Consiglio di Stato
Adunanza plenaria
Sentenza 24 maggio 2024, n. 12

Presidente: Torsello - Estensore: Simeoli

FATTO

1. I fatti rilevanti ai fini del decidere possono essere così riassunti:

- gli odierni appellanti e ricorrenti in ottemperanza, vincitori del concorso per Consigliere di Stato di cui all'articolo 19, primo comma, n. 3, della legge 27 aprile 1982, n. 186, presentavano nella seconda metà degli anni novanta del secolo scorso istanza di percezione del maggior trattamento economico previsto dall'art. 4, comma 9, legge 6 agosto 1984, n. 425 (c.d. "allineamento stipendiale"), disposizione ai sensi della quale «[i]n ogni caso, agli effetti di quanto previsto dal quinto e sesto comma, per il personale che ha conseguito la nomina a magistrato di corte d'appello o a magistrato di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio 1963, n. 1, e successive modificazioni ed integrazioni, l'anzianità viene determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo segue nel ruolo»;

- i rispettivi dinieghi del Segretariato generale del Consiglio di Stato venivano impugnati con distinti ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, i quali venivano accolti con coevi decreti del 27 settembre 1999, sulla scorta del parere favorevole espresso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato in data 12 febbraio 1998;

- il Consiglio di Stato, adito in sede di ottemperanza per l'esecuzione dei decreti decisori dei ricorsi straordinari, li accoglieva - con le sentenze della Quarta Sezione n. 6695 (per il consigliere Maruotti), n. 6697 (per il consigliere Lipari), n. 6700 (per il consigliere De Nictolis), n. 6701 (per il consigliere Severini), n. 6702 (per il consigliere Volpe), n. 6703 (per il consigliere Botto), n. 6704 (per il consigliere Cirillo), n. 6705 (per il consigliere Barra Caracciolo), tutte pubblicate in data 15 dicembre 2000, e n. 6843 del 20 dicembre 2000 (per il consigliere Carbone) - disponendo che le resistenti Amministrazioni (la Presidenza del Consiglio dei ministri ed il Consiglio di Stato) attribuissero ai ricorrenti le spettanze economiche richieste;

- sennonché, la Corte di cassazione, con le sentenze n. 15978 del 18 dicembre 2001 e n. 1008-1014 del 28 gennaio 2002, annullava senza rinvio otto delle nove pronunce del Consiglio di Stato (ossia tutte quelle che erano state pubblicate il 15 dicembre 2000), relative, rispettivamente, ai consiglieri Maruotti, Volpe, Severini, Cirillo, Lipari, Botto, Barra Caracciolo e De Nictolis, per difetto di giurisdizione, stante la ritenuta inammissibilità del rimedio dell'ottemperanza su decreto decisorio di ricorso straordinario, in quanto rimedio amministrativo;

- diversamente, il consigliere Carbone - in relazione alla cui posizione la Corte di cassazione non si era ancora pronunciata - rinunciava, in data 30 giugno 2010, agli effetti della sentenza del Consiglio di Stato n. 6843 del 20 dicembre 2000 e a tutti gli atti del relativo giudizio: conseguentemente, il giudizio (già sospeso da questa Sezione con ordinanza 9 luglio 2001, n. 3885, nelle more della definizione del ricorso in Cassazione) veniva dichiarato estinto con decreto 5 luglio 2010, n. 4265, ai sensi dell'allora vigente art. 9 della legge n. 205 del 2000 (dagli archivi informatici della Corte di cassazione risulta il decreto n. 15642 del 1° luglio 2010, con cui il ricorso in Cassazione è stato definito de plano con pronuncia di estinzione, alla luce «dell'atto con il quale le Amministrazioni ricorrenti hanno rinunciato agli atti del giudizio in considerazione della contestuale rinuncia, da parte del Dott. Carbone, ad avvalersi degli effetti favorevoli della decisione impugnata [...] salva ogni eventuale sopravvenienza normativa o giurisdizionale di favore in ordine alla valenza ed alla esigibilità del diritto riconosciuto con il decreto del Presidente della Repubblica del 27 settembre 1999»);

- tutti i nove ricorrenti (incluso il consigliere Carbone) formulavano all'Amministrazione una nuova istanza di esecuzione, che l'Amministrazione, previo riesame, rigettava con nota del 3 febbraio 2003, sulla scorta del disposto del sopravvenuto art. 50, comma 4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, vigente a decorrere dal 1° gennaio 2001, a tenore del quale «il nono comma dell'articolo 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, e perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata. In ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti»;

- i ricorrenti impugnavano detta nota avanti il T.a.r. per il Lazio (n.r.g. 3625 del 2003), sostenendo, in estrema sintesi, che l'unica interpretazione costituzionalmente conforme dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 ne escluderebbe l'applicabilità alla vicenda de qua, stante la pregressa formazione di un giudicato riveniente dalla decisione dei ricorsi straordinari nel 1999;

- i ricorrenti chiedevano, per il caso del rigetto della domanda principale, il risarcimento del danno subito a causa del comportamento inerte dell'Amministrazione;

- con ordinanza 14 luglio 2004, n. 6971, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, per contrasto con gli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 della Costituzione;

- con sentenza 15 luglio 2005, n. 282, la Corte costituzionale dichiarava infondata la questione sollevata sotto tutti i parametri evidenziati;

- a seguito della riassunzione, il T.a.r., con la sentenza n. 4104 del 16 marzo 2010, respingeva la domanda di annullamento (senza invece esprimersi su quella subordinata di risarcimento del danno);

- i ricorrenti interponevano quindi appello (n.r.g. 7594 del 2010), nel corso del quale la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza 7 novembre 2014, n. 5506, rimetteva all'Adunanza plenaria la soluzione del seguente quesito: «se anche i decreti decisori di ricorsi straordinari resi allorché il parere obbligatorio del Consiglio di Stato in sede consultiva non era ex lege vincolante (ed ancorché in concreto esso non sia stato disatteso dall'Autorità decidente) siano eseguibili con il rimedio dell'ottemperanza ed integrino giudicato sin dal momento della loro emissione, ovvero se tale qualità sia da riconoscere esclusivamente ai decreti decisori di ricorsi straordinari che (a prescindere dall'epoca di proposizione dei ricorsi medesimi) siano stati resi allorché il parere obbligatorio del Consiglio di Stato in sede consultiva era stato licenziato in epoca successiva alla entrata in vigore della legge n. 69/2009 (e quindi rivestiva portata vincolante)»;

- l'Adunanza plenaria, con ordinanza n. 7 del 14 luglio 2015, reputava pregiudizialmente rilevanti e non manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale «dell'articolo 50 comma 4, ultimi due periodi, della legge n. 388/2000, per violazione degli articoli 6 e 13 della CEDU e, quindi, con l'articolo 117, comma 1, della Costituzione»;

- nel frattempo, nell'anno 2013, i ricorrenti avevano radicato avanti questo Consiglio di Stato anche un secondo ricorso per l'ottemperanza dei decreti del 1999 (n.r.g. 5044 del 2013, distinto dal giudizio di appello n.r.g. 7594 del 2010, avente ad oggetto l'impugnazione dell'atto amministrativo), assumendo che la revisione legislativa dell'istituto del ricorso straordinario recata dalla legge n. 69 del 2009, avendo effetto retroattivo, avrebbe determinato il superamento tanto della pronuncia delle Sezioni unite del 2001 (peraltro dotata di mera natura processuale e non sostanziale), quanto della sentenza della Corte costituzionale n. 282 del 2005;

