Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Sentenza 31 marzo 2022, n. 38809
Presidente: Cassano - Estensore: De Marzo
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 9 gennaio 2020, la Corte di appello di Caltanissetta ha confermato la decisione di primo grado che, nell'assolvere l'imputato dai reati di minaccia e di incendio, per insussistenza del fatto, aveva condannato Emanuele Salvatore M. alla pena di tre mesi di reclusione, avendolo ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 582 c.p., in danno di Giuseppe L., il quale, colpito con pugni e calci, aveva riportato lesioni giudicate guaribili in tre giorni.
2. Avverso tale sentenza, nell'interesse dell'imputato, è stato proposto ricorso affidato ai seguenti motivi.
2.1. Con il primo motivo si lamenta manifesta illogicità, carenza e contraddittorietà della motivazione, con riguardo alla ritenuta sussistenza dell'elemento oggettivo del reato.
2.2. Con il secondo motivo si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla richiesta di mitigazione del trattamento sanzionatorio, con particolare riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
3. La Settima Sezione, in esito alla camera di consiglio del 9 dicembre 2021, ha disposto la restituzione degli atti alla Quinta Sezione penale, rilevando l'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine al rapporto tra cause di inammissibilità del ricorso per ragioni diverse dalla tardività e rilevabilità d'ufficio della pena illegale.
4. Con nota del 20 dicembre 2021 il Coordinatore dell'Ufficio spoglio della Quinta Sezione penale ha segnalato al Presidente aggiunto, per l'eventuale esercizio dei poteri di cui all'art. 610, comma 2, c.p.p., la trattazione del ricorso, in ragione del contrasto insorto - nei termini che verranno infra ripercorsi - a proposito della possibilità di rilevare ex officio, in presenza di ricorso per cassazione inammissibile per ragioni diverse dalla tardività dello stesso, l'illegalità della pena, in quanto di specie diversa rispetto a quella di legge o inflitta in misura superiore al massimo edittale, al di fuori delle ipotesi in cui ciò derivi da sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della relativa norma e/o da mutamento normativo in melius della stessa.
5. Con decreto del 13 gennaio 2022 il Presidente aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite penali, fissandone la trattazione nelle forme e con le modalità di cui all'art. 23, commi 8 e 9, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176 (i cui effetti sono stati prorogati dall'art. 7 del d.l. 23 luglio 2021, n. 105, convertito dalla l. 16 settembre 2021, n. 126; ed ancora dall'art. 16 del d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito dalla l. 25 febbraio 2022, n. 15).
6. Con nota del 4 marzo 2022 il Sostituto Procuratore generale ha chiesto di poter discutere oralmente la causa.
7. Sono state trasmesse una memoria sottoscritta dal Sostituto Procuratore generale e altra memoria nell'interesse del ricorrente.
8. In sede di discussione il rappresentante della Procura generale ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.
9. Il difensore del ricorrente ha insistito per l'accoglimento dei motivi formulati con il proprio atto di impugnazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: "Se, in presenza di ricorso per cassazione inammissibile per ragioni diverse dalla tardività dello stesso, la Corte di cassazione possa rilevare ex officio la illegalità della pena in quanto di specie diversa rispetto a quella di legge o inflitta in misura superiore al massimo edittale, al di fuori delle ipotesi in cui ciò derivi da sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della relativa norma e/o da mutamento normativo in melius della stessa".
2. Va preliminarmente rilevato - in tal modo dando conto della sussistenza di uno dei presupposti di rilevanza del contrasto - che i motivi sviluppati in ricorso sono inammissibili.
2.1. In particolare, il primo motivo, che investe l'affermazione di responsabilità, al di là della genericità della formulazione, aspira, in termini assertivi, ad una rivalutazione delle risultanze istruttorie, fondate sulle dichiarazioni della persona offesa e sugli elementi di corredo tratti dalla deposizione dei testi presenti all'accaduto.
2.2. Del pari inammissibile per genericità è il secondo motivo, che lamenta il diniego delle circostanze attenuanti generiche, argomentatamente fondato dalla Corte territoriale alla luce dell'ingiustificabile scatto d'ira dell'imputato e della sua biografia giudiziaria.
2.3. Il trattamento sanzionatorio è, peraltro, caratterizzato dall'applicazione di una pena di specie diversa da quella prevista dal legislatore, in quanto, per un reato di lesioni di competenza del giudice di pace, è stata inflitta la pena di tre mesi di reclusione, anziché, ai sensi dell'art. 52, comma 2, lett. b), d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, la pena della multa o della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità.
Tale vizio non è stato dedotto con i motivi di ricorso.
3. Sul tema oggetto della questione innanzi delineata sono riconoscibili nella giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti.
3.1. Per un primo indirizzo interpretativo che ha origini risalenti, la rilevabilità d'ufficio, indipendentemente dalla deduzione di specifiche doglianze in sede di impugnazione, dell'illegittimità della pena incontra il limite della preclusione processuale derivante dall'inammissibilità del gravame, che impedisce il passaggio del procedimento all'ulteriore grado di giudizio ed inibisce la cognizione della questione (v., ad es., Sez. 5, n. 24926 del 3 dicembre 2003, dep. 2004, Marullo, Rv. 229812-01, e Sez. 5, n. 36293 del 9 luglio 2004, Raimo, Rv. 230636-01, richiamate da Sez. un., n. 8413 del 20 dicembre 2007, dep. 2008, Cassia, Rv. 238467-01, in casi nei quali era stata applicata, in relazione a reati di competenza del giudice di pace, una pena estranea al catalogo di cui all'art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000; nello stesso senso, si è espressa Sez. 2, n. 44667 dell'8 luglio 2013, Aversano, Rv. 257612-0, in un'ipotesi nella quale era stata applicata la riduzione del giudizio abbreviato senza effettuare il previo temperamento previsto dall'art. 78 c.p.; va, tuttavia, precisato che, nel caso concreto, essendo il ricorso stato ritenuto ammissibile, la Corte ha rilevato l'illegalità della pena).
3.2. Secondo un diverso indirizzo interpretativo, deve ritenersi prevalente l'esigenza di porre rimedio all'illegalità della pena, pur a fronte della carenza dei requisiti di ammissibilità del ricorso.
Espressione di quest'ultimo orientamento sono, ad es., le seguenti decisioni.
Sez. 5, n. 3945 del 13 novembre 2002, dep. 2003, De Salvo, Rv. 224220-01, ha rilevato l'illegalità della pena della reclusione irrogata per il delitto di lesioni personali, commesso in epoca antecedente all'entrata in vigore del citato d.lgs. n. 274 del 2000, in violazione della norma transitoria di cui all'art. 64, che ne aveva previsto l'applicazione anche ai reati commessi prima dell'entrata in vigore della riforma, ancorché giudicati da giudice diverso.
In vicenda analoga, Sez. 4, n. 39631 del 24 settembre 2002, Gambini, Rv. 225693-01, ha ritenuto suscettibile di rilievo di ufficio l'illegalità della pena, in applicazione analogica dell'art. 129 c.p.p.
Sez. 5, n. 24128 del 27 aprile 2012, Di Cristo, Rv. 253763-01, oltre ad un richiamo all'art. 129 c.p.p. (e alla giurisprudenza formatasi in relazione all'art. 152 del previgente codice di procedura penale), ha sottolineato come, anche nel caso di inammissibilità del ricorso, il principio di legalità ex art. 1 c.p. e la funzione della pena, quale delineata dall'art. 27 Cost., non appaiano conciliabili con l'applicazione di una sanzione non prevista dall'ordinamento (analogo percorso motivazionale si registra in Sez. 1, n. 15944 del 21 marzo 2013, Aida, Rv. 255684-01).
Sez. 5, n. 46122 del 13 giugno 2014, Oguekemma, Rv. 262108-01, con riferimento all'applicazione della pena di euro 100,00 di multa per il reato di minacce, a fronte di un massimo edittale pari ad euro 51,00, esplicitamente confrontandosi con il contrario orientamento riassunto supra sub 3.1, ha rilevato come il principio della funzione rieducativa della pena, imposto dall'art. 27, terzo comma, Cost., è fra quelli che, in ossequio alla evoluzione interpretativa determinata dai principi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), le Sezioni unite di questa Corte hanno riconosciuto opporsi all'esecuzione di una sanzione penale rivelatasi, pure successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima (Sez. un., n. 18821 del 24 ottobre 2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651-01). Di conseguenza, ritiene che non vi è motivo, a maggior ragione, per escludere che la illegalità della pena inflitta, dipendente da una statuizione ab origine contraria all'assetto normativo vigente al momento di consumazione del reato, possa e debba essere rilevata, prima della formazione del giudicato ed a prescindere dalla articolazione di un corrispondente motivo di impugnazione, pure in presenza di un ricorso caratterizzato da inammissibilità.
