Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Sentenza 13 giugno 2022, n. 38810

Presidente: Cassano - Estensore: Di Salvo

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 9 giugno 2020, in esito a giudizio abbreviato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino ha dichiarato Abdul Rahman B. responsabile del reato di cui agli artt. 110, 81, comma 2, c.p., 73, comma 5, e 80, comma 1, lett. a), d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in quanto, agendo in concorso con un minorenne, deteneva e, in due occasioni, cedeva sostanza stupefacente, nel primo caso di tipo hashish e nel secondo di tipo marijuana. Conseguentemente lo ha condannato alla pena di mesi sei e giorni venti di reclusione ed euro mille di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e alla confisca e distruzione della sostanza stupefacente in sequestro.

2. Avverso questa sentenza ricorre per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Torino, lamentando, come unico motivo di impugnazione, che il giudice abbia omesso di disporre a carico del B. la misura di sicurezza dell'espulsione dal territorio dello Stato, prevista dall'art. 86, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, pur avendo, contraddittoriamente, formulato alcune considerazioni, in ordine all'abitualità dello svolgimento di attività di spaccio di sostanze stupefacenti da parte dell'imputato, all'esistenza di precedenti specifici a suo carico e all'inesistenza di elementi personologici a suo favore, da cui avrebbe dovuto inferire la pericolosità sociale dell'imputato, stante la proclività a delinquere di quest'ultimo.

3. Il ricorso è stato originariamente assegnato alla Terza Sezione penale di questa Corte, la quale, con ordinanza in data 8 ottobre 2021, ha rimesso la decisione alle Sezioni unite, rilevando l'esistenza, nella giurisprudenza di legittimità, di un contrasto interpretativo. Infatti, secondo un primo orientamento, nettamente maggioritario, l'unico strumento d'impugnazione a disposizione del pubblico ministero avverso la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato, nel caso in cui, senza che sia stato modificato il titolo del reato contestato, si sia omesso di statuire sull'applicazione della misura di sicurezza dell'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, è il ricorso per cassazione. Ne deriva che il giudice del rinvio deve essere individuato non nel tribunale di sorveglianza, che sarebbe ordinariamente competente per gli appelli aventi ad oggetto le misure di sicurezza diverse dalla confisca, ma, trattandosi di sentenza inappellabile, nel giudice che ha emanato la sentenza annullata (ex plurimis, Sez. 5, n. 34818 del 20 settembre 2021, non mass.; Sez. 6, n. 29544 del 7 ottobre 2020, Zheng Qiu, Rv. 279890; Sez. 1, n. 7516 del 26 febbraio 2020, Cadoni, Rv. 278625; Sez. 4, n. 35977 del 7 maggio 2019, Belguith Sami, Rv. 276863; Sez. 3, n. 32173 dell'8 maggio 2018, P., Rv. 273693; Sez. 1, n. 27798 del 25 giugno 2008, S., Rv. 257697; Sez. 1, n. 27798 del 25 giugno 1998, El Kahdri, Rv. 240909). L'ordinanza di rimessione segnala, poi, ove dovesse ritenersi esperibile esclusivamente il ricorso per cassazione, una ulteriore opzione ermeneutica relativa al problema dell'individuazione del giudice del rinvio, che, laddove volesse considerarsi il ricorso del pubblico ministero una sorta di impugnazione per saltum necessitata dalla legge, andrebbe individuato nel tribunale di sorveglianza e cioè nell'organo giudiziario che sarebbe stato ordinariamente competente per l'appello avverso la sola disposizione riguardante l'applicabilità o meno della misura di sicurezza, ai sensi del combinato disposto degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, c.p.p.

La Sezione rimettente ha però sottolineato l'esistenza di un orientamento difforme, secondo cui, per effetto del combinato disposto degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, c.p.p., la cognizione dell'impugnazione delle sole disposizioni contenute nella sentenza gravata riguardanti l'applicazione di misure di sicurezza, diverse dalla confisca, è devoluta alla competenza del tribunale di sorveglianza, ad eccezione del caso in cui, oltre al capo concernente la misura di sicurezza, sia oggetto di impugnazione anche un altro capo della sentenza che non riguardi esclusivamente gli interessi civili (Sez. 6, n. 16798 del 25 marzo 2021, Sillah Lamine, Rv. 281515-01).

Diverso è il caso in cui il giudice modifichi il titolo del reato, ma l'impugnazione del pubblico ministero non riguardi la modificazione del titolo di reato e la mancata applicazione della misura di sicurezza dell'espulsione del condannato dal territorio dello Stato. In questo caso l'ordinanza di rimessione evidenzia come sia stato ritenuto, in giurisprudenza, che l'oggettiva appellabilità della sentenza imponga, dato il contenuto del ricorso, circoscritto all'applicazione della misura di sicurezza, la necessità di promuovere il gravame di fronte non alla corte d'appello ma al tribunale di sorveglianza, unico organo giudiziario competente per gli appelli aventi ad oggetto esclusivamente le misure di sicurezza (Sez. 4, n. 1196 del 4 dicembre 2020, Tafi Alì, Rv. 280136).

4. Con provvedimento del 10 febbraio 2022, il Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite, fissando, per la trattazione, l'udienza pubblica del 26 maggio 2022. La trattazione è stata poi rinviata al 13 giugno 2022 per consentire la notifica al difensore della requisitoria scritta presentata dal Procuratore generale e il ricorso è stato deciso nelle forme di cui all'art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176.

5. Con note scritte in data 10 maggio 2022, il Procuratore generale presso questa suprema Corte ha chiesto qualificarsi il ricorso come impugnazione ai sensi dell'art. 680, comma 2, c.p.p. e conseguentemente disporsi la trasmissione degli atti al Tribunale di sorveglianza di Torino. Rileva il Procuratore generale che l'argomento relativo alla natura della valenza derogatoria dell'art. 443 c.p.p. rispetto alla regola generale dell'appellabilità delle sentenze di condanna è da ritenersi superato a seguito della modifica dell'art. 593, comma 1, c.p.p., il quale attualmente prevede che anche nel giudizio ordinario la possibilità per il pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di condanna sia limitata, essendo consentita solo nel caso in cui la sentenza abbia modificato il titolo del reato oppure, come previsione ulteriore rispetto all'art. 443, comma 3, c.p.p., abbia escluso la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o irrogato una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. La Corte costituzionale ha sottolineato che la preclusione di cui all'art. 443, comma 3, c.p.p., sia prima che dopo la modifica dell'art. 111 Cost., è stata costantemente ritenuta legittima, in quanto la soppressione del potere della parte pubblica di impugnare nel merito decisioni che segnano comunque la realizzazione della pretesa punitiva risulta razionalmente giustificabile alla luce dell'obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito abbreviato. E, d'altronde, è stata ritenuta legittima l'estensione dell'area della preclusione per il pubblico ministero alla proposizione dell'appello in caso di condanna, introdotta dal d.lgs. n. 11 del 2018 per quanto inerisce al rito ordinario, in quanto obiettivo fondamentale della riforma è la deflazione e la semplificazione dei processi. L'esigenza di ragionevole durata del processo non sarebbe d'altronde frustrata dalla soluzione inerente alla proponibilità dell'appello al tribunale di sorveglianza, non avendo quest'ultimo effetto sospensivo, salvo che il tribunale disponga altrimenti. Per converso tale esigenza non sarebbe egualmente assicurata qualora si ritenesse proponibile il ricorso per cassazione, poiché il giudice di legittimità non potrebbe che disporre l'annullamento con rinvio per una nuova valutazione in merito alla pericolosità sociale e la relativa statuizione sarebbe ulteriormente ricorribile per cassazione, con la conseguente possibilità di un ulteriore passaggio decisionale. Occorre inoltre tener presente l'autonomia delle vicende processuali delle misure di sicurezza disposte con sentenza di condanna, prevista dal comma 2 dell'art. 579 c.p.p., con la netta distinzione rispetto alla disciplina dell'impugnazione delle sentenze di condanna contemplata dal comma 1; la razionalità dell'attribuzione alla competenza funzionale di un giudice specializzato; la speciale previsione dell'effetto non sospensivo dell'appello. Altro dato testuale rilevante si rinviene nell'incipit dell'art. 593 c.p.p., che, nel disciplinare l'ambito generale di proponibilità dell'appello, fa salvi sia l'art. 443, comma 3, c.p.p. sia, per intero, proprio gli artt. 579 e 680 c.p.p. Previsione significativa del riconoscimento di due distinti e compatibili spazi di operatività, da un lato, della preclusione, per il pubblico ministero, dell'appello nel caso di condanna, da limitare ai capi penali della sentenza, e, dall'altro, dell'impugnazione avverso le sole disposizioni della sentenza che riguardano le misure di sicurezza diverse dalla confisca. Un ulteriore, decisivo, argomento è quello relativo alla competenza funzionale del tribunale di sorveglianza per tutta la materia delle misure di sicurezza diverse dalla confisca, sia nel caso d'appello, sia nel caso di esecuzione. Attribuzione che si giustifica con la differenza strutturale del giudizio di pericolosità sociale giustificativo della misura di sicurezza rispetto a quello di colpevolezza alla base della sentenza di condanna. Secondo il Procuratore generale, deve quindi concludersi nel senso che la preclusione di cui all'art. 443, comma 3, c.p.p. va riferita esclusivamente all'appello previsto per l'impugnazione dei capi penali della sentenza di condanna, mentre, qualora il pubblico ministero si dolga che la sentenza di condanna abbia omesso di disporre l'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, deve proporre appello dinanzi al tribunale di sorveglianza, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, c.p.p. Lo stesso principio va affermato con riferimento al rito ordinario, a seguito dell'estensione della citata preclusione da parte del d.lgs. n. 11 del 2018, in sede di modifica dell'art. 593, comma 1, c.p.p. Resta quindi assorbita l'ulteriore questione posta dall'ordinanza di rimessione relativamente all'individuazione del giudice di rinvio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le questioni di diritto sottoposte all'esame delle Sezioni unite possono essere formulate nei seguenti termini: "Se l'impugnazione, da parte del pubblico ministero, della sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, che abbia omesso di disporre, ai sensi dell'art. 86, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, la misura di sicurezza della espulsione dell'imputato straniero dal territorio dello Stato, debba essere presentata e trattata nelle forme del ricorso per cassazione ovvero in quelle dell'appello di fronte al tribunale di sorveglianza, ai sensi dell'art. 579, comma 2, c.p.p.

