Corte dei conti
Sezione II centrale d'appello
Sentenza 4 febbraio 2022, n. 30

Presidente: Loreto - Estensore: Razzano

FATTO

Con la sentenza impugnata l'ing. Luciano G., nella qualità di dirigente del VI settore del Comune di Aprilia (LT), è stato condannato al pagamento, in favore dell'ente, della somma di euro 31.543,86, già comprensiva di rivalutazione, oltre interessi legali e spese di giudizio.

Il Collegio di primo grado ha respinto le eccezioni pregiudiziali di rito e preliminari di merito e ha ritenuto l'odierno appellante responsabile per il danno indiretto patito dal Comune, già condannato in via provvisionale al risarcimento del danno pari a euro 153.842,40, oltre a euro 3.876,91 per spese legali, quale responsabile civile, per il reato di cui agli artt. 40, comma 2, 41 e 589 c.p., a seguito del decesso di un giovane, caduto dal proprio ciclomotore a causa dei dissesti della pavimentazione stradale. La condanna è stata confermata dal giudice civile, che ha quantificato a carico dell'ente un risarcimento di oltre euro 920.000,00, con pronuncia depositata dopo l'atto di citazione.

La sentenza impugnata ha accertato, in armonia con le risultanze penali, che il decesso del giovane centauro sarebbe avvenuto esclusivamente a causa del pessimo stato di manutenzione dell'asfalto stradale, costellato da numerose buche, discontinuità ed avvallamenti, nonché a causa dell'assenza di segnaletica orizzontale e verticale indicante la situazione di pericolo per l'utente della strada. Il G. è stato, pertanto, ritenuto responsabile, nella citata qualità e ai sensi dell'art. 107 t.u.e.l., per aver omesso il controllo e il collaudo dei pochi interventi eseguiti sul tratto di strada e per non essersi attivato per l'esecuzione di idonei lavori di manutenzione, neppure provvedendo a segnalare la situazione di pericolo. Al riguardo, il degrado della strada sarebbe stato ben conosciuto dall'Ufficio diretto dall'appellante, sia per le numerose segnalazioni ricevute, sia per precedenti sinistri stradali.

Peraltro, a parziale attenuazione della sua responsabilità, il Collegio ha tenuto conto dell'affidamento all'[omissis] della gestione, tra l'altro, delle manutenzioni pubbliche, del fatto che la mancata esecuzione del rifacimento del manto stradale non era addebitabile al solo convenuto, nonché della condotta imprudente del giovane motociclista, che conduceva il mezzo ad una velocità superiore al limite di velocità consentita. Ha ridotto, pertanto, il danno in via equitativa, all'importo sopra indicato.

Con atto depositato in data 30 aprile 2020, ha interposto appello il soccombente, patrocinato come in atti, il quale si duole dei seguenti errores in procedendo e in judicando:

1) "difetto di giurisdizione".

L'appellante rileva l'erroneo rigetto dell'eccezione di carenza di giurisdizione. Al pari di quanto già dedotto in primo grado, assume che i servizi di manutenzione stradale sarebbero stati affidati all'[omissis] e alcun rapporto di servizio sussisterebbe tra l'azienda e l'ente locale, in quanto sarebbero assenti i presupposti dell'in house providing. L'azione erariale promossa dal PM nei confronti del G. non sarebbe, pertanto, "supportata dalla norma di legge in quanto, a prescindere da ogn'altra considerazione, proposta nei confronti di un soggetto del tutto estraneo ad ipotesi di responsabilità colposa - il cui vaglio è per costante giurisprudenza delle Sezioni unite riservato al giudice ordinario - lo stesso soggetto non essendo funzionalmente inquadrato nel ruolo (di natura privatistica) di statutaria appartenenza dei dipendenti [omissis]" (pag. 12). L'assenza del rapporto di lavoro con l'azienda municipalizzata affidataria del servizio di manutenzione stradale e l'estraneità di quest'ultima alla struttura amministrativa sarebbero, pertanto, alla base del lamentato difetto di giurisdizione.

2) "nullità della citazione per violazione degli artt. 163 e 164 c.p.c.".

Il giudice territoriale avrebbe omesso di rilevare ex officio la nullità ex art. 164 c.p.c., essendo l'atto [di] citazione privo di un elemento fondamentale della causa petendi, ai fini dell'esatta ricostruzione in fatto dell'incidente. Del tutto disattesa sarebbe stata, infatti, la circostanza, pur emergente dal documentale unito alla comparsa di costituzione e risposta, della elevatissima velocità alla quale il ciclomotore veniva condotto dal [omissis] e del limite di velocità di 45 Km/h imposto dall'art. 52 del codice della strada.

