Corte di cassazione
Sezione III civile
Ordinanza 12 aprile 2022, n. 11769

Presidente: Travaglino - Relatore: Cirillo

FATTI DI CAUSA

1. Il gen. Francesco P. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la società editrice del quotidiano "Il Messaggero", il direttore responsabile Roberto N. e i giornalisti Cristina M., Valentina E., Massimo Ma. e Italo C., chiedendo che fossero condannati in solido al risarcimento dei danni, determinati nella somma di euro 250.000, da lui subiti a seguito della pubblicazione di alcuni articoli di contenuto asseritamente diffamatorio.

A sostegno della domanda espose che nelle date 6, 10, 14, 15, 18 e 19 maggio 2010 erano stati pubblicati sul citato quotidiano una serie di articoli che, traendo spunto dall'indagine giudiziaria in corso a carico dell'imprenditore Diego A., avevano addebitato all'attore di aver fatto mercimonio delle sue funzioni di alto ufficiale della Guardia di finanza, in particolare accusandolo di aver intrattenuto rapporti con una «cricca di imprenditori e di faccendieri», ottenendo, in cambio di informazioni riservate fornite all'A., un posto di lavoro per la figlia e denaro per l'acquisto di due immobili a Roma.

Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda.

Il Tribunale rigettò la domanda e condannò l'attore al pagamento delle spese di lite.

2. La pronuncia è stata impugnata dall'attore soccombente e la Corte d'appello di Roma, con sentenza del 15 marzo 2019, ha rigettato il gravame, ha confermato la decisione del Tribunale e ha condannato l'appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.

2.1. Dopo aver trascritto in motivazione ampi stralci degli articoli oggetto di causa, la Corte territoriale, dichiarando di condividere le valutazioni espresse dal giudice di primo grado, ha premesso che il requisito della verità della notizia relativa al coinvolgimento del gen. P. nell'inchiesta della Procura della Repubblica di Perugia a carico dell'imprenditore A. doveva essere valutato non in termini di rigorosa corrispondenza tra il fatto accaduto e quello narrato; in materia di cronaca giudiziaria, infatti, la verità sussiste se c'è corrispondenza tra le notizie riferite e le risultanze dell'attività giudiziaria da cui le notizie traggono origine. Richiamando anche la giurisprudenza di legittimità, la Corte romana ha aggiunto che il giornalista non è tenuto, in sede di cronaca giudiziaria, a svolgere indagini parallele, ma solo ad accertare che la notizia provenga davvero dall'autorità giudiziaria, dato che il concetto di verità putativa rileva come attendibilità della fonte da cui la notizia deriva.

2.2. Ciò premesso, la sentenza in esame ha passato in rassegna i vari articoli in contestazione.

Quanto alla notizia, contenuta negli articoli del 14, 15 e 19 maggio, secondo cui la dottoressa Flavia P. era stata assunta grazie all'intercessione di A., la Corte ha detto che il motivo di appello era sul punto infondato, dato che la documentazione prodotta era irrilevante, non avendo l'appellante «contestato che la notizia fosse stata mutuata da provvedimenti giudiziari o dalle risultanze dell'inchiesta quali risultavano al momento della sua pubblicazione».

In ordine all'affermazione, contenuta negli articoli del 6, 14, 18 e 19 maggio, secondo cui il generale era in quel momento indagato dalla Procura della Repubblica di Perugia - affermazione che secondo l'appellante era falsa - la Corte ha osservato che vi era in atti l'ammissione del P. di essere stato sentito da quella Procura come persona informata sui fatti. Il termine «indagato», quindi, era stato usato in senso atecnico, cioè nel senso di «soggetto coinvolto nelle indagini, poiché a conoscenza dei fatti»; per cui la notizia non poteva ritenersi di contenuto diffamatorio, essendo connotata da «inesattezze secondarie e marginali», tali da non alterare la corrispondenza degli articoli rispetto all'inchiesta sugli appalti pubblici svolta dalla Procura di Perugia.