Sez. 3, n. 6997 del 22 novembre 2017, dep. 2018, C., Rv. 272090-01, richiamando gli approdi di Sez. 5, n. 46122 del 13 giugno 2014, Oguekemma, ha concluso nel medesimo senso, con riguardo alla pena accessoria di cui all'art. 609-nonies, secondo comma, c.p., illegalmente applicata, poiché il reato di violenza sessuale non risultava commesso nei confronti di minori.
Sez. 2, n. 7188 dell'11 ottobre 2018, dep. 2019, Elgendy Rv. 276320-01, ha ritenuto che l'illegalità della pena accessoria, erroneamente applicata, è rilevabile d'ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile, esplicitamente collocandosi nel solco dell'orientamento delle Sezioni unite in tema di c.d. "cedevolezza" del giudicato in presenza di una pena illegale (Sez. un., n. 47766 del 26 giugno 2015, Butera, Rv. 265108-01; n. 37107 del 26 febbraio 2015, Marcon, Rv. 264857-09; n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264205-06; n. 6240 del 27 novembre 2014, dep. 2015, Basile, Rv. 262327-01; n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, Rv. 260697-01).
Sez. 4, n. 17221 del 2 aprile 2019, Iacovelli, Rv. 275714, ha concluso nel senso che l'illegalità della pena, dipendente da una statuizione ab origine contraria all'assetto normativo vigente al momento consumativo del reato, è rilevabile d'ufficio nel giudizio di legittimità anche in caso di inammissibilità del ricorso: sulla scorta di tale premessa, è stata annullata senza rinvio, limitatamente alla pena pecuniaria, la sentenza di condanna che, in relazione al reato di cui all'art. 624 c.p., nella determinazione della pena pecuniaria aveva quantificato la pena base in misura superiore al massimo edittale.
4. A fronte dell'appena sintetizzato quadro giurisprudenziale, si sono registrati, con specifico riguardo all'illegalità della pena irrogata in relazione a reati di competenza del giudice di pace, alcuni approfondimenti argomentativi, puntualmente menzionati nella nota con la quale il ricorso è stato trasmesso al Presidente aggiunto.
4.1. Ed, infatti, si è ricordato come, secondo un primo indirizzo, l'illegalità della pena, nei casi appena menzionati, può essere rilevata d'ufficio dal giudice di legittimità investito di ricorso che, per cause diverse dalla sua tardività, appaia inammissibile (Sez. 5, n. 10966 del 14 novembre 2019, dep. 2020, Mascia; Sez. 5, n. 40473 del 16 aprile 2018, Bongiovanni; Sez. 5, n. 51726 del 12 ottobre 2016, Sale, Rv. 268639; Sez. 5, n. 552 del 7 luglio 2016, dep. 2017, Jomle, Rv. 268593).
Nel caso esaminato dalla decisione Jomle, oggetto del ricorso era una sentenza emessa ex art. 444 c.p.p., che aveva applicato una pena in violazione dell'art. 63 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274; la pronuncia citata aveva escluso che l'errore fosse emendabile in sede esecutiva, in applicazione dei principi sanciti da Sez. un., n. 47766 del 26 giugno 2015, Butera, Rv. 265109-01, pervenendo ad un annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e disponendo la trasmissione degli atti al competente tribunale per l'ulteriore corso.
Nella motivazione della sentenza Jomle viene, altresì, richiamata Sez. un., n. 46653 del 26 giugno 2015, Della Fazia, Rv. 265111-01, secondo cui, nel giudizio di cassazione, in presenza di ricorso inammissibile per qualunque ragione e privo di motivi riferiti al trattamento sanzionatorio, è comunque rilevabile d'ufficio l'applicabilità del nuovo trattamento sanzionatorio più favorevole, conseguente a successione di leggi nel tempo. Da tale premessa, si è tratta la conclusione che la citata decisione delle Sezioni unite abbia voluto affrontare in modo unitario il tema dei limiti al sindacato della Corte di legittimità nel caso di ricorso inammissibile e che le sentenze Della Fazia e Butera debbano leggersi in una ottica interpretativa unitaria, che individua la preclusione del giudicato formale nel decorso dei termini per l'impugnazione. Conseguentemente, si è ritenuto che, poiché, da un lato, alla stregua della sentenza Butera, l'erronea applicazione, da parte del tribunale, delle pene previste dagli artt. 22 ss. c.p., in luogo di quelle previste dagli artt. 52 ss. del d.lgs. n. 274 del 2000, in violazione dell'art. 63 dello stesso d.lgs., non può essere dedotta avanti al giudice dell'esecuzione, e poiché, dall'altro, solo nel caso di ricorso inammissibile per intempestività è precluso al giudice di legittimità di intervenire ex officio sulla pena illegale, quest'ultima deve essere rilevata d'ufficio dalla Corte di cassazione investita di ricorso che, per cause diverse dalla sua tardività, appaia inammissibile.
4.2. Nella stessa linea e con riguardo alla medesima questione si collocano: Sez. 5, n. 51726 del 12 ottobre 2016, Sale, Rv. 268639 che - sempre in un caso di illegalità derivante dalla mancata applicazione da parte del tribunale delle sanzioni relative ai reati di competenza del giudice di pace - ha richiamato l'art. 609, comma 2, c.p.p., affermando la rilevabilità della illegalità della pena, in sede di legittimità, anche in caso di ricorso inammissibile per manifesta infondatezza; Sez. 5, n. 13787 del 30 gennaio 2020, Ottoni, Rv. 279201, la quale ha concluso nel senso della rilevabilità d'ufficio della pena illegale anche in caso di ricorso inammissibile perché proposto per motivi non consentiti (nel caso di specie ex art. 606, comma 2-bis, c.p.p.).
4.3. Nell'opposto orientamento si colloca Sez. 5, n. 15817 del 18 febbraio 2020, Di Rocco, Rv. 279252, la quale ha ritenuto che, in caso di inammissibilità del ricorso per ragioni diverse dalla tardività, non può essere rilevata d'ufficio l'illegalità della pena derivante dall'erronea applicazione, da parte del tribunale, per i reati di competenza del giudice di pace, delle sanzioni previste dal codice penale in luogo di quelle di cui agli artt. 52 e ss. d.lgs. n. 274 del 2000. In senso conforme si è pronunciata Sez. 7, n. 41172 del 25 settembre 2019, Stigliano, non mass.
Le decisioni valorizzano un passaggio motivazionale contenuto nella citata sentenza Sez. un., n. 47766 del 26 giugno 2015, Butera, laddove il potere officioso di rilievo della illegalità della pena, da parte della Corte di cassazione, viene fatto discendere dalla possibilità di emendare l'errore anche nella fase esecutiva.
Le Sez. un. Butera escludono, infatti, l'ammissibilità di un intervento in executivis in ipotesi di mancata applicazione delle sanzioni previste dal Titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000, giacché, in tale caso, è «l'intero modello sanzionatorio a dover essere rielaborato, con scelte che attengono alle attribuzioni tipiche del giudice del merito». L'art. 52, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 274 del 2000, prevede, infatti, che, quando il reato è punito con la sola pena della reclusione o dell'arresto, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da euro 516 a euro 2.582, o la pena della permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni, ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi; sicché il giudice che applica quel modello sanzionatorio e gli istituti processuali correlati è chiamato ad effettuare una valutazione contenutistica di tutti i parametri di commisurazione del trattamento sanzionatorio alla luce delle risultanze processuali, operando le conseguenti determinazioni, non soltanto sulla quantità del trattamento, ma anche sulla specie della sanzione da applicare.
Ne deriva che «una simile rimodulazione della pena, lungi dal porsi come mera opera di nuova commisurazione o sostituzione matematicamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giudice della cognizione, si pone quale complessivo nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l'intervento del giudice della esecuzione» (Sez. un., n. 47766 del 26 giugno 2015, Butera).
La sentenza Di Rocco, in particolare, ricostruito il contesto giurisprudenziale, osserva, criticando il contrario orientamento sopra riassunto sub 3.2, che, al fine di giustificare il rilievo ex officio dell'illegalità della pena, il mero richiamo all'art. 609, comma 2, c.p.p. risulta largamente insufficiente nella misura in cui appare necessario perimetrare il concetto di "questioni rilevabili di ufficio", corredarlo con il concetto di preclusione alla instaurazione del rapporto processuale - in cui si sostanzia la dichiarazione di inammissibilità - e, infine, alla luce di detti principi, individuare l'ambito di operatività del giudice di legittimità al fine di considerarne il potere di inserirsi in un ordito processuale non solo definito da una pronuncia di manifesta infondatezza, ma il cui contenuto non ha neanche costituito oggetto di doglianza, da parte del ricorrente, in riferimento a tutte le possibili questioni suscettibili di ricorso per cassazione.
