Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 27 aprile 2022, n. 34271

Presidente: Costanzo - Estensore: Silvestri

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Bari, in accoglimento dell'appello proposto dal Pubblico ministero, ha disposto la misura interdittiva della sospensione per un anno dal pubblico ufficio di operatore di polizia penitenziaria di P. Vincenzo, gravemente indiziato per il reato di cui all'art. 375, commi 1, lett. a), e 2, c.p.

P., nella qualità di comandante del reparto di polizia penitenziaria presso la Casa circondariale di Trani e, quindi, di pubblico ufficiale, al fine di impedire, ostacolare e sviare le indagini relative ai benefici indebitamente riconosciuti ai detenuti di detto carcere, avrebbe immutato artificiosamente il corpo del reato e le cose connesse ai reati di corruzione e di abuso d'ufficio in relazione allo svolgimento di videochiamate irregolari consentite da componenti della polizia penitenziaria.

In particolare, P. avrebbe ordinato al sovraintendente M. di cancellare le memorie dai telefoni cellulari in uso al settore colloqui e, al rifiuto di questi, pur essendo stato informato che questi contenevano prove del reato di corruzione, avrebbe proceduto personalmente a tale operazione.

2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'indagato articolando un unico motivo con cui deduce violazione di legge e vizio di motivazione.

Il tema attiene innanzitutto alla consapevolezza dell'indagato della esistenza di indagini in corso al momento del compimento della condotta.

Si fa riferimento ad una nota del 6 luglio 2020 a firma del sostituto commissario della polizia penitenziaria, Michele C., fatta pervenire al nucleo investigativo regionale del dipartimento di polizia penitenziaria, "priva di carta intestata e di protocollo della direzione di appartenenza", con la quale furono elencate una serie di violazioni delle disposizioni vigenti per lo svolgimento delle videochiamate e delle telefonate commesse durante l'emergenza sanitaria per il Covid da parte della direzione della Casa circondariale di Trani.

Assume il ricorrente che C. avrebbe agito in violazione del d.m. 14 giugno 2007, istitutivo del nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria; in tal senso si fa riferimento alla nota del dipartimento di polizia penitenziaria del 12 novembre 2007 - allegata al ricorso - con cui si evidenzia come la polizia penitenziaria, ai sensi dell'art. 347, comma 1, c.p.p., acquisita la notizia di reato, debba riferire, con le modalità previste dalla legge, al Pubblico ministero e al direttore dell'istituto.

Detta nota, si argomenta, avrebbe dunque dovuto essere trasmessa al Pubblico ministero e al direttore del carcere e non "sotto copertura" all'ufficio per l'attività ispettiva che dipende dal Ministero della giustizia e direttamente dal dipartimento regionale.

Secondo il difensore proprio il modo di agire di C. rivelerebbe la mancata conoscenza all'interno della Casa circondariale di Trani dell'interessamento della Procura sui fatti in relazione ai quali la condotta contestata sarebbe stata compiuta; ciò sarebbe confermato dalla "immobilità" del direttore del carcere, dott. Giuseppe A., che, chiamato in causa dalla direzione dell'amministrazione penitenziaria sulle riscontrate anomalie per il settore videochiamate, replicava con la nota del 9 settembre 2020 richiamando semplicemente i suoi ordini di servizio.

Dunque, non sarebbe affatto chiaro sulla base di quali elementi P. avrebbe avuto consapevolezza della esistenza di indagini in corso sui fatti denunciati con la nota di C.

Il Tribunale avrebbe valorizzato al riguardo una conversazione intercorsa l'11 settembre 2020 tra P. e il vice-sovraintendente B. - il cui contenuto si allega al ricorso - che sarebbe stata male interpretata, atteso che da essa non risulterebbe che P. avesse evidenziato come fosse "onere dell'organo inquirente dimostrare la fondatezza della notitia criminis" (così il ricorso), atteso che, invece, il ricorrente nell'occasione si sarebbe solo interrogato sulla rilevanza penale della condotta di omessa identificazione dei soggetti destinatari delle videochiamate, attribuibile agli addetti al servizio di vigilanza presso il settore colloqui.

Dunque non vi sarebbe la prova dell'elemento soggettivo del reato.