Se, nel caso di ritenuta ricorribilità per cassazione, il rinvio a seguito di annullamento della sentenza impugnata debba essere disposto in favore del giudice che ha emesso la sentenza stessa ovvero in favore del tribunale di sorveglianza competente ai sensi dell'art. 680, comma 2, c.p.p.".

2. L'analisi prenderà le mosse dalla disamina degli opposti orientamenti enucleabili in subiecta materia dalla giurisprudenza.

Un primo indirizzo giurisprudenziale, maggioritario, ritiene ammissibile, per il pubblico ministero, il solo ricorso per cassazione avverso la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire sull'applicazione della misura di sicurezza dell'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, obbligatoria ove ne ricorrano i presupposti ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. 6, n. 29544 del 7 ottobre 2020, Zheng Qiu, Rv. 279890-01; Sez. 4, n. 35977 del 7 maggio 2019, Belguith Sami, Rv. 276863; Sez. 1, n. 27798 del 25 giugno 1998, El Kahdri, Rv. 240909-01). Nell'ambito di quest'orientamento, si riconosce, in particolare, la portata derogatoria della disposizione di cui all'art. 443, comma 3, c.p.p. rispetto alle disposizioni che prevedono la competenza del tribunale di sorveglianza in ordine all'appello riguardante le misure di sicurezza diverse dalla confisca. Di qui la prevalenza del limite alla legittimazione all'impugnazione del pubblico ministero, al quale è consentito il solo ricorso per cassazione in relazione alla mancata applicazione della misura di sicurezza con la sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato. Nel caso dell'espulsione dal territorio dello Stato, trattandosi di misura di sicurezza obbligatoria, l'omessa valutazione delle condizioni per la sua applicabilità comporta l'annullamento della sentenza impugnata su tale specifico punto della decisione, con rinvio al giudice che l'ha pronunciata perché proceda a nuovo giudizio in ordine alla verifica della pericolosità sociale dell'imputato, non potendo gli atti essere trasmessi al tribunale di sorveglianza, attesa l'inappellabilità della sentenza di condanna (Sez. 3, n. 32173 dell'8 maggio 2018, P., Rv. 273693-01). Si ritiene dunque non esperibile l'appello ex art. 680, comma 2, c.p.p., rilevando che la particolarità del mezzo di gravame previsto da quest'ultima norma non giustifica la disapplicazione della generale preclusione stabilita per il pubblico ministero dall'art. 443, comma 3, c.p.p. in relazione alla proposizione dell'appello avverso le sentenze di condanna emesse all'esito del giudizio abbreviato, salvo che abbiano modificato il titolo del reato. La definizione in termini di appello, ai sensi dell'art. 680, comma 3, c.p.p., dell'impugnazione di fronte al tribunale di sorveglianza dei provvedimenti relativi alle misure di sicurezza trova la propria giustificazione negli evidenti connotati di merito della necessaria valutazione di pericolosità sociale del condannato (Sez. 1, n. 27798 del 25 giugno 2008, El Khadri, Rv. 240909-01). Ne consegue che unico mezzo d'impugnazione a disposizione del pubblico ministero avverso la sentenza di condanna di un cittadino straniero, emessa a seguito di giudizio abbreviato, che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza è il ricorso per cassazione (Sez. 3, n. 32173 dell'8 maggio 2018, Asibor, non mass. sul punto; Sez. 1, n. 1834 dell'11 gennaio 2011, Poeta, non mass. sul punto; nello stesso senso, relativamente a una sentenza di patteggiamento, essendo lo stesso il principio, come vedremo in prosieguo, Sez. 3, n. 7641 del 3 febbraio 2010, Grigoras, Rv. 246196; Sez. 3, n. 34805 del 1° luglio 2009, Toma, Rv. 244570), in considerazione dell'espressa qualificazione normativa del gravame innanzi al tribunale di sorveglianza come appello e della correlata preclusione prevista dall'art. 443 c.p.p. Ne deriva che l'appello presentato dal pubblico ministero dinanzi al tribunale di sorveglianza deve essere qualificato come ricorso per cassazione (Sez. 1, n. 27798 del 25 giugno 2008, El Khadri, Rv. 240909). La soluzione prospettata viene affermata dalla Corte anche in relazione all'omessa applicazione di misure di sicurezza personali diverse dall'espulsione dal territorio dello Stato: così, ad esempio, Sez. 1, n. 1834 dell'11 gennaio 2011, Poeta, cit., in una fattispecie nella quale era stato riconosciuto il vizio parziale di mente dell'imputato, ma non era stata disposta l'applicazione della misura di sicurezza in relazione alla ravvisata pericolosità dell'imputato, ha ritenuto il ricorso per cassazione unico rimedio impugnatorio esperibile, escludendo espressamente l'appello ex art. 680, comma 2, c.p.p. (cfr. anche Sez. 5, n. 34818 del 20 settembre 2021, Sekyere, in tema di mancata applicazione della misura di sicurezza ai sensi dell'art. 235 c.p.).

3. Secondo tale indirizzo interpretativo, in caso di annullamento, il rinvio deve essere disposto dinanzi al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato, ai sensi dell'art. 623, comma 1, lett. d), c.p.p., proprio a causa dell'inappellabilità della sentenza di condanna emessa all'esito di giudizio abbreviato. Ciò in ragione del disposto dell'art. 569, comma 4, c.p.p., che prevede che solo laddove il ricorrente abbia proposto ricorso per saltum e fuori dai casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuto annullare la sentenza di primo grado il rinvio comporti la trasmissione degli atti al giudice competente per l'appello. Non essendo proponibile l'appello avverso la sentenza di condanna emessa nel giudizio abbreviato, l'accoglimento del ricorso determina l'annullamento con rinvio al medesimo tribunale che ha pronunciato la sentenza annullata, pur se il giudice deve essere diverso da quello che ha emanato quest'ultima (Sez. 4, n. 26572 del 15 settembre 2020, Sambou Lamin; Sez. 5, n. 32047 del 10 giugno 2014, Dulap Dumitru). In tale prospettiva, Sez. 3, n. 32173 dell'8 maggio 2018, P., Rv. 273693-01, nell'annullare in parte qua, per violazione di legge, la sentenza, emessa in sede di abbreviato, per il reato di importazione di sostanze stupefacenti, per non avere il tribunale disposto, ai sensi dell'art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990, la misura di sicurezza dell'espulsione del condannato straniero dal territorio dello Stato, ha individuato quale giudice del rinvio quello che ha pronunciato la sentenza di condanna e non il tribunale di sorveglianza. Ha ulteriormente sottolineato che, ai sensi degli artt. 579 e 680 c.p.p., l'impugnazione si propone dinanzi alla corte di appello allorché ne sia oggetto anche un altro capo della sentenza diverso dai soli profili civili. È competente, invece, il tribunale di sorveglianza se l'impugnazione è proposta contro le sole disposizioni della sentenza che riguardano le misure di sicurezza.