Secondo la sentenza Di Rocco, è rilevante l'approdo raggiunto dalle Sezioni unite (Sez. un., n. 12602 del 17 dicembre 2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818-01; Sez. un., n. 23428 del 22 marzo 2005, Bracale, Rv. 231164-01), che hanno espressamente considerato come deroghe all'intangibilità del giudicato derivante dalla inammissibilità del ricorso i soli casi di abolitio criminis o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice formante oggetto dell'imputazione, per l'eccezionale possibilità di incidere in sede esecutiva sul provvedimento in relazione al quale si è formato il giudicato formale. Nel diverso caso della erronea individuazione della pena in riferimento a reati di competenza del giudice di pace, quindi, proprio l'affermata ed argomentata intangibilità del giudicato in sede esecutiva, alla stregua delle indicazioni della sentenza Butera, dovrebbe logicamente condurre a ritenere del tutto eccentriche tra loro le diverse ipotesi di illegalità della pena, nel senso che esse, seppure ascrivibili ad una comune categoria concettuale, non possano ritenersi assimilabili o equiparabili indistintamente a tutti gli effetti, con conseguente operatività, nel caso in esame, dei principi generali in tema di inammissibilità del ricorso e delle conseguenze preclusive che ad esso sono conseguenti.
In altri termini, la sentenza Di Rocco e l'ordinanza Stigliano svolgono i seguenti passaggi logici: se il rilievo di ufficio, da parte della Cassazione, dell'illegalità della pena dipende dalla rilevabilità del vizio in executivis; se l'illegalità della pena, inflitta in base ai parametri codicistici, per i reati di competenza del giudice di pace, non può essere "corretta" dal giudice dell'esecuzione; se tutto ciò è esatto, ne discende che l'illegalità non può essere rilevata di ufficio nel caso di ricorso inammissibile.
5. Al fine di risolvere l'indicato contrasto, occorre muovere innanzi tutto dalla ricostruzione della giurisprudenza di queste Sezioni unite che si sono interrogate sul rapporto che intercorre tra il ricorso per cassazione inammissibile e le cause di non punibilità previste dall'art. 129 c.p.p., per giungere, ribadendo il superamento della tradizionale distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute dell'impugnazione (Sez. un., n. 32 del 22 novembre 2000, D.L., Rv. 217266-01), alla conclusione per la quale, «salvo alcune specifiche deroghe», l'inammissibilità dell'impugnazione ha efficacia preclusiva rispetto alla possibilità di dichiarare eventuali cause di non punibilità (Sez. un., n. 12602 del 17 dicembre 2015, dep. 2016, Ricci, cit.).
Occorrerà, quindi, interrogarsi sul significato delle ricordate deroghe per poi verificare, alla luce della nozione di legalità della pena, quale emersa nella giurisprudenza di questa Corte, in funzione di garanzia del destinatario della pretesa punitiva dello Stato, se siffatto principio possa legittimare un intervento officioso, anche in assenza dell'iniziativa assunta dalla parte interessata attraverso un'impugnazione non solo tempestiva, ma anche ammissibile.
6. A tal fine appare necessario considerare la complessa evoluzione giurisprudenziale che ha interessato il rapporto tra il giudicato sostanziale derivante dall'inammissibilità del ricorso per una delle cause di cui all'art. 606, comma 3, c.p.p. e i poteri officiosi previsti dall'art. 609, comma 2, c.p.p. e che ha trovato un'efficace rimeditazione in Sez. un., n. 12602 del 17 dicembre 2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818, la quale si è occupata del potere della Corte di cassazione di dichiarare l'estinzione del reato per prescrizione, maturata prima della pronuncia della sentenza di appello, ma non dedotta in tale grado e però dedotta con il ricorso.
La sentenza Ricci rappresenta, infatti, l'approdo di una riflessione che ha condotto al superamento della distinzione tra cause di inammissibilità originaria e cause di inammissibilità sopravvenuta.
6.1. In origine la giurisprudenza di questa Corte (Sez. un., n. 21 dell'11 novembre 1994, dep. 1995, Cresci, Rv. 199903; ribadita da Sez. un., n. 11493 del 24 giugno 1998, Verga, Rv. 211469) aveva riproposto la persistente attualità della dicotomia tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta, sottolineando come la mancanza, nell'atto d'impugnazione, dei requisiti prescritti dall'art. 581 c.p.p., compreso quello della specificità dei motivi, rende l'atto medesimo inidoneo ad introdurre il giudizio di secondo grado o di legittimità, a produrre gli effetti cui si ricollega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione di inammissibilità e, quindi, a consentire al giudice di rilevare e dichiarare, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., eventuali cause di non punibilità. Al contrario, l'atto che contiene tutti i requisiti prescritti dall'art. 581 c.p.p. instaura ritualmente il giudizio di impugnazione, con la conseguenza che le ulteriori cause di inammissibilità, quali i motivi di ricorso diversi da quelli consentiti o manifestamente infondati o concernenti violazioni di legge non dedotte in appello (art. 606, comma 3, c.p.p.), devono considerarsi sopravvenute e quindi non ostative all'operatività della disposizione di cui all'art. 129 c.p.p.
6.2. La successiva Sez. un., n. 30 del 30 giugno 1999, Piepoli, Rv. 213981, pur mantenendo ferma la distinzione delle due categorie di inammissibilità, ebbe a ridefinirne il confine, ampliando l'area delle ipotesi di inammissibilità originaria, per includervi, in quanto non implicanti un giudizio di merito e rilevabili agevolmente in limine, tutti i casi elencati nell'art. 591, comma 1, c.p.p., fatta eccezione della rinuncia all'impugnazione, e le ipotesi di motivi di ricorso diversi da quelli consentiti o concernenti violazioni di legge non dedotte in appello (art. 606, comma 3, c.p.p.).
In presenza di siffatte cause di inammissibilità, inidonee ad introdurre il giudizio d'impugnazione, si concretizza il giudicato sostanziale. La nozione si distingue dall'irrevocabilità della sentenza che identifica il giudicato formale, che rileva solo ai fini della sua esecuzione e che si determina in coincidenza della formale declaratoria di inammissibilità.
In questa prospettiva, la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso viene ritenuta caratterizzata da profili di peculiarità, nel senso che essa, pur dovendo essere preliminarmente valutata, comporta necessariamente una incursione nell'area delle statuizioni di merito, il cui esito non impedisce che vengano rilevate e dichiarate eventuali cause di non punibilità, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., norma - questa - che esprime un valore di garanzia, insito nel principio del favor rei, e che prevale, nel quadro di un corretto bilanciamento degli interessi in gioco, sulla declaratoria d'inammissibilità, recessiva rispetto all'operatività della prima.
6.3. Sez. un., n. 32 del 22 novembre 2000, D.L., Rv. 217266, chiamata ad esaminare la questione del rapporto tra inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza e prescrizione del reato maturata dopo la scadenza del termine per proporre il ricorso, ebbe a superare la distinzione tra le due diverse categorie di inammissibilità, sottolineando l'unitarietà della nozione, quale emergente dalla disciplina positiva della struttura del ricorso per cassazione.
Da tale premessa è discesa l'assimilazione della manifesta infondatezza alle altre ipotesi di inammissibilità, con la conseguenza che, anche in tale caso, si impone una pronuncia meramente dichiarativa dagli effetti esclusivamente processuali, consistenti nel precludere l'accesso al rapporto di impugnazione. Inammissibile deve, quindi, ritenersi il ricorso privo dei requisiti stabiliti dall'art. 581 c.p.p., compreso quello della specificità dei motivi, o proposto per motivi non consentiti, non dedotti in sede di appello o anche manifestamente infondati.
La natura dichiarativa della pronuncia di inammissibilità scaturisce dal rilievo che essa è meramente ricognitiva della mancata instaurazione del giudizio di legittimità e il relativo accertamento, pur non sempre agevole, implica una tipologia di verifica che prescinde da qualsiasi scrutinio contenutistico del ricorso nel confronto con la sentenza impugnata. Con specifico riferimento alla manifesta infondatezza, i criteri rivelatori della medesima sono le censure palesemente inconsistenti, caratterizzate da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell'ordinamento o ancora contrassegnate da evidente pretestuosità.
6.4. Sez. un., n. 33542 del 27 giugno 2001, Cavalera, Rv. 219531, nel decidere un ricorso avente ad oggetto esclusivo la richiesta di estinzione del reato per prescrizione, maturata dopo la decisione impugnata, ma prima della decorrenza del termine per proporre ricorso, afferma principi analoghi a quelli enunciati nella sentenza n. 32 del 22 novembre 2000, D.L., cit. Sez. un., Cavalera, infatti, nel ribadire - seguendo lo stesso percorso argomentativo di Sez. un., D.L. - che ogni pronuncia di inammissibilità si risolve in una absolutio ab instantia, evidenziano che, nel caso esaminato, l'atto d'impugnazione era soltanto apparente, in quanto non conteneva censure avverso la decisione, e ciò in violazione della prescrizione di cui all'art. 581, comma 1, lett. a), c.p.p., ma si limitava a reclamare, con un unico motivo, nonostante il giudicato sostanziale, l'applicazione della causa estintiva sopravvenuta alla medesima decisione, doglianza distonica rispetto al regime di tassatività dei casi di ricorso ex art. 606, comma 1, c.p.p.
