Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 20 giugno 2017, n. 31714
Presidente: Carcano - Estensore: Aprile
RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento impugnato, il Tribunale di Bologna, in funzione di giudice dell'esecuzione, ha rigettato la richiesta avanzata nell'interesse di Sandro F. volta a ottenere la rideterminazione della pena inflitta con quattro sentenze, in ragione della sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 2015 che ha dichiarato la illegittimità costituzionale delle parole «è obbligatorio» contenute nell'art. 99, comma quinto, c.p., evidenziando che, ad eccezione della sentenza del Tribunale di Torino del 3 novembre 2004, nella quale non era stata contestata la recidiva obbligatoria, in tutti gli altri titoli oggetto del procedimento di esecuzione i giudici di merito avevano effettuato il giudizio di bilanciamento in termini di equivalenza delle circostanze attenuanti con la recidiva obbligatoria.
2. Ricorre Sandro F., personalmente, che chiede l'annullamento dell'ordinanza impugnata - limitatamente alla mancata rideterminazione della pena in relazione alla sentenza della Corte d'appello di Torino del 24 febbraio 2010, in parziale riforma della sentenza dell'11 giugno 2009 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino -, lamentando la violazione di legge con riferimento all'art. 99 c.p., e il vizio di motivazione poiché la contestata recidiva obbligatoria era stata comunque considerata nel trattamento sanzionatorio, tanto che veniva fornita una motivazione insufficiente e contraddittoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Osserva il Collegio che il ricorso appare infondato.
2. Va premesso che la recidiva prevista dall'art. 99, comma quinto, c.p., ha perso la connotazione di obbligatorietà in seguito all'intervento della Corte costituzionale che con la sentenza n. 185 del 2015 ha dichiarato l'illegittimità della norma, rilevando l'irragionevolezza dell'automatismo originariamente previsto dal legislatore, che si risolveva in una presunzione assoluta di maggiore colpevolezza dell'imputato incompatibile con i precetti costituzionali.
L'automatismo sanzionatorio è stato ritenuto privo di ragionevolezza, perché «inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice, prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo».
La previsione di un aumento obbligatorio di pena esclusivamente legato al dato formale del titolo del reato, senza alcun accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso, è stata ritenuta dalla Corte costituzionale contrastante con il principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, atteso che la preclusione dell'accertamento della sussistenza delle condizioni che dovrebbero legittimare l'applicazione della recidiva poteva rendere la pena palesemente sproporzionata all'effettivo disvalore della condotta illecita presupposta.
È, pertanto, divenuta illegittima l'applicazione «meccanica» della recidiva di cui all'art. 99, comma quinto, c.p., laddove il giudice della cognizione abbia cioè applicato l'aumento «in quanto obbligatorio», poiché nel diverso caso in cui il giudice della cognizione abbia motivato in concreto sulla rilevanza del nuovo episodio non vi è questione alcuna.
L'applicazione «automatica» rende, invece, incostituzionale la «frazione» di pena riferibile all'aumento per recidiva, con generale rilievo ai sensi dell'art. 30 l. n. 87 del 1953.
3. Per comprendere quali siano i poteri del giudice dell'esecuzione è utile ripercorrere alcuni passaggi della motivazione di Sez. un., sentenza n. 42858 del 29 maggio 2014, P.M. in proc. Gatto, laddove viene preso in esame il divieto normativo che inibiva al giudice la possibilità di trarre dalle sue autonome valutazioni il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, così come prevedeva l'art. 3 della l. 5 dicembre 2005, n. 251, che modificò il quarto comma dell'art. 69 c.p.: la norma, in tema di giudizio di bilanciamento di circostanze eterogenee, stabiliva il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella prevista dall'art. 99, quarto comma, c.p.
In tale contesto, è stata giudicata illegittima l'esecuzione della pena, nella parte in cui deriva dall'applicazione dell'art. 69, quarto comma, c.p. come modificato dall'art. 3 della l. 5 dicembre 2005.
Il compito di rimuovere tale illegittimità è stato attribuito al giudice dell'esecuzione, che deve procedere a quel giudizio di valenza che era stato illegittimamente inibito al giudice della cognizione dal divieto ritenuto costituzionalmente illegittimo.
Correlativamente, in situazioni siffatte, ai sensi degli artt. 655, 656 e 666 c.p.p., si è affermato che compete al Pubblico ministero, nell'ambito delle sue funzioni istituzionali di vigilanza sulla «osservanza delle leggi» e dello specifico compito di promozione dell'esecuzione penale «nei casi stabiliti dalla legge» (art. 73, comma primo, ord. giud.), di richiedere al giudice dell'esecuzione, sia all'atto di promovimento dell'esecuzione sia nel corso di questa, l'eventuale rideterminazione della pena inflitta.
4. La maggiore latitudine dei poteri di cui è stato dotato il giudice dell'esecuzione è stata ribadita dalla Corte costituzionale (sentenza n. 210 del 2013), che, nell'esaminare la rilevanza della questione sollevata dalle Sezioni unite, ha condiviso l'individuazione dei possibili strumenti di intervento in executivis nelle disposizioni del codice di procedura penale che disciplinano i poteri del giudice dell'esecuzione, «che non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 c.p.p.)».