Poiché dunque l'omessa statuizione sulla misura di sicurezza obbligatoria integra un'ipotesi di violazione di legge, l'annullamento con rinvio deve essere disposto dinanzi al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato, attesa la non appellabilità della sentenza di condanna emessa all'esito del giudizio abbreviato (Sez. 4, n. 26572 del 15 settembre 2020, Sambou Lamin; Sez. 4, n. 35977 del 7 maggio 2019, Belguith Sami, Rv. 276863-01; Sez. 3, n. 32173 dell'8 maggio 2018, Rv. 273693-01; Sez. 5, n. 32047 del 10 giugno 2014, Dulap Dumitru).

Alla stregua di una diversa opzione ermeneutica, relativa all'individuazione del giudice del rinvio, anche nel caso di ritenuta ammissibilità, per il pubblico ministero, del solo ricorso per cassazione, è il tribunale di sorveglianza il giudice del rinvio ove si configuri l'impugnazione come una sorta di ricorso per saltum necessitato dalla legge. L'orientamento maggioritario contrasta questa soluzione, argomentando che essa presuppone comunque l'appellabilità innanzi al tribunale di sorveglianza dei capi della sentenza concernenti le sole misure di sicurezza personali, in quanto l'art. 569, comma 1, c.p.p. conferisce il diritto di ricorrere alla parte che ha il diritto di appellare: in mancanza del diritto di appellare non è configurabile il ricorso per saltum e, dunque, l'applicabilità dell'art. 569, comma 4, c.p.p.

4. Un problema parzialmente diverso è stato affrontato da Sez. 5, n. 1196 del 4 dicembre 2020, dep. 2021, Tafif, Rv. 280136-01, la quale ha ritenuto l'ammissibilità dell'appello del pubblico ministero innanzi al tribunale di sorveglianza avverso la sentenza di condanna emessa all'esito di giudizio abbreviato che abbia modificato anche uno solo dei titoli di reato, pur se venga contestata esclusivamente l'omessa statuizione sull'applicazione della misura di sicurezza, operando in tale ipotesi la previsione generale di cui all'art. 443, comma 3, c.p.p. A tale conclusione condurrebbe l'espressa definizione normativa del mezzo di impugnazione come "appello", in considerazione degli evidenti connotati di merito di cui è intrisa la necessaria valutazione di pericolosità sociale del condannato. Ove si tratti infatti di sentenza di primo grado emessa all'esito di giudizio abbreviato, la preclusione stabilita dall'art. 443, comma 3, c.p.p. costituisce un'eccezione alla regola generale dell'appellabilità che è fissata dall'art. 593 c.p.p. e che si riespande nell'ipotesi di cui alla seconda parte del comma citato.

5. Un contrario orientamento ritiene, invece, che debba esser escluso che la previsione dell'inappellabilità delle sentenze di condanna, emesse in esito a giudizio abbreviato, da parte del pubblico ministero possa avere portata derogatoria alla competenza funzionale del tribunale di sorveglianza in tema di appello avverso i soli capi della sentenza relativi alle misure di sicurezza, diverse dalla confisca. Ne deriva che, in tema di misure di sicurezza personali, il pubblico ministero non può ricorrere per cassazione avverso la sentenza di condanna pronunziata a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di disporre l'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, sicché il ricorso va riqualificato come appello dinanzi al tribunale di sorveglianza ai sensi dell'art. 680, comma 2, c.p.p. La limitazione alla proponibilità dell'appello deve, infatti, ritenersi riferita ai soli capi penali della pronuncia di condanna emessa all'esito di giudizio abbreviato. Di qui la piena compatibilità del regime speciale dell'inappellabilità con il carattere sistematico e generale della competenza funzionale del tribunale di sorveglianza a pronunciarsi sull'appello del pubblico ministero avverso le sole statuizioni sulle misure di sicurezza diverse dalla confisca. Dalla complessiva lettura degli artt. 579 e 680 c.p.p. si evince infatti che tutte le sentenze, di condanna e di proscioglimento, indipendentemente dal grado e dalla fase in cui sono state emesse e dal rito processuale prescelto, allorché l'impugnazione riguardi esclusivamente una misura di sicurezza personale possono essere impugnate soltanto davanti al tribunale di sorveglianza. L'art. 443, comma 3, c.p.p. ha, infatti, carattere di norma eccezionale e di stretta interpretazione, insuscettibile di derogare alla competenza funzionale attribuita al tribunale di sorveglianza da disposizioni normative di carattere sistematico e generale. I limiti di appellabilità del giudizio abbreviato devono infatti essere inquadrati nel regime ordinario delle impugnazioni delle sentenze che riguardano le misure di sicurezza ex art. 579 c.p.p. D'altronde l'art. 593 c.p.p., nel disciplinare, con l'inciso iniziale, l'ambito generale di applicazione dell'appello, fa salvi, oltre all'art. 443, comma 3, c.p.p., anche, e per intero, proprio gli artt. 579 e 680 c.p.p., circoscrivendo la possibilità di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna al caso in cui esse modifichino il titolo del reato o escludano la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale o stabiliscano una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Vi è poi un argomento sistematico, che fa leva sulla necessità di riservare a un giudice specializzato la competenza in materia di misure di sicurezza, in linea con le finalità evidenziate anche nei lavori preparatori al codice di procedura penale, dove si rileva l'opportunità di lasciare al giudice della cognizione la competenza solo sulle impugnazioni relative alla confisca, sul rilievo che solo questa misura investe generalmente questioni estranee alle normali attribuzioni cognitive della magistratura di sorveglianza (cfr. pag. 198 e 199 della Relazione al testo definitivo del codice di procedura penale, in G.U., serie generale, n. 250 del 24 ottobre 1988, suppl. ord. n. 93). Secondo tale indirizzo, ulteriore conforto alla soluzione interpretativa in esame proviene da Sez. un., n. 3423 del 29 ottobre 2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 280262-01-03, che ha evidenziato l'autonomia delle vicende processuali correlate all'impugnazione delle misure di sicurezza disposte con sentenza di condanna irrevocabile in ordine all'accertamento del reato e alla determinazione della relativa pena. La rilevata autonomia processuale giustificherebbe, dunque, l'attribuzione al giudice di sorveglianza della competenza funzionale sull'appello avverso le misure di sicurezza (Sez. 6, n. 8873 del 10 febbraio 2022, Mannai, Rv. 282913-01; Sez. 6, n. 53938 del 20 novembre 2018, Bourilahrach; Sez. 6, n. 49934 del 25 settembre 2018, Mbosi). Alla luce di tali considerazioni si afferma che l'estensione del limite di appellabilità della sentenza di condanna emessa all'esito di giudizio abbreviato al caso di omessa statuizione in ordine alla misura di sicurezza personale appare priva di coerenza anche in relazione alla semplificazione del rito e distonica rispetto alla generale competenza del tribunale di sorveglianza cui la legge assegna la verifica dei presupposti per l'applicazione delle misure di sicurezza, diverse dalla confisca, anche nella fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza, a norma dell'art. 679 c.p.p. (Sez. 6, n. 16798 del 25 marzo 2021, Sillah, Rv. 281515). Viene dunque individuata una competenza di natura funzionale del tribunale di sorveglianza in materia di impugnazione di misure di sicurezza personali e di conseguente accertamento della pericolosità sociale, allorché venga impugnato solo il capo di sentenza che riguarda la misura di sicurezza, sulla base della formulazione dell'art. 680, comma 2, c.p.p., che individua l'ambito cognitivo di tale giudizio di appello non solo in caso di sentenza di condanna, ma anche di proscioglimento. Ne deriva il carattere sistemico della regola sulla competenza funzionale esclusiva del tribunale di sorveglianza, derogatoria rispetto alla previsione di cui all'art. 443, comma 3, c.p.p., che esclude la legittimazione del pubblico ministero all'appello avverso la sentenza di condanna pronunciata in sede di giudizio abbreviato (Sez. 6, n. 49934 del 25 settembre 2018, Mbosi, cit.). In questa prospettiva si aggiunge che, anche nel caso di sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio ordinario, sono previsti limiti, sia pure meno ampi, all'appello del pubblico ministero. L'art. 593, comma 1, c.p.p. legittima, infatti, il pubblico ministero all'appello avverso le sentenze di condanna solo nel caso in cui abbiano modificato il titolo del reato o abbiano escluso la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o abbiano stabilito una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Al di fuori di tali casi, ove la sentenza di condanna abbia omesso di pronunciare su una misura di sicurezza personale, non è consentito l'appello del pubblico ministero. Tuttavia, questa previsione individua i limiti alla proponibilità dell'appello sulla regiudicanda principale, mentre la disciplina dell'appellabilità delle sentenze di condanna in relazione all'applicazione delle sole misure di sicurezza trova autonomi referenti normativi negli artt. 579 e 680 c.p.p. E dunque deve ritenersi sussistente una deroga al regime generale dell'inappellabilità delle sentenze di condanna da parte del pubblico ministero laddove oggetto del gravame sia la sola omessa applicazione della misura di sicurezza personale. In questa prospettiva, con riferimento alle sentenze del giudice di pace, si ritiene che sia proponibile appello dinanzi al tribunale di sorveglianza e non ricorso per cassazione, in virtù degli artt. 680, comma 2, e 579, comma 2, c.p.p. (Sez. 5, n. 2656 del 21 settembre 2006, dep. 2007, Rv. 236302). Quest'orientamento, affermando la prevalenza della competenza funzionale del tribunale di sorveglianza sul regime dell'appellabilità soggettiva delle sentenze di condanna emesse all'esito di giudizio abbreviato, conclude per l'inammissibilità del ricorso per cassazione avverso le sole statuizioni sulle misure di sicurezza diverse dalla confisca, privilegiando la soluzione della riqualificazione del gravame come appello dinanzi al tribunale di sorveglianza ai sensi dell'art. 680, comma 2, c.p.p. L'eventuale ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero, nel caso di acquiescenza prestata dall'imputato alla condanna non seguita dall'applicazione di misura di sicurezza personale, rileva infatti come errore nella qualificazione del mezzo di impugnazione e nell'individuazione del giudice competente, emendabile mediante la conversione dell'impugnazione da parte della Corte di cassazione. Resta comunque impregiudicato che l'eventuale impugnazione da parte dell'imputato di capi e punti della sentenza relativi a profili di responsabilità penale o alla pena impone di devolvere l'intera regiudicanda alla corte d'appello - o al tribunale in qualità di giudice d'appello - nel rispetto del simultaneus processus, per lo stretto legame esistente tra accertamento del reato e giudizio sulla pericolosità sociale, come nel caso in cui il gravame verta sui presupposti oggettivi della misura di sicurezza e cioè sull'accertamento dei fatti sui quali si fonda l'imputazione ovvero sulla qualificazione giuridica attribuita ai medesimi. In tale ipotesi, salvo che il gravame proposto dall'imputato risulti inammissibile, l'appello al tribunale di sorveglianza ex art. 680, comma 2, c.p.p. è destinato ad essere convertito in appello dinanzi alla corte d'appello o al tribunale in qualità di giudice di secondo grado avverso le sentenze emesse dal giudice di pace.