Sotto altro profilo, sarebbe errata l'affermazione del Tribunale secondo cui l'operazione di cancellazione della memoria del cellulare posta in essere dal ricorrente sarebbe stata idonea a trarre in inganno una persona non sufficientemente esperta in ordine al contenuto dello smartphone ed alla esistenza di videochiamate illegittimamente effettuate dai detenuti.

Il tema attiene alla idoneità ingannatoria della condotta.

Nella specie, si afferma, si tratterrebbe di un depistaggio materiale che avrebbe dovuto in realtà ingannare non una persona non sufficientemente esperta ma soggetti professionalmente qualificati; una condotta volta ad impedire accertamenti tecnici - come reciterebbe l'imputazione - ma che invece non avrebbe avuto capacità di ostacolare e di impedire la possibilità di recuperare i dati, in realtà reperibili anche presso gli operatori telefonici.

Sotto ulteriore profilo si contesta l'ordinanza quanto alla durata della misura interdittiva disposta. Sarebbe errata l'affermazione secondo cui l'attività di depistaggio sarebbe andata a buon fine "posto che non emerge il recupero dei dati cancellati attraverso l'indebito reset del telefono" e sostiene il difensore che in realtà il recupero sarebbe possibile (si fa riferimento ad una consulenza tecnica a discarico).

La motivazione sul punto sarebbe contraddittoria perché, pur evidenziando il Tribunale una serie di elementi favorevoli all'indagato (non avrebbe esercitato alcun abuso costrittivo, non avrebbe compiuto in sé condotte penalmente rilevanti, avrebbe addebitato ai colleghi un atteggiamento meramente colposo), avrebbe poi disposto la misura interdittiva nella estensione temporale massima.

Sarebbe stato violato il principio di adeguatezza e proporzionalità.

3. È pervenuta una memoria difensiva con cui, replicando alle conclusioni del Procuratore generale, si riprendono e si approfondiscono gli argomenti posti a fondamento del motivo di ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, con cui sono stati dedotti vizi di motivazione e di violazione dei legge, è infondato.

2. Quanto ai denunciati vizi di motivazione, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità in tema di limiti di sindacabilità dei provvedimenti in tema di misure cautelari personali, la Corte di cassazione non ha alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né di rivalutazione delle condizioni soggettive dell'indagato in relazione alle esigenze cautelari ed alla adeguatezza delle misure, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito.

Il controllo di legittimità è circoscritto all'esame del contenuto dell'atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall'altro, l'assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. fer., n. 47748 dell'11 agosto 2014, Contarini, Rv. 261400; Sez. 2, n. 56 del 7 dicembre 2012, dep. 2013, Siciliano, Rv. 251761; Sez. 6, n. 2146 del 25 maggio 1995, Tontoli ed altro, Rv. 201840).

L'erronea valutazione in ordine ai gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 c.p.p. e delle esigenze cautelari di cui all'art. 274 c.p.p. è dunque rilevabile in Corte di cassazione soltanto se si traduca nella violazione di specifiche norme di legge ovvero in una mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato.

Il controllo di legittimità, in particolare, non riguarda né la ricostruzione di fatti, né l'apprezzamento del giudice di merito circa l'attendibilità delle fonti e la rilevanza e concludenza dei dati probatori, per cui non sono ammissibili le censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvano nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 7, n. 12406 del 19 febbraio 2015, Miccichè, Rv. 262948; Sez. 6, n. 49153 del 12 novembre 2015, Mascolo ed altro, Rv. 265244; Sez. 1, n. 1769 del 23 marzo 1995, Ciraolo, Rv. 201177).