- in subordine, i ricorrenti proponevano azione di danni ex art. 112, comma 3, c.p.a., con riferimento tanto al danno patrimoniale quanto a quello non patrimoniale conseguenti all'eventuale impossibilità di esecuzione del giudicato;

- con atto del 29 settembre 2014, i ricorrenti rinunciavano «ad ogni domanda di natura risarcitoria formulata in entrambi i giudizi n. 5044/2013 e 7594/2010 [...] per il caso in cui codesto Ill.mo Consiglio accolga il ricorso d'ottemperanza n. 5044/13, con l'ordine di dare integrale esecuzione alle decisioni del 27-9-1999»;

- anche la Quarta Sezione, in sede di ottemperanza, con l'ordinanza n. 550 dell'8 febbraio 2017, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 50, comma 4, della legge 388 del 2000;

- la Corte costituzionale, con la sentenza 9 febbraio 2018, n. 24, dichiarava infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dall'Adunanza plenaria (con l'ordinanza n. 7 del 2015) e inammissibili quelle formulate dalla Quarta Sezione (con l'ordinanza n. 550 del 2017);

- nel giudizio di appello (n.r.g. 7594 del 2010), con atto ritualmente notificato del 4 settembre 2018, i ricorrenti chiedevano la prosecuzione del giudizio avanti l'Adunanza plenaria, insistendo per la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale «in considerazione della sentenza della Corte Costituzionale che ha precluso l'accoglimento della domanda principale»;

- nel giudizio di ottemperanza (n.r.g. 5044 del 2013), con memoria del 4 maggio 2022, i ricorrenti chiedevano di rimettere all'Adunanza plenaria la «questione della vincolatività della statuizione con cui la Corte Costituzionale (al punto 5.1. del considerato in diritto della sentenza n. 24 del 2018) ha dichiarato inammissibili le questioni già sollevate con l'ordinanza n. 550 del 2017», nonché sollecitavano, una volta delibata in senso positivo l'ammissibilità del secondo giudizio di ottemperanza, la riproposizione della questione di legittimità costituzionale già formulata con l'ordinanza n. 550 del 2017 dichiarata irrilevante dalla Corte costituzionale;

- con ordinanza n. 10342 del 2022, la Quarta Sezione, in ragione della particolare delicatezza delle questioni controverse e del loro carattere di massima, ha rimesso, ai sensi dell'art. 99, comma 1, c.p.a., all'Adunanza plenaria i seguenti quesiti di diritto:

i) «se sia vincolante per il Giudice amministrativo che abbia sollevato una questione di legittimità costituzionale la pronuncia della Corte costituzionale che assuma un difetto di rilevanza della questione, conseguente all'assunta inammissibilità del giudizio a quo sulla scorta di profili tuttavia non enucleati nell'ordinanza di rimessione»;

ii) «se, dopo che la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione un ricorso per ottemperanza di un decreto decisorio di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la parte interessata possa radicare un nuovo giudizio di ottemperanza, adducendo a fondamento dell'ammissibilità dell'ulteriore azione tanto la sopravvenuta e incisiva modificazione legislativa - sempre da intendersi in termini compatibili con i principi rinvenienti dal secondo comma dell'art. 102 della Costituzione e dalla relativa VI Disposizione transitoria - dei caratteri del ricorso straordinario, quanto il consolidato orientamento pretorio che ammette l'ottemperanza di decreti decisori di ricorsi straordinari anche ove emessi prima della novella del 2009»;

iii) «se, all'indomani della cennata riforma del ricorso straordinario, possa essere riproposta l'actio judicati dopo che, a suo tempo, la parte interessata aveva sua sponte dichiarato di rinunciare - sia pure con l'espressa clausola di salvezza di "ogni eventuale sopravvenienza normativa o giurisdizionale di favore" - agli effetti favorevoli di una precedente sentenza di ottemperanza del Consiglio di Stato che, nell'ambito di un giudizio articolato su un unico grado radicato in epoca anteriore alla riforma legislativa dell'istituto del ricorso straordinario, ne aveva integralmente accolto le richieste».

2. Si è costituita in entrambi i giudizi la Presidenza del Consiglio dei ministri, insistendo per il rigetto dell'appello e dell'azione di ottemperanza.

3. In vista dell'udienza pubblica del 21 febbraio 2024, i ricorrenti hanno presentato una memoria conclusiva unica.

Dopo avere ripercorso le principali tappe dell'articolato contenzioso e riepilogato gli argomenti posti a fondamento delle rispettive domande, gli istanti insistono per l'accoglimento, sia dell'appello, sia del ricorso d'ottemperanza, o di uno dei due, purché vi sia la soddisfazione integrale delle pretese.

Concludono chiedendo in via gradata che:

- sia rilevata la formazione di un giudicato interno sull'ammissibilità del giudizio d'ottemperanza, aggiungendo che il ricorso sarebbe comunque ammissibile, in quanto per ogni decisione di giustizia deve esservi una proponibile azione di esecuzione, non potendo avere effetti pregiudizievoli per i ricorrenti la proposizione nel 2000 dell'azione esecutiva, quando ancora perdurava la divergenza tra Consiglio di Stato e Sezioni unite della Corte di cassazione sulla ottemperabilità delle decisioni rese su ricorso straordinario;

- siano sollevate le questioni di costituzionalità già rimesse dalla Sezione Quarta con l'ordinanza n. 550 del 2017, nonché altre questioni di costituzionalità ex art. 117 Cost., rilevando quali parametri interposti: gli articoli 6 e 13 della CEDU (che si riferiscono anche alle decisioni equated to a court decision); il protocollo 1, che per la CEDU riguarda non solo la tutela del diritto di proprietà, ma anche il patrimonio ed i crediti, nonché la tutela dell'affidamento; gli articoli 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e gli articoli 41 e 54 della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000; i parametri costituzionali basati sull'uguaglianza (anche tra ricorsi decisi in Sicilia e decisi a Roma: art. 23 dello Statuto siciliano), la coerenza, l'effettività della tutela, la tutela dell'affidamento, la responsabilità dello Stato nei casi di illeciti lesivi di diritti, il divieto di sanatoria degli illeciti, lo Stato di diritto;

- siano comunque accolte tutte le domande risarcitorie, formulate con il sesto, il settimo e l'ottavo motivo dell'appello, nonché con il ricorso per l'esecuzione del giudicato.

4. All'esito dell'odierna udienza del 21 febbraio 2024, entrambe le cause sono state discusse e trattenute in decisione.

DIRITTO

1. I ricorrenti hanno proposto due giudizi:

i) uno di cognizione, avente ad oggetto la domanda di annullamento della nota emessa il 3 febbraio 2003 dalla Presidenza del Consiglio dei ministri;

ii) uno di ottemperanza dei decreti decisori dei ricorsi straordinari del 1999.

Le due cause vanno riunite, per evidenti ragioni di connessione soggettiva e oggettiva, avendo entrambe ad oggetto la pretesa dei ricorrenti alla corresponsione del trattamento economico, migliorativo di quello tabellare, dovuto ai Consiglieri di Stato vincitori di concorso, in applicazione del meccanismo del c.d. "allineamento stipendiale".

Si assume, in estrema sintesi, che l'Amministrazione, in modo illegittimo, avrebbe tenuto conto della sola anzianità «in astratto» dei colleghi che li seguivano in ruolo, senza considerare - come invece avrebbero imposto i decreti decisori del Capo dello Stato - gli stipendi a questi ultimi spettanti (ed effettivamente corrisposti), calcolati in classi e scatti, sulla base dell'intera carriera, anche in qualifiche precedenti a quella di Consigliere di Stato.

