La qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell'area di rilevanza penale. In tal caso, la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell'ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte» (sentenza n. 8 del 2022, punto 7 del Considerato in diritto).

Nel caso ora all'esame, come giustamente rileva tra gli altri l'Avvocatura generale dello Stato, il raffronto suggerito dal rimettente (Ritenuto in fatto, punto 1.5.2.) non è, per l'appunto, tra una norma generale e una norma che sottragga talune categorie di soggetti o talune condotte al perimetro di punibilità di quella stessa norma, destinata a riespandersi una volta caducata la norma derogatoria illegittima. Il raffronto, piuttosto, è fra una norma incriminatrice vigente (e in particolare l'art. 353 cod. pen., che punisce le turbative della gara in un pubblico incanto o in una licitazione privata) e la disposizione che ha abrogato l'art. 323 cod. pen., nel cui ambito applicativo la giurisprudenza aveva ricondotto condotte parzialmente sovrapponibili a quelle che integrano le turbative d'asta.

In altre parole, come già nel caso esaminato da questa Corte nella sentenza n. 8 del 2022, la richiesta di sindacato in malam partem non mira qui a far "riespandere" una norma già presente nell'ordinamento, ma a "ripristinare" una norma abrogata. Ciò che la costante giurisprudenza di questa Corte ritiene non sia consentito, almeno in sede di sindacato ex art. 3 Cost.

5.2.5.- Quanto all'allegata violazione dell'art. 97 Cost., vari giudici rimettenti lamentano in sintesi che l'abolizione del reato di abuso d'ufficio, non accompagnata dall'introduzione di illeciti amministrativi o dal potenziamento di misure di prevenzione di condotte lesive del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione, avrebbe creato un vuoto di tutela rispetto a modalità di aggressione di tali beni, di rilievo costituzionale, in precedenza contrastate dal delitto di cui all'art. 323 cod. pen.

Consapevoli dell'orientamento che considera in via generale inammissibile un sindacato in malam partem in materia penale, taluni rimettenti invitano questa Corte a rimeditare i propri precedenti, almeno per quanto riguarda le censure formulate in riferimento all'art. 97 Cost., sottolineando come il quadro normativo attuale sia profondamente mutato rispetto a quello scrutinato in passato. Esso, ad avviso dei rimettenti, non sarebbe oggi più in grado di assicurare adeguata protezione ai principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, anche a fronte della riduzione dell'ambito applicativo di altre norme incriminatrici operato nel frattempo dal legislatore. Ciò, in particolare, rispetto a molte condotte di abuso per omessa astensione, in presenza di conflitto di interessi o di situazioni di incompatibilità, nonché in quelle di violazioni di legge intenzionalmente poste in essere dal pubblico agente per danneggiare o favorire taluno; con conseguente non punibilità di condotte abusive compiute da pubblici ufficiali titolari di poteri rilevantissimi, in grado di incidere pesantemente su diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, a fronte della ritenuta inadeguatezza, rispetto allo strumento penale, degli altri sistemi di protezione del cittadino. Di talché la scelta di abrogare l'art. 323 cod. pen., lungi dal costituire legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, dovrebbe essere considerata arbitraria e, pertanto, costituzionalmente illegittima, lasciando del tutto privi di tutela i beni protetti dall'art. 97 Cost.

Censure del tutto analoghe erano state, tuttavia, formulate in relazione alle modifiche legislative riduttive dell'ambito di applicazione del delitto di cui all'art. 323 cod. pen. Come poc'anzi rammentato, tanto la sentenza n. 447 del 1998 quanto la sentenza n. 8 del 2022 hanno ritenuto in radice inammissibili tali censure, sulla base dell'argomento che le esigenze costituzionali di tutela sottese all'art. 97 Cost. non richiedono necessariamente l'attivazione della tutela penale, ben potendo essere soddisfatte attraverso una pluralità di strumenti alternativi preventivi e sanzionatori diversi dal diritto penale: strumenti che debbono, anzi, preferirsi - in omaggio al principio di extrema ratio - sempre che siano in grado di assicurare un'efficace tutela ai beni in parola.

In ogni caso, laddove non sussistano puntuali obblighi di incriminazione discendenti dalla Costituzione o da altre fonti vincolanti per il legislatore, non può che spettare a quest'ultimo la decisione circa l'an dell'eventuale tutela penale da assicurare agli interessi che la stessa Costituzione impone in via generale di proteggere, senza però specificare con quali strumenti tale protezione debba essere assicurata. Un eventuale sindacato di questa Corte sulle scelte compiute in proposito dal legislatore finirebbe, infatti, per non trovare alcuna base di legittimazione né nel testo, né nella stessa ratio, dell'art. 97 Cost.