3. In tale contesto l'ordinanza impugnata è immune da vizi.

3.1. Il Tribunale, con una motivazione puntuale e non manifestamente illogica, ha ricostruito i fatti ed ha spiegato come il procedimento abbia avuto origine da alcune informative di reato (datate 18 febbraio 2020, 25 febbraio 2020, 30 agosto 2021) redatte dal sostituto commissario Michele C., in servizio presso la Casa circondariale di Trani, con cui erano state segnalate all'interno dell'istituto penitenziario condotte di possibile rilievo penale, poste in essere dall'odierno ricorrente e dai di lui colleghi, al fine di consentire ai detenuti di beneficiare di trattamenti di favore; in tale contesto, ha spiegato il Tribunale, si collocherebbe, dopo la trasmissione di almeno due delle informative indicate, la nota del 6 luglio 2020, indirizzata al nucleo investigativo regionale, con la quale lo stesso C. aveva evidenziato come, attraverso alcune verifiche all'interno dei settori dei colloqui e l'esame dei dispositivi cellulari in uso ai detenuti per le videochiamate, fossero state riscontrate un serie di irregolarità e violazioni delle disposizioni impartite il 30 marzo 2020 dalla direzione per lo svolgimento delle telefonate delle videochiamate da parte dei detenuti, durante il periodo di emergenza pandemica.

Ha chiarito il Tribunale che: a) a seguito della segnalazione di C., erano state compiute indagini anche attraverso intercettazioni che avevano interessato lo stesso P.; b) il sovraintendente M. con nota del 10 settembre 2020 aveva rappresentato a P. di aver constatato il 7 settembre 2020, all'atto di assunzione in servizio, che "tutti gli smartphone in uso per le videochiamate presentavano la rubrica telefonica vuota, priva di riscontri telefonici e nominativi"; c) P. nella occasione redarguì il M. per avere redatto la nota indicata, rimproverandogli di aver insinuato sospetti sull'operato dei colleghi; d) il 28 ottobre 2020 M. predispose una ulteriore nota inviata al vice-comandante del reparto, Pi. Felice, con cui rappresentò che lo stesso P. aveva deliberatamente resettato il 24 ottobre 2020 la memoria di un[o] smartphone in uso ai detenuti, pur essendo stato edotto della presenza, sul registro delle chiamate interne al cellulare, della prova di videochiamate illegittime compiute da alcuni detenuti; e) in particolare, il 22 ottobre 2020, P. aveva consegnato all'addetta alle videochiamate uno smartphone asseritamente non funzionante, dandole disposizione di provvedere al ripristino dello stesso anche mediante reset; f) M., ricevuto lo smartphone in questione, aveva constatato al suo interno una serie di videochiamate illegittime e di tale circostanza aveva informato il vice-comandante, il quale aveva disposto di non resettare la memoria; g) il 24 ottobre 2020, P. aveva interpellato M. per assicurarsi dell'avvenuto ripristino dello smartphone e, pur essendo informato dell'accaduto, di quanto rinvenuto sul telefono e di quanto fosse stato disposto dal vice-comandante, si fece consegnare il cellulare procedendo lui stesso alla cancellazione della memoria.

Sulla base di tali elementi fattuali, il Tribunale ha indicato le ragioni per cui nella fattispecie sono ravvisabili i gravi indizi di colpevolezza del reato contestato, atteso che, da una parte, la condotta attribuita al ricorrente sarebbe stata compiuta nell'ambito di indagini avviate a seguito della trasmissione il 6 luglio 2020 della nota con cui C. rappresentò al n.i.r. i gravi fatti che stavano accadendo all'interno della Casa circondariale, e, dall'altra, che detta nota era conseguente ad una serie di informative con cui già in precedenza si era segnalata la possibile commissione di fatti corruttivi all'interno del[la] Casa circondariale di Trani tra personale e detenuti.

Si è chiarito che il reato presupposto, cioè quello in ragione del quale il depistaggio sarebbe stato compiuto, potrebbe consistere nel delitto di omissione di atti di ufficio o di falso ideologico, e che la condotta di ripristino, compiuta il 24 ottobre 2020 - di cui si è detto -, realizzerebbe una immutazione di cose connesse a reato non grossolana, perché non percepibile a seguito di un esame superficiale della res, e, quindi, idonea a trarre in inganno un soggetto di media capacità di discernimento, non potendo attribuirsi rilievo all'assunto difensivo secondo cui la capacità decettiva nella specie sarebbe invece insussistente in ragione della possibilità di recupero dei dati cancellati.