2. Va scrutinata, preliminarmente, la domanda di annullamento.

2.1. Il diniego opposto dall'Amministrazione alle rivendicazioni patrimoniali degli istanti si basa sull'effetto impeditivo sancito dall'art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, legge finanziaria 2001).

Tale disposizione disciplina la portata e la decorrenza dell'abrogazione del nono comma dell'art. 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, norma, quest'ultima, ai sensi della quale per il personale che avesse conseguito la nomina a magistrato di corte d'appello o a magistrato di corte di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio 1963, n. 1, l'anzianità veniva determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo seguiva nel ruolo.

L'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 precisa, in primo luogo, che il nono comma dell'art. 4 «si intende abrogato» dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, il quale, con l'art. 2, comma 4, aveva soppresso l'istituto dell'allineamento stipendiale.

Lo stesso art. 50 prevede poi che, per effetto di detta abrogazione e con effetto retroattivo, «perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati» - dopo la data di entrata in vigore del predetto decreto-legge n. 333 del 1992 - in modo difforme dalla predetta interpretazione, aggiungendo che «in ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base di tali decisioni o provvedimenti».

2.2. I temi decisori, rilevanti ai fini della soluzione della controversia, vanno collocati lungo la seguente traiettoria logico-argomentativa:

i) in primo luogo, va definito il perimetro applicativo della legge di interpretazione autentica, onde verificare se l'effetto impeditivo ivi previsto coinvolga anche le decisioni rese su ricorso straordinario (motivi primo e secondo del ricorso di primo grado; primi tre motivi del ricorso di appello);

ii) in via gradata, ove si interpreti la norma nel senso di disporre la perdita degli effetti delle decisioni (ancorché divenute stabili) rese dal Presidente della Repubblica adito con ricorso straordinario, si pone l'indagine sulla «validità» della norma stessa (terzo motivo del ricorso di primo grado; quarto e quinto motivo del gravame);

iii) da ultimo, in caso di rigetto della domanda di annullamento, va esaminata la domanda subordinata di risarcimento del danno (formulata con il sesto, il settimo e l'ottavo motivo dell'appello, nonché con il ricorso per l'esecuzione dei decreti presidenziali).

3. Il primo punto - relativo alla portata applicativa dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 - è segnato dalle risultanze dell'incidente di costituzionalità, oltre che "coperto" dalle precedenti statuizioni di questa stessa Adunanza plenaria.

3.1. La Corte costituzionale, con sentenza n. 282 del 2005 (nel giudizio instaurato con ordinanza di rimessione del giudice di primo grado), ha qualificato la norma censurata come legge retroattiva di interpretazione autentica.

Con essa, il Parlamento ha inteso rimuovere un'imperfezione tecnica, chiarendo che il venir meno, a partire dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, dell'istituto del riallineamento stipendiale non poteva che riguardare anche quella particolare forma di allineamento stipendiale dettata dall'art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, per i magistrati (di appello e) di cassazione vincitori di concorso per esami.

Osserva questa Adunanza plenaria che il significato individuato dalla legge di interpretazione non si è inserito nel quadro normativo in termini arbitrari e imprevedibili, tenuto conto dell'evidente aporia sistematica venutasi a realizzare nell'ordinamento giuridico e quindi della necessità di ovviare ad una situazione di grave incertezza normativa. Si consideri che già l'art. 7, comma 7, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito con modificazioni dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, aveva disposto in questi termini: «[l]'articolo 2, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, va interpretato nel senso che dalla data di entrata in vigore del predetto decreto-legge non possono essere più adottati provvedimenti di allineamento stipendiale, ancorché aventi effetti anteriori all'11 luglio 1992».

3.2. Su queste basi, la stessa Corte costituzionale ha statuito che l'efficacia retroattiva dell'art. 50, comma 4, è limitata soltanto dalle sentenze passate in giudicato e non dalle decisioni rese su ricorso straordinario, segnatamente affermando che: la «salvezza del giudicato formatosi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di interpretazione autentica non è anche la salvezza delle decisioni adottate, nel regime dell'alternatività, con decreto del Presidente della Repubblica in sede di ricorso straordinario. Essendo il ricorso straordinario al Capo dello Stato un rimedio per assicurare la risoluzione non giurisdizionale di una controversia in sede amministrativa, deve escludersi che la decisione che conclude questo procedimento amministrativo di secondo grado abbia la natura o gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale».

La successiva sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2018 (resa questa volta su ordinanza di rimessione in sede di appello) ha disatteso nuovamente l'assunto secondo il quale la norma censurata dovrebbe essere interpretata nel senso di far salve, oltre alle sentenze passate in giudicato, anche le decisioni rese anteriormente alla sua entrata in vigore sui ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica.

Peraltro, la stessa sentenza n. 24 del 2018 - dopo avere richiamato la giurisprudenza costituzionale che, nel regime anteriore alla legge n. 69 del 2009, ha costantemente ritenuto il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica un rimedio di natura amministrativa, escludendone natura o effetti giurisdizionali (ex plurimis, sentenze n. 73 del 2014, n. 282 del 2005, n. 254 del 2004 e n. 298 del 1986, ordinanze n. 357 del 2004, n. 301 e n. 56 del 2001) - ha aggiunto che neppure le modifiche introdotte dalla legge n. 69 del 2009 (che hanno reso vincolante il parere del Consiglio di Stato e hanno consentito che in quella sede vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale) costituiscono una ragione sufficiente per discostarsi dalle conclusioni sulla natura amministrativa delle decisioni rese sui ricorsi amministrativi, avendo avuto piuttosto l'effetto di trasformare il ricorso straordinario da antico ricorso amministrativo «in un rimedio giustiziale», assimilabile ad un "giudizio" ai fini della instaurazione del giudizio costituzionale.

La natura "giustiziale", e non giurisdizionale, del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è stata ribadita dalla Corte costituzionale anche con la successiva sentenza n. 63 del 2023 (alle medesime conclusioni sistematiche è giunta anche la recente pronuncia di questa Adunanza plenaria 7 maggio 2024, n. 11).

3.3. Anche l'ordinanza di rimessione n. 7 del 2015 di questa Adunanza plenaria ha escluso - con statuizione decisoria avente, sul punto, natura di sentenza parziale e che comunque il Collegio intende confermare - «che si possa accedere alla tesi, sostenuta in via poziore dagli appellanti, secondo cui anche le decisioni su ricorsi straordinari rese prima della riforma del 2009 esibirebbero carattere giurisdizionale e, quindi, sarebbero dotate di una forza resistente all'intervento caducatorio del legislatore». La «portata sostanziale» delle novelle del 2009 impedisce di ritenere che «anche alle decisioni rese in precedenza possa essere riconosciuta una valenza giurisdizionale e, quindi, l'intangibilità propria della res iudicata».