In relazione agli incontri tra A. e il gen. P., oggetto di alcuni degli articoli pubblicati, la sentenza d'appello ha affermato che il motivo era generico, dato che «gli incontri tra un generale della Guardia di finanza, un appaltatore e un pubblico funzionario non sono certo un fatto disdicevole di per sé», mentre l'interesse pubblico alla notizia giustificava la divulgazione tramite il mezzo della stampa.

Quanto alla notizia secondo cui il gen. P. aveva favorito A. negli incarichi provenienti dal Comando della Guardia di finanza di Via dell'Olmata a Roma, oggetto dell'articolo del 18 maggio, la Corte territoriale ne ha dichiarato la «portata offensiva marginale», sia perché dal contenuto dell'articolo si capiva che era da escludere un intervento diretto del P. sia perché nello stesso articolo si faceva riferimento ad un'altra ipotesi investigativa, «ben più grave e infamante», relativa alla ricezione di denaro per l'acquisto di due appartamenti a Roma, avvenuto grazie all'intervento di un collaboratore di A.

Doveva poi considerarsi un'inesattezza «secondaria e marginale» la notizia, riportata negli articoli del 6 e 19 maggio, secondo cui il gen. P. sarebbe stato prima sospeso dal servizio e poi pensionato in anticipo (mentre la tesi dell'appellante era che quella notizia facesse trasparire l'idea di un suo coinvolgimento nell'indagine penale e di una conseguente "punizione" da parte della Guardia di finanza).

La Corte d'appello è poi passata ad esaminare il problema della ricostruzione dei rapporti tra l'appellante e A. in relazione alla vicenda dell'acquisto di due immobili a Roma con denaro proveniente da quest'ultimo. La sentenza ha rilevato, intanto, che gli articoli avevano riferito della questione facendo un esplicito riferimento ai nomi dei magistrati inquirenti e dei testimoni che costituivano la fonte della notizia; ha poi aggiunto che A., nel corso del suo interrogatorio, aveva ribadito che il denaro necessario per quegli acquisti era un regalo da lui fatto all'appellante, grazie all'intervento di un tale Z. che aveva fatto da tramite per gli assegni. Il gen. P., secondo la Corte, non aveva contestato che quelle dichiarazioni fossero state rese da A. davanti all'Autorità giudiziaria, né la loro «intrinseca veridicità». Non poteva, inoltre, secondo il giudice d'appello accogliersi la censura secondo cui tale versione dei fatti era «unilateralmente colpevolista», dato che gli articoli contestati avevano sempre chiarito che quelle notizie provenivano da atti di indagine ed avevano usato il modo condizionale, così dando conto della necessità di verifica e riscontro di tali testimonianze.

La sentenza, infine, ha condiviso il giudizio del Tribunale in ordine alla sussistenza del requisito della continenza, rilevando che negli articoli censurati non erano stati usati espressioni scorrette, attacchi personali o epiteti ingiuriosi o comunque offensivi; ed ha aggiunto che nessuna contestazione c'era nei motivi di appello circa la sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti di cui agli articoli contestati.

3. Contro la sentenza della Corte d'appello di Roma propone ricorso il gen. Francesco P. con atto affidato a sei motivi.

Resistono "Il Messaggero" s.p.a., il direttore Roberto N. e i giornalisti Cristina M., Valentina E., Massimo Ma. e Italo C. con un unico controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 21 Cost., dell'art. 51 c.p. e dell'art. 115 c.p.c., in relazione alla vicenda dell'assunzione della figlia del ricorrente da parte di A.