La medesima considerazione va tenuta ferma anche a fronte dell'argomento, proposto dal Tribunale di Teramo nell'ordinanza iscritta al n. 4 reg. ord. del 2025, secondo cui la legittimazione di questa Corte a un sindacato in malam partem in riferimento all'art. 97 Cost. deriverebbe dal principio, enunciato dall'art. 28 Cost., per cui «[i] funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti». Tale previsione costituzionale sancisce, infatti, il principio della diretta responsabilità del pubblico dipendente in caso di violazione dei diritti stabiliti dalle leggi (anche penali) vigenti; ma tale principio non può essere dilatato in via interpretativa sino a fondare un obbligo costituzionale, gravante sul legislatore, di prevedere una sanzione penale per ogni condotta del pubblico dipendente che abbia abusato del proprio potere a danno di un privato.

Tutto ciò induce questa Corte, anche in questo caso, a confermare il proprio costante orientamento preclusivo all'esame nel merito di tutte le doglianze svolte dai rimettenti con riferimento specifico all'art. 97 Cost.

5.3.- Considerazioni in parte differenti si impongono in relazione all'ammissibilità delle censure formulate dai rimettenti in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione a un nutrito gruppo di obblighi discendenti dalla Convenzione di Mérida.

In proposito, conviene subito rilevare la fondatezza dell'eccezione dell'Avvocatura dello Stato relativa all'inammissibilità delle censure formulate da numerosi rimettenti in riferimento all'art. 11 Cost. Nessuno di essi, infatti, ha chiarito per quale ragione la violazione di obblighi di diritto internazionale pattizio darebbe luogo a una violazione - oltre che dell'art. 117, primo comma, Cost. - anche dell'art. 11 Cost., che la costante giurisprudenza di questa Corte considera coinvolto allorché vengano in considerazione obblighi derivanti dal diritto dell'Unione europea, rispetto ai quali operano le «limitazioni di sovranità» ivi menzionate.

Tale lacuna motivazionale delle ordinanze di rimessione costituisce causa di inammissibilità delle questioni dalle stesse prospettate (ex plurimis, ordinanza n. 159 del 2021; sentenza n. 37 del 2019, punti 5 e 6 del Considerato in diritto; ordinanze n. 12 del 2017 e n. 29 del 2015), che non può ritenersi sanata dalle considerazioni estesamente svolte nella memoria illustrativa e nella discussione orale in udienza dalla difesa della parte civile del procedimento davanti alla Corte di cassazione, costituita ad adiuvandum, miranti a ricondurre gli obblighi sanciti dalla Convenzione di Mérida all'ambito applicativo del diritto dell'Unione, in forza dell'approvazione della Convenzione stessa da parte dell'allora Comunità europea.

Contrariamente a quanto eccepito dall'Avvocatura generale dello Stato e da numerose parti costituite, devono invece ritenersi ammissibili le doglianze formulate da tutti i rimettenti in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. in relazione alle norme della Convenzione di Mérida.

Tutte queste questioni prospettano l'esistenza di obblighi internazionali derivanti dalla Convenzione, che sarebbero stati violati dalla scelta del legislatore di abrogare, mediante la disposizione censurata, l'incriminazione preesistente. Tanto basta, per le ragioni di seguito chiarite, ad assicurare l'ammissibilità delle questioni, restando poi riservata all'esame del merito ogni valutazione circa l'effettiva sussistenza di tali obblighi sul piano dell'interpretazione del diritto internazionale, e in particolare delle norme della Convenzione specificamente invocate dai rimettenti.

5.3.1.- Come si è poc'anzi rammentato (supra, 5.1.4.), la giurisprudenza di questa Corte considera ammissibili questioni in malam partem in materia penale allorché venga in considerazione il rispetto di «obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell'art. 11 o dell'art. 117, primo comma, Cost.» (così, in particolare, la sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).

L'Avvocatura generale dello Stato e le difese di varie parti costituite ad opponendum sostengono che tale deroga sarebbe unicamente riferibile agli obblighi discendenti dal diritto dell'Unione europea e non, invece, agli obblighi internazionali di natura pattizia, come quelli statuiti dalla Convenzione di Mérida, rispetto ai quali non vi sarebbero precedenti specifici di sindacato costituzionale in malam partem in materia penale.

L'eccezione è infondata, perché: (a) il dato testuale dell'art. 117, primo comma, Cost. equipara i vincoli derivanti dal diritto dell'Unione e quelli statuiti dal diritto internazionale pattizio, dalla violazione di tali obblighi da parte della legge statale o regionale discendendo in entrambi i casi l'illegittimità costituzionale della legge medesima (infra, 5.3.2.); (b) questo meccanismo vale anche per le leggi penali, alla sua operatività non ostando - in particolare - il principio di legalità dei reati e delle pene di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 5.3.3.); (c) il rispetto della ratio anche "democratica" del principio di legalità in materia penale è comunque assicurato dal coinvolgimento del Parlamento nel procedimento di ratifica delle convenzioni internazionali (infra, 5.3.4.).

5.3.2.- L'art. 117, primo comma, Cost., sancisce a carico del legislatore (statale e regionale) il generale obbligo di rispettare i «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario» e gli «obblighi internazionali».