L'Adunanza plenaria ha osservato anche che «[n]on giova agli appellanti l'insistito accento sul maggioritario indirizzo pretorio che ammette il rimedio dell'ottemperanza, ex articolo 112 c.p.a., anche per le decisioni rese su ricorso straordinario nell'assetto normativo tradizionale. Si deve, al riguardo, convenire con l'amministrazione appellata nel senso che l'ottemperabilità di una decisione è una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge». Pertanto, «la questione dell'equiparazione della decisione su ricorso amministrativo extra ordinem a una sentenza passata in giudicato dal punto di vista della procedura di attuazione dello iussum [...] non si ripercuote sul differente tema della sussistenza di una forza sostanziale del regolamento decisorio sussumibile nel concetto di giudicato e, quindi, tale da resistere al dispiegarsi dell'intervento legislativo. A tale ultimo quesito non può che rispondersi negativamente, in quanto l'intangibilità del decisum, alla stregua dei parametri normativi nazionali, presuppone una paternità esclusivamente giurisdizionale che nella specie era esclusa dallo schema normativo di riferimento ratione temporis operante».

3.4. Alla luce di quanto sopra esposto, le ampie difese dei ricorrenti incentrate sulla c.d. «giurisdizionalizzazione» e «revisione» retroattiva (o meglio, retrospettiva) del ricorso straordinario vanno respinte.

4. Posto che l'art. 50, comma 4, della legge finanziaria per il 2001 - secondo l'interpretazione datane dalla Corte costituzionale e da questa stessa Adunanza plenaria - preclude l'esecuzione dei decreti decisori adottati in contrasto con la norma di interpretazione autentica, sono state attentamente vagliate le censure che ne contestano la legittimità costituzionale.

4.1. I problemi giuridici posti dall'interpretazione autentica stanno essenzialmente nella sua retroattività. La disposizione interpretativa incide sì sui "significati" della norma interpretata preesistente, chiarendone il senso, al fine di risolvere un'incertezza ermeneutica ancora irrisolta, ma non è un semplice atto di "conoscenza" della precedente manifestazione di volontà legislativa, trattandosi pur sempre di una "decisione" che impone retroattivamente una data interpretazione del testo e richiede quindi un valido presupposto giustificativo.

Come ripetutamente affermato dal giudice delle leggi, ancorché non sia vietato al legislatore (salva la tutela privilegiata riservata alla materia penale dall'art. 25, secondo comma, Cost.) emanare norme retroattive - siano esse di interpretazione autentica oppure innovative con efficacia retroattiva - esistono comunque limiti costituzionali alla retroattività legislativa. Tali limiti vengono individuati nel principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, nella tutela dell'affidamento, nonché nel rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario; limiti corrispondenti ai principi dettati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale valorizza alcuni elementi ritenuti sintomatici dell'uso distorto della funzione legislativa (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 12 del 2018, n. 191 del 2014, n. 85 del 2013, n. 94 del 2009, n. 374 del 2000).

4.2. Nella vicenda in esame, la Corte costituzionale - interpellata per ben due volte, sia dal giudice di primo grado, sia dal giudice di appello - ha statuito che la disposta perdita di efficacia dei provvedimenti (e quindi anche di decreti del Presidente della Repubblica con cui vengono decisi i ricorsi straordinari) adottati difformemente dalla interpretazione che vuole abrogato l'allineamento stipendiale sin dal 1992, non lede nessuno degli svariati parametri costituzionali evocati.

Segnatamente, secondo la sentenza n. 282 del 2005:

- non risultano vulnerati gli articoli 24 e 113 della Costituzione, sotto il profilo della effettività del rimedio giustiziale, perché la garanzia costituzionale da essi prevista si riferisce al diritto di agire nella sede giurisdizionale e non nella sede amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica;

- è esclusa una menomazione della funzione costituzionale del Consiglio di Stato di assicurare la «tutela della giustizia nell'amministrazione» (art. 100 della Costituzione), essendo il parere del Consiglio di Stato espressione di una funzione consultiva su cui peraltro la norma non incide;

- non è pertinente il richiamo all'art. 103 della Costituzione, giacché non vengono in considerazione profili concernenti l'attività giurisdizionale affidata al Consiglio di Stato;

- non è violato l'affidamento nella sicurezza giuridica (art. 3 della Costituzione), perché il legislatore, in sede di interpretazione autentica, «può modificare sfavorevolmente, in vista del raggiungimento di finalità perequative, la disciplina di determinati trattamenti economici con esiti privilegiati (sentenza n. 6 del 1994)».

Con la successiva sentenza n. 24 del 2018, sono state respinte anche le ulteriori questioni - sollevate dall'Adunanza plenaria, sul presupposto che quella che nel diritto interno resta una decisione amministrativa potrebbe comunque rivestire i caratteri di una decisione «intangibile» da parte di leggi retroattive o da manifestazione di jus singolare in assenza di idonee ragioni di interesse generale - nei termini così riassumibili:

- quanto alla violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, la Corte, dopo avere ritenuto non pertinenti le sentenze evocate nell'ordinanza di rimessione (in quanto non riguardanti ipotesi di decisioni amministrative "equiparate" a pronunce giurisdizionali), ha richiamato la giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo che - con riguardo alle decisioni rese su ricorso straordinario anteriori al 2009 - aveva ripetutamente escluso che la decisione del ricorso straordinario avesse natura di procedimento contenzioso riconducibile alla sfera di applicazione della tutela convenzionale di cui all'art. 6 (in particolare, le decisioni 28 settembre 1999, Nardella contro Italia; 31 marzo 2005, Nasalli Rocca contro Italia; 2 aprile 2013, Tarantino e altri contro Italia; il successivo mutamento di giurisprudenza intervenuto con la decisione 8 settembre 2020, Mediani contro Italia, riguarda invece unicamente i decreti adottati nel vigore delle modifiche normative del 2009 che hanno reso vincolante il parere del Consiglio di Stato);

- quanto al contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., la Corte ha escluso la natura di legge-provvedimento della norma impugnata e con essa la necessità del vaglio di costituzionalità riservato a questa tipologia di atti, in considerazione del fatto che i destinatari della disposizione appena citata non sono affatto «determinati o di numero limitato» e che l'impugnata disposizione non presenta contenuto particolare e concreto, ma detta, al contrario, una regola di carattere astratto, destinata a risolvere in via generale l'antinomia tra corpi disciplinari succedutesi nel tempo.

5. L'accertamento da parte della Corte costituzionale dell'insussistenza di un contrasto tra la norma impugnata e il profilo di costituzionalità esaminato è incontestabile nell'ambito del processo a quo, nel senso di precludere al giudice comune di riproporre la medesima questione nell'ambito dello stesso giudizio, in quanto una simile iniziativa si porrebbe in contrasto con il disposto dell'ultimo comma dell'art. 137 Cost., secondo cui «contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione».

Il giudicato costituzionale che ha accertato l'inesistenza dei vizi dedotti impone l'applicabilità nel presente giudizio della norma censurata.

Conseguentemente, la perdurante vigenza dell'effetto impeditivo dettato dall'art. 50 della legge finanziaria per il 2001 - per cui «perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati», dopo la data entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, e in ogni caso «non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base di tali decisioni o provvedimenti» - comporta il rigetto della domanda di annullamento, essendosi la Presidenza del Consiglio dei ministri limitata ad eseguire la predetta disposizione.

6. Veniamo ora al giudizio di ottemperanza promosso dagli stessi ricorrenti per ottenere l'esecuzione dei coevi decreti presidenziali del 27 settembre 1999.

6.1. La Corte costituzionale, con la già citata sentenza n. 24 del 2018, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, sollevate dalla Quarta Sezione del Consiglio di Stato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU.

La Corte ha preliminarmente rilevato che: «[...] i ricorrenti nel giudizio a quo avevano in precedenza già presentato ricorso in ottemperanza al Consiglio di Stato per l'esecuzione delle stesse decisioni del Presidente della Repubblica, ottenendo a suo tempo una sentenza favorevole, e che tale sentenza è stata poi annullata dalle sezioni unite della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione».