6. Le Sezioni unite ritengono condivisibile l'orientamento maggioritario. Occorre muovere dall'analisi dei dati testuali di riferimento e, in primo luogo, dal dettato dell'art. 443, comma 3, c.p.p. Quest'ultima disposizione stabilisce che il pubblico ministero non possa proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato. Per quanto attiene a quest'ultima nozione, occorre, in via preliminare, precisare, al fine di perimetrare adeguatamente l'ambito della preclusione di cui all'art. 443, comma 3, c.p.p., che la giurisprudenza è prevalentemente orientata per una interpretazione notevolmente ampia del concetto di "mutamento del titolo di reato", ammettendo, ad esempio, il gravame del pubblico ministero avverso la sentenza che, contraddicendo una contestazione di concorso formale di reati, stabilisca l'assorbimento della fattispecie meno grave in quella più grave (Sez. 6, n. 1651 del 12 novembre 2019, dep. 2020, Rv. 278215); oppure avverso la sentenza che riqualifichi in eccesso colposo di legittima difesa l'originaria contestazione di omicidio preterintenzionale (Sez. 5, n. 15713 del 2 febbraio 2018, Balla, Rv. 272840-01). È invece irrilevante, ai fini in disamina, il riconoscimento di attenuanti, sia pure a carattere specifico (Sez. 4, n. 38879 del 29 settembre 2005, Frank, Rv. 232429-01, risalente all'epoca in cui l'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 prevedeva una circostanza attenuante e non un titolo autonomo di reato). Occorre poi precisare che l'appello è consentito in caso di modifica dell'imputazione anche quando sia stato lo stesso pubblico ministero a chiederla e la sentenza abbia accolto tale richiesta (Sez. 4, n. 48825 del 25 ottobre 2016, Dhif, Rv. 268217-01; Sez. 6, n. 6000 del 19 febbraio 1991, Tunisi, non mass.). Peraltro, laddove sia ammissibile, l'appello della parte pubblica non deve essere finalizzato esclusivamente al ripristino dell'originaria imputazione, essendo ammissibili motivi subordinati al mancato accoglimento del motivo principale (Sez. 6, n. 6274 del 17 novembre 2010, dep. 2011, Chiefari, Rv. 249462-01; Sez. 5, n. 5153 del 18 febbraio 1992, Rodigari, Rv. 190066-01). Si è poi correttamente specificato, in giurisprudenza, che il mutamento del titolo di reato, determinando l'appellabilità tout court della sentenza, comporta l'impugnabilità, da parte del pubblico ministero, non solo della decisione concernente la diversa qualificazione giuridica, ma di ogni altro aspetto della sentenza di condanna, nei limiti di cui al comma 1 dell'art. 593 c.p.p. (Sez. 5, n. 21176 del 5 aprile 2006, Santonocito, Rv. 233989-01).

6.1. Così delimitata l'area della preclusione stabilita dall'art. 443, comma 3, c.p.p., occorre evidenziare che tale norma costituisce attuazione del dettato della legge-delega (l. 16 febbraio 1987, n. 81), che, all'art. 2, punto 53, prevede la previsione di limiti alla appellabilità della sentenza emessa nell'ambito del rito abbreviato. E nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale si chiarisce che le disposizioni in tema di limitazione dell'appellabilità della sentenza emessa nel giudizio abbreviato tendono a evitare, in attuazione delle finalità espresse dalla legge-delega, che il giudizio svoltosi con rito abbreviato in primo grado possa ritardare la sua completa definizione, rendendo inutile l'accelerazione del processo in primo grado (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale in G.U., suppl. ord. n. 2 alla Gazzetta Ufficiale n. 250 del 24 ottobre 1988, p. 106). La previsione della possibilità per il pubblico ministero di appellare la sentenza con cui venga modificato il titolo di reato è stata inserita nel testo definitivo dell'art. 443 c.p.p., in adesione ad una proposta formulata in tal senso dalla Commissione parlamentare, come unica eccezione al principio dell'inappellabilità per la pubblica accusa della pronuncia di condanna emessa in abbreviato. La Corte costituzionale ha ritenuto che le limitazioni all'appellabilità della sentenza si giustificano, poiché la pronuncia di condanna realizza un sostanziale accoglimento delle tesi accusatorie e il principio di parità tra le parti non implica una necessaria simmetria tra i poteri di impugnazione della decisione giudiziale (Corte cost., sent. n. 305 del 15 giugno 1992; Corte cost., sent. n. 363 del 23 luglio 1991). Il giudice delle leggi ha, inoltre, escluso che la disciplina in esame si ponga in contrasto con il principio di obbligatorietà dell'azione penale, di cui all'art. 112 Cost. (Corte cost., sent. n. 98 del 24 marzo 1994).