Non diversamente, il Tribunale ha spiegato, quanto all'elemento soggettivo del reato, che P. era consapevole: a) della esistenza di indagini relative all'accertamento di reato all'interno della Casa circondariale; b) di quanto il vice-comandante avesse disposto in ordine al mantenimento dei dati sul telefono; c) della possibile rilevanza delle condotte segnalate da C. (cfr. telefonata tra lo stesso P. e il sovraintendente B. dell'11 settembre 2020, dunque antecedente alla condotta di immutazione compiuta il 24 ottobre 2020, in cui il primo, a dire del Tribunale, si sarebbe interrogato della possibile rilevanza penale della condotta relativa alla mancata identificazione dei soggetti destinatari delle videochiamate e che sarebbe stato onere degli inquirenti dimostrare la fondatezza della ipotesi investigativa).

3.2. Rispetto a tale adeguata e non manifestamente illogica trama argomentativa, il motivo di ricorso rivela la sua complessiva infondatezza perché, per come strutturato, esula dal percorso di una ragionata censura del percorso motivazionale del provvedimento impugnato e si risolve in una indistinta critica difettiva; la frammentazione del ragionamento sotteso al ricorso, la moltiplicazione di rivoli argomentativi neutri o, comunque, non decisivi, la scomposizione indistinta di fatti e di piani di indagine non ancorata al ragionamento probatorio complessivo della ordinanza impugnata, la valorizzazione di singoli elementi il cui significato viene scisso ed esaminato atomisticamente rispetto all'intero contesto, violano il necessario onere di specificazione delle critiche mosse al provvedimento (sul tema, Sez. 6, n. 10539 del 10 febbraio 2017, Lorusso, Rv. 269379).

Non è chiaro infatti nel ragionamento del ricorrente, quanto meno ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza: a) perché la eventuale irritualità della trasmissione della nota del 6 luglio 2020 indirizzata al nucleo investigativo del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria dal sostituto commissario C. avrebbe una capacità destrutturante dell'intero ragionamento del Tribunale, quanto alla consapevolezza del ricorrente della esistenza di un procedimento penale al momento della commissione della condotta; b) perché, in particolare, P., comandante del reparto, alla luce della ricostruzione fattuale compiuta dal Tribunale, non sarebbe stato a conoscenza della esistenza di indagini volte ad accertare l'esistenza di fatti di reato all'interno della Casa circondariale di Trani, tenuto conto che la nota del 6 luglio 2020 si inseriva nell'ambito di una serie di informative in precedenza trasmesse alla Procura della Repubblica; c) perché non assumerebbe rilievo la conversazione intercettata l'11 settembre 2020, rispetto alla quale il motivo rivela la sua inammissibilità perché volto a sottoporre al sindacato della Corte l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, cioè una questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, che se, co[m]e nel caso di specie, risulta logica, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. un., n. 22471 del 26 febbraio 2015, Sebbar, Rv. 263715); d) perché il ricorrente decise di cancellare i dati conservati in quel cellulare nonostante gli fosse stato rappresentato specificamente ciò che stava accadendo; f) quale sarebbe il senso del comportamento in concreto tenuto dall'indagato, il significato alternativo lecito della condotta posta in essere; g) perché, sulla base della ricostruzione fattuale, non vi sarebbero i gravi indizi di colpevolezza quanto al dolo richiesto dalla norma incriminatrice.

4. Né sussistono le ipotizzate violazioni di legge.

4.1. Si è condivisibilmente affermato che la fattispecie di cui all'art. 375 c.p. colma una lacuna del sistema di tutela penale dell'attività giudiziaria, che, nel tempo, ha rivelato una inadeguata capacità di reazione di fronte alle forme di aggressioni compiute in suo danno da soggetti qualificati a cui è affidata l'applicazione della legge.

È stata dunque percepita la necessità di estendere il sistema delle incriminazioni attraverso l'inserimento di nuove fattispecie volte a reprimere inquinamenti procedimentali; ciò spiega l'affermazione secondo cui la fattispecie di depistaggio tutela il corretto funzionamento della giustizia e del processo, esposto ai rischi di compromissione derivanti dalle condotte tipiche di soggetti qualificati.