Su queste basi, ha statuito che «la riproposizione in un nuovo giudizio, da parte dei medesimi ricorrenti, della stessa azione di ottemperanza trova un ostacolo insormontabile nella preclusione da giudicato, che il Presidente del Consiglio dei ministri afferma di avere eccepito nel giudizio a quo e che sarebbe comunque rilevabile d'ufficio. L'evidenza di tale preclusione esclude la rilevanza delle questioni. Deve essere dunque dichiarata la loro inammissibilità per difetto di rilevanza».

6.2. Sulla citata statuizione di inammissibilità si appuntano i quesiti rimessi all'Adunanza plenaria dalla Quarta Sezione, con l'ordinanza n. 10342 del 2022.

7. Con il primo quesito si chiede «se sia vincolante per il Giudice amministrativo che abbia sollevato una questione di legittimità costituzionale la pronuncia della Corte costituzionale che assuma un difetto di rilevanza della questione, conseguente all'assunta inammissibilità del giudizio a quo sulla scorta di profili tuttavia non enucleati nell'ordinanza di rimessione».

Il dubbio della sezione rimettente, in estrema sintesi, si basa sulla considerazione che la Corte avrebbe fondato l'irrilevanza della questione di legittimità costituzionale su un profilo di rito del giudizio principale non ancora delibato, né espressamente affrontato, dal giudice rimettente, sebbene questi sia il giudice naturale del rapporto controverso e delle relative pregiudiziali questioni processuali.

Il punto di diritto deve trovare soluzione nei termini che seguono.

7.1. Giudizio principale e giudizio di costituzionalità, pur avvinti da un rapporto di pregiudizialità, sono distinti nella funzione e nell'oggetto: nel giudizio a quo si fanno valere posizioni soggettive, la cui tutela è dipesa dalla verifica di costituzionalità della legge da applicare; nel giudizio costituzionale l'interesse perseguito dall'ordinamento è quello di ripristinare la legalità costituzionale.

I due giudizi, strutturalmente autonomi, sono coordinati attraverso il dispositivo tecnico della «rilevanza», previsto dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (esplicitando quanto contenuto nell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1), secondo cui il giudice ha l'obbligo di sollevare questione di costituzionalità «qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale». Tale requisito esprime il nesso di necessaria strumentalità e diretta incidenza che deve intercorrere tra la questione di legittimità costituzionale e la risoluzione della causa principale.

Pur essendo il giudice del giudizio principale - nella sua veste istituzionale di "intermediario" tra legge e Costituzione - a dover valutare la rilevanza della questione in relazione ad una norma e la necessità della applicazione per decidere, spetta alla Corte costituzionale non solo stabilire in cosa consista effettivamente la «rilevanza» (se elemento da riferire geneticamente allo stato degli atti, oppure da considerarsi nella sua evoluzione temporale; se da considerarsi come mera applicabilità della norma, della cui conformità a Costituzione si dubita, nel processo principale, o come mera influenza della decisione della Corte sul giudizio a quo: se operante soltanto nei confronti del giudice a quo ai fini della prospettabilità della questione, ma non anche nei confronti della Corte ad quem) ma anche presidiare il rispetto delle condizioni di proponibilità delle questioni incidentali.

Proprio in ragione dell'autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità rispetto a quello principale, la verifica della Corte su presupposti e condizioni del giudizio a quo (giurisdizione, interesse a ricorrere e altri aspetti comunque concernenti la legittima instaurazione del giudizio) consiste in un sindacato «esterno», esaurendosi nella verifica che gli stessi «non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti», e fermo restando che la relativa indagine deve arrestarsi laddove il rimettente abbia espressamente motivato sul punto in «maniera non implausibile» (cfr., ex plurimis, sentenze n. 197 e n. 150 del 2022. n. 269 del 2017, n. 154 e n. 110 del 2015, n. 1 del 2014, n. 116 e n. 106 del 2013, n. 41 del 2011, n. 270 e n. 81 del 2010, n. 241 del 2008, n. 50 del 2007).

7.2. Su queste basi, la decisione processuale di inammissibilità, impiegata dalla Corte per rilevare l'assenza delle condizioni previste dalla legge per la legittima instaurazione del giudizio in via incidentale non spiega una rilevanza "diretta" sul giudizio principale - come invece la pronuncia di accoglimento o di rigetto, vertente «sulla questione di costituzionalità» - e, pertanto, non preclude al giudice rimettente, che non condivida l'assunto della Corte, di decidere comunque nel merito la causa principale. Nel modello di giudizio in via incidentale, la Corte costituzionale è il giudice della legge, non del giudizio a quo.

Sennonché, il quesito dirimente è un altro e, in particolare, occorre chiedersi se le decisioni processuali della Corte siano comunque suscettibili di determinare un effetto preclusivo analogo a quello delle decisioni di rigetto, nel senso di impedire al giudice a quo di sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale, qualora questi, di fronte ad una decisione di inammissibilità, continuasse tuttavia a dubitare dell'incostituzionalità della legge di cui deve fare applicazione, adducendo motivazioni atte a superare gli argomenti forniti dalla Corte.

Infatti - essendo escluso che il giudice sia abilitato a disapplicare la norma, sia pure con effetti limitati al processo in corso dinanzi a lui - anche qualora il giudizio di ottemperanza fosse ritenuto ammissibile, resterebbe ferma l'applicazione dell'art. 50, comma 4, della legge finanziaria per il 2001 a precludere (nel merito) l'esecuzione delle decisioni presidenziali.

7.3. Alla luce della giurisprudenza della Corte, le decisioni processuali possono avere una portata duplice, da valutarsi sulla base delle ragioni per le quali esse sono state adottate.

Si distingue, all'interno delle decisioni di inammissibilità, fra quelle dotate di un effetto preclusivo nei confronti del giudice a quo - in quanto aventi natura «decisoria» - e quelle prive di tale effetto. L'elemento scriminante è la redimibilità del vizio.

Qualora il vizio che viene riscontrato e che costituisce la ragione dell'inammissibilità è tale da non essere sanabile da parte del giudice a quo, allora non è consentito al remittente riproporre nel medesimo giudizio la stessa questione, perché ciò si concreterebbe nell'impugnazione della precedente decisione della Corte, inammissibile ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 137 Cost. (sentenze n. 451 del 1989; n. 433 del 1995; n. 12 del 1998; ordinanza, n. 87 del 2000).

Di contro, il giudice a quo è abilitato a sollevare una seconda volta la medesima questione nello stesso giudizio quando la pronuncia di inammissibilità sia fondata su motivi rimovibili dal rimettente, sempreché il giudice a quo abbia rimosso il vizio che aveva impedito l'esame di merito della questione (ex plurimis, sentenze 247 del 2022, n. 115 del 2019, n. 252 del 2012 e n. 189 del 2001; ordinanze n. 371 del 2004 e n. 399 del 2002; sentenza n. 135 del 1984). Il "titolo" dell'inammissibilità consente, ad esempio, la riproposizione della questione, in caso di rilevata «carenza di motivazione» sulla rilevanza o non manifesta infondatezza.

7.4. Nel caso in esame la statuizione della Corte, ancorché di inammissibilità, ha carattere incontestabilmente decisorio, in quanto incentrata sulla preclusione da giudicato: gli odierni appellanti avevano proposto ricorsi per l'esecuzione delle decisioni presidenziali, accolti dal Consiglio di Stato ma con sentenza annullata dalla Corte di cassazione per difetto di giurisdizione.