Le due categorie di obblighi sono equiparate quanto agli effetti vincolanti per il legislatore statale e regionale, impregiudicata restando soltanto la diversa estensione dei limiti di tali vincoli, così come precisati dalla giurisprudenza di questa Corte a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007: il nucleo dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana, rispetto ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario (oggi, dell'Unione europea); l'intero corpus delle norme di rango costituzionale, rispetto agli obblighi di diritto internazionale pattizio.

L'effetto della violazione degli obblighi unionali e internazionali da parte della legge, statale o regionale che sia, è però identico, e consiste nella illegittimità costituzionale della stessa, da dichiararsi da parte di questa Corte - salva naturalmente la possibilità per il giudice comune, rispetto al solo diritto dell'Unione europea dotato di effetto diretto, di disapplicare la legge nazionale o regionale che risulti con esso incompatibile (sul tema, da ultime, anche per ulteriori riferimenti alla giurisprudenza recente in materia, sentenza n. 31 del 2025, punto 4.1. del Considerato in diritto; ordinanza n. 21 del 2025, punto 6 del Considerato in diritto; sentenza n. 7 del 2025, punti 2.2.2. e 2.2.3. del Considerato in diritto; sentenza n. 1 del 2025, punto 3 del Considerato in diritto; sentenza n. 181 del 2024, punto 6.5. del Considerato in diritto).

5.3.3.- Questi principi valgono anche per le leggi in materia penale.

Ciò è incontestato per quanto concerne la possibilità per questa Corte di dichiarare l'illegittimità costituzionale di disposizioni penali in contrasto con gli obblighi internazionali, con effetto riduttivo dell'area di rilevanza penale (ad esempio, sentenze n. 150 del 2021 e n. 25 del 2019, dichiarative della parziale illegittimità costituzionale di leggi penali per il loro esclusivo contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. in relazione a norme della CEDU). Ma non vi è ragione per ritenere che i medesimi principi non si applichino allorché questa Corte sia chiamata a censurare il contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione o dal diritto internazionale pattizio (anche diverso dalla CEDU: sentenze n. 120 del 2018, punto 10.1. del Considerato in diritto, e n. 194 del 2018, punto 14 del Considerato in diritto), con effetti potenzialmente espansivi della punibilità rispetto ai limiti fissati dal legislatore.

Come già rammentato, la sentenza n. 28 del 2010 concerneva una situazione in cui il legislatore italiano aveva escluso una particolare categoria di rifiuti - le ceneri di pirite - dalla disciplina generale in materia, e segnatamente dagli obblighi penalmente sanzionati in materia di rifiuti, in contrasto con le pertinenti direttive comunitarie. Questa Corte, ritenendo fondate le censure allora sollevate in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione derogatoria nazionale, provocando così la riespansione della disciplina penale generale in materia di rifiuti: con un effetto, dunque, espansivo della punibilità (e dunque, nella terminologia consolidata, in malam partem).

Lo stesso meccanismo ben può operare anche nei confronti degli obblighi derivanti dal diritto internazionale pattizio, equiparati dallo stesso art. 117, primo comma, Cost. ai vincoli derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea.

All'operare di tale meccanismo - nei confronti tanto degli obblighi unionali, quanto di quelli di natura internazionale pattizia - non osta, segnatamente, il principio di legalità in materia penale di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., sul quale hanno insistito varie parti costituite, anche nella discussione orale in udienza.

Non è dubbio, invero, che il principio di legalità in materia penale costituisca un principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale, idoneo a operare quale "controlimite" rispetto alle stesse limitazioni di sovranità acconsentite dallo Stato italiano ai sensi dell'art. 11 Cost. Proprio muovendo da tale principio questa Corte ha ritenuto che non fosse compatibile con la stessa identità costituzionale italiana una soluzione interpretativa che facesse discendere direttamente da una sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea un effetto di aggravamento della responsabilità penale di un individuo, sub specie di allungamento retroattivo dei termini di prescrizione di un reato, o addirittura di riapertura di un termine di prescrizione già spirato (ordinanza n. 24 del 2017, punti 2 e 5 del Ritenuto in fatto e considerato in diritto; sentenza n. 115 del 2018, punto 10 del Considerato in diritto).

Nessun contrasto con il principio di legalità in materia penale si verifica però allorché una norma di diritto dell'Unione o - per quanto qui più direttamente rileva - una norma di diritto internazionale pattizio si limiti a imporre un obbligo di criminalizzazione, cioè a vincolare il legislatore nazionale a introdurre o mantenere nel proprio ordinamento una legge penale che incrimini una data tipologia di condotta.

In tale ipotesi, infatti, la responsabilità penale di un individuo non discenderà direttamente dall'atto di diritto dell'Unione o dall'obbligo internazionale. La responsabilità penale individuale si fonderà, invece, unicamente sulla legge nazionale attuativa dell'obbligo internazionale, una volta che questa sia stata effettivamente introdotta nell'ordinamento dal legislatore nazionale.