Il delitto di depistaggio, per come descritto nell'art. 375 c.p., è emerso nella sua versione definitiva in esito ad un iter parlamentare laborioso: il disegno di legge approvato in prima battuta alla Camera dei deputati (A.C. 559-A) fu, infatti, modificato in Senato prima di ricevere la definitiva approvazione nella forma di A.C. 559-B.

I nova introdotti dal Senato non furono accessori: da un lato, diversamente dalla impostazione originaria, la fattispecie fu ricondotta al novero dei reati propri, dall'altro, fu ampliato in termini significativi il perimetro, in origine comprensivo solo dello sviamento delle indagini connesse a gravi delitti puntualmente indicati nel testo legislativo (la finalità di depistare le indagini concernenti taluni delitti ritenuti di particolare gravità viene oggi riconosciuta come circostanza aggravante speciale del delitto di depistaggio, in virtù del disposto del comma 3 dell'art. 375 c.p. nonché delle "comuni" falsità dichiarative di cui agli artt. da 371-bis a 374 e 378 c.p. ai sensi del novello art. 384-ter c.p.).

Si è fatto correttamente notare come la logica del nuovo art. 375 c.p. sia quella di criminalizzare condotte lesive delle esigenze di accertamento della verità processuale, come l'immutazione artificiosa del corpo del reato, ovvero dello stato dei luoghi, delle cose o delle persone connessi al reato, ovvero come il rendere dichiarazioni false, renitenti o reticenti all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria nell'ambito di un procedimento penale al fine di impedire, ostacolare o sviare un'indagine o un processo penale.

Il "fatto" descritto alla lett. a) del comma 1 dell'art. 375 c.p., oggetto del presente procedimento, costituisce un reato proprio, di pericolo concreto, rispetto al quale il giudice è investito del potere di verificare - in chiave di "prognosi postuma" - l'idoneità della immutazione a sviare l'attività giurisdizionale; si tratta di condotte già tipizzate nel sistema penale (frode processuale), ma che assumono rilievo in ragione del soggetto attivo del reato, che conferisce alle stesse una valenza e un significato penale ulteriore.

4.2. Sin dall'entrata in vigore della disposizione è stato segnalato in senso problematico come nella formulazione normativa non vi siano indici rivelatori della necessità di una connessione tra il soggetto attivo qualificato e la condotta illecita.

Si tratta di una questione obiettivamente rilevante, che, pur non espressamente dedotta, assume rilevante valenza quanto alla corretta qualificazione giuridica dei fatti e alla loro riconducibilità alla fattispecie di reato ipotizzata.

Non casualmente, subito dopo l'entrata in vigore dell'art. 375 c.p., la dottrina ha evidenziato come una "lettura ancorata all'esegesi sembrerebbe svincolare la qualità soggettiva richiesta per l'integrazione del tipo punibile da qualsiasi collegamento col contesto dell'indagine e/o con quello del processo penale sui quali è destinato ad incidere".

Si è posta dunque la questione relativa a se sia possibile che la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio costituisca un elemento essenziale del reato "in via di fatto", a prescindere dalla connessione tra tale qualità e le attività a cui si correla l'illecito attribuito, e possa considerarsi rientrante negli elementi tipici della fattispecie, anche in situazioni di totale accidentalità della stessa rispetto all'oggetto dell'indagine.

Il tema attiene cioè a se il vincolo di connessione tra la qualifica dell'agente e l'oggetto della tutela sia connaturato alla natura di reato proprio anche qualora il legislatore non lo abbia valorizzato in modo esplicito nella stesura testuale della disposizione incriminatrice, come invece avviene ad esempio in altre fattispecie in cui si chiarisce come le condotte tipiche siano esclusivamente quelle realizzate dal soggetto qualificato nell'ambito della propria attività funzionale, di modo che il fatto illecito sia comunque espressione del potere nel cui ambito l'autore è inserito.

Si tratta di una questione in relazione alla quale si registrano opzioni interpretative difformi.

4.3. Secondo una prima impostazione, in favore della tesi estensiva militerebbero argomenti testuali e sistematici.

Quanto al dato testuale della norma, si evidenzia, sotto un primo profilo, come la disposizione normativa sia sul punto muta, non avendo il legislatore ritenuto di fare riferimento ad alcun nesso funzionale.