6.5. Infine, Sez. un., n. 23428 del 22 marzo 2005, Bracale, Rv. 231164, esaminando la questione dell'inammissibilità del ricorso per cassazione quale dato preclusivo della possibilità di far valere o di rilevare d'ufficio, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., l'estinzione del reato per prescrizione, anche se maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza impugnata, ma non dedotta né rilevata dal giudice nel precedente grado, hanno ribadito che: a) «l'intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto d'impugnazione invalido, perché contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (art. 591, comma 1, c.p.p., con eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione; art. 606, comma 3, del codice di rito), preclude ogni possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata sia di rilevarla d'ufficio»; b) di fronte ad un atto di impugnazione invalido e, quindi, inidoneo ad attivare il corrispondente rapporto processuale, non è possibile riconoscere alle cause di non punibilità già maturate in sede di merito una loro effettività sul piano giuridico, rimanendo le stesse relegate nella categoria di «fatti storicamente verificatisi ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale»; c) in ogni caso, al giudice dell'impugnazione inammissibile è consentito, quale eccezione alla regola, confrontarsi, privilegiando l'applicazione dell'art. 129 c.p.p., con peculiari cause di non punibilità rigorosamente delimitate, quali l'abolitio criminis, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice formante oggetto dell'imputazione, l'ipotesi in cui debba essere dichiarata l'estinzione del reato a norma dell'art. 150 c.p., nonché l'ulteriore ipotesi - già considerata da Sez. un., n. 24246 del 25 febbraio 2004, Chiasserini, Rv. 227681 - di estinzione del reato per remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e ritualmente accettata; d) su tale epilogo deve, però, prevalere la declaratoria d'inammissibilità, se questa è riconducibile all'inosservanza del termine per impugnare, considerato che in tal caso il giudicato sostanziale finisce col coincidere con quello formale.
6.6. In tale cornice, come s'accennava in principio, si inseriscono Sez. un., n. 12602 del 17 dicembre 2015, dep. 2016, Ricci, le quali, in sintesi e ai fini che qui rilevano, ruotano attorno ad alcuni netti passaggi argomentativi: soltanto l'accertata ammissibilità dell'impugnazione, per l'effetto propulsivo che la connota, investe il giudice del potere decisorio sul «merito del processo», ossia sulle questioni poste con il ricorso; la sentenza invalidamente impugnata diventa intangibile sin dal momento in cui si concretizza la causa di inammissibilità, che va apprezzata in un'ottica sostanzialistica della dinamica impugnatoria e delle relative conseguenze sul piano delle preclusioni processuali (giudicato sostanziale); la successiva declaratoria d'inammissibilità della impugnazione da parte del giudice ad quem ha carattere meramente ricognitivo di una situazione già esistente e determina la formazione del giudicato formale.
Nella ricostruzione della sentenza Ricci, se è vero che l'art. 609, comma 2, c.p.p. amplia lo spazio di cognizione del giudizio di cassazione al di là dei motivi proposti, consentendo l'esame delle questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo, quali certamente sono le cause di non punibilità di cui all'art. 129 c.p.p., è però, altresì, vero che il momento di operatività dell'effetto devolutivo ope legis non può che coincidere con la proposizione di una valida impugnazione, che investa l'organo giudicante della cognizione della res iudicanda.
Pertanto, laddove l'impugnazione sia inammissibile, il giudice non può ex officio dichiarare l'esistenza di una causa di non punibilità, posto che la verifica negativa di ammissibilità dell'impugnazione, come si è detto, ha valore assorbente e preclusivo rispetto a qualsiasi altra indagine di merito.
La sentenza Ricci coglie il fondamento sistematico di siffatta conclusione interpretativa e dell'ulteriore puntualizzazione per la quale, in senso contrario, non può essere valorizzata la portata dell'art. 129 c.p.p., nel rilievo che questa norma non attribuisce, di per sé, al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio, svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma si limita a dettare una regola di giudizio, che deve essere adattata alla struttura del processo così come normativamente disciplinata e che deve guidare il giudice nell'esercizio dei poteri decisori che già gli competono in forza di una corretta investitura (Sez. un., n. 12283 del 25 gennaio 2005, De Rosa, Rv. 230529).
La citata sentenza argomenta ulteriormente che esistono, all'interno dell'ordinamento, fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo, che devono garantire - nel rispetto delle regole normativamente previste e in tempi ragionevoli - l'effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, strumentale e pretestuoso, dell'impugnazione.
6.7. In questo quadro di assoluta linearità ricostruttiva, le Sezioni unite Ricci si confrontano con le ipotesi derogatorie, in cui il giudice, pur a fronte di una impugnazione inammissibile, ad eccezione di quella proposta fuori termine, mantiene intatta la sua cognizione e, conseguentemente, la possibilità di rendere una decisione diversa dall'inammissibilità.
Si tratta dei casi, indicati da Sez. un., n. 23428 del 22 marzo 2005, Bracale, cit., della abolitio criminis, della dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice applicabile al caso concreto (Sez. un., n. 2958 del 24 marzo 1984, Galli, Rv. 163410-0), della morte dell'imputato, in relazione ai quali l'inammissibilità dell'impugnazione diventa recessiva; ad essi viene aggiunta l'ipotesi - già considerata in precedenza da Sez. un., n. 24246 del 25 febbraio 2004, Chiasserini, Rv. 227681 - di estinzione del reato per remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione.
6.8. È necessario interrogarsi sulla ratio di tali deroghe, sin da ora rilevando che esse comunque dimostrano come la giurisprudenza di questa Corte abbia già ritenuto sussistente un potere giurisdizionale non limitato dal rilievo della inammissibilità dell'impugnazione, quante volte questa non sia tardiva (o diretta contro una sentenza inoppugnabile).
A quest'ultimo riguardo, va ribadito, alla stregua della superiore ricostruzione della giurisprudenza delle Sezioni unite, che, qualora vi sia stato un ricorso tardivo, il giudicato formale non coincide con la declaratoria di inammissibilità, ma preesiste ad essa e si identifica con il primo momento da cui deve ritenersi decorso il termine per impugnare la pronuncia.
6.9. Tornando al tema del fondamento delle deroghe sopra ricordate, si osserva che, nell'elaborazione delle Sezioni unite Ricci, i casi di abolitio criminis e di dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice, imponendo la revoca della sentenza di condanna da parte del giudice dell'esecuzione, ben possono essere rilevati, pur in presenza di un ricorso inammissibile, dal giudice della cognizione, che si limita ad anticipare, per ragioni di economia processuale, gli esiti obbligati della fase esecutiva. Si è, infatti, ritenuto che l'eventuale declaratoria d'inammissibilità avrebbe vita effimera e non impedirebbe il successivo intervento derogatorio in executivis.
6.10. Quanto alla morte dell'imputato, rileva l'immediata risoluzione del rapporto processuale con la conseguenza che qualunque provvedimento adottato nei confronti di un imputato, ignorandone l'intervenuto decesso, è da considerarsi inesistente giuridicamente, poiché viene a mancare il soggetto (parte processuale necessaria) contro cui far valere la pretesa punitiva (per i rimedi con i quali far fronte a siffatta evenienza processuale, si veda, di recente, Sez. 3, n. 25995 del 6 marzo 2019, Falcone, Rv. 276013-01).
6.11. Con riguardo alla remissione di querela, infine, le Sezioni unite Ricci osservano che la sua natura indubbiamente sostanziale non può essere enfatizzata - nella prospettiva di omologarla tout court alle altre cause di estinzione del reato - sino al punto da marginalizzarne la valenza processuale e, più specificamente, la sua incidenza sull'oggetto del rapporto processuale, in quanto espressione, al pari della querela, di un diritto potestativo di parte, volto ad estinguere gli effetti della condizione di procedibilità già azionata.
In altri termini, la sua valorizzazione oltre la soglia del "giudicato sostanziale" è giustificata dalla prevalenza che deve accordarsi, nei procedimenti per reati perseguibili a querela, alla voluntas del remittente, che, ponendo nel nulla la condizione per l'inizio dell'azione penale, incide sulla progressione del procedimento, il cui epilogo non può che essere la declaratoria di estinzione del reato.
6.12. L'evoluzione della giurisprudenza successiva si è, nella sostanza, allineata a tali approdi che, in definitiva, superando la distinzione tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta hanno comportato l'estensione delle ipotesi nelle quali resta preclusa l'operatività dell'art. 129 c.p.p.