Laddove poi - come auspicato dagli odierni rimettenti - questa Corte dovesse dichiarare l'illegittimità costituzionale di una legge abrogativa di una legge penale rispettosa di un obbligo unionale o internazionale di criminalizzazione, ritenendo che la sua abrogazione contravvenga a tale obbligo, l'effetto della sentenza sarebbe semplicemente quello di ripristinare la vigenza di una legge nazionale abrogata illegittimamente, perché in violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.: esattamente come accaduto più volte in passato, allorché le sentenze di questa Corte hanno ripristinato la vigenza di leggi penali abrogate dal legislatore in violazione delle norme costituzionali in materia di formazione delle leggi (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014). Proprio come in quei casi, dopo la sentenza della Corte la responsabilità penale degli individui continuerebbe a fondarsi sull'originaria disciplina stabilita dal legislatore, e dunque a essere basata sulla legge statale vigente al momento del fatto; nel rispetto, peraltro, del principio di garanzia che esclude l'applicabilità della legge ripristinata ai fatti commessi durante il periodo di vigenza della legge abrogativa poi dichiarata incostituzionale dalla Corte (sul punto, supra, 5.1.5.). In piena consonanza, dunque, tanto con la riserva di legge, quanto con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale, entrambi corollari del principio di legalità di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.

5.3.4.- Nemmeno può ritenersi, come sostenuto da taluna delle parti costituite, che la ratio anche "democratica" della riserva di legge in materia penale - che vuole affidato al Parlamento, quale istituzione rappresentativa dell'intera comunità nazionale, il compito di valutare se apprestare una sanzione penale per proteggere determinati beni giuridici - venga in effetti svuotata, laddove si riconosca alle fonti unionali e internazionali una legittimazione a dettare indicazioni vincolanti per il legislatore nazionale in materia penale.

Gli obblighi di criminalizzazione stabiliti dal diritto internazionale pattizio sono infatti liberamente accettati dallo stesso Parlamento per il tramite della legge che autorizza la ratifica dei singoli trattati, la quale può altresì indicare al Governo di apporre riserve e dichiarazioni, nei limiti consentiti dal diritto internazionale, in ordine a loro specifiche previsioni all'atto della ratifica. Si deve dunque ritenere che, autorizzando tout court la ratifica, il Parlamento abbia consapevolmente condiviso le scelte compiute dallo strumento pattizio negoziato dal Governo con gli altri Stati firmatari (anche) in merito all'an e alle specifiche condizioni della criminalizzazione, o non criminalizzazione, di determinate condotte; e abbia così accettato di assumere, anche rispetto a tali scelte, impegni giuridicamente vincolanti nei confronti delle altre Parti contraenti, contestualmente assoggettando la propria successiva produzione normativa al rispetto degli obblighi medesimi ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost.

Né potrebbe predicarsi, come ancora paventato da talune difese delle parti costituite, una sorta di "tirannia" degli obblighi internazionali sul principio di legalità penale, o di "espropriazione" della riserva di legge, sulla base dell'argomento che - una volta assunto un obbligo internazionale di criminalizzazione - non sarebbe più concesso al legislatore modificare le sue scelte di politica criminale. Vero è, infatti, che dopo la ratifica di un trattato il legislatore italiano è vincolato agli obblighi dallo stesso derivanti ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost., anche nella materia penale; ma ciò non preclude allo Stato di discostarsi in seguito da tali obblighi con le modalità previste dallo stesso diritto internazionale, e in particolare promuovendo un emendamento al trattato, ovvero denunciandolo. Evento che si può verificare anche grazie all'intervento del Parlamento, nell'esercizio della sua essenziale funzione di indirizzo e controllo.

Rispetto in particolare alla Convenzione di Mérida, che qui viene in considerazione, con la legge n. 116 del 2009 il Parlamento ne ha autorizzato la ratifica senza formulare alcuna riserva, ordinandone contestualmente la piena e intera esecuzione: e ciò in esito a un dibattito parlamentare, sfociato in una legge di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione, che ha modificato in più punti il quadro normativo nazionale proprio per conformarsi agli obblighi assunti con la Convenzione.

Tali obblighi debbono, pertanto, essere oggi considerati vincolanti per il legislatore italiano ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost., nella misura - naturalmente - in cui risultino compatibili con l'insieme dei superiori principi costituzionali.

6.- In conclusione, devono essere dichiarate inammissibili tutte le censure formulate dai rimettenti in riferimento agli artt. 3, 11 e 97 Cost.

Devono, invece, essere ritenute ammissibili, e vanno esaminate nel merito, tutte le censure formulate dai rimettenti in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle previsioni della Convenzione di Mérida da essi evocate.

7.- Tali censure non sono fondate.

7.1.- I rimettenti, nel loro complesso, riconoscono che l'unica disposizione della Convenzione specificamente dedicata all'abuso d'ufficio («Abuse of functions», nella versione ufficiale inglese) è l'art. 19; e giustamente osservano che tale disposizione si limita a statuire che gli Stati parte hanno l'obbligo di considerare («shall consider adopting») la criminalizzazione di condotte in larga misura corrispondenti a quelle coperte dall'abrogata disposizione di cui all'art. 323 cod. pen.