Il vizio non è superabile, nella prospettiva rilevata dal giudice delle leggi: essendo la potestas iudicandi del giudice adito esclusa da un giudicato a efficacia esterna, pena la violazione del ne bis in idem, viene meno la necessità di applicare nello stesso processo la norma censurata.

Non vale l'argomento dei ricorrenti, facente leva sulla natura processuale delle sentenze sul difetto di giurisdizione e sul loro «superamento» ad opera dell'art. 112 c.p.a., che avrebbe ammesso l'azione esecutiva prima non prevista, consentendo così la proposizione del giudizio di ottemperanza delle decisioni rese su ricorso straordinario. E neppure appare risolutivo quanto sottolineato dalla Sezione Quarta in ordine al fatto che le sentenze della Corte di cassazione si sarebbero limitate a ritenere inattingibile il rimedio giurisdizionale dell'ottemperanza a motivo della natura amministrativa del decreto decisorio di ricorso straordinario, natura, tuttavia, non più predicabile in base alla vigente legislazione.

In senso contrario, sono dirimenti le seguenti considerazioni.

Le sentenze della Corte di cassazione in tema di giurisdizione vincolano i futuri giudici in caso di riproposizione della medesima domanda.

Gli effetti c.d. "panprocessuali" ricollegati alle sentenze in esame si differenziano dal "giudicato sostanziale" (art. 2909 c.c.), in quanto solo quest'ultimo incide sulla sfera sostanziale, imponendosi alle parti come regolamento autoritativo del rapporto giuridico.

L'incontestabilità delle pronunce sulla giurisdizione - in cui non viene dichiarata una concreta volontà di legge sostanziale - è, da un lato, condizionata dall'identità oggettiva e soggettiva delle successive azioni proposte; dall'altro lato, non può opporsi alla legge sopravvenuta che, interpretando retroattivamente la normativa vigente oppure innovando ex nunc rispetto a questa, detti regole diverse per la soluzione delle questioni già decise, fintantoché i rapporti controversi non si siano esauriti. Il vincolo del giudicato panprocessuale resta invece insensibile ai meri mutamenti di indirizzo della giurisprudenza successiva.

Su queste basi deve ritenersi che, nell'impostazione seguita dalla pronuncia della Corte n. 24 del 2018 (che, per le ragioni anzidette, non spetta al giudice a quo sindacare), le norme del processo amministrativo del 2010, che hanno definitivamente ammesso l'ottemperanza delle decisioni rese su ricorso straordinario, sono norme sopravvenute che non si applicano retroattivamente alle decisioni del 1999 e, dunque, non possono essere invocate per superare la preclusione da giudicato.

7.5. A quanto detto sopra - ovvero: la statuizione di inammissibilità ha natura decisoria e preclude la riproposizione delle questioni sollevate in sede di ottemperanza - è opportuno aggiungere, per completezza espositiva, che l'eccezione di giudicato interno sollevata dai ricorrenti (sull'ammissibilità del ricorso in ottemperanza) non è fondata.

L'ordinanza di rimessione del 2017 riportava che gli interessati avevano già presentato al Consiglio di Stato ricorso per l'esecuzione delle decisioni del Presidente della Repubblica, ottenendo una sentenza favorevole, e che tale sentenza era stata annullata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione.

Cionondimeno il giudice a quo non ha statuito sulla specifica questione preliminare (peraltro eccepita dalla controparte) secondo cui la pronuncia della Cassazione avrebbe avuto autorità di giudicato tra le parti, sicché la (riproposta) azione di ottemperanza sarebbe stata preclusa.

L'ordinanza si soffermava sull'ammissibilità dell'azione di ottemperanza sulla decisione del ricorso straordinario, ma con argomenti volti non a negare la sussistenza della preclusione da giudicato, di cui l'ordinanza non si occupa, bensì per affermare di condividere l'indirizzo giurisprudenziale amministrativo che ritiene ammissibile il rimedio di cui all'art. 112 c.p.a. anche per le decisioni rese su ricorso straordinario prima della riforma introdotta dalla legge n. 69 del 2009.

Conclusione questa che, di per sé stessa, non "copriva" l'autonoma causa di inammissibilità per violazione del divieto di ne bis in idem.

8. Alla luce di quanto detto sopra, sono evidenti anche le ragioni che rendono non rilevante ai fini del decidere il secondo quesito, secondo cui: «se, dopo che la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione un ricorso per ottemperanza di un decreto decisorio di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la parte interessata possa radicare un nuovo giudizio di ottemperanza, adducendo a fondamento dell'ammissibilità dell'ulteriore azione tanto la sopravvenuta e incisiva modificazione legislativa - sempre da intendersi in termini compatibili con i principi rinvenienti dal secondo comma dell'art. 102 della Costituzione e dalla relativa VI Disposizione transitoria - dei caratteri del ricorso straordinario, quanto il consolidato orientamento pretorio che ammette l'ottemperanza di decreti decisori di ricorsi straordinari anche ove emessi prima della novella del 2009».

Anche se, in ipotesi, la Quarta Sezione non concordasse con la Corte, e ritenesse il ricorso in ottemperanza ammissibile, il soddisfacimento della pretesa dell'odierna parte ricorrente troverebbe comunque ostacolo nella permanente vigenza degli ultimi due periodi del comma 4 dell'art. 50 della legge n. 388 del 2000 (secondo cui, vale ancora la pena ricordare, «perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati», dopo la data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, difformemente dalla predetta interpretazione, e in ogni caso «non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base di tali decisioni o provvedimenti»).

In definitiva, i decreti presidenziali del 2009, in quanto adottati in contrasto con la norma di interpretazione autentica, non possono essere eseguiti.

9. Con il terzo quesito, la Sezione Quarta chiede «[s]e, all'indomani della cennata riforma del ricorso straordinario, possa essere riproposta l'actio judicati dopo che, a suo tempo, la parte interessata aveva sua sponte dichiarato di rinunciare - sia pure con l'espressa clausola di salvezza di "ogni eventuale sopravvenienza normativa o giurisdizionale di favore" - agli effetti favorevoli di una precedente sentenza di ottemperanza del Consiglio di Stato che, nell'ambito di un giudizio articolato su un unico grado radicato in epoca anteriore alla riforma legislativa dell'istituto del ricorso straordinario, ne aveva integralmente accolto le richieste».

Il terzo punto di diritto richiede una risposta più articolata.

9.1. Come già indicato nella premessa in fatto della presente sentenza e diversamente da quanto dedotto nella rimessione del 2017, non fu pronunciata un'unica sentenza del Consiglio di Stato in sede di ottemperanza (la n. 6697 del 2000, citata nell'ordinanza di rimessione), poi annullata dalle Sezioni unite per difetto di giurisdizione (con sentenza n. 15978 del 2001), ma si ebbero nove sentenze di analogo tenore, rese su separate domande degli interessati, delle quali solo otto furono annullate dalle Sezioni unite, con distinte sentenze pronunciate nel 2001-2002, mentre il nono processo (ricorrente il Consigliere L.C.) si è estinto nel 2010 per rinuncia delle amministrazioni ricorrenti agli atti del giudizio, in considerazione della contestuale rinuncia, da parte del resistente, ad avvalersi degli effetti favorevoli della decisione impugnata.