Ad es., con riferimento alla causa di non punibilità di cui [al]l'art. 131-bis c.p., la giurisprudenza è coerente con le conclusioni di Sez. un., n. 13681 del 25 febbraio 2016, Tushaj, Rv. 266593, secondo le quali la questione relativa alla (sopravvenuta) applicabilità dell'istituto della particolare tenuità del fatto può, ai sensi degli artt. 2, quarto comma, c.p., 129 c.p.p., essere rilevata di ufficio ex art. 609, comma 2, c.p.p., anche nel caso di ricorso inammissibile, solo per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28; quando, invece, non viene in considerazione l'applicazione della sopravvenuta legge più favorevole, la inammissibilità del ricorso preclude la deducibilità e la rilevabilità d'ufficio della questione.
E, infatti, coerentemente si ritiene che l'inammissibilità del ricorso per cassazione (in specie dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi) non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, in conseguenza, il rilievo e la dichiarazione di siffatta causa di non punibilità (v., di recente, Sez. 6, n. 9666 del 17 febbraio 2022, Bonavita, Rv. 282998).
7. A fronte di un quadro ricostruttivo nel quale appare centrale il ruolo assunto dal giudicato e la connessa esigenza di certezza dei rapporti giuridici, la giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, Rv. 260697) ha seguito, con riferimento al tema della legalità della pena - sia pure con riguardo alla particolare prospettiva della illegalità sopravvenuta -, un percorso assolutamente significativo, con l'avallo della Corte costituzionale (v., di recente, Corte cost., sent. n. 147 e, in particolare, sent. n. 68 del 2021, per una sintesi dell'evoluzione giurisprudenziale, tracciata anche dalla più risalente Corte cost., sent. n. 210 del 2013, che ha sottolineato come l'ordinamento «conosce ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato»).
7.1. In particolare, Sez. un., n. 18821 del 24 ottobre 2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258649, ribadito che, a fronte della successione normativa registratasi, la mancata applicazione della più favorevole disciplina attinente alla pena da infliggere in caso di accesso al rito abbreviato dà luogo ad una pena illegale nella prospettiva sia della Costituzione che della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, hanno affrontato il tema del rimedio utilizzabile, tenuto conto dell'esistenza del giudicato formale.
Pur ribadendo i già ricordati valori di certezza sottesi all'istituto del giudicato, Sez. un. Ercolano hanno sottolineato la necessità di un bilanciamento con altri valori, anch'essi fondati sulle garanzie della Costituzione, tra i quali emerge il diritto fondamentale e inviolabile della libertà personale. Alla stregua di tali considerazioni le Sezioni unite hanno concluso nel senso che la tutela di quest'ultimo «deve ragionevolmente prevalere sul primo» e che «il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona».
Pur nella diversità di prospettive assiologiche e formali di giustificazione della flessione dell'intangibilità del giudicato, le Sez. un. Ercolano hanno ricordato gli altri casi successivamente menzionati anche dalla sentenza Ricci, ossia i casi: di abolitio criminis, che importa la revoca della sentenza di condanna (art. 673 c.p.p.), con la cessazione della sua esecuzione e dei suoi effetti penali (art. 2, secondo comma, c.p.); di sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale, considerato che l'art. 30, quarto comma, l. 11 marzo 1953, n. 87, dispone che ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali; il caso disciplinato dall'art. 2, terzo comma, c.p., come introdotto dall'art. 14 della l. 24 febbraio 2006, n. 85, che, per l'ipotesi in cui una legge posteriore preveda una pena pecuniaria per un reato in precedenza punito con la pena detentiva, dispone che quest'ultima, inflitta con condanna irrevocabile, deve essere convertita immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria.
In conclusione, Sez. un. Ercolano hanno rilevato come il giudicato debba cedere rispetto alla «più alta valenza fondativa» dello statuto della pena, la cui legittimità deve essere assicurata anche in executivis.
7.2. Del tema relativo al rapporto tra giudicato e illegalità sopravvenuta della pena si sono occupate le citate Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto. Esaminando la questione del potere del giudice dell'esecuzione di intervenire su una pena divenuta definitiva, ma determinata in base ad una norma concernente il trattamento sanzionatorio e successivamente dichiarata incostituzionale (nella specie, si discuteva degli effetti di Corte cost., sent. n. 251 del 2012, che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, c.p., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, c.p.), le Sezioni unite hanno rilevato come la Carta costituzionale, prima, e il codice di procedura penale del 1988, poi, abbiano «ridimensionato profondamente il significato totalizzante attribuito all'intangibilità del giudicato quale espressione della tradizionale concezione autoritaria dello Stato e ne hanno, per contro, rafforzato la valenza di garanzia individuale». Per alcune applicazioni di siffatto bilanciamento è sufficiente ricordare, oltre al tema dell'applicabilità della continuazione con reati giudicati con sentenza irrevocabile (Sez. un., n. 9559 del 19 giugno 1982, Alunni, Rv. 155674, avallata da Corte cost., sent. n. 115 del 1987), anche la problematica del ne bis in idem (v., al riguardo, le importanti puntualizzazioni di Corte cost., sent. n. 200 del 2016).
Accanto a tali rilievi che ribadiscono il necessario bilanciamento tra i valori sottesi al giudicato e altri diritti costituzionalmente fondati, le citate Sez. un. Gatto hanno svolto importanti riflessioni con riguardo ai poteri riconosciuti dal vigente codice di rito al giudice dell'esecuzione e incidenti sul giudicato.
Nel ribadire la necessità di rimodulare in executivis la pena illegale, non interamente eseguita, a seguito di dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, Sez. un. Gatto hanno, in particolare, osservato che «la conformità della pena a legalità in fase esecutiva deve ritenersi costantemente sub iudice [...] non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all'esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale. Nel bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e il diritto fondamentale e inviolabile alla libertà personale, va data prevalenza a quest'ultimo, giacché il divieto di dare esecuzione ad una pena prevista da una norma dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale è esso stesso un principio di rango sovraordinato - sotto il profilo della gerarchia delle fonti rispetto agli interessi sottesi all'intangibilità del giudicato».
Sin da ora, per la centralità che assumono rispetto agli sviluppi della riflessione, vanno sottolineate siffatte considerazioni di Sez. un. Gatto, che hanno valorizzato gli ampi poteri di accertamento e di valutazione che l'ordinamento riconosce al giudice dell'esecuzione, vero e proprio «garante della legalità della pena in fase esecutiva», e che rendono possibile la rideterminazione anche quando il provvedimento correttivo da adottare non abbia contenuto rigidamente predefinito.
7.3. In precedenza, le Sezioni unite avevano sottolineato, occupandosi delle condizioni della revisione (art. 630 c.p.p.), la necessità di superare la tradizionale concezione del giudicato e di «privilegiare le esigenze di giustizia rispetto a quelle formali dell'intangibilità del giudicato e della certezza del giudicato, il cui fondamento giustificativo, per quanto rilevante, è di natura eminentemente pratica, così che ben può essere sacrificato in nome di esigenze che rappresentano l'espressione di superiori valori costituzionali» (Sez. un., n. 624 del 26 settembre 2001, dep. 2002, Pisano, Rv. 220443).
7.4. Nella medesima prospettiva vanno apprezzati i rimedi approntati dal legislatore in relazione a patologie occorse nel processo conclusosi con sentenza irrevocabile: non solo i già evocati poteri del giudice dell'esecuzione e la già citata revisione, ma anche il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto (art. 625-bis c.p.p.) e la rescissione del giudicato (art. 625-ter c.p.p., prima, e art. 629-bis c.p.p., poi).
7.5. In una linea di continuità con le pronunce sin qui rammentate, si colloca Sez. un., n. 26259 del 29 ottobre 2015, dep. 2016, Mraidi, Rv. 266872, che si è interrogata sul rapporto tra l'art. 673 c.p.p., che attribuisce al giudice dell'esecuzione il potere di revocare la condanna per un reato che, successivamente alla formazione del giudicato, sia stato abolito, e sentenza pronunciata dopo l'entrata in vigore della legge abrogatrice, dal momento che i poteri del giudice dell'esecuzione devono, in tal caso, confrontarsi con la possibilità di modificare le valutazioni del giudice della cognizione.
Per dare risposta al quesito le Sezioni unite sono tornate a confrontarsi con la "forza di resistenza" del giudicato, quale delineata da Sez. un. Ercolano e Gatto (poi, come sopra detto, avallata da Corte cost., sent. n. 210 del 2013) in rapporto al profilo sanzionatorio.
Sez. un. Mraidi, all'esito di una compiuta ricostruzione della giurisprudenza delle Sezioni unite, hanno concluso che «la tutela dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale alla libertà personale e il principio di legalità, deve infatti prevalere sull'intangibilità del giudicato, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 210 del 2013 e dalle Sezioni unite a partire dalle sentenze Ercolano e Gatto, non potendo accettarsi "l'applicazione di una pena avulsa dal sistema" (Sez. un. Basile, cit.) come quella inflitta con una sentenza di condanna pronunciata per un fatto che, al momento della sua commissione, non aveva rilievo penale e per questo era da ritenersi illegale ab origine». Nella sostanza, in tal modo Sez. un. Mraidi equiparano illegalità sopravvenuta (art. 2, secondo comma, c.p.) e illegalità originaria (art. 2, primo comma, c.p.), fermo il limite rappresentato dalla eventuale statuizione sul punto del giudice della cognizione.