Qualche dubbio è stato prospettato dopo le riforme attuate mediante la l. n. 479 del 1999, soprattutto sulla base del rilievo che per l'instaurazione del giudizio abbreviato non è più previsto il consenso del pubblico ministero, ragion per cui l'esclusione dell'appello contro la sentenza di condanna non si ricollega più ad una manifestazione di volontà in precedenza espressa dal requirente. Si è, quindi, obiettato, in dottrina, che, se la posizione assunta dalla Corte costituzionale appariva comprensibile nella struttura originaria del rito, allorquando quest'ultimo si celebrava solo se ed in quanto il pubblico ministero avesse prestato il consenso, una volta venuto meno quest'ultimo requisito la limitazione alla appellabilità della sentenza non trova più giustificazione. La Corte costituzionale ha confermato la valutazione di legittimità costituzionale del nuovo quadro normativo, sottolineando la portata incentivante della preclusione all'appello del pubblico ministero, che vale a incrementare la funzione deflattiva del rito abbreviato. D'altronde - ha osservato ancora il giudice delle leggi - il ruolo del pubblico ministero non è sminuito dall'eliminazione del consenso alla celebrazione del processo con il rito abbreviato, poiché quest'ultimo si fonda pur sempre sull'utilizzazione di atti d'indagine cui l'imputato presta il consenso, accedendo al rito (Corte cost., sent. n. 421 del 21 novembre 2011; Corte cost., sent. n. 347 del 16 luglio 2002). E, con specifico riguardo al principio di parità tra le parti, la Corte costituzionale ha posto in rilievo come le maggiori possibilità di impugnazione siano riservate al soggetto che, sia pure di propria ed esclusiva iniziativa, sopporta la limitazione tipica del giudizio abbreviato e cioè la valorizzazione di elementi probatori non acquisiti in contraddittorio (Corte cost., sent. n. 26 del 2007; Corte cost., sent. n. 165 del 9 maggio 2003). E il giudice delle leggi ha confermato, sia pure incidentalmente, questi assunti anche nella decisione sull'inappellabilità della sentenza di proscioglimento emessa nel giudizio abbreviato (Corte cost., sent. n. 320 del 2007). L'art. 443, comma 3, c.p.p. è dunque norma che investe non un aspetto secondario, ma un profilo essenziale della struttura del giudizio abbreviato, inerendo alla ratio dell'istituto, che è quella di imprimere cadenze acceleratorie al giudizio, sia in primo grado che in fase d'impugnazione, onde addivenire celermente alla definizione del processo, come evidenziato nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale. È vero che, nella specie, la proponibilità in via esclusiva del ricorso per cassazione comporta, come correttamente sottolineato anche dal Procuratore generale, l'eventualità di un annullamento con rinvio al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, con conseguente dilatazione dei tempi di definizione del processo. Ma da ciò non può inferirsi che la previsione relativa alla limitazione dell'appellabilità della sentenza di condanna da parte del pubblico ministero non risponda di per sé a logiche di celerità e speditezza nella definizione della regiudicanda, mediante l'eliminazione di un grado di giudizio.

6.2. Sotto altro profilo occorre rilevare come il tenore testuale del disposto dell'art. 443, comma 3, c.p.p. sia del tutto univoco nel riferire la preclusione della proponibilità dell'appello alle "sentenze" di condanna. E non sembra potersi revocare in dubbio che il termine sentenza nel lessico giuridico faccia riferimento alla pronuncia giudiziale nella sua unitarietà e dunque al complesso delle statuizioni in essa contenute, senza che sia possibile espungerne qualcuna, per sottoporla a un regime differenziato. Non vi è dunque base testuale per l'assunto secondo il quale il disposto dell'art. 443, comma 3, c.p.p. circoscriverebbe la preclusione della proponibilità dell'appello ai capi penali della sentenza. È vero che l'attività di interpretazione non può mai esaurirsi nel mero esame dei dati testuali, poiché il significato dei termini utilizzati dal legislatore va spesso ricavato da elementi extratestuali. E infatti l'art. 12 delle preleggi, dopo aver prescritto di attribuire alle parole il loro significato proprio, secondo la connessione di esse, impone di tener conto altresì dell'intenzione del legislatore. In secondo luogo, le leggi, nel disciplinare atti, comportamenti umani e rapporti intersoggettivi, si riferiscono in generale a classi di atti, di comportamenti o di rapporti: spetta all'interprete, di fronte ai singoli casi concreti, decidere se considerare o meno inclusi gli atti, i comportamenti o i rapporti in disamina nella disciplina dettata dalla singola norma. A tal fine l'interprete dovrà utilizzare gli strumenti ermeneutici forgiati da una secolare tradizione dottrinaria e giurisprudenziale, avvalendosi di criteri logico-sistematici, attraverso la collocazione della norma nel quadro complessivo del sistema in cui essa si inserisce, onde evitare contraddizioni e istituire opportuni coordinamenti. Uno dei criteri logici certamente utilizzabili dall'interprete è rappresentato dal canone ermeneutico, che viene specificamente in rilievo nella problematica in disamina, lex plus dixit (o minus dixit) quam voluit, che induce a interpretare in senso restrittivo (o ampliativo) una norma, ascrivendo ai termini utilizzati dal legislatore una latitudine semantica più ristretta (o più ampia) di quella enucleabile dal tenore letterale della norma stessa, alla quale viene così attribuito un ambito applicativo più circoscritto (o più vasto). Rimane tuttavia fondamentale il canone ermeneutico in claris non fit interpretatio, il quale prescrive di attenersi, ove la lettera della legge non sia oscura, a una interpretazione fedele al tenore testuale della norma. In questa prospettiva, le Sezioni unite hanno già avuto modo di chiarire che l'interpretazione letterale della legge è il canone ermeneutico prioritario per l'interprete, sicché l'ulteriore criterio dato dall'interpretazione logica e sistematica soccorre e integra il significato proprio delle parole, arricchendolo delle indicazioni derivanti dalla ratio della norma e dal suo inserimento nel sistema, ma tale criterio non può servire a scavalcare o eludere quello letterale allorché la disposizione della quale occorra fare applicazione sia chiara e precisa (Sez. un., n. 46688 del 29 settembre 2016, Schirru, Rv. 267885). Del resto, la stessa giurisprudenza costituzionale ha più volte ribadito che il significato della lettera della norma impugnata non può essere valicato neppure per mezzo dell'interpretazione costituzionalmente conforme e dunque impedisce di conseguire in via interpretativa l'effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre (così, ex plurimis, Corte cost., sent. n. 110 del 2012). Anche se deve essere precisato che, se prioritario, nel senso indicato, è l'esame delle connotazioni testuali della norma (Sez. un., n. 3464 del 30 novembre 2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831), tale esame non esonera certo il giudice dalla ricerca di tutti i possibili significati enucleabili dal testo. All'interno di quello che, in ambito civile, è stato indicato come il limite di "tolleranza ed elasticità del significante testuale" (Sez. un. civ., n. 27341 del 23 dicembre 2014, Rv. 633927-01), l'interprete deve quindi esplorare a fondo le potenzialità linguistiche della disposizione legislativa, individuando, anche alla luce del sistema normativo in cui è inserita, tutti i possibili coerenti significati autorizzati dal testo. Il dato letterale, dunque, è l'oggetto prioritario dell'attività interpretativa e ne segna il limite "esterno" (Corte cost., sent. n. 230 del 2012). Ma il perimetro individuato, per l'interprete, dal limite esterno rappresentato dal dato testuale ben può includere - e spesso include - una pluralità di significati attribuibili al testo della disposizione: pluralità desumibile, ad esempio, dall'intrinseca polisemia dello stesso dato testuale, così come dalla lettura di quest'ultimo nel contesto delineato dal sistema normativo in cui si colloca e dalla disciplina legale dell'istituto di cui la norma è parte (Sez. un., n. 40986 del 19 luglio 2018, P., Rv. 273934-01).

In tale contesto, dunque, assume un significato univoco il termine "sentenze", che fa espresso riferimento al complesso delle statuizioni contenute nel provvedimento giurisdizionale. Il dato testuale induce dunque a ritenere che avverso nessuna delle statuizioni emanate con la sentenza emessa all'esito del giudizio abbreviato sia proponibile appello.