9.2. La preclusione da giudicato, posta dalla Corte a fondamento della statuizione di inammissibilità, a ben vedere non dovrebbe valere per uno dei ricorrenti. Di regola, l'estinzione del giudizio non estingue l'azione, né, tanto meno, il sottostante diritto (cfr. art. 310 c.p.c.) e ciò dovrebbe condurre a ritenere ammissibile l'iniziativa giurisdizionale del ricorrente L.C.

Si dovrebbe inoltre ritenere che, qualora la decisione di inammissibilità, anche se di tipo decisorio, si fondi su un errore di fatto desumibile dagli atti del procedimento, influenti sulla determinazione della Corte costituzionale, la questione di costituzionalità sia riproponibile. In questo caso, il giudice a quo dovrebbe potere ottenere una pronuncia del giudice delle leggi emendata dalla falsa rappresentazione della realtà processuale.

9.3. Sennonché tale tentativo non va sperimentato per le seguenti ragioni.

L'unica questione residua - tra quelle sollevate dalla Quarta Sezione e non delibate dalla Corte, perché assorbite dalla statuizione di inammissibilità - può essere così sintetizzata: se l'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, vìoli gli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella misura in cui avrebbe inciso, in assenza di motivi imperativi di interesse generale, sulle controversie pendenti che erano state intraprese per ottenere l'esecuzione delle suddette decisioni definitive, con conseguente lesione del diritto di difesa e del principio di parità delle parti (le altre questioni di costituzionalità richiamavano per relationem le considerazioni già espresse nell'ordinanza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, su cui è già intervenuto il giudicato di rigetto).

In altre parole, il dubbio di legittimità - non scrutinato dalla Corte - riguardava l'incidenza della norma di interpretazione autentica sul (primo) giudizio di ottemperanza (pendente al momento di entrata in vigore della norma), in violazione del divieto per il potere legislativo di ingerirsi nell'amministrazione della giustizia ad opera di leggi retroattive al fine di influenzare l'esito giudiziario di una controversia, in mancanza di motivi imperativi di interesse generale.

Sennonché, il petitum caducatorio incentrato sull'incidenza della norma censurata sul (primo) giudizio di ottemperanza promosso dall'interessato per ottenere l'esecuzione della decisione presidenziale, ancora in corso alla data della sua entrata in vigore, sarebbe privo di rilevanza avendo il ricorrente L.C. comunque rinunciato a quello stesso giudizio su cui il legislatore avrebbe (in tesi) illegittimamente interferito.

Per completezza va precisato che, anche ove riferita al secondo giudizio di ottemperanza, la questione sarebbe a maggior ragione irrilevante, poiché non farebbe venire meno l'applicabilità della norma censurata (nella parte in cui dispone l'inefficacia delle decisioni di cui si è chiesta l'ottemperanza) nei giudizi che non erano in corso al momento di entrata in vigore della medesima norma, essendo stati promossi successivamente.

10. Va ora scrutinata la domanda risarcitoria, formulata in via subordinata per il caso di reiezione della domanda principale (va sottolineato che gli istanti, nel corso dei giudizi riuniti, avevano dichiarato di rinunciare alla stessa solo subordinatamente all'accoglimento del petitum principale).

Secondo i ricorrenti l'illecito civile - «nato come contrattuale» (in quanto derivante dall'inadempimento di un'obbligazione) e divenuto extracontrattuale con la norma subentrata dal 2001 (che avrebbe reso quella stessa obbligazione «inefficace») - consisterebbe nella inesecuzione, penalmente rilevante, dei decreti decisori risalenti al 27 settembre 1999 (protrattasi oltre il termine di 14 mesi per l'adempimento che si assume «sancito come invalicabile dalla CEDU»), ritardo che avrebbe provocato l'applicabilità della norma retroattiva.

Il pregiudizio subito sarebbe di natura patrimoniale e non patrimoniale.

10.1. Il danno patrimoniale consisterebbe nella diminuzione del patrimonio in relazione ad un credito ormai perfetto ed acquisito dai ricorrenti. Tale danno viene quantificato, attraverso il rinvio ai conteggi contenuti nella nota della Presidenza del Consiglio n. 1786 del 18 aprile 2008 (richiamante a sua volta la certificazione della Segreteria del Consiglio di Stato in data 11 marzo 2005 e la certificazione dell'Ufficio bilancio del Consiglio di Stato del 12 settembre 2007), da cui emergerebbe la spettanza (complessiva per tutti i ricorrenti) di euro 3.093.841,71 per capitale, euro 309.633,77 per interessi e rivalutazione, per un totale di euro 3.403.475,48, alla data del 31 dicembre 2007.

A partire dal 31 dicembre 2007, andrebbe sommato l'ulteriore importo di euro 20.722,82 lordi mensili, per le complessive nove posizioni per ogni mese successivo.

10.2. Sarebbe poi dovuto anche il risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell'art. 2059 c.c., per fatti costituenti reato, dovendosi ravvisare - ad avviso dei ricorrenti - la sussistenza dei reati di omissione d'atti d'ufficio (art. 328 c.p.) e di abuso d'ufficio (art. 323 c.p.), commessi nel 2000 dai funzionari dell'Amministrazione, per non avere dato tempestiva risposta alle varie diffide notificate dagli istanti e per avere emanato gli atti elusivi del 13 luglio 2000.

Solo a partire dal 10 gennaio 2001, «l'ambiguo testo dell'art. 50, comma 4, avrebbe fatto venire meno il dolo dei funzionari».

Il nocumento non patrimoniale sarebbe composto di due voci.

Un primo pregiudizio morale viene ravvisato nei «comprensibili stati d'animo negativi, avendo i ricorrenti tentato inutilmente di avere il dovuto adempimento, quali vincitori di un concorso pubblico, obiettivamente discriminati», da quantificarsi ai sensi dell'art. 1226 c.c., entro i limiti indicati con i motivi aggiunti di primo grado, pari ad euro 50.000 per ogni anno trascorso dal 1999, in favore di ciascun istante.

Un secondo nocumento non patrimoniale deriverebbe dal fatto che l'inadempimento avrebbe «inciso sul sereno svolgimento delle funzioni, per le conseguenze negative legate alla mancata attribuzione del trattamento economico spettante per decisioni di giustizia, con la mortificazione di chi ha assunto le funzioni senza mai ottenere il beneficio spettante», in violazione degli artt. 108 e 100, comma terzo, Cost., e dei «principi europei sui rapporti tra la magistratura amministrativa e l'amministrazione». Anche di tale pregiudizio si chiede la valutazione equitativa, entro i limiti dedotti in primo grado, pari ad ulteriori euro 50.000 per ogni anno dal 1999 e per ciascun istante.

10.3. Analoga domanda risarcitoria è stata formulata, nel giudizio di esecuzione, ai sensi dell'art. 112, comma 3, del c.p.a., sia pure sub specie di danni connessi all'impossibilità dell'esecuzione in forma specifica.

11. La domanda risarcitoria è infondata per assenza degli elementi costitutivi dell'illecito.

11.1. Secondo la prospettazione dei ricorrenti, se l'amministrazione avesse esitato tempestivamente la richiesta di pagamento, il bene della vita dagli stessi richiesti - l'incremento stipendiale - sarebbe stato loro concesso, in quanto il provvedimento favorevole sarebbe intervenuto prima della norma di interpretazione autentica.

La pretesa azionata è sussumibile nella fattispecie del «danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento», disciplinata dall'articolo 2-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, e riconducibile al generale rimedio del risarcimento per lesione di interessi legittimi. Con riguardo alla relativa azione processuale, l'art. 30 del c.p.a., ai commi 2 e 4, disciplina unitariamente il «danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria» e il «danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». Lo stesso diritto vivente riconduce la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, al comune paradigma dell'illecito aquiliano (cfr. Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 23 aprile 2021, n. 7).