7.6. Sez. un., n. 46653 del 26 giugno 2015, Della Fazia, Rv. 265111-01, introducendo profili argomentativi di sicuro rilievo, rispetto al tema del bilanciamento di valori ormai sotteso ad ogni riflessione sul giudicato, hanno stabilito che, in tema di successione di leggi nel tempo, la Corte di cassazione, pur in presenza di un ricorso inammissibile, può d'ufficio ritenere applicabile all'imputato il nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio, disponendo l'annullamento sul punto della sentenza di merito pronunciata prima della modifica normativa in mitius: ciò perché la finalità rieducativa della pena e il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità impongono di rivalutare, sulla base dei nuovi e più miti parametri edittali, la misura della sanzione precedentemente individuata e non più legalmente conformata.
I passaggi argomentativi della sentenza Della Fazia appaiono di particolare rilievo.
Vi si legge che la novella normativa che comporta un mutamento strutturale nei criteri di composizione della pena, rendendo quella inflitta non più in linea con i parametri legali, ha, per così dire, natura "esterna" a qualsiasi valutazione riguardante il processo e integra un motivo "costituzionalmente imposto" (artt. 1 c.p., 25, secondo comma, Cost., 7, § 1, CEDU e 117, primo comma, Cost.), del quale la Corte di legittimità, anche a fronte di un ricorso inammissibile, deve "autoinvestirsi". Diversamente opinando, conclude la sentenza, si attuerebbe una palese violazione sopravvenuta del diritto fondamentale dell'imputato di vedersi applicato il trattamento sanzionatorio più favorevole, conseguente alla corrispondente scelta espressa dal legislatore sul disvalore della condotta che viene in rilievo.
Si svolgono, ancora, considerazioni sul tema del giudicato, rilevando che i vari casi di attenuazione del suo valore si riferiscono proprio a ipotesi di prevalenza dei principi costituzionali sulla disciplina normativa che rende non modificabili le sentenze sulle quali si è formato il giudicato. Si tratta, in realtà, di conciliare due interessi tra di loro contrastanti, ma meritevoli entrambi di tutela, che certamente, anche quando non espressamente menzionati (il primo di essi), hanno comunque un fondamento costituzionale: la certezza dei rapporti giuridici e la tutela dei diritti fondamentali della persona.
In termini originali rispetto alla sentenza Sez. un. Gatto, cit., e Sez. un., n. 33040 del 28 luglio 2015, Jazouli, Rv. 264205-07, la sentenza Della Fazia ha indicato anche le pronunce che hanno approfondito e portato ad ulteriore svolgimento il processo di relativizzazione dell'intangibilità del giudicato: ammettendo il ricorso allo strumento processuale previsto dall'art. 625-bis c.p.p. per dare esecuzione ad una sentenza della Corte di Strasburgo (Sez. 6, n. 45807 del 12 novembre 2008, Drassich, Rv. 241753; Sez. 2, n. 37413 del 15 maggio 2013, Drassich, Rv. 256651); indicando nell'art. 670 c.p.p. la base normativa per superare il vincolo del giudicato quando la Corte EDU abbia accertato che nel processo sono state violate le regole del giusto processo (Sez. 1, n. 2800 del 1° dicembre 2006, dep. 2007, Dorigo, Rv. 235447); ammettendo che il giudice dell'esecuzione possa rimuovere una situazione di illegalità convenzionale della pena (nella specie l'ergastolo per un delitto che, nel momento in cui l'imputato aveva optato per il rito abbreviato, prevedeva una pena massima di trenta anni di reclusione: Sez. 5, n. 16507 dell'11 febbraio 2010, Scoppola, Rv. 247244); ma anche per rimuovere parzialmente il giudicato formatosi sulla sentenza di condanna nel caso di dichiarazione di incostituzionalità della norma che prevedeva una circostanza aggravante (Sez. 1, n. 19361 del 24 febbraio 2012, Teteh Assic, Rv. 253338).
Nella medesima prospettiva sono state richiamate Sez. un., n. 6240 del 27 novembre 2014, dep. 2015, Basile, Rv. 262327, che hanno sottolineato l'esistenza del potere del giudice dell'esecuzione di rimuovere gli effetti dell'applicazione di una pena accessoria illegale, sempre che quest'ultima non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione.
Da tanto le Sezioni unite hanno tratto quel che in questa sede appare di decisivo rilievo. Ovvero, che nell'attuale fase di sviluppo dell'ordinamento giuridico, la questione centrale non è se la regola della intangibilità del giudicato trovi deroghe, perché ciò è ormai un dato acquisito; bensì «quello di verificare se si sia verificata una lesione di un diritto o di una garanzia fondamentale della persona che giustifichi una limitazione della sua intangibilità pur formalmente prevista».
Soprattutto un profilo, ai fini che qui rilevano, assume significato sistematico nella sentenza Della Fazia: la considerazione che la rilevanza della modifica normativa in mitius sopravvenuta, ai fini della giustificazione dell'intervento officioso del giudice, prescinde dalla possibilità o non dell'imputato di denunciare il vizio, sia pure con motivi aggiunti.
Nel punto 15.2 della sentenza Della Fazia, si legge infatti testualmente «Ritengono peraltro le Sezioni unite che questa violazione della disciplina sostanziale applicabile possa essere rilevata d'ufficio dal giudice di legittimità anche se l'imputato con il ricorso originario (o con motivi nuovi o memorie) non abbia proposto alcun motivo riguardante la pena né alcuna ragione di critica alla sua determinazione da parte del giudice del rinvio pur dopo le rilevanti modifiche normative intervenute successivamente alla sentenza di conferma della condanna».
Accanto agli argomenti tratti dall'art. 2, quarto comma, c.p., si coglie, nella sentenza in esame, una puntualizzazione determinante ricavata dall'inquadramento della violazione sopravvenuta in esame tra le violazioni dei diritti fondamentali della persona che impongono anche al giudice, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell'uomo, di eliminarne le conseguenze; e tra queste violazioni deve essere inclusa, per le ragioni già indicate, l'applicazione di un trattamento sanzionatorio sfavorevole in presenza di innovazioni normative che l'hanno mitigato.
7.7. Si ispirano a principi analoghi Sez. un., n. 33040 del 28 luglio 2015, Jazouli, cit., secondo cui l'illegalità della pena conseguente a dichiarazione d'incostituzionalità di norme riguardante il trattamento sanzionatorio è rilevabile d'ufficio nel giudizio di cassazione anche in caso di inammissibilità del ricorso, salva l'ipotesi di tardività.
8. Ciò posto, occorre delimitare il concetto di illegalità della pena, che richiede particolare rigore esegetico, correlato alla esatta delimitazione dei problemi da risolvere, fermo restando che, nel caso di rilievo officioso, la nozione generale è operativamente destinata a misurarsi con il divieto di reformatio in pejus, che impedisce, in assenza di impugnativa del P.M., un intervento sulla pena inferiore al minimo previsto dalla legge.
In giurisprudenza è infatti emersa anche un'accezione estesa di "pena illegale", destinata a far riferimento al trattamento sanzionatorio concretamente modulato all'esito del processo.
Ad es., Sez. 4, n. 5064 del 6 novembre 2018, dep. 2019, Bonomi, Rv. 275118, dovendo valutare se il ricorso avverso la sentenza di patteggiamento fosse stato proposto in relazione ad uno dei motivi indicati dall'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., e, in particolare, con riguardo all'illegalità della pena, ha sostenuto che sono riconducibili a siffatta nozione anche gli istituti che incidono sulla concreta ed effettiva applicazione delle sanzioni.
Anche Sez. 6, n. 17119 del 14 marzo 2019, P., Rv. 275898, chiamata ad occuparsi di una vicenda analoga, ha ritenuto che l'illegalità della pena si riferisce non solo alla pena non conforme a quella stabilita in astratto dalla norma penale, ma anche agli istituti che comunque incidono sul trattamento sanzionatorio e trovano applicazione nella sentenza di condanna.
In senso difforme si è osservato che siffatta interpretazione (Sez. 3, n. 35485 del 23 aprile 2021, P., Rv. 281945) «trasmoda rispetto ai termini di esso, andando a ricomprendere non solo la illegalità della sanzione in senso tecnico ma anche la illegittimità di taluno degli aspetti ad essa pena accessori, quali gli eventuali vizi dei termini della sua applicazione ovvero, come nel caso di specie, della sospensione della sua applicazione; una siffatta interpretazione, se appare conforme alla esegesi della espressione "trattamento sanzionatorio", dovendo in esso ricomprendersi tutti gli aspetti legati alle modalità con le quali viene applicata la punizione derivante dalla trasgressione di una disposizione penale, non appare, invece, corrispondere al generalmente inteso concetto di pena illegale».