A differenza dunque di altre disposizioni della Convenzione che impongono agli Stati parte un preciso obbligo di criminalizzazione (in particolare, gli artt. 15 e 16 in materia di corruzione, l'art. 17 in materia di peculato, l'art. 23 in materia di riciclaggio, l'art. 25 in materia di intralcio alla giustizia), l'art. 19 configura semplicemente - nel linguaggio della Legislative guide alla Convenzione, elaborata dall'United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) - una «non-mandatory offence»: e cioè una condotta la cui possibile criminalizzazione gli Stati hanno il mero obbligo (procedurale) di «considerare».

Secondo le ordinanze di rimessione iscritte ai numeri 201 e 233 reg. ord. del 2024, tuttavia, tale obbligo di «considerare» alluderebbe soltanto all'obbligo di verificare che l'introduzione del reato in questione sia compatibile con il sistema giuridico nazionale; di talché, in caso di riscontrata compatibilità, il legislatore dovrebbe senz'altro ritenersi obbligato a introdurre il reato nel proprio ordinamento, o se del caso a mantenerlo.

A parere invece delle altre undici ordinanze di rimessione provenienti dai giudici di merito, l'obbligo statuito dall'art. 19 dovrebbe leggersi in combinato disposto con altre disposizioni della Convenzione e con la ratio complessiva di quest'ultima, sì da comportare - se non l'obbligo di introdurre ex novo il reato, per gli ordinamenti che non lo contemplavano al momento della ratifica della Convenzione - quanto meno un obbligo di "non regressione" nella tutela penale, e dunque un divieto di abrogare la corrispondente incriminazione, ove già esistente.

Le ordinanze di rimessione fanno leva, in proposito:

- sull'art. 1, che include nelle finalità della convenzione «la promozione e il rafforzamento delle misure volte a prevenire e combattere la corruzione in modo più efficace», tra le quali si collocherebbero la criminalizzazione di condotte preparatorie o in vario modo collegate alla corruzione vera e propria, come quelle di abuso delle funzioni pubbliche;

- sull'art. 5, che impegna gli Stati parte a elaborare, applicare e mantenere «politiche di prevenzione contro la corruzione efficaci e coordinate che [...] rispecchino i principi dello stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d'integrità, di trasparenza e di responsabilità»;

- sull'art. 65, paragrafo 1, da cui discende il generale obbligo degli Stati di adottare tutte le misure necessarie, incluse quelle di natura legislativa, per assicurare l'esecuzione degli obblighi convenzionali;

- sull'art. 65, paragrafo 2, da cui si desume il principio secondo cui gli Stati possono adottare misure più severe di quelle previste dalla Convenzione; nonché, soprattutto,

- sull'art. 7, paragrafo 4, che stabilisce l'obbligo a carico degli Stati di adoperarsi, «conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti d'interesse».

Abolendo il delitto di abuso d'ufficio - questa la conclusione dei rimettenti - lo Stato italiano avrebbe dunque violato i propri obblighi convenzionali, segnatamente quello - sancito dall'art. 7, paragrafo 4, da ultimo citato - di «mantenere e rafforzare» i sistemi esistenti finalizzati a promuovere la trasparenza nella pubblica amministrazione e a prevenire i conflitti di interessi.

7.2.- Dal canto suo, la Corte di cassazione assume - nella propria ordinanza di rimessione - che dall'art. 7, paragrafo 4, della Convenzione si evincerebbe non tanto un assoluto divieto di abolire l'incriminazione dell'abuso d'ufficio a carico di quegli Stati che, come l'Italia, già contemplassero questo reato nel proprio sistema penale; quanto, piuttosto, un obbligo di mantenere i complessivi standard di efficace attuazione della UNCAC, in particolare dei sistemi di prevenzione della corruzione. Sicché la censurata abolizione del reato si sarebbe posta in contrasto con tale obbligo in quanto non accompagnata, in concreto, da misure compensative in grado di assicurare un livello di tutela almeno equivalente a quello garantito, sino a quel momento, dall'incriminazione in parola; ciò che avrebbe realizzato, pertanto, un regresso netto nella efficace attuazione degli obblighi convenzionali da parte dello Stato italiano.

7.3.- Questa Corte, tuttavia, non è persuasa da alcuno di tali argomenti.

7.3.1.- Anzitutto, nessun elemento evincibile dal testo o dalla ratio dell'art. 19 della Convenzione autorizza a concludere che lo Stato sarebbe obbligato a introdurre (o a mantenere) nel proprio ordinamento l'incriminazione delle condotte di abuso di ufficio, alla sola condizione che tale incriminazione risulti compatibile con i principi generali dell'ordinamento nazionale.

L'inequivoco testo della disposizione enuncia un mero obbligo di "considerare" tale introduzione: e dunque non solo di assicurarsi della compatibilità dell'incriminazione con i principi generali dell'ordinamento penale nazionale (il che non è in discussione rispetto all'abuso d'ufficio, a differenza di quanto accade per altre più problematiche fattispecie penali, come quella di arricchimento illecito di cui al successivo art. 20); ma anche di valutare attentamente i pro e i contra di tale opzione.