Sotto altro profilo, sempre in relazione al dato testuale, un argomento a favore della tesi secondo cui la condotta assumerebbe rilievo anche nei casi di totale accidentalità rispetto all'oggetto della indagine, è rinvenuto nell'art. 375, comma 7, c.p., secondo cui "La pena di cui ai commi precedenti si applica anche quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio siano cessati dal loro ufficio o servizio".

Il richiamo in questione, si è osservato, sarebbe solo apparentemente superfluo a causa della previsione generale dell'art. 360 c.p., atteso che, invece, si tratterebbe di norme obiettivamente diverse in ragione del fatto che solo quest'ultima fa espresso riferimento alla connessione tra il fatto e l'ufficio, mentre invece il comma settimo dell'art. 375 c.p. è, al riguardo, silente.

Dunque, si è ritenuto, la scelta del legislatore di puntualizzare con il comma 7 che la pena si applichi anche quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio siano cessati dal loro ufficio o servizio non sarebbe affatto casuale ma rivelerebbe l'intenzione di prescindere dal principio di cui all'art. 360 c.p.; ciò restituirebbe alla previsione di cui al comma 7 una propria autonomia operativa, confermativa della volontà di escludere il nesso tra fatto e ufficio.

4.4. Si tratta di una impostazione che non può essere condivisa.

La Corte di cassazione ha già chiarito come l'art. 375 c.p. declini "un reato proprio dell'attività del pubblico ufficiale, o dell'incaricato del pubblico servizio, la cui qualifica preesista alle indagini e sia in rapporto di connessione funzionale con l'accertamento che si assume inquinato, cosicché la condotta illecita deve risultare finalizzata proprio all'alterazione dei dati che compongono l'indagine, o il processo penale, che gli è stato demandato di acquisire o dei quali il pubblico agente sia venuto a conoscenza nell'esercizio della sua funzione e risulti quindi posto in condizione di spiegare il proprio intervento inquinante".

Si è spiegato che l'elevata previsione sanzionatoria della fattispecie suggerisce di riconnettere la condotta ad un dovere inerente specificamente la funzione, il cui svolgimento implica una fisiologica convergenza di interessi tra pubblica amministrazione rappresentata e dipendente chiamato a svolgerne le funzioni.

Si è aggiunto che assume rilievo "il mancato ampliamento nella novella normativa delle cause di non punibilità inerenti alla necessità di essere costretti di salvare sé o altri dal pericolo ai sensi dell'art. 384 c.p. L'indifferenza rispetto ai diritti personali o della considerazione dei vincoli familiari che emerge da tale scelta legislativa evidenzia la necessità di un riconoscimento di preminenza del dovere di collaborazione che discende dal rapporto professionale, che ulteriormente impone la preesistenza, rispetto al fatto, della qualità di pubblico ufficiale ... e la maggiore valenza del vincolo funzionale con lo Stato, rispetto agli interessi personali, considerati pertanto inesorabilmente recessivi rispetto ai doveri derivanti dalla funzione. Solo tale vincolo riesce a caratterizzare, in maniera riconoscibile, il dolo specifico richiesto, cosicché deve individuarsi l'elemento tipico del reato nella violazione del dovere di fedeltà connesso alla preesistenza della qualifica rispetto al reato, in ragione della quale si richiede il più pregnante rispetto dell'obbligo di agire nell'interesse comune, preminente su ogni altro concorrente valore, cui deve attribuirsi, per l'effetto, considerazione subvalente".

Ancora, si è affermato che il riferimento contenuto nell'art. 375, comma 7, c.p. non autorizza "un'amplificazione della fattispecie di reato, al di là di quanto emerga dall'analisi sistematica sopra svolta, nel senso di attribuire a quest'ultima la funzione di reato di posizione, consumabile al di là di ogni rapporto funzionale del fatto con tale ruolo, e quindi riproponibile anche alla cessazione di esso, ma debba considerarsi una precisazione ultronea rispetto ai principi generali in materia. Tale conclusione emerge dalla circostanza che la formulazione testuale della nuova previsione non opera alcun riferimento all'esercizio della funzione al momento della commissione del reato, contrariamente a quanto previsto dalla norma generale, ma richiama solo l'applicazione della pena anche nell'ipotesi in cui sia sopraggiunta la cessazione dal servizio, condizione che evidentemente non svincola dal richiamato dovere di lealtà, e ne conferma la sopravvivenza rispetto a fatti o circostanze conosciute o a cui si è avuto accesso in correlazione con l'esercizio della funzione e rispetto ai quali si conserva un obbligo accentuato di rispetto della verità" (così, testualmente, Sez. 6, n. 24557 del 30 marzo 2017, Mastrocinque, non massimata).