9. Ora, ciò chiarito, si osserva che il principio di legalità della pena è fondato, nel nostro ordinamento, su una pluralità di fonti normative.
A livello interno, gli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. costituiscono i due pilastri sui quali poggia il principio di legalità della pena: quest'ultima può essere irrogata solo in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso e deve tendere alla rieducazione del reo, non potendo consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.
Nel confrontarsi con il significato di tali previsioni, la Corte costituzionale ha chiarito che «l'art. 25, secondo comma, della Costituzione [...], affermando che nessuno può essere punito se non in forza di legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, non soltanto proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l'applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individuazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge», senza che rilevi la soppressione, in sede di formulazione definitiva della norma, della frase «e con le pene da essa stabilite» compiuta, per altri fini, dal Costituente (Corte cost., sent. n. 15 del 1962).
Appare centrale, ai fini che qui rilevano, la considerazione che è la previsione legale della pena, secondo la Costituzione, a fondare la stessa potestà punitiva del giudice.
Si tratta di una valorizzazione centrale, perché dimostra l'esistenza di limiti all'esercizio del potere pubblico il cui superamento non può essere tollerato dall'ordinamento per la centralità che la Carta costituzionale assicura ai diritti fondamentali della persona, tra i quali si colloca il fondamentale diritto di libertà personale garantito dall'art. 13 Cost., in condizioni di uguaglianza per tutti i consociati (art. 3 Cost.).
9.1. A livello sovranazionale, sul fondamento dell'art. 7, § 1, secondo periodo, della CEDU («Non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato»), la Corte di Strasburgo ha sottolineato la necessità di garantire una «protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie», chiarendo altresì che la norma in questione «non si limita a proibire l'applicazione retroattiva del diritto penale a detrimento dell'imputato», ma consacra in via generale «il principio di legalità in ordine ai diritti e alle pene, e quello che impone la non applicazione estensiva o analogica della legge penale a detrimento dell'imputato» (Corte EDU, GC, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, § 78).
Il principio di legalità della pena si rinviene, peraltro, anche nell'art. 49, § 1, della Carta di Nizza (il § 3 opera un significativo riferimento al principio della proporzionalità della pena rispetto al reato) e nell'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con l. 25 ottobre 1977, n. 881, il quale, oltre a prevedere espressamente il canone del nullum crimen, nulla poena sine lege, impone anche l'obbligatoria applicazione al colpevole della pena sopravvenuta più favorevole.
9.2. In siffatta cornice, si colloca, come si diceva supra, la giurisprudenza di questa Corte [che] ha tradizionalmente elaborato il principio in forza del quale, nell'ipotesi in cui il giudice abbia irrogato una sanzione superiore ai limiti edittali, ovvero più grave per genere o specie di quella prevista in astratto dalla fattispecie incriminatrice, la Corte di cassazione deve - anche di ufficio - annullare la sentenza impugnata, qualora non possa direttamente provvedere a rideterminare la pena (Sez. 2, n. 22494 del 25 maggio 2021, Karis, Rv. 281453-01, la quale ha sottolineato come si tratti di un potere officioso esercitabile solo in bonam partem, ossia nei casi nei quali l'errore sia avvenuto in danno dell'imputato, posto che la pena favorevole al reo può essere corretta dalla Corte di cassazione solo in presenza di impugnazione del pubblico ministero).
In tal modo, viene delineata una nozione circoscritta di pena illegale che, senza investire i modi del concreto esercizio del potere discrezionale assegnato al giudice di merito (e, pertanto, senza coinvolgere i profili di erronea applicazione dei criteri commisurativi), ha riguardo ai confini che segnano, nel quadro della legalità costituzionale, il fondamento della potestà punitiva, imponendo, rispetto al risultato di tutela dei diritti fondamentali, una coerente lettura del sistema processuale.
Rientra pertanto in tale nozione la sanzione non prevista dall'ordinamento giuridico ovvero superiore ai limiti previsti dalla legge o ancora più grave per genere o specie di quella individuata in astratto dal legislatore.
Incidentalmente si osserva che la nozione di illegalità della pena qui individuata nella sua dimensione costituzionale ha riguardo allo specifico problema, che il giudice ordinario è chiamato ad affrontare, di garantire, nel processo penale, indipendentemente dal principio devolutivo, il rispetto del fondamento giustificativo dell'esercizio della potestà sanzionatoria. È evidentemente estranea alla riflessione la questione - destinata ad impegnare piuttosto la Corte costituzionale - della rispondenza della pena prevista dal legislatore ai principi ritraibili dalla Carta fondamentale in relazione al dovere di determinare una pena proporzionata da irrogare, in linea generale, tra un minimo e un massimo, di contenere in termini ragionevoli la distanza tra minimo e massimo, di prevedere che il giudice eserciti il suo potere discrezionale in base ai criteri stabiliti dalla legge (per alcune di queste puntualizzazioni, si veda Sez. un., n. 46653 del 26 giugno 2015, Della Fazia, in motivazione).
Proprio l'immanenza, rispetto alla disciplina processuale, dei valori espressi dalla Carta fondamentale in tema di protezione della libertà personale e di individuazione delle funzioni della pena rende costituzionalmente imposto l'intervento officioso del giudice, anche in caso di inammissibilità dell'impugnazione, al fine di rimuovere l'applicazione di pene illegali, nel senso sopra circoscritto.
9.3. Le Sezioni unite ritengono che la nozione di pena illegale non possa estendersi sino al punto da includere profili incidenti sul regime applicativo della sanzione, a meno che ciò non comporti la determinazione di una pena estranea all'ordinamento per specie, genere o quantità.
In altri termini, la pena è illegale, ai fini qui rilevanti del rilievo officioso anche in caso di inammissibilità del ricorso, non quando consegua ad una mera erronea applicazione dei criteri di determinazione del trattamento sanzionatorio, alla quale l'ordinamento reagisce approntando i rimedi processuali delle impugnazioni, ma solo quando non sia prevista dall'ordinamento giuridico ovvero sia superiore ai limiti previsti dalla legge o sia più grave per genere e specie di quella individuata dal legislatore.
In definitiva, è necessario che la nozione di pena illegale, come si diceva in principio, venga calibrata sulla sua funzione di rappresentare l'altro polo del giudizio di bilanciamento da operare in relazione alle garanzie sottese al giudicato, ossia quale limite estremo di tutela della libertà personale esposta al rischio di un arbitrio che travalichi i limiti del potere sanzionatorio riconosciuto al giudice.
Tale conclusione si impone in quanto «irrogare una sanzione diversa per specie e/o quantità rispetto ai confini edittali impegna il valore costituzionale della legalità della pena di cui all'art. 25 Cost., che resterebbe vulnerato se non si potesse porre rimedio, anche d'ufficio, all'errore del giudice del grado precedente» (Sez. 2, n. 12991 del 19 febbraio 2013, Stagno, Rv. 255197; così anche Sez. 5, n. 44897 del 30 settembre 2015, Galizia Lima, Rv. 265529; Sez. 1, n. 33326 del 14 febbraio 2017, Vizzaccaro, non mass.; Sez. 1, n. 40896 del 28 marzo 2017, Pucci, non mass.).
Può dunque concludersi nel senso che la pena che non sia prevista, nel genere, nella specie o nella quantità, dall'ordinamento è una pena che attesta un abuso del potere discrezionale attribuito al giudice, con l'usurpazione dei poteri esclusivi del legislatore.
Il rilievo dell'illegalità della pena, anche ab origine, deve, pertanto, prevalere sul giudicato sostanziale, in tal modo venendosi ad ampliare la casistica, già elaborata dalla giurisprudenza sopra ricordata, delle eccezioni alla regola dell'intangibilità del giudicato.
10. Le superiori considerazioni rendono necessario confrontarsi con le conclusioni di Sez. un., n. 47766 del 26 maggio 2015, Butera, Rv. 265106-01, che, nel solco dei principi affermati da Sez. un., n. 6240 del 27 novembre 2014, dep. 2015, Basile, Rv. 262327-01, in relazione alle pene accessorie, hanno ribadito che l'illegalità della pena non può essere rilevata ex officio se il ricorso è tardivo, pur essendo deducibile davanti al giudice dell'esecuzione, adito ai sensi dell'art. 666 c.p.p.
Per i casi di inammissibilità del ricorso proposto avverso sentenze applicative di pena illegale, Sez. un. Butera hanno ritenuto consentito l'intervento del giudice dell'esecuzione - nell'esercizio dei poteri suppletivi riconosciuti dall'art. 183 disp. att. c.p.p. - solo nel caso in cui l'omissione non sia derivata da un errore valutativo del giudice della cognizione, e solo ove la sanzione da applicare sia determinata per legge, ovvero sia determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata.
Al contrario, siffatto intervento sarebbe precluso ove fosse necessario - come quando si tratti di ricalibrare la sanzione nei termini flessibili emergenti dall'art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 - esprimere apprezzamenti discrezionali in ordine alla scelta della specie e della durata della pena, che finirebbero per rendere il giudice della esecuzione tributario di una cognizione non dissimile da quella che caratterizzerebbe il munus del giudice del rinvio a seguito di annullamento, da parte del giudice della legittimità, della pena illegalmente applicata nei gradi di merito.
