Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 22 giugno 2022, n. 25761

Presidente: Sabeone - Estensore: De Marzo

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 15 novembre 2021 la Corte d'appello di Torino, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha escluso la circostanza aggravante di cui all'art. 625, primo comma, n. 7, c.p., e ha rideterminato la pena inflitta a Ottavia M. e a Rita M., in relazione al reato di tentato furto in supermercato loro attribuito.

2. Nell'interesse della sola M. Rita è stato proposto ricorso per cassazione, affidato alle doglianze di seguito enunciate nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. c.p.p.

2.1. Con una prima articolazione del motivo formalmente unitario si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, in relazione alla ritenuta sussistenza di una querela.

2.2. Con la seconda articolazione si lamenta la mancata applicazione della causa di estinzione del reato per condotte riparatorie, nonostante che l'esclusione della circostanza aggravante di cui all'art. 625, primo comma, n. 7, avesse reso il reato contestato procedibile a querela.

3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con l. 18 dicembre 2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, dott. Ferdinando Lignola, il quale ha chiesto rigettarsi il ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La prima articolazione del motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, dal momento che, secondo quanto chiarito dalle Sezioni unite di questa Corte (Sez. un., n. 40354 del 18 luglio 2013, Sciuscio, Rv. 255975-01), il bene giuridico protetto dal delitto di furto è individuabile non solo nella proprietà o nei diritti reali personali o di godimento, ma anche nel possesso - inteso come relazione di fatto che non richiede la diretta fisica disponibilità - che si configura anche in assenza di un titolo giuridico e persino quando esso si costituisce in modo clandestino o illecito, con la conseguenza che anche al titolare di tale posizione di fatto, quale, ad es., il responsabile di un supermercato - come appunto nel caso di specie - spetta la qualifica di persona offesa e, di conseguenza, la legittimazione a proporre querela.

La circostanza che ad abundantiam al responsabile sia stata anche conferita procura, della cui validità la ricorrente dubita - peraltro in termini privi di qualunque specificità - è, già in astratto, del tutto irrilevante, poiché la legittimazione prevista dalla legge non viene privata di efficacia se le parti predispongano un titolo di legittimazione aggiuntivo, che risulti in ipotesi invalido.

2. La seconda articolazione è infondata.

Posto che, nel caso di specie, la stessa commissione del reato si colloca all'indomani dell'entrata in vigore della l. 23 giugno 2017, n. 103, che ha introdotto nel codice penale l'art. 162-ter c.p., occorre prendere atto che la richiesta di applicazione dell'istituto è stata formulata solo con l'atto di appello e non prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, che segna il termine ultimo di operatività dell'istituto all'interno del processo (v., ad es., in motivazione, Sez. 3, 16674 del 2 marzo 2021, V., Rv. 281204-0).

Né, in senso contrario, vale obiettare che l'esclusione della circostanza aggravante che ha comportato la presa d'atto della procedibilità a querela dello specifico delitto de quo si è realizzata solo con la sentenza d'appello, poiché, in generale, l'erroneità della definizione giuridica del fatto, quale poi accertata dal giudice, non solleva l'imputato dall'onere di operare le richieste cui assume di avere diritto, contestando siffatta definizione.

Ad es., in materia di oblazione, le Sezioni unite di questa Corte hanno ritenuto che, laddove sia contestato un reato per il quale non è consentita l'oblazione ordinaria di cui all'art. 162 c.p. né quella speciale prevista dall'art. 162-bis c.p., l'imputato, qualora ritenga che il fatto possa essere diversamente qualificato in un reato che ammetta l'oblazione, ha l'onere di sollecitare il giudice alla riqualificazione del fatto e, contestualmente, di formulare istanza di oblazione, con la conseguenza che, in mancanza di tale espressa richiesta, il diritto a fruire dell'oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio ex art. 521 c.p.p., con la sentenza che definisce il giudizio, ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l'applicazione del beneficio (Sez. un., n. 32351 del 26 giugno 2014, Tamborrino, Rv. 259925-01).

L'orientamento è stato esplicitamente avallato da Corte cost. n. 192 del 2020, la quale ha sottolineato come esso non sia censurabile da un punto di vista costituzionale, laddove configura un onere dell'imputato, il quale si sia visto contestare in forma chiara e precisa il fatto addebitatogli, con l'indicazione degli articoli di legge che si assumono violati, secondo quanto prescritto dall'art. 429, comma 1, lett. c), c.p.p., di esercitare prontamente e tempestivamente il suo diritto di difesa riguardo all'inquadramento giuridico della vicenda (nel caso di specie, appunto, con riferimento alla domanda di oblazione). Una cosa, infatti, è il mutamento del dato storico su cui si basa l'accusa, legato alle risultanze probatorie: mutamento che l'imputato non sarebbe tenuto ad "antivedere", per adeguare ad esso le proprie strategie in punto, ad es., di opzione per un rito speciale (al riguardo, si vedano le decisioni assunte dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 14 del 2020, n. 82 del 2019, n. 141 del 2018, n. 206 del 2017, n. 139 del 2015, n. 273 e n. 184 del 2014, n. 237 del 2012, n. 333 del 2009, n. 530 del 1995 e n. 265 del 1994). Altra cosa, invece, è la sussunzione del dato storico sub specie iuris, ossia il suo inquadramento sotto l'uno o l'altro titolo di reato: tema sul quale l'imputato potrebbe invece interloquire subito, nell'esercizio del suo diritto di difesa, particolarmente in rapporto ai riflessi sull'accessibilità al meccanismo invocato, dolendosi, in specie, di una qualificazione scorretta.

E la migliore riprova che siffatte conclusioni non configurino oneri inesigibili si trae proprio dalla concreta vicenda processuale, nella quale la richiesta di applicazione della causa di estinzione del reato è stata proposta proprio con l'atto di appello, ossia prima che il giudice di secondo grado escludesse la circostanza aggravante di cui all'art. 625, primo comma, n. 7, c.p.

3. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 5 luglio 2022.