In effetti, ogni scelta di criminalizzazione presenta ovvi vantaggi, in termini di più energica tutela degli interessi lesi dalla condotta che si voglia sottoporre a sanzione penale, ma anche una nutrita serie di svantaggi, quanto alla sua sicura incidenza sui diritti fondamentali dei destinatari del precetto, nonché ai suoi effetti collaterali a danno di altri interessi collettivi - come il possibile chilling effect rispetto a condotte lecite e anzi utili dal punto di vista sociale (in particolare, con riferimento ai rischi di "burocrazia difensiva" connessi all'incriminazione dell'abuso d'ufficio, sentenza n. 8 del 2022, punto 2.4. del Considerato in diritto).

La Convenzione ha scelto di affidare la valutazione comparativa dei benefici attesi e delle conseguenze negative dell'incriminazione delle condotte di abuso d'ufficio alla prudente discrezionalità del legislatore di ogni Stato; e ciò anche a fronte della varietà di soluzioni sul punto presenti negli ordinamenti penali degli Stati firmatari. Circostanza, quest'ultima, che - come risulta dai lavori preparatori della Convenzione - ha indotto gli Stati firmatari a trasformare le originarie proposte di introdurre un vero e proprio obbligo di incriminazione di questa specifica condotta, formulate da Messico, Colombia e Turchia, in un mero obbligo di "considerare" tale soluzione, recependo così una proposta formulata dalla Croazia in coordinamento con il Canada e con la stessa delegazione italiana (UNODC, Travaux préparatoires of the negotiations for the elaboration of the United Nations Convention Against Corruption, United Nations Publications, 2010, p. 191-193).

A questo punto, ciò che unicamente rileva, dal punto di vista della Convenzione, è che lo Stato adempia l'obbligazione (concepita come di mezzi, non già di risultato) di valutare attentamente la possibilità di dotarsi dell'incriminazione in parola, a fronte della complessità dei fattori in gioco e della rilevanza di tutti gli interessi coinvolti.

D'altra parte, non vi è alcuna ragione per ritenere che, una volta compiuta - prima o dopo la ratifica della Convenzione - la scelta di incriminare le condotte di abuso d'ufficio, lo stesso art. 19 precluda allo Stato di ritornare sui propri passi, e di (ri)considerare i pro e i contra dell'incriminazione, eventualmente pervenendo alla conclusione di abolirla.

Ciò è per l'appunto accaduto nel nostro Paese, in occasione dell'approvazione della disposizione qui censurata, la cui ratio è esplicitata nei lavori preparatori, in particolare nella relazione illustrativa al disegno di legge A. S. n. 808 - XIX Legislatura, di iniziativa governativa. In tale relazione si sottolinea l'opportunità di porre rimedio al persistente «squilibrio tra le iscrizioni della notizia di reato e decisioni di merito» relative alla figura criminosa in questione, rimasto sostanzialmente invariato anche dopo le modifiche legislative volte a realizzare una più rigorosa tipizzazione della fattispecie; si valorizza l'esistenza di un articolato sistema nazionale di repressione e prevenzione della «malpractice nel settore pubblico», composto da una vasta gamma di incriminazioni e un ventaglio di strumenti in funzione preventiva, tra i quali i piani anticorruzione e la vigilanza dell'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC); e si esprime l'intenzione di recuperare «risorse al sistema, non impegnando inutilmente l'apparato giudiziario e sollevando l'azione amministrativa ed il singolo indagato dalle ricadute negative derivanti da iscrizioni per fatti che risultano non rientrare in alcuna categoria di illecito penale». Valutazioni, tutte, attraverso le quali si deve ritenere adempiuto quell'obbligo di "considerazione" che unicamente discende dall'art. 19 della Convenzione, e rispetto al cui esito la stessa disposizione convenzionale si rimette alla discrezionalità del legislatore nazionale.

7.3.2.- Proprio nella consapevolezza dell'impossibilità di derivare un divieto di abrogazione della previgente disposizione incriminatrice dall'art. 19, la maggior parte delle ordinanze di rimessione - ivi compresa quella della Corte di cassazione - fondano le rispettive argomentazioni sul combinato disposto dell'art. 19 con altre previsioni della Convenzione, in particolare attribuendo un rilievo centrale al suo art. 7, paragrafo 4.

Tuttavia, quest'ultima disposizione deve essere letta nelle sue connessioni sistematiche con i paragrafi precedenti. L'art. 7, paragrafo 1, obbliga gli Stati a adoperarsi («endeavour») per adottare, mantenere e rafforzare sistemi di assunzione e gestione delle risorse umane nel pubblico impiego improntati a principi di efficienza, trasparenza e a criteri oggettivi, quali il merito, l'eguaglianza e le attitudini (paragrafo 1, lettera a). Tali sistemi devono includere procedure adeguate di selezione e formazione per le persone particolarmente esposte al rischio di corruzione e, se opportuno, la rotazione nelle rispettive posizioni (lettera b); devono promuovere la retribuzione adeguata degli agenti pubblici non elettivi (lettera c) e devono organizzare programmi di formazione che li rendano capaci di svolgere la funzione pubblica in modo corretto, onorevole e appropriato (lettera d). I successivi paragrafi 2 e 3, pur con formulazione meno stringente («shall also consider adopting», «shall also consider taking»), obbligano gli Stati a "considerare" l'adozione di criteri per le candidature agli uffici elettivi e per la trasparenza del finanziamento dei partiti politici. Il paragrafo 4, infine, dispone: «Each State Party shall, in accordance with the fundamental principles of its domestic law, endeavour to adopt, maintain and strengthen systems that promote transparency and prevent conflicts of interest».