In coerenza, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che alla giurisdizione esecutiva sono riconosciuti «ampi margini di manovra», non circoscritti alla sola verifica della validità e dell'efficacia del titolo esecutivo, ma incidenti anche sul contenuto di esso, «allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l'irrevocabilità della sentenza, lo esigano»; e ha affermato che il procedimento di esecuzione è il mezzo con cui investire il giudice dell'esecuzione «di tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l'esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo» (Sez. un., n. 18821 del 2014, Ercolano, cit.).
A tale conclusione non può opporsi una supposta carenza di poteri valutativi da parte del giudice dell'esecuzione giacché, da un lato, penetranti poteri di accertamento e di valutazione, ben più complessi di quelli richiesti da un giudizio di valutazione di circostanze, sono stati espressamente attribuiti dal legislatore a tale organo in materia di concorso formale e reato continuato (art. 671 c.p.p.).
5. Nel caso in esame, il giudice dell'esecuzione è chiamato a intervenire per rimediare a un limite normativo di operatività, imposto dalla disposizione poi ritenuta costituzionalmente illegittima, che esonerava il giudice della cognizione di procedere al giudizio di incidenza della recidiva nel caso di cui all'art. 99, comma quinto, c.p.
La possibilità di avvalersi di poteri valutativi non si fonda soltanto su quanto il legislatore ha specificamente previsto con gli artt. 671 e 675 c.p.p., ma anche, come è stato già affermato da questa Corte, sulla razionalità del sistema processuale: infatti, una volta «che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima funzione» (Sez. un., n. 4687 del 2006, Catanzaro, cit.).
Ovviamente, nell'esercizio di tale potere-dovere, il giudice dell'esecuzione non ha la stessa libertà del giudice della cognizione, dovendo procedere - non diversamente da quanto è previsto negli artt. 671 e 675 c.p.p., - nei limiti in cui gli è consentito dalla pronuncia di cognizione, ossia potrà pervenire alla valutazione sempre che la stessa non sia stata precedentemente esclusa nel giudizio di cognizione per ragioni di merito: in sintesi, le valutazioni del giudice dell'esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile.
Tali valutazioni potranno essere assunte, se necessario, mediante l'esame degli atti processuali, ai sensi dell'art. 666, comma 5, c.p.p., che autorizza il giudice ad acquisire i documenti e le informazioni necessari e, quando occorre, ad assumere prove nel rispetto del principio del contraddittorio.
Nella cornice ermeneutica descritta nel paragrafo precedente, deve affermarsi il seguente principio: il giudice dell'esecuzione, garante della legalità anche nella fase esecutiva, è chiamato a sostituire la valutazione non espressa dal giudice della cognizione sulla base della norma illegittima con una nuova valutazione sulla base della normativa emersa a seguito della sentenza della Corte costituzionale, con l'unico limite di non smentire quanto il giudice della cognizione ha affermato o accertato.
6. Deve, dunque, rilevarsi che il provvedimento impugnato risulta adottato dal giudice dell'esecuzione nel rispetto delle risultanze processuali, sulla base delle quali, nel giudizio di merito presupposto, era stata applicata al ricorrente la recidiva specifica contestata attraverso una valutazione della sua personalità congrua e conforme alla giurisprudenza consolidata di questa Corte.
Da tale corretto inquadramento della condizione di recidivo, il giudice dell'esecuzione faceva discendere la congruità della determinazione della pena irrogata che veniva giudicata conforme ai parametri ermeneutici affermati dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 15362 del 12 gennaio 2016, Gaccione, Rv. 266564; Sez. 1, n. 32193 del 28 maggio 2015, Quaresima, Rv. 264257).
Il giudice dell'esecuzione ha evidenziato che la condanna alla pena da ultimo riportata dal ricorrente non poteva essere valutata isolatamente, ma doveva essere correlata ai precedenti penali del condannato che, nel caso in esame, risultavano correttamente vagliati.
Ricostruita in questi termini la personalità del ricorrente, occorre ribadire la congruità del percorso motivazionale seguito dal giudice dell'esecuzione nel rigettare la richiesta di rideterminazione della pena avanzata dal condannato, atteso che la sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 2015 non impone di escludere la recidiva obbligatoria solo perché, a suo tempo, ritenuta sulla scorta di presupposti diversi da quelli conseguenti alla declaratoria di incostituzionalità richiamata, che non ha riformato, nella sua interezza, la previsione dell'art. 99, comma quinto, c.p., ma si è limitata a escludere l'obbligatorietà dell'aggravante per determinati reati.
Ne discende conclusivamente che, tenuto conto degli indici sintomatici che si sono richiamati, a proposito della personalità del ricorrente, l'aumento di pena per la recidiva obbligatoria irrogato nel giudizio di merito deve ritenersi rispettoso dei parametri ermeneutici affermati da questa Corte e congruo nella sua quantificazione dosimetrica.
Sul punto, è sufficiente richiamare il seguente principio di diritto: «In tema di recidiva reiterata, prevista dall'art. 99, comma quinto, c.p. in relazione alla commissione dei reati di cui all'art. 407, comma secondo, lett. a), c.p.p., l'aumento di pena deve ritenersi legittimamente disposto - anche se in data anteriore alla sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 2015, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del carattere obbligatorio dell'aumento stesso - qualora risulti adeguatamente motivato in relazione alla gravità della condotta, alla negativa personalità dell'imputato ed alla pericolosità sociale di quest'ultimo» (cfr. Sez. 2, n. 20205 del 26 aprile 2016, Bonaccorsi, Rv. 266679).
7. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Depositata il 28 giugno 2017.