7. Non può d'altronde dubitarsi che l'impugnazione di fronte al tribunale di sorveglianza sia un appello. L'art. 680, commi 1 e 3, c.p.p. denomina infatti espressamente "appello" l'impugnazione di fronte al tribunale di sorveglianza concernente le misure di sicurezza. E, d'altronde, la definizione in termini di appello dell'impugnazione dei provvedimenti relativi alle misure di sicurezza di fronte al tribunale di sorveglianza trova la propria giustificazione, come correttamente è stato evidenziato in giurisprudenza (Sez. 1, n. 27798 del 25 giugno 2008, El Khadri, Rv. 240909-01), nella riscontrabilità di evidenti connotati di merito nella valutazione di pericolosità sociale del condannato, che costituisce il necessario presupposto della applicazione o meno della misura di sicurezza. Peraltro, se non si trattasse di un appello, sarebbe difficile individuare la natura giuridica di tale impugnazione, a meno di ritenere che si tratti di un tertium genus e cioè di un mezzo di impugnazione estraneo alla natura giuridica sia dell'appello che del ricorso per cassazione: dunque un unicum, connotabile senz'altro in termini di anomalia, esulante dalle linee fondanti del nostro ordinamento processuale in materia di impugnazioni e, quindi, certamente non configurabile in un'ottica di corretto inquadramento nell'architettura del sistema, tanto più che l'espressa denominazione di appello viene ribadita dal comma 3 dell'art. 680 c.p.p., laddove si stabilisce che esso non abbia effetto sospensivo. Ed infatti la dottrina e la giurisprudenza, nel focalizzare i tratti connotativi dell'impugnazione in esame, sono addivenute a conclusioni del tutto coerenti con l'attribuzione ad essa della natura giuridica di appello, laddove, ad esempio, la dottrina ha condivisibilmente affermato che la cognizione del tribunale di sorveglianza quale giudice di appello è limitata alle questioni prospettate dall'impugnante; oppure laddove, sotto il profilo strettamente procedimentale, la giurisprudenza ha correttamente evidenziato che la competenza territoriale del tribunale di sorveglianza, per le impugnazioni contro le sole disposizioni concernenti le misure di sicurezza, è determinata avendo riguardo al distretto giudiziario di appartenenza del tribunale che ha emesso la sentenza di primo grado (Sez. 1, n. 14602 del 10 gennaio 2011, Pucci, Rv. 249736). Sempre in una prospettiva del tutto aderente alla logica del giudizio di appello, si è poi sottolineato che il tribunale di sorveglianza osserva le regole del procedimento camerale partecipato, decidendo in pubblica udienza quando vi è richiesta dell'interessato, ai sensi dell'art. 678, comma 3.1, c.p.p., poiché nel procedimento di fronte al predetto tribunale trovano applicazione le disposizioni di cui all'art. 599 c.p.p., il quale rinvia alle forme dell'udienza in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 127 c.p.p. (Sez. 1, n. 25207 del 15 aprile 2019, Rv. 275846-01). Il richiamo all'osservanza delle disposizioni generali in materia di impugnazioni, contenuto nell'art. 680, comma 3, c.p.p., comporta poi l'operatività dell'art. 597, comma 3, c.p.p. sul divieto di reformatio in peius (Sez. 5, n. 48786 del 28 maggio 2013, Rv. 258659), che non consente al giudice d'appello di applicare una misura di sicurezza nuova o più grave nel caso in cui l'impugnazione sia stata presentata dal solo interessato (Sez. 1, n. 48304 del 7 giugno 2018, Rv. 274535-01).

8. Sotto il profilo logico-sistematico, occorre osservare come già ad un primo sguardo non possa non balzare all'occhio l'anomalia di un gravame di merito ammesso, nel giudizio abbreviato, da parte del pubblico ministero, soltanto in materia di misure di sicurezza. Bisognerebbe, infatti, ritenere, incongruamente, che al pubblico ministero sia preclusa la proposizione dell'appello laddove, ad esempio, siano state escluse circostanze aggravanti ad effetto speciale o siano state ravvisate attenuanti ad effetto speciale che il requirente ritenga palesemente insussistenti, con vistoso abbattimento della pena, e che l'unico punto della regiudicanda su cui il pubblico ministero possa proporre un gravame di merito sia quello inerente all'applicazione o meno di una misura di sicurezza personale. L'orientamento favorevole a tale conclusione ha ritenuto di trarre argomento a favore della propria tesi dai principi affermati da Sez. un., n. 3423 del 29 ottobre 2020, dep. 27 gennaio 2021, Gialluisi, Rv. 280261, in tema di autonomia del sistema delle impugnazioni delle misure di sicurezza. Si è infatti rilevato che le Sezioni unite, con la predetta pronuncia, hanno affermato, con riguardo al rapporto tra giudicato e misure di sicurezza, che l'esecutività della pena in caso di giudicato progressivo non presuppone la definitività della decisione relativa alle misure di sicurezza ordinate con sentenza, atteso che tale statuizione non influisce in alcun modo sui connotati che devono caratterizzare la pena suscettibile di esecuzione. Donde l'autonomia delle vicende processuali correlate all'impugnazione delle misure di sicurezza disposte con sentenza di condanna (Sez. 1, n. 2260 del 26 marzo 2014, dep. 2015, Rv. 261891; Sez. 1, n. 6371 del 31 gennaio 2006, Brusco, Rv. 233443) da attribuire alla competenza funzionale del giudice di sorveglianza, dalla cui decisione dipende la sola esecuzione delle misure di sicurezza ordinate con sentenza, analogamente alle vicende relative all'impugnazione dei soli capi civili che non condiziona l'eseguibilità della pena, a norma dell'art. 573, comma 2, c.p.p. (Sez. 6, n. 16798 del 25 marzo 2021, Rv. 281515-01).

Tali rilievi non appaiono condivisibili. La sentenza Gialluisi, invero, affrontando il tema del giudicato progressivo, ha messo in luce l'autonomia tra le statuizioni relative al reato e alla pena e quelle afferenti alle misure di sicurezza personali, che hanno percorsi distinti, anche in sede esecutiva. Le Sezioni unite hanno, quindi, stabilito che l'esecutività della sentenza in caso di giudicato progressivo non presuppone la definitività della decisione in ordine alle misure di sicurezza, inidonee ad influire sui connotati che devono caratterizzare la pena suscettibile di esecuzione. Di conseguenza, l'impugnazione della misura di sicurezza ha un percorso del tutto autonomo, che è delineato dal combinato disposto degli artt. 579, comma 2, e 680, comma 2, c.p.p. La problematica affrontata da Sez. un. Gialluisi concerne, quindi, una tematica diversa da quella oggetto di esame in questa sede, che riguarda il regime delle impugnazioni della misura di sicurezza personale. L'autonomia di quest'ultima è affermata nella sentenza Gialluisi al solo fine di sottolineare l'estraneità delle statuizioni ad essa relative rispetto alla problematica afferente all'eseguibilità della pena in caso di giudicato progressivo. Non può dunque inferirsene, per quanto attiene specificamente al giudizio abbreviato, la assoggettabilità delle statuizioni inerenti alle misure di sicurezza a un regime impugnatorio diverso da quello dei capi penali della sentenza.

9. Argomenti a sostegno della tesi favorevole all'ammissibilità dell'appello di fronte al tribunale di sorveglianza non possono nemmeno trarsi dall'affermazione secondo la quale sussiste, in materia di misure di sicurezza, una competenza funzionale di tale organo giurisdizionale. È assai diffusa l'affermazione secondo cui è attribuita al tribunale di sorveglianza una competenza funzionale in materia di misure di sicurezza personali (ex plurimis, Sez. 1, n. 51869 del 30 settembre 2019, Cruz Guzman, Rv. 277860; Sez. 1, n. 3645 del 22 dicembre 2017, N.L., non mass.; Sez. 5, n. 45650 del 26 settembre 2012, L.G., non mass.; Sez. 6, n. 26096 del 6 maggio 2004, Veizi, Rv. 229645). E infatti, a norma dell'art. 579, comma 2, c.p.p., l'impugnazione delle sole disposizioni della sentenza che riguardano le misure di sicurezza personali deve essere proposta al tribunale di sorveglianza (Sez. 6, n. 36535 del 22 settembre 2010, D., Rv. 248597-01). Ove dunque venga impugnato il solo capo della sentenza relativo all'applicazione della misura di sicurezza personale e al giudizio di pericolosità, la competenza funzionale appartiene al tribunale di sorveglianza (cfr., ad esempio, Sez. 6, n. 36535 del 22 settembre 2010, D., Rv. 248597-01, che ha annullato senza rinvio la sentenza della corte d'appello che aveva confermato la sentenza di proscioglimento dell'imputato, trattandosi di persona non imputabile, per totale incapacità di intendere di volere, con applicazione della libertà vigilata, disponendo la trasmissione degli atti al tribunale di sorveglianza competente, avendo la difesa dell'imputato impugnato il solo capo della sentenza relativo al giudizio di pericolosità sociale ed all'applicazione della misura di sicurezza non detentiva).