Dunque, nel suo complesso l'art. 7 si occupa delle misure volte a prevenire la corruzione tramite l'applicazione di principi di efficienza, competenza e trasparenza nel settore pubblico, a tal fine imponendo agli Stati, attraverso il paragrafo 4, l'obbligo di adoperarsi per «adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse».

Che da tale disposizione, e in particolare dal paragrafo 4, sia desumibile implicitamente anche un "divieto di regressione" (o obbligo di "stand still") nella repressione dell'abuso d'ufficio - divieto che si estrinsecherebbe in un divieto assoluto di abrogare la relativa incriminazione ove prevista nell'ordinamento dello Stato firmatario al momento della ratifica della Convenzione, o almeno, come sostenuto nell'ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, in un divieto di abrogare l'incriminazione in assenza di misure compensatorie - è però smentito dai seguenti argomenti:

- l'intero art. 7 è inserito nel Capitolo II della Convenzione, in cui sono disciplinati gli obblighi relativi ai sistemi di «prevenzione» della corruzione, mentre gli obblighi repressivi di natura penale sono disciplinati dal successivo Capitolo III (in cui è invece collocato il già esaminato art. 19);

- in ogni caso, l'art. 7, paragrafo 4, non impone alcuna specifica misura allo Stato contraente, lasciando allo stesso ampia discrezionalità rispetto all'obiettivo di introdurre, mantenere e rinforzare i sistemi di prevenzione della corruzione;

- i «sistemi» cui si riferisce l'art. 7, paragrafo 4, peraltro, sono unicamente quelli finalizzati alla promozione della «trasparenza» e alla prevenzione dei «conflitti di interessi». Il primo obiettivo era del tutto estraneo alla sfera di tutela dell'abrogata incriminazione dell'abuso d'ufficio; mentre il secondo interferiva solo tangenzialmente - come possibile modalità della condotta - con tale incriminazione, incentrata primariamente sul risultato di danno al privato o di ingiusto vantaggio per il pubblico agente.

In un simile contesto, è assai arduo - come rilevato in dottrina, nonché da varie difese degli imputati - ipotizzare che dagli obblighi di natura puramente preventiva di cui all'art. 7, paragrafo 4, possa derivarsi in via interpretativa il divieto di abrogare una disposizione incriminatrice, la cui introduzione la stessa Convenzione rinuncia espressamente, nella naturale sedes materiae dedicata agli obblighi di natura penale, a indicare come doverosa per gli Stati parte.

Né risulta persuasiva l'ipotesi ermeneutica formulata dalla Corte di cassazione, secondo cui, in forza dell'art. 7, paragrafo 4, lo Stato che decidesse di abrogare l'incriminazione già esistente dell'abuso d'ufficio sarebbe tenuto a adottare misure compensatorie per mantenere il preesistente livello di promozione della trasparenza e della prevenzione dei conflitti di interessi. Infatti, anche ipotizzando che l'abrogato art. 323 cod. pen. potesse interpretarsi quale strumento funzionale a prevenire i conflitti di interesse nella pubblica amministrazione, dalla disposizione convenzionale in esame non pare evincibile alcun obbligo di risultato, il cui conseguimento possa essere valutato da questa Corte in sede di giudizio di legittimità costituzionale. Il contenuto precettivo di tale disposizione si esaurisce piuttosto - come evidenziato dal suo dato testuale, imperniato sul verbo «shall endeavour» - nell'obbligare lo Stato ad "adoperarsi" per raggiungere gli obiettivi indicati: senza imporgli però di adottare alcuno specifico mezzo, e in ogni caso senza fissare alcun preciso standard di efficacia dei meccanismi preventivi.

7.3.3.- Né, infine, uno scrutinio di questa Corte sulla complessiva efficacia del sistema di prevenzione e di repressione delle condotte illegittime dei pubblici agenti potrebbe legittimarsi sulla base delle altre disposizioni della Convenzione evocate da taluni rimettenti, sulle quali nemmeno può fondarsi l'ipotetico divieto di regressione, o obbligo di "stand still", che gli stessi rimettenti ipotizzano.

Quanto all'art. 1, si tratta di disposizione meramente programmatica che enuncia le finalità della Convenzione: il cui concreto contenuto precettivo per gli Stati parte deriva però esclusivamente dalle successive disposizioni, tra le quali l'art. 19 più sopra esaminato.