Il ricorrente ricorda che la sentenza ha affermato, su questo punto, che non era stato contestato che tale notizia fosse stata mutuata da provvedimenti giudiziari. Il principio di non contestazione, però, va collegato con quello di allegazione, nel senso che può essere contestato solo ciò che è stato allegato. Nella specie, i giornalisti Ma. ed E. non avrebbero fatto alcun riferimento, negli articoli del 14 e 15 maggio, alla fonte della notizia relativa all'assunzione della figlia del ricorrente da parte di A., limitandosi ad insinuare che tale assunzione fosse il frutto di illeciti legami tra A. e il ricorrente stesso. Mancava, quindi, ogni riferimento a quali fossero le "carte" processuali fonte della notizia. La sentenza avrebbe violato l'art. 21 Cost. e l'art. 51 c.p. riconoscendo l'esistenza del diritto di cronaca giudiziaria, mentre avrebbe dovuto stabilire se «l'assunzione della figlia del P. fosse un fatto oggettivamente vero (...) ovvero fosse, comunque, il risultato di un serio e diligente lavoro di ricerca», cosa nella specie non avvenuta. Il diritto di cronaca giudiziaria, infatti, non sussiste se la notizia è autoreferenziale o se la fonte è del tutto generica.

2. Con il sesto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 111 Cost. e dell'art. 132, n. 4), c.p.c., per nullità della sentenza siccome caratterizzata da una motivazione apparente.

Il motivo ha ad oggetto la falsa notizia del dono di due appartamenti da parte dell'A. Osserva il ricorrente che nell'articolo del 14 maggio si fa riferimento alle dichiarazioni rese da A. ai magistrati di Perugia secondo le quali gli assegni veicolati da Z. e destinati all'acquisto di due appartamenti in Roma, da destinare al gen. P., erano un vero e proprio dono. La Corte di merito ha negato la sussistenza della diffamazione sul rilievo che il ricorrente non aveva contestato il fatto che quelle dichiarazioni fossero state rese davanti all'Autorità giudiziaria. Sarebbe evidente, invece, che il giornalista non aveva affatto indicato la fonte della notizia, ma avrebbe fornito quella notizia non richiamando atti processuali. Per cui, in «assenza di ogni specificazione circa la fonte della notizia», il ricorrente sostiene che tale fonte doveva essere la medesima che aveva fornito le altre false notizie, mancando quindi ogni fondamento al rigetto della domanda di risarcimento dei danni.

3. Ritiene la Corte che il primo e il sesto motivo, pur tra loro differenti, possano essere trattati congiuntamente, in quanto entrambi pongono il problema dei limiti del c.d. diritto di cronaca giudiziaria.

3.1. La giurisprudenza di questa Corte ha affrontato l'argomento con alcune pronunce che giova qui sommariamente richiamare.

È stato affermato, a questo proposito, che la lesione dell'onore e della reputazione altrui non si verifica quando la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca, condizionato all'esistenza dei seguenti presupposti: la verità oggettiva o anche solo putativa dei fatti riferiti, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca, tenuto conto della gravità della notizia pubblicata; l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza); la correttezza formale dell'esposizione (cosiddetta continenza). In particolare, nel caso di notizie lesive mutuate da provvedimenti giudiziari, il presupposto della verità deve essere restrittivamente inteso (salva la possibilità di inesattezze secondarie o marginali, inidonee a determinarne o aggravarne la valenza diffamatoria), nel senso che la notizia deve essere fedele al contenuto del provvedimento e che deve sussistere la necessaria correlazione tra fatto narrato e quello accaduto, senza alterazioni o travisamenti di sorta, non essendo sufficiente la mera verosimiglianza, in quanto il sacrificio della presunzione di non colpevolezza richiede che non si esorbiti da ciò che è strettamente necessario ai fini informativi (sentenza 20 ottobre 2009, n. 22190, ripresa dalla sentenza 26 agosto 2014, n. 18264).

Più di recente, è stato affermato che il giornalista, nel narrare un fatto di cronaca vero nei suoi aspetti generali, può anche riferire una notizia inesatta, a condizione che tale discrasia non sia in grado di offendere l'altrui reputazione (ordinanza 9 maggio 2017, n. 11233); ed è stato ribadito, in linea con la sentenza n. 22190 del 2009, che in materia di cronaca giudiziaria è fondamentale, ai fini dell'applicabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., che il giornalista verifichi l'attendibilità della fonte e l'aggiornamento della notizia che viene fornita, perché il riferimento ad un determinato atto processuale potrebbe non essere più attuale (si pensi al caso classico nel quale si dà conto che una persona è imputata di un reato dal quale è stata nel frattempo assolta, v. l'ordinanza 12 ottobre 2020, n. 21969).