In senso contrario alla tesi estensiva sembrerebbero peraltro deporre non solo i lavori preparatori della legge, ma, soprattutto, la necessità di propendere per interpretazioni costituzionalmente orientate e di scongiurare possibili profili di irragionevolezza del dato normativo.

Quanto ai lavori preparatori, proprio la ricordata "alternanza" tra reato comune e reato proprio nei passaggi tra i due rami del Parlamento deve considerarsi sintomatica della volontà legislativa di orientare la sanzione verso soggetti che si trovino in rapporto di peculiare connessione con il bene protetto.

Sotto altro profilo, l'opzione interpretativa estensiva lascia sullo sfondo dubbi di illegittimità costituzionale in punto di sproporzione sanzionatoria per irragionevole disparità di trattamento tra il "tipo di autore" incriminato dall'art. 375 c.p. e la classe dei possibili autori dei relativi reati comuni.

Il principio di proporzionalità della pena, funzionale a garantire un corretto equilibrio tra la gravità della violazione commessa e la risposta sanzionatoria, è coessenziale al principio di offensività e alla finalità rieducativa della pena.

Si è fatto correttamente notare in dottrina che, ove il reato fosse configurabile a prescindere dalla connessione tra la qualità e le attività compiute, la dosimetria sanzionatoria prescelta nella fattispecie in esame si porrebbe in una prospettiva di dubbia compatibilità con le cornici edittali delle omologhe fattispecie comuni: il pubblico ufficiale "depistatore", infatti, soffrirebbe un incremento del carico sanzionatorio dovuto esclusivamente alla sua posizione, alla sua qualifica, anche nei casi in cui questa non abbia alcun legame di presupposizione con il procedimento nel cui ambito si riverberano gli effetti della condotta.

Non diversamente, si porrebbero questioni in ordine alla difformità di trattamento che attraverserebbero la stessa classe dei pubblici ufficiali, chiamati a rispondere del medesimo titolo di reato pur se taluni non abbiano realizzato la condotta "in ragione e per effetto della qualifica".

Una opzione interpretativa, quella che opta per la rilevanza "di posizione" della qualifica, che, certo, svuota di rilevanza pratica il settimo comma dell'art. 375 c.p., ma che tuttavia appare in grado di salvaguardare maggiormente la compatibilità costituzionale della norma.

Nel caso di specie, i fatti rivelano come la condotta compiuta dal ricorrente, certamente pubblico ufficiale, si ponga in connessione con l'indagine in corso, atteso che, se è vero che a P. non era stato demandato dall'Autorità giudiziaria di accertare specificamente alcunché rispetto a reati che pure erano stato denunciati, è altrettanto vero che, come è stato ricostruito in punto di fatto dal Tribunale, egli era venuto a conoscenza, in ragione della sua posizione e nell'esercizio della sua funzione di comandante del reparto di polizia penitenziaria della Casa circondariale di Trani, della esistenza, del peso e della portata di quei dati, della rilevanza che essi avrebbero potuto avere in ordine agli ipotizzati illeciti compiuti all'interno del carcere, e dunque pose in essere la condotta sfruttando la sua posizione e la sua condizione soggettiva, ingerendosi nel procedimento con il compimento di un chiaro intervento inquinante.

P., in ragione della sua funzione, era venuto a conoscenza della indagine e in ragione di ciò era in condizione di spiegare il proprio intervento inquinante.

Né assume particolare rilievo la circostanza per cui, al momento in cui la condotta fu compiuta, non fosse noto lo specifico reato per il quale si stava investigando, cioè quale fosse il reato o i reati per cui si stava procedendo; si tratta di un profilo obiettivamente accessorio, in ragione della fluidità della fase delle indagini, dello stato del procedimento, dei molteplici e potenziali sviluppi delle investigazioni, delle strategie del Pubblico ministero.