Quanto all'art. 5, rubricato «Politiche e pratiche di prevenzione della corruzione» e anch'esso collocato, come l'art. 7, nel Capitolo II dedicato alle «Misure preventive», si tratta di previsione che si limita a descrivere ad ampio spettro gli obblighi degli Stati di adoperarsi allo scopo di prevenire le pratiche corruttive, senza però direttamente prescrivere alcuna specifica misura, tanto meno nella materia penale, regolata dal successivo Capitolo III.

Quanto, infine, all'art. 65, collocato tra le «Disposizioni finali», esso prevede al paragrafo 1 l'obbligo per ciascuno Stato parte di adottare le misure necessarie «per assicurare l'esecuzione dei suoi obblighi ai sensi della presente Convenzione», in quanto definiti però dalle disposizioni che precedono - tra cui, naturalmente, l'art. 19, nei limiti da esso fissati -, senza imporre esso stesso nuovi obblighi. Al paragrafo 2 si chiarisce poi che «[c]iascuno Stato Parte può adottare misure più restrittive o severe di quelle previste dalla presente Convenzione»: senza che con ciò si introduca alcun obbligo aggiuntivo per gli Stati, e soprattutto senza che si stabilisca - in difetto di qualsiasi appiglio testuale che possa avvalorare una tale conclusione, che limiterebbe incisivamente la discrezionalità del Parlamento nello svolgimento della propria politica criminale - alcun divieto di regresso rispetto alle misure di tutela penale che gli Stati avessero scelto autonomamente di adottare. Lasciando così sempre aperta, anche in tale ipotesi, la possibilità per lo Stato di liberamente riconsiderare le misure di tutela già adottate (per la medesima conclusione, nell'ambito del diritto internazionale dei diritti umani, Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 7 dicembre 2021, Filat contro Moldavia, paragrafo 33, ove si nega l'esistenza di un obbligo di non regressione rispetto a scelte di tutela più avanzata dei diritti rispetto agli standard convenzionali, che pure lo Stato parte è certamente libero di compiere ai sensi dell'art. 53 CEDU).

7.3.4.- Non occorre, infine, esaminare nel dettaglio le ulteriori disposizioni della Convenzione evocate dalla parte civile del giudizio iscritto al n. 50 reg. ord. del 2025 costituitasi innanzi a questa Corte, alla luce del costante orientamento secondo cui intervenienti e parti del giudizio di legittimità costituzionale non possono ampliare il thema decidendum cristallizzato nell'ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenza n. 198 del 2022, punto 5.1 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).

8.- In definitiva, questa Corte ritiene di non potere, sulla base dei parametri evocati, sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante dall'abolizione del delitto di abuso d'ufficio, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore.

Se gli indubbi vuoti di tutela penale che derivano dall'abolizione del reato - emblematicamente illustrati dalle vicende oggetto dei quattordici giudizi a quibus - possano ritenersi o meno compensati dai benefici che il legislatore si è ripromesso di ottenere, secondo quanto puntualmente illustrato nei lavori preparatori della riforma, è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi a questa Corte al metro dei parametri costituzionali e internazionali esaminati.

9.- Un'ultima precisazione appare opportuna.

Come si è chiarito, né il tenore letterale delle disposizioni della Convenzione di Mérida evocate dai rimettenti, né la loro ratio e collocazione sistematica, né - ancora - i relativi travaux préparatoires supportano in alcun modo la tesi secondo cui dalla Convenzione stessa deriverebbe un obbligo di introdurre il reato di abuso di ufficio o un divieto di abrogare la disposizione incriminatrice eventualmente già prevista nell'ordinamento interno. L'inesistenza, a giudizio di questa Corte, di un dubbio interpretativo in proposito dispensa dal valutare la possibilità, sulla quale ha insistito la parte civile costituita ad adiuvandum, di formulare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea avente a oggetto l'interpretazione di dette disposizioni, che peraltro vincolano l'Unione nei soli limiti delle sue competenze: rinvio pregiudiziale che, secondo la stessa parte civile, sarebbe possibile in conseguenza dell'avvenuta approvazione della Convenzione da parte dell'allora Comunità europea, in forza della decisione del Consiglio del 25 settembre 2008 (2008/801/CE).

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare), sollevate, complessivamente in riferimento agli artt. 3, 11 e 97 della Costituzione, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Locri, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale, dal Tribunale ordinario di Busto Arsizio, sezione penale, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze, dal Tribunale ordinario di Teramo, dal Tribunale ordinario di Locri, sezione penale, dal Tribunale ordinario di Catania, sezione seconda penale, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma e dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale, con le ordinanze indicate in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera b), della legge n. 114 del 2024, sollevate, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., complessivamente in relazione agli artt. 1, 5, 7, paragrafo 4, 19 e 65, paragrafo 1, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall'Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 agosto 2009, n. 116, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Locri, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale, dal Tribunale ordinario di Busto Arsizio, sezione penale, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze, dal Tribunale ordinario di Teramo, dal Tribunale ordinario di Locri, sezione penale, dal Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, dal Tribunale ordinario di Catania, sezione seconda penale, dal Tribunale ordinario di Modena, sezione penale, dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma e dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, con le ordinanze indicate in epigrafe.