Con la recentissima ordinanza 9 dicembre 2021, n. 39082 - che costituisce, per certi versi, un precedente specifico, avendo ad oggetto una causa risarcitoria promossa dal medesimo odierno ricorrente, in relazione alla stessa vicenda oggetto della causa qui in esame, riportata, però, da un altro giornale - questa Corte ha specificato che il requisito della verità della notizia assume diversa connotazione a seconda che l'articolo riporti il contenuto di atti giudiziari ovvero riferisca indiscrezioni tratte da indagini in corso; nel primo caso, è necessario che venga fedelmente riportato il contenuto della fonte, mentre nel secondo è sufficiente che le dette indiscrezioni effettivamente vi siano, indipendentemente dal loro grado di aderenza agli atti di indagine presupposti.

3.2. Ciò premesso, la Corte osserva, in relazione alla censura del primo motivo, che la sentenza impugnata ha affermato, quanto alla vicenda della presunta assunzione della figlia del ricorrente, che l'appellante non aveva contestato che la notizia fosse mutuata da provvedimenti giudiziari.

Rispetto a tale ricostruzione, la censura del primo motivo è priva di fondamento, perché il richiamo che il ricorrente compie al principio di allegazione è fuor di luogo. Il giornalista non è tenuto specificamente ad indicare la fonte della notizia di cronaca giudiziaria, purché dal contesto dell'articolo questa risulti in modo chiaro. Nel caso in esame è palese, come si vede dal testo dell'articolo del 14 maggio a firma del giornalista Ma., che la contestata notizia, peraltro presentata sempre con l'uso del modo condizionale, è stata collegata all'indagine in corso, presso la Procura della Repubblica di Perugia, a carico dell'imprenditore A. Ne consegue che la fonte giudiziaria è comunque chiaramente rappresentata e che il giornalista non poteva essere chiamato anche a verificare la fondatezza o meno del fatto come a lui pervenuto dalle indiscrezioni giudiziarie trapelate (chiaro è, in tal senso, l'inciso «almeno a leggere le carte», che dà conto della fonte giudiziaria e presenta comunque il fatto in termini dubitativi).

3.3. Infondato è anche il sesto motivo.

Ed invero la sentenza impugnata ha affermato che gli articoli di giornale che si riferivano alla vicenda dell'acquisto dei due beni immobili a Roma con denaro messo a disposizione dall'A. era tratta dalle indagini in corso a Perugia. La Corte romana, dopo aver riportato il testo degli articoli dei giorni 6, 14 e 19 maggio, ha specificato che essi erano stati «molto specifici nel riportare la fonte della notizia con riferimento alle indagini svolte dalla Procura di Perugia e dalla Guardia di finanza»; che erano stati riportati i nomi dei magistrati inquirenti; che negli articoli era evidente, anche in virtù dell'uso del condizionale, che le indagini erano in corso e che tutto l'insieme delle accuse contro il gen. P. era frutto della deposizione di A. davanti ai magistrati perugini; che il danneggiato non aveva contestato il fatto che A. avesse fornito simili deposizioni davanti agli inquirenti; e che, in definitiva, non poteva essere accolta la tesi dell'appellante secondo cui quegli articoli erano frutto di una impostazione «unilateralmente colpevolista».

Si tratta, come facilmente si vede, di un'ampia e coerente motivazione che è coerente con la giurisprudenza di questa Corte in precedenza richiamata e che dimostra la correttezza della sentenza d'appello nel ritenere sussistente l'esimente del diritto di cronaca giudiziaria. La notizia fornita, infatti, può essere definita vera nel senso in cui detto termine va usato a proposito della cronaca giudiziaria, trattandosi di una notizia sostanzialmente fedele a quanto in quel momento stava emergendo dall'indagine in corso.