Ciò che rileva è che al momento in cui è compiuta la condotta di immutazione il soggetto abbia consapevolezza della possibile sua incidenza su una indagine in corso, della valenza inquinante del suo agire rispetto agli accertamenti investigativi, non essendo necessario che il soggetto si rappresenti l'effetto della sua condotta deviante rispetto ad uno specifico reato.

P. sapeva delle indagini, sapeva che in quel telefono erano contenute informazioni che avevano rilievo perché confermavano la esistenza di prassi deviate, di gravi irregolarità, forse di reati, e, nonostante ciò, decise di azzerare tutto.

5. Né sussiste la ipotizzata violazione di legge quanto alla idoneità della condotta.

Nel c.d. depistaggio materiale l'immutazione deve essere artificiosa, cioè deve risolversi, come è stato chiarito dal Tribunale, in un intervento sulla cosa o sulla persona diverso ed ulteriore rispetto agli atti di doverosa conservazione e cura.

Si è osservato correttamente che la verifica del requisito della "artificiosità" va effettuata caso per caso, alla stregua del «particolare contesto in cui essa è stata compiuta», ravvisandolo ogniqualvolta l'immutazione «si discosti dalla "normalità" dei comportamenti tenuti in genere».

Questo implica «una simulazione o dissimulazione della realtà effettiva, un intervento sulla stessa, in funzione dell'induzione in errore di terze persone, analogamente al significato che il termine artifizio assume nella fattispecie della truffa».

La modificazione, come il Tribunale ha spiegato, deve essere idonea a sostituire alla realtà effettiva una "artificiosa", «non coincidente con quella che costituisce la esatta riproduzione delle tracce e delle conseguenze del delitto commesso» (così la dottrina).

Una immutazione che deve avere, sul piano oggettivo, una idoneità ingannatoria, da apprezzarsi secondo un giudizio di prognosi postuma.

In tal senso, si coglie il senso dell'affermazione del Tribunale, che correttamente ha spiegato perché, secondo un giudizio ex ante, la condotta di immutazione compiuta dal ricorrente non fosse affatto grossolana e invece avesse attitudine ingannatoria.

Né, alla luce di quanto il Tribunale ha chiarito in punto di fatto in relazione alla consapevolezza da parte del ricorrente della esistenza di una indagine al momento in cui la condotta fu compiuta, è configurabile una errata applicazione della legge penale quanto al dolo.

È evidente che il tema della consapevolezza da parte del ricorrente della esistenza di una indagine assume decisiva valenza anche ai fini della verifica del dolo, ma, allo stato, il motivo di ricorso al riguardo rivela, come detto, la sua infondatezza, perché, da una parte, l'ordinanza impugnata non è manifestamente illogica in punto di ricostruzione fattuale, e, dall'altra, perché il ricorrente sostanzialmente sollecita la Corte [a] una diversa valutazione del peso e della portata degli indizi, preclusa in questa sede.

6. Il motivo di ricorso è infondato anche nella parte relativa alla durata della misura interdittiva, in relazione alla quale il Tribunale, dopo aver indicato le ragioni poste a fondamento del rischio di recidiva - sostanzialmente non contestato dall'indagato - ha spiegato, in modo non manifestamente illogico, che la durata della misura cautelare si giustifica in ragione della gravità della condotta, della personalità del ricorrente, descritto come un soggetto pervicace nel "coprire" l'operato dei colleghi e intento a convincere questi a non segnalare le omissioni e le irregolarità registrate.

Rispetto a tale ragionamento non assumono decisivo rilievo le circostanze evidenziate dall'indagato, e cioè di non aver conseguito una utilità economica personale specifica ovvero di aver commesso "condotte anche in sé non penalmente rilevanti", atteso che proprio il modello di gestione dell'ufficio da parte dell'indagato rivela un approccio inquinante della funzione perché piegata a esigenze lontane da quelle istituzionali.

7. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 28 reg. [e]sec. c.p.p.

Depositata il 15 settembre 2022.