La domanda risarcitoria può essere promossa anche in via "autonoma", senza la necessità cioè del previo esperimento del giudizio avverso il silenzio. La mancata attivazione dei rimedi procedimentali e processuali (ad esempio, la mancata sollecitazione del potere di avocazione previsto dall'art. 2, commi 9-bis e seguenti, della legge n. 241 del 1990), se non ha rilievo come presupposto processuale, può però operare quale fattore di mitigazione del danno risarcibile, ai sensi dell'art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p.a., laddove si accerti «che le condotte attive trascurate [...] avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno» (cfr. la sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 23 marzo 2011, n. 3).

Nell'ampia fenomenologia considerata dall'art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, rientrano almeno tre ordini di fattispecie: i) la tardiva adozione di un provvedimento a contenuto favorevole; ii) l'adozione tardiva di un provvedimento legittimo ma sfavorevole per l'interessato; iii) la mera inerzia.

La prima fattispecie è ravvisabile, non solo quando il provvedimento favorevole sia stato accordato tardivamente, ma anche nell'ipotesi in cui venga dimostrato che, ove fossero stati rispettati i termini prescritti dalla legge, il procedimento sarebbe culminato con l'accoglimento dell'istanza.

Se l'interesse protetto che si assume pregiudicato dall'azione amministrativa coincide con le utilità attese in vista della positiva conclusione del procedimento - si tratti, a seconda dei casi, del valore patrimoniale oggetto di ablazione o conformazione o del valore investito di cui è stata impedita la realizzazione - è necessario dimostrare, perché possa ritenersi integrato il requisito dell'«ingiustizia», che l'illegittimità accertata ha determinato la privazione di un'utilità che il diritto assicurava o ne ha pregiudicato, sempre in contrasto con il diritto, l'acquisizione. Ciò accade quando la disciplina sostanziale del potere non ammetta (già in astratto) alternative diverse, oppure quando lo specifico svolgimento dell'azione pubblica escluda nel caso concreto altre possibilità parimenti legittime.

Va inoltre appurata la specifica rilevanza causale del vizio accertato rispetto al contenuto del provvedimento che si assume lesivo.

Il rimedio risarcitorio può essere invocato, non solo per contestare l'uso sostanzialmente "infondato" del potere pubblico, ma anche l'uso "scorretto" (sul piano procedimentale) o "irragionevole" dello stesso. L'ingiustizia come «clausola generale» consente infatti di attribuire rilievo anche alla violazione delle norme di diritto pubblico che, pur non ricomprendendo nel loro raggio di protezione l'interesse materiale, assicurano comunque all'istante la possibilità di conseguire il bene finale.

In queste ultime ipotesi - che ricomprendono pure le citate fattispecie del danno cagionato dal ritardo nell'emanazione di un provvedimento sfavorevole ma legittimo o dalla mera inerzia nel provvedere - il requisito dell'ingiustizia può essere integrato dal sacrificio di beni "intermedi" purché meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico, come la c.d. chance (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13 settembre 2021, n. 6268) o la lesione dell'affidamento commisurata all'interesse "negativo" (si pensi al valore delle occasioni perdute per effetto della lesione della libertà di autodeterminazione: cfr. Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 4 maggio 2018, n. 5).

Il superamento del termine di conclusione del procedimento non è, ovviamente, mai risarcibile in re ipsa, occorrendo la prova rigorosa di un effettivo danno risarcibile che ne sia «conseguenza immediata e diretta» (art. 1223) e non evitabile (1227 del c.c.).

11.2. Nel caso in esame - in cui, in ragione della domanda di parte ricorrente, occorre vagliare la consistenza dell'interesse materiale (o finale) - il ritardo del procedimento non ha causato un danno «ingiusto», perché la pretesa stipendiale dei ricorrenti non era riconosciuta dalla legge, come già emerso ampiamente in sede di scrutinio delle domande principali.

Il legislatore, mediante l'intervento retroattivo, riconosciuto legittimo dalla Corte costituzionale, ha inteso escludere la possibilità di invocare l'allineamento stipendiale di cui all'art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, in quanto istituto da intendersi abrogato, per incompatibilità, sin dal decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333.

Il legislatore ha agito al fine di scongiurare processi di incremento retributivo casuali, non controllabili e violativi dell'eguaglianza retributiva tra dipendenti pubblici preposti a mansioni equivalenti e in possesso di analoga anzianità. Come si è visto sopra, trattandosi di trattamenti economici «con esiti privilegiati», la Corte ha escluso che potesse invocarsi la tutela dell'affidamento.

11.3. Quanto detto in punto di insussistenza dell'elemento oggettivo dell'illecito è, di per sé, sufficiente ai fini del rigetto della domanda.

Per completezza, preme al Collegio osservare che difetterebbe comunque il nesso di imputazione soggettiva.

Nell'ambito della responsabilità della pubblica amministrazione - derivante dall'esercizio illegittimo o dal mancato esercizio dell'attività amministrativa - il nesso di imputazione soggettiva è integrato, non soltanto dalla violazione dalle norme di diritto pubblico, ma anche dalla "rimproverabilità" dello scostamento così realizzatosi rispetto al modello normativamente predefinito.

La «colpa d'apparato» si pone come ineludibile criterio di misurazione della tollerabilità del rischio amministrativo, senza il quale si determinerebbe un "appiattimento" del rimedio risarcitorio sulla illegittimità del procedimento o dell'atto. L'automatismo tra invalidità e illecito (oltre che non voluto dal sistema processuale) porterebbe con sé anche l'ulteriore rischio di rallentare oltremodo speditezza e buon andamento dell'azione pubblica.

Nel caso di specie, non sussistono gli estremi per muovere il suddetto giudizio di rimproverabilità.

Le condizioni che fanno da sfondo alla controversia - disordinata stratificazione normativa, oggettiva incertezza ermeneutica, elevata rilevanza economica della pretesa - giustificavano il comportamento prudente dell'organo amministrativo preposto all'erogazione del trattamento economico, rimasto in attesa (per un periodo di tempo peraltro non abnorme) di un chiarimento che poi è stato fornito dallo stesso Parlamento.

12. Alla luce delle considerazioni che precedono, l'Adunanza plenaria enuncia il seguente principio di diritto:

«La decisione processuale di inammissibilità, ancorché di natura "decisoria", impiegata dalla Corte costituzionale per rilevare l'assenza delle condizioni previste dalla legge per la legittima instaurazione del giudizio in via incidentale, non spiega una rilevanza diretta sul giudizio principale - come invece la pronuncia di accoglimento o di rigetto, vertente sulla questione di costituzionalità - e, pertanto, non preclude al giudice rimettente, che non condivida l'assunto della Corte, di decidere comunque nel merito la causa principale, dovendo però in questo caso fare applicazione della norma censurata».

13. L'evidente complessità in diritto delle questioni trattate, giustifica l'integrale compensazione delle spese di lite del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza plenaria), definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti, come in epigrafe proposti, li respinge entrambi.

Compensa interamente tra le parti le spese di lite del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Note

La presente decisione ha per oggetto la riforma di TAR Lazio, sez. I, sent. n. 4104/2010, nonché l'ottemperanza di alcuni decreti emanati dal Presidente della Repubblica in sede di ricorso straordinario.