A fronte di tale ricostruzione in diritto e della valutazione che la Corte d'appello ha ritenuto di compiere del materiale probatorio a sua disposizione, il sesto motivo di ricorso contesta l'esistenza di un «grave vizio di motivazione costituito dal travisamento della prova»; ma in tal modo è evidente che la censura non coglie la ratio decidendi della sentenza in esame e finisce col riproporre in questa sede, dietro l'apparente censura della nullità della sentenza, un tentativo di ottenere un diverso e non consentito riesame del merito. Risulta poi smentita dall'evidenza l'affermazione contenuta nel sesto motivo secondo cui l'articolo del 14 maggio a firma di Massimo Ma. non indicava quale fosse la fonte della notizia, perché ciò non trova riscontro nel contenuto degli articoli e nell'interpretazione dei medesimi che ha compiuto la Corte di merito.

4. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 111 Cost. e dell'art. 132, n. 4), c.p.c. per nullità della sentenza siccome caratterizzata da una motivazione apparente.

Il motivo ha ad oggetto l'attribuzione al gen. P. della qualità di indagato. Dopo aver ricordato che la sentenza ha ritenuto che quel termine fosse stato usato in modo atecnico, il ricorrente osserva che tale motivazione sarebbe insostenibile. Anche nel linguaggio giornalistico, infatti, la parola "indagato" è sinonimo di soggetto sul quale si stanno svolgendo indagini; e la giurisprudenza ha riconosciuto che integra diffamazione aver attribuito ad un indagato la qualità di imputato; per cui sarebbe evidente che la diffamazione sussiste, a maggior ragione, se si qualifica come indagato una persona che viene sentita come testimone o come persona informata sui fatti. Tanto più che negli articoli contestati si aggiungeva che i P.M. incaricati dell'indagine erano pronti a chiudere l'indagine sul gen. P., chiedendone il rinvio a giudizio.

4.1. Il motivo non è fondato.

Il ricorrente ha correttamente richiamato la pronuncia di questa Corte secondo la quale integra diffamazione a mezzo stampa, per l'insussistenza dell'esimente del diritto di cronaca giudiziaria, l'attribuzione ad un soggetto nell'ambito di un articolo giornalistico della falsa posizione di imputato, anziché di indagato, allorché il giornalista riferisca di un'avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all'art. 415-bis c.p.p., non potendo detti atti reputarsi equivalenti, dal momento che quest'ultimo, a differenza del primo, non comporta esercizio dell'azione penale e risponde allo scopo di consentire all'indagato l'esercizio del diritto di difesa con la possibilità di un approfondimento delle stesse indagini (così l'ordinanza 18 maggio 2018, n. 12370, la quale si pone in evidente continuità con la già citata sentenza n. 18264 del 2014).

Tale precedente, tuttavia, è impropriamente richiamato nel caso in esame, data la palese diversità tra la vicenda odierna e quella oggetto della menzionata ordinanza. Se è evidente, infatti, che attribuire la qualità di imputato a chi è solamente indagato può costituire un atto diffamatorio in considerazione del discrimine rappresentato dall'esercizio dell'azione penale, è altrettanto evidente che l'utilizzo del termine «indagato» in relazione al gen. P., che era stato sentito come persona informata sui fatti, ben può essere considerato, come ha fatto la Corte d'appello, come un'inesattezza secondaria e marginale, in virtù del «significato atecnico di soggetto coinvolto nelle indagini». Entrambe le figure in questione, il soggetto informato sui fatti e il soggetto indagato, si collocano infatti nella fase delle indagini preliminari, nella quale non c'è stato ancora esercizio dell'azione penale, per cui il confronto col suindicato precedente risulta non calzante. Né può pretendersi da un giornalista un utilizzo tecnicamente ineccepibile dei corretti termini processuali.