Occorre tuttavia distinguere il momento in cui il giudice dispone la misura di sicurezza personale da quello in cui essa ha la sua concreta esecuzione, previo accertamento del persistere della pericolosità sociale al tempo dell'effettiva attuazione (Corte cost., sent. n. 139 del 27 luglio 1982). Quest'ultima fase è disciplinata dagli artt. 679 e 680, comma 1, c.p.p., che affidano in via esclusiva le relative determinazioni alla magistratura di sorveglianza. Il sistema processuale penale non attribuisce, tuttavia, al tribunale di sorveglianza alcuna competenza esclusiva in materia di misure di sicurezza. Infatti la pronuncia di primo grado in subiecta materia non spetta al magistrato di sorveglianza, ma al giudice della cognizione. Ma, anche a voler circoscrivere tale competenza funzionale al giudizio di impugnazione, l'opzione ermeneutica in esame collide con il disposto dell'art. 579, comma 1, c.p.p. Tale norma stabilisce infatti, come è noto, che contro le sentenze di condanna, così come contro quelle di proscioglimento, è data impugnazione anche per ciò che concerne le misure di sicurezza, se l'impugnazione viene proposta per un altro capo della sentenza che non riguardi esclusivamente gli interessi civili. Ciò significa che laddove l'impugnazione involga una qualunque delle altre questioni poste dalla regiudicanda (responsabilità, qualificazione giuridica del fatto, sussistenza o insussistenza di una circostanza attenuante o aggravante, trattamento sanzionatorio e via dicendo), la competenza non appartiene affatto al tribunale di sorveglianza ma alla corte d'appello. L'attribuzione della competenza al tribunale di sorveglianza presuppone dunque che l'impugnazione sia limitata alle sole disposizioni che riguardino le misure di sicurezza, mentre, quando l'impugnazione riguarda altri capi penali della sentenza ovvero altri punti della decisione pur afferenti allo stesso capo, riprende vigore la regola generale che attribuisce la competenza al giudice della cognizione (Sez. 2, n. 29625 del 28 maggio 2019, A., Rv. 276450). In applicazione di questo principio, correttamente, pertanto, ad esempio, Sez. 1, n. 2457 del 16 dicembre 2008, Pedone, Rv. 242812, e Sez. 1, n. 6371 del 31 gennaio 2006, Brusco, Rv. 233443-01, hanno ritenuto competente la corte di appello a decidere sull'impugnazione avverso sentenza di proscioglimento in primo grado ed applicazione di misura di sicurezza personale per un'ipotesi di istigazione a delinquere non accolta, in quanto le censure investivano l'accertamento della condotta contestata all'imputato e la correttezza della formula assolutoria adottata. Ciò implica che si collochi al di fuori dell'area della competenza del tribunale di sorveglianza la cognizione non solo dei capi penali della sentenza, ma di tutti i punti relativi ai predetti capi, relativamente ai quali riprende vigore la regola generale che attribuisce la competenza al giudice della cognizione di merito (Sez. 1, n. 2260 del 26 marzo 2014, dep. 2015, Rv. 261891), con conseguente possibilità di rilevare ex officio l'incompetenza del tribunale di sorveglianza (Sez. 1, n. 2457 del 16 dicembre 2008, Pedone, cit.).

Va da sé che l'eventuale errore dell'interessato nella qualificazione del mezzo di impugnazione e nell'individuazione del giudice competente non determina l'inammissibilità dell'impugnazione ma comporta la conversione del mezzo, poiché il sistema processuale, informato ai principi di tassatività, unicità e specificità dei mezzi di impugnazione, nonché al favor impugnationis, impone di procedere all'esatta qualificazione del mezzo e di trasmettere gli atti al giudice competente (Sez. 1, n. 5528 del 12 febbraio 1991, Latorre, Rv. 187591-01).

Dall'architettura logico-giuridica in esame deriva che non può affermarsi una competenza funzionale generalizzata del tribunale di sorveglianza in materia di impugnazione delle disposizioni della sentenza che riguardano le misure di sicurezza, in quanto tale competenza è limitata al solo caso in cui venga impugnata la sola statuizione in tema di misura di sicurezza: ipotesi, dunque, concettualmente, oltre che operativamente, assai circoscritta e senz'altro inidonea a indurre a ritenere che il tribunale di sorveglianza sia un organo specializzato nella materia delle misure di sicurezza. È poi appena il caso di osservare che l'impugnazione concerne le sole misure di sicurezza quando i motivi riguardano la riforma o l'annullamento delle disposizioni della sentenza con le quali il giudice ha applicato o ha statuito di non applicare le misure di sicurezza o la dichiarazione di pericolosità. L'impugnazione concerne invece i capi penali della sentenza, con conseguente competenza della corte d'appello, se essa, sia pure al fine di ottenere la modifica o l'annullamento delle disposizioni riguardanti le misure di sicurezza, contesti la sussistenza dei fatti o la qualificazione giuridica di questi ultimi. Qualora la stessa sentenza sia impugnata per i capi penali da una parte diversa da quella che ha proposto impugnazione per le sole statuizioni relative alle misure di sicurezza, la necessità di un simultaneus processus che privilegi lo stretto legame esistente tra accertamento del reato e giudizio di pericolosità sociale impone di devolvere l'intera regiudicanda al giudice competente a conoscere dell'impugnazione avverso i capi penali (Sez. 5, 13 marzo 1990, Maruca).

10. È naturalmente appena il caso di precisare che, ai sensi dell'art. 313, comma 3, c.p.p., le misure di sicurezza disposte in via provvisoria sono equiparate alle misure cautelari ed esulano pertanto dall'ambito operativo dell'art. 579 c.p.p., ragion per cui il relativo provvedimento applicativo deve essere impugnato dinanzi al tribunale del riesame (Sez. 1, n. 3450 dell'8 marzo 1996, Cavataio, Rv. 204332; Sez. 1, n. 4492 del 27 ottobre 1993, Maraffa, Rv. 195907).

11. Completamente diversa è la situazione nell'ambito del giudizio ordinario. È noto che, a norma dell'art. 593, comma 1, c.p.p., così come novellato dall'art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. 8 febbraio 2018, n. 11, il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di condanna solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Quanto alla appellabilità delle pronunce di condanna che modificano il titolo di reato, la novella ha, all'evidenza, allineato la disciplina dell'appellabilità delle sentenze emesse al termine del rito ordinario al regime previsto per il giudizio abbreviato. Dunque è certamente vero che, a seguito della riforma del 2018, la divergenza tra il giudizio ordinario e il rito abbreviato risulta meno ampia che in passato, poiché, in sostanza, le possibilità aggiuntive di impugnazione da parte del pubblico ministero nel rito ordinario riguardano soltanto l'esclusione della sussistenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale - e cioè di quelle circostanze che importano un aumento della pena superiore a un terzo (art. 63, comma 3, c.p.p.) - o l'irrogazione di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. La Corte costituzionale, interrogata sulla ragionevolezza della nuova normativa, ha difeso le scelte del legislatore, ritenendo che l'impugnazione del pubblico ministero non sia giuridicamente connessa al principio di obbligatorietà dell'azione penale e che, diversamente dall'impugnazione dell'imputato, proiezione del suo inviolabile diritto di difesa, ex art. 24 Cost., essa si presenti pertanto più flessibile nel contrasto con altri valori di pari rango, come, ad esempio, il principio della ragionevole durata del processo (Corte cost., sent. n. 34 del 26 febbraio 2020). Esiste tuttavia, per quanto concerne il problema in esame, una insanabile alterità testuale: l'art. 593, comma 1, a differenza dell'art. 443, comma 3, c.p.p., richiama espressamente gli artt. 579 e 680 c.p.p. Ne deriva che, in sede di giudizio ordinario, il pubblico ministero che voglia impugnare la sentenza di condanna esclusivamente in ordine al capo concernente le misure di sicurezza, diverse dalla confisca, ha a disposizione lo strumento dell'appello di fronte al tribunale di sorveglianza. Qualora, invece, l'impugnazione riguardi esclusivamente la confisca, essa andrà proposta con gli stessi mezzi previsti per i capi penali, a norma dell'art. 579, comma 3, c.p.p. e cioè mediante appello di fronte alla corte d'appello o al tribunale in funzione di giudice d'appello avverso le sentenze del giudice di pace. Nel caso in cui il pubblico ministero impugni, unitamente alle statuizioni in tema di misure di sicurezza, anche un altro capo di sentenza, egli dovrà proporre l'appello di fronte alla corte d'appello (o al tribunale in funzione di giudice d'appello). Ove dunque l'impugnazione contro la decisione in materia di misure di sicurezza venga proposta contestualmente a quella che investe un altro capo della sentenza (purché non riguardante esclusivamente gli interessi civili) la seconda attrae la prima e dunque il giudizio si svolge di fronte al giudice dell'ordinario procedimento di cognizione, anche se tale impugnazione provenga da altra parte processuale (Sez. 5, n. 7848 del 13 marzo 1990, Maruca, Rv. 184521). La ratio della previsione è infatti quella di conservare l'unità del procedimento, impedendo che il processo unitario si scinda in una pluralità di procedimenti di controllo su un unico provvedimento. Quando il capo penale della sentenza sia passato in giudicato, in quanto non investito da impugnazione, il cumulo dei giudizi viene meno e la decisione sul gravame relativa alla misura di sicurezza viene attribuita alla magistratura di sorveglianza. Naturalmente ciò si riverbera sugli effetti del giudizio di appello poiché, ai sensi dell'art. 680, comma 3, c.p.p., l'appello al tribunale di sorveglianza non ha efficacia sospensiva, salvo che il tribunale disponga altrimenti, mentre tale effetto caratterizza il gravame dinanzi al giudice della cognizione. L'art. 593, comma 1, c.p.p. fa anche espressamente salvo l'art. 443, comma 3, c.p.p. e ciò significa che il pubblico ministero nel giudizio abbreviato può proporre appello nel solo caso di sentenza che muti la qualificazione giuridica del fatto, come confermato dal mancato richiamo nel corpus dell'art. 443, comma 3, degli artt. 579 e 680 c.p.p.