Le Sez. un. Butera hanno, pertanto, concluso nel senso che «una simile rimodulazione della pena, lungi dal porsi come mera opera di nuova commisurazione o sostituzione matematicamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giudice della cognizione, si pone quale complessivo nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l'intervento del giudice della esecuzione».
10.1. Le Sezioni unite ritengono che quest'ultima puntualizzazione sia da ritenersi ormai superata in ragione degli ampi poteri di intervento attribuiti al giudice dell'esecuzione, come riconosciuto dalla citata sentenza Gatto - le cui conclusioni sono pur ampiamente richiamate da Sez. un. Butera - e come confermato dalla giurisprudenza successiva di questa Corte, secondo quanto si argomenterà infra.
In sostanza, da un lato, va ribadito che il sindacato del giudice dell'esecuzione non investe questioni che riguardino la fase di cognizione, compresi i vizi procedurali denunciabili unicamente con i mezzi d'impugnazione: quelli ordinari, esperibili sino alla conclusione del processo di cognizione; quelli straordinari attivabili dopo l'irrevocabilità del provvedimento conclusivo del giudizio nei casi previsti dalla legge con l'effetto, se fondati ed accolti, di determinare la riapertura del processo nella fase cognitiva (Sez. un., n. 15498 del 26 novembre 2020, dep. 2021, Lovric, Rv. 280931-01, punto 3.2 della motivazione).
Per altro verso, si deve prendere atto che, ferma la distinzione dei presupposti di operatività dei rimedi, il procedimento esecutivo conosce, come ricordato da Sez. un. Gatto, «un'articolata serie di funzioni finalizzate all'attuazione del principio costituzionale dell'adeguatezza della pena nella prospettiva della sua umanizzazione e della rieducazione del condannato», secondo la nitida affermazione dell'art. 27, terzo comma, Cost., che si accompagna all'attribuzione al giudice di «penetranti strumenti d'intervento, che consentono sostanziali modificazioni del debito punitivo nella sua struttura e nelle concrete modalità del relativo adempimento» (Sez. 3, n. 13651 del 20 febbraio 2002, De Filippo, Rv. 221368, richiamata dalla sentenza Gatto).
Rispetto a siffatta cornice, saldamente ancorata all'esigenza costituzionalmente imposta di legalità della pena, non risulta convincente, nella sua assolutezza, l'affermazione di Sez. un. Butera, sulla scia, sullo specifico punto, di un'argomentazione di Sez. un. Basile, per la quale al giudice dell'esecuzione sarebbe preclusa la rimodulazione del trattamento sanzionatorio illegalmente applicato ai reati di competenza del giudice di pace. Il modello sanzionatorio previsto dal legislatore per siffatti reati dal d.lgs. n. 274 del 2000 e gli istituti processuali correlati impongono, infatti, una valutazione contenutistica di tutti i parametri di commisurazione del trattamento sanzionatorio alla luce delle risultanze processuali, destinate ad incidere non soltanto «sulla quantità del trattamento, ma anche sulla specie della sanzione da applicare, tenendo anche conto delle richieste dello stesso imputato, dal momento che il lavoro di pubblica utilità può essere applicato solo su richiesta dell'imputato, a norma dell'art. 54, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000. Ne deriva, pertanto, che una simile rimodulazione della pena, lungi dal porsi come mera opera di nuova commisurazione o sostituzione matematicamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giudice della cognizione, si pone quale complessivo nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l'intervento del giudice della esecuzione».
In effetti, il tema dei limiti dei poteri di intervento del giudice dell'esecuzione, rispetto a decisioni ormai irrevocabili, va ricostruito, alla luce degli sviluppi giurisprudenziali, in termini più articolati.
Così, ad es., si è ritenuto - sia pure con riguardo ad una ipotesi di illegalità sopravvenuta, ma con considerazioni suscettibili di essere estese anche all'ipotesi in esame - che, in tema di rideterminazione della pena inflitta con sentenza irrevocabile di condanna per il reato di cui all'art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il giudice dell'esecuzione, in applicazione della disciplina più favorevole determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, è vincolato alle statuizioni del giudice della cognizione relative al riconoscimento delle circostanze, al giudizio di comparazione e alla riduzione della pena per il rito, ma non rispetto a quelle concernenti la determinazione della pena base e l'entità della diminuzione per le attenuanti generiche, trattandosi di aspetti che attengono alla commisurazione in concreto della pena rispetto al mutato parametro legale (v., di recente, Sez. 1, n. 22215 del 10 gennaio 2022, Valeriani, Rv. 283122-01). Così pure si è ritenuto precluso al giudice dell'esecuzione, chiamato a rideterminare, per le stesse ragioni imposte da Corte cost. n. 40 del 2019, la pena inflitta con sentenza irrevocabile di patteggiamento, di applicare, in assenza di accordo tra le parti, una riduzione per la scelta del rito diversa da quella concordata ed applicata in fase di cognizione (Sez. 1, n. 21815 del 7 luglio 2020, Sinaj, Rv. 279414-01).
Tuttavia, impregiudicate le irretrattabili conclusioni del giudice della cognizione nell'individuazione dei parametri astratti di riferimento attorno ai quali determinare la pena da applicare, il giudice dell'esecuzione provvede ad una rimodulazione autonoma del trattamento sanzionatorio, potendo persino giungere - il caso è tratto ancora dall'elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi a seguito di Corte cost., sent. n. 40 del 2019 - a quantificare la diminuzione di pena per le concesse circostanze attenuanti generiche in misura proporzionalmente inferiore a quella stabilita in sede di cognizione, atteso che tale giudice è chiamato a rinnovare l'intera valutazione in ordine alla commisurazione della pena attraverso la discrezionale rideterminazione sia della pena-base che della diminuzione per le menzionate attenuanti, quantificando in concreto siffatta diminuzione alla luce del sopravvenuto mutamento della cornice edittale quale nuovo indicatore astratto del disvalore del fatto (Sez. 1, n. 4085 del 26 novembre 2019, dep. 2020, Greganti, Rv. 278186-01).
Ne discende che, nel rispetto delle regole processuali delineate dal legislatore (ad es., il lavoro di pubblica utilità potrà essere applicato solo su richiesta del destinatario, ai sensi dell'art. 54, comma 1, d.lgs. n. 274 del 2000), non è ravvisabile alcuna ragione che impedisca al giudice dell'esecuzione di provvedere alla rimodulazione del trattamento sanzionatorio illegale, anche se all'esito di valutazioni che investono, prima ancora che la quantificazione, la stessa individuazione di una pena all'interno del catalogo individuato dal citato d.lgs. n. 274 del 2000.
11. Se, pertanto, deve riconoscersi al giudice dell'esecuzione il potere di intervenire a porre rimedio ai casi di illegalità della pena quali sopra individuati, deve coerentemente riconoscersi che viene meno l'ostacolo individuato supra sub 4.3, per riconoscere a fortiori, nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo, nella stessa logica tracciata dalle Sezioni unite Ricci, tale potere al giudice della cognizione, al fine di anticipare gli esiti obbligati della fase esecutiva.
In altri termini, occorre prendere atto che l'elaborazione giurisprudenziale sin qua maturata a proposito del rilievo officioso dell'illegalità della pena, sia pure per cause sopravvenute, trova il suo fondamento - come s'è sopra dimostrato esaminando il percorso argomentativo della sentenza Della Fazia - nell'incompatibilità con il quadro costituzionale di un sistema processuale che consenta il mantenimento di una penale illegale, nel senso sopra indicato, intesa come sanzione non prevista dall'ordinamento giuridico ovvero eccedente, per specie e quantità, il limite legale.
12. Alla luce delle argomentazioni fin qui esposte, la questione oggetto di rimessione va risolta enunciando il seguente principio di diritto:
«Pur in presenza di un ricorso inammissibile, spetta alla Corte di cassazione, in attuazione degli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., il potere di rilevare l'illegalità della pena determinata dall'applicazione di sanzione ab origine contraria all'assetto normativo vigente».
13. Alla stregua delle regulae iuris appena delineate, è possibile trarre le conseguenze che derivano, per un verso, dal rilievo dell'illegalità della pena applicata nel caso di specie e, per altro verso, dall'intervenuta prescrizione.
In particolare, il termine di prescrizione del reato, commesso il 19 marzo 2014, è spirato, ai sensi degli artt. 157, primo comma, e 161, secondo comma, c.p., tenendo conto di 27 giorni di sospensione, in data 16 ottobre 2021.
14. Ne discende che, in difetto dell'evidenza di cause di assoluzione riconducibili al novero dell'art. 129, comma 2, c.p.p., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il reato ascritto al M. è estinto per prescrizione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.
Depositata il 13 ottobre 2022.