Quanto, poi, al riferimento all'articolo del 14 maggio a firma del giornalista Ma. - nel quale viene detto che dalle indiscrezioni risultava che i magistrati inquirenti erano «in grado di chiudere l'indagine su P., chiedendone il rinvio a giudizio» - va anche ricordato che, come riporta la sentenza in esame, in pari data era stato pubblicato anche un altro articolo, a firma della giornalista E., nel quale si dava atto che l'odierno ricorrente non risultava ancora indagato per corruzione.

5. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 111 Cost. e dell'art. 132, n. 4), c.p.c., per nullità della sentenza siccome caratterizzata da una motivazione apparente.

La censura ha ad oggetto la questione dell'assidua frequentazione, da parte del ricorrente, di A. e di Angelo B. Sostiene il ricorrente che la motivazione della sentenza è, su questo punto, non solo apparente ma «decisamente ilare». La Corte d'appello si è limitata ad affermare che i contatti tra un generale della Guardia di finanza e un imprenditore non sono un fatto disdicevole in sé, ma non avrebbe considerato che il contenuto complessivo dell'articolo finiva col delineare un quadro ben diverso. In esso si legge, infatti, che A. era «molto bene introdotto anche negli ambienti dei servizi segreti» e che tra quest'ultimo, il B. e il ricorrente vi erano frequenti incontri che si svolgevano in via Merulana, «dietro gli uffici dell'intelligence» dove lavorava il gen. P., creando in tal modo un evidente riferimento ad attività non limpide. La motivazione della sentenza, pertanto, sarebbe nulla in quanto del tutto mancante.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Oggetto della doglianza è la lettura che la Corte d'appello ha dato dell'articolo del 10 maggio, a firma dei giornalisti E. e M., nel quale si afferma, tra l'altro, che A. e B. «incontrano spessissimo il Generale Francesco P., ex vicecomandante dell'AISI. Si vedono alla "Torre", nella zona di Via Merulana, dietro gli uffici del nostro servizio di intelligence». La sentenza impugnata, dando una lettura globale dell'articolo in questione - nel quale, tra l'altro, è chiaro il riferimento alla centralità del ruolo dell'imprenditore A. - ha affermato che gli incontri tra un imprenditore e un alto ufficiale della Guardia di finanza non contengono, in sé, nulla di disdicevole.

Il ricorrente, nel sostenere la censura proposta, pretende di dare una lettura del citato articolo in una versione che potrebbe definirsi "complottista"; nel senso che lo legge sostenendo che esso lascia trasparire, in controluce, l'esistenza di un rapporto poco pulito tra i due soggetti. Ma appare evidente che questa è una ricostruzione personale, non supportata da elementi obiettivi, per cui la censura attinge ad un profilo di merito che rimane insindacabile in questa sede.

6. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 111 Cost. e dell'art. 132, n. 4), c.p.c., per nullità della sentenza siccome caratterizzata da una motivazione apparente.

Il motivo ha ad oggetto la falsa notizia secondo cui il ricorrente avrebbe agevolato l'affidamento di appalti ad A. La sentenza ha, su questo argomento, motivato rilevando che la notizia aveva una portata offensiva marginale, in quanto affiancata a quella, ben più grave, del contributo all'acquisto di due appartamenti a Roma. Tale motivazione - oltre a non cogliere la gravità del collegamento tra il presunto conferimento di incarichi e il «contributo economico» che A. avrebbe fornito - non terrebbe nella giusta considerazione che un fatto di per sé offensivo non può perdere tale carattere perché è affiancato ad altre affermazioni ancora più gravemente offensive. Si tratterebbe, quindi, di una motivazione manifestamente illogica.

6.1. La censura ha ad oggetto l'articolo del 18 maggio, a firma della giornalista M., nel quale si afferma, tra l'altro, che, «sebbene il generale Francesco P. rivestisse all'interno del SISDE proprio il ruolo di responsabile logistica, con particolare riferimento agli immobili, non risulterebbe un suo diretto intervento nell'assegnazione degli appalti. Più facilmente, P. avrebbe agevolato gli incarichi provenienti da Via dell'Olmata e quindi dagli uffici della Guardia di finanza». Lo stesso articolo prosegue, poi, richiamando ancora una volta la vicenda dell'acquisto delle due case a Roma, da parte del gen. P., con denaro asseritamente proveniente dall'imprenditore A.