12. Deriva da quanto sin qui argomentato che, non essendo il pubblico ministero abilitato ad appellare la sentenza pronunciata in sede di rito abbreviato, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, il ricorso per cassazione dal medesimo proposto avverso la predetta decisione che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell'espulsione non può essere considerato ricorso per saltum, con la conseguenza che non trova applicazione il disposto dell'art. 569, ultimo comma, c.p.p., secondo cui il giudice competente per il giudizio di rinvio è il giudice competente per l'appello. Ne deriva che giudice del rinvio è lo stesso organo che ha emesso il provvedimento impugnato (Sez. 1, n. 32173 del 13 luglio 2018, Rv. 273693-01).

13. Sulla base delle argomentazioni sinora svolte, possono formularsi i seguenti principi di diritto: "La sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato che abbia omesso di statuire in ordine alla misura di sicurezza dell'espulsione (ai sensi dell'art. 86, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990) non è, sotto tale profilo, appellabile dal pubblico ministero al tribunale di sorveglianza ex art. 680 c.p.p. ma impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 608 c.p.p.

Se, in relazione alla omessa disposizione della misura di sicurezza dell'espulsione, è annullata la sentenza di un tribunale o di un giudice per le indagini preliminari, la Corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale ai sensi dell'art. 623, comma 1, lett. d), c.p.p.".

Deriva dal principio di diritto appena formulato la condivisibilità dell'affermazione che l'appello presentato dal pubblico ministero dinanzi al tribunale di sorveglianza deve essere qualificato come ricorso per cassazione, in ossequio al principio generale di cui all'art. 568, comma 5, c.p.p. (Sez. 1, n. 7516 del 7 febbraio 2020, Cadoni, Rv. 278625; Sez. 4, n. 35977 del 13 agosto 2019, Belguith Sami, Rv. 276863-01; Sez. 1, n. 27798 del 25 giugno 2008, El Khadri, Rv. 240909). Ove invece il tribunale di sorveglianza, ritenendo erroneamente la propria competenza, sia addivenuto ad una pronuncia, quest'ultima andrà annullata senza rinvio, in sede di legittimità (Sez. 3, n. 34805 del 1° luglio 2009, Toma, Rv. 244570-01).

14. Per quanto attiene al caso in esame, il ricorso proposto dal Procuratore generale è fondato. L'imputato è stato, infatti, condannato per il reato di cui all'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 58 del 24 febbraio 1995, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 86, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 nella parte in cui obbligava il giudice ad emettere, senza l'accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale, contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, d.P.R. n. 309 del 1990. In questa prospettiva, la Corte costituzionale ha sottolineato che le misure di sicurezza personali comportano la privazione o la limitazione della libertà personale e quindi incidono in ogni caso sul valore che l'art. 13 Cost. riconosce come diritto inviolabile dell'individuo, sia esso cittadino o straniero. Di fronte all'incidenza su beni di tale pregio, il controllo di costituzionalità delle norme di legge contestate deve avvenire in modo da garantire che il sacrificio della libertà sia giustificato dall'effettiva tutela di altri valori costituzionali (Corte cost., sent. n. 63 del 1994; Corte cost., sent. n. 81 del 1993; Corte cost., sent. n. 368 del 1992; Corte cost., sent. n. 366 del 1991). Dunque il giudice, anche con la sentenza di patteggiamento (Sez. un., Savin Gianina Alina, cit.), deve accertare l'esistenza o meno della pericolosità sociale dell'imputato (Sez. 6, n. 3448 del 12 giugno 2006, Mahboubi; Sez. 4, n. 42317 dell'8 giugno 2004, Kola, Rv. 231006), sulla base delle circostanze di cui all'art. 133 c.p., cui fa riferimento l'art. 203, secondo comma, c.p. (Sez. 4, n. 24427 del 20 aprile 2018, Er Radi, Rv. 273743; Sez. fer., n. 35432 del 14 agosto 2013, Weng, Rv. 255815; Sez. 6, n. 45468 del 23 novembre 2010, Gjondrekaj, Rv. 248961) e, all'esito, stabilire se debba o meno essere applicata la misura di sicurezza dell'espulsione dello straniero condannato. Nel caso in esame, nulla di ciò si evince dalla motivazione né dal dispositivo della sentenza impugnata, che tace completamente al riguardo, limitandosi a formulare alcune considerazioni in ordine all'abitualità dello svolgimento di attività di spaccio di sostanze stupefacenti da parte dell'imputato, all'esistenza di precedenti penali specifici a suo carico e all'inesistenza di elementi personologici a suo favore, esclusivamente ad altri fini, come l'applicazione della recidiva e il diniego delle attenuanti generiche, senza alcuna tematizzazione del profilo inerente alla ravvisabilità o meno dei presupposti per l'applicazione della misura di sicurezza. La presenza di queste considerazioni induce però ad escludere che il giudice abbia ritenuto implicitamente la mancanza dei requisiti per l'applicazione della misura di sicurezza. Come è noto, è comunemente ammessa, in giurisprudenza, la motivazione implicita, che ricorre allorquando dal tessuto argomentativo della pronuncia impugnata siano enucleabili le ragioni del convincimento, poiché il giudice a quo ha dimostrato che ogni elemento rilevante è stato tenuto presente e che le statuizioni emesse si fondano su un sostrato razionale esente da aporie e da incongruenze logiche (Sez. 4, n. 26660 del 13 maggio 2011, Caruso, Rv. 250900). Sicché, ove dal provvedimento risulti quali circostanze ed emergenze processuali si siano rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice (Sez. 4, n. 1149 del 24 ottobre 2005, Mirabilia, Rv. 233187), sì da consentire l'individuazione dell'iter logico-giuridico esperito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del vizio di mancanza di motivazione (Sez. 2, n. 29434 del 19 maggio 2004, Candiano, Rv. 229220). Nel caso di specie, le considerazioni formulate dal giudice, lungi dal dimostrare l'assenza della pericolosità sociale, evidenziano invece alcuni elementi che avrebbero dovuto indurre il giudicante a interrogarsi su tale problematica. Siamo dunque in presenza del vizio di mancanza di motivazione, che è ravvisabile non solo quando quest'ultima venga completamente omessa, ma anche quando sia priva di singoli momenti esplicativi in ordine ai temi sui quali deve vertere il giudizio (Sez. 6, n. 27151 del 27 giugno 2011, non mass.; Sez. 6, n. 35918 del 17 giugno 2009, Greco, Rv. 244763). Si impone, quindi, al riguardo, un pronunciamento rescindente.

15. La sentenza va dunque annullata, con rinvio, per nuovo giudizio, al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino, in diversa persona fisica, limitatamente all'omessa statuizione in ordine alla misura di sicurezza dell'espulsione dal territorio dello Stato, a pena espiata. Ai sensi dell'art. 624 c.p.p. va dichiarata l'irrevocabilità delle altre parti della sentenza impugnata.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al G.i.p. del Tribunale di Torino in diversa persona fisica limitatamente all'omessa statuizione in ordine alla misura di sicurezza dell'espulsione dal territorio dello Stato a pena espiata. Ai sensi dell'art. 624 c.p.p., dichiara l'irrevocabilità delle altre parti della sentenza impugnata.

Depositata il 13 ottobre 2022.