La sentenza impugnata, benché sul punto motivata in modo assai succinto, resiste alla proposta censura, dovendosi tuttavia provvedere ad una parziale correzione della motivazione. Non è infatti condivisibile l'affermazione della Corte di merito secondo cui la vicenda del conferimento degli appalti avrebbe «portata offensiva marginale» perché affiancata all'altra «ben più grave ed infamante ipotesi investigativa» (cioè quella dell'acquisto dei due appartamenti); va ribadito, infatti, che un fatto diffamatorio non può perdere tale valenza solo perché è affiancato ad un altro ancora più grave.

Tuttavia, nonostante questo evidente lapsus nella motivazione, resta l'affermazione principale della Corte di merito là dove essa rileva che dall'articolo in esame emergeva come la stessa giornalista avesse escluso un intervento diretto dell'odierno ricorrente nell'assegnazione degli appalti del SISDE. Rispetto a quest'affermazione, che il motivo in esame sostanzialmente non contesta, le ulteriori argomentazioni della doglianza si risolvono nell'indebito tentativo di ottenere in questa sede un diverso esame del merito.

La censura, in conclusione, risulta priva di fondamento.

7. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 111 Cost. e dell'art. 132, n. 4), c.p.c., per nullità della sentenza siccome caratterizzata da una motivazione apparente.

Il motivo ha ad oggetto la notizia secondo cui il gen. P. sarebbe stato sospeso dal servizio e collocato anticipatamente in pensione. Rileva il ricorrente che negli articoli del 6 e 19 maggio si fanno evidenti riferimenti alla circostanza che il gen. P. era stato «allontanato in gran segreto» perché indagato e che lo stesso era stato pensionato in anticipo così come il ministro Claudio S. era stato costretto alle dimissioni per lo stesso scandalo. La sentenza ha liquidato la questione dicendo che si trattava di «inesattezze secondarie e marginali», mentre sarebbe chiaro che le notizie della sospensione, prima, e del pensionamento anticipato, poi, erano di per sé offensive. Il tutto considerando che nell'articolo del 6 maggio viene anche attribuita al ricorrente, erroneamente, la funzione di vicecomandante dell'AISI, mentre egli era solo capo del reparto tecnico-logistico, evidentemente privo di «qualsivoglia potere decisionale». Tale "promozione" era evidentemente finalizzata a rendere credibile l'idea che il gen. P. avesse realmente potuto favorire A. nel conferimento degli incarichi.

7.1. Il motivo è inammissibile.

La sentenza impugnata è su questo punto piuttosto sbrigativa.

È indubbio, però, che la valutazione sulla sussistenza o meno di un contenuto diffamatorio negli articoli di giornale in questione rimane di spettanza del giudice di merito. E la giurisprudenza di questa Corte ha sempre riconosciuto che la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali che, non mutando in peggio l'offensività della narrazione, non alterano, nel contesto dell'articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili (v. in tal senso la sentenza 27 agosto 2015, n. 17197, e le ordinanze 8 aprile 2020, n. 7757, e 26 giugno 2020, n. 12903).

In definitiva, la censura tende a dare una propria diversa lettura, in controluce, degli articoli dove si fa riferimento al collocamento in pensione del ricorrente, allo scopo di attribuire carattere diffamatorio alle affermazioni sulla sospensione del generale dal servizio a causa del coinvolgimento nella vicenda A. Risulta perciò evidente che il quinto motivo tende a sollecitare in questa sede un diverso e non consentito esame del merito.

8. Il ricorso, in conclusione, è rigettato.

A tale esito segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 10 marzo 2014, n. 55.

Sussistono inoltre le condizioni di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 7.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.