3) "ulteriore violazione degli artt. 163 e 164 c.p.c.".

Parimenti omesso sarebbe stato il rilievo d'ufficio della nullità della domanda introduttiva del giudizio di primo grado, dovuta alla duplice veste assunta dal Comune di Aprilia quale responsabile civile dell'evento (in concorso con il G., con conseguente e solidale addebito) e di soggetto cui il danno sarebbe stato arrecato. In ogni caso, nell'atto di citazione non si sarebbe tenuto conto della circostanza che il ciclomotore avrebbe marciato alla velocità di almeno 70 Km/h in pieno centro abitato, oltrepassando il limite consentito e sottoponendo il veicolo a uno sforzo non consentito dai parametri di omologazione e dalla sua consistenza meccanica (cfr. consulenza tecnica). La sentenza non avrebbe attribuito la necessaria rilevanza alla circostanza (ampiamente dedotta in consulenza tecnica) che non sarebbero state rilevate tracce di frenata, né che il conducente abitava nei pressi del teatro dell'incidente, che avrebbe conosciuto bene in quanto percorreva quella strada anche più volte al giorno.

4) "violazione e falsa applicazione dell'art. 86, comma 6, c.g.c.".

L'atto introduttivo non sarebbe mai stato notificato al G., ma al difensore officiato a seguito dell'invito inoltrato dal PM contabile in data 2 luglio 2018, in palese violazione della citata disposizione codicistica. Secondo l'appellante, l'art. 86, comma 2, lett. b), c.g.c. imporrebbe che il convenuto possa essere validamente raggiunto da notifica dell'atto di citazione presso la residenza, il domicilio o la dimora, in via alternativa, con esclusione della diversa domiciliazione formalizzata dall'accusato in riscontro all'invito a fornire deduzioni ai sensi dell'art. 67 c.g.c., in virtù della quale il "presunto responsabile ha la facoltà di farsi assistere dal difensore". Quello regolato dall'art. 67 costituirebbe, infatti, un procedimento totalmente autonomo e distinto rispetto all'eventuale (e successivo) giudizio.

A ciò aggiungasi che il difensore, con nota inviata via pec il 16 ottobre 2018, a seguito dell'invito a dedurre del 28 giugno 2018, avrebbe rappresentato l'impossibilità di contattare l'interessato in quanto fuori sede; ciononostante, il 17 ottobre 2018 sarebbe pervenuta, al solo difensore, la comunicazione (per altro non a firma del PM) di convocazione per l'audizione, per il 14 novembre 2018. L'audizione non ha potuto tenersi proprio per l'impossibilità per il difensore di "mettersi in contatto con l'interessato". Parimenti frustrata sarebbe stata la facoltà di proporre l'istanza di proroga, non avendo avuto il G. notizia dell'audizione.

5) "illegittimità della sentenza in relazione alla ordinanza collegiale 23 maggio 2019".

Se la notifica dell'atto di citazione eseguita il 24 gennaio 2019 al domicilio del solo difensore fosse da considerarsi rituale, dovrebbe conseguentemente reputarsi erronea l'ordinanza emanata dal Collegio di prime cure il 23 maggio 2019, con la quale sarebbe stato rilevato il difetto di procura ad litem e invitato il difensore contestualmente ad acquisirla e a depositarla in giudizio. Tale provvedimento, "pur in parte condivisibile", sarebbe violativo dell'art. 86, comma 4, c.g.c., in quanto il giudice, rilevato il difetto di procura ad litem in capo al difensore, "avrebbe dovuto dichiarare la nullità dell'atto di citazione e della relativa notifica".

6) "inammissibilità dell'atto di citazione - omessa dimostrazione documentale della irrevocabilità della sentenza penale, anche alla luce dell'art. 648 c.p.p. e delle norme di rito richiamate".

Deduce l'appellante il vizio della citazione e, consequenzialmente, della sentenza nella parte in cui, pur vertendosi in tema di danno indiretto, non sarebbe stata fornita la prova della "irrevocabilità" della sentenza. Precisa che il danno indiretto discende dal pagamento sostenuto dall'amministrazione o in esecuzione di un accordo transattivo con i terzi danneggiati o in ottemperanza ad una sentenza definitiva di condanna (cfr. Sez. un., sentenza 25 settembre 2017, n. 22251; cfr. Corte dei conti, Sez. riun., 15 gennaio 2003, n. 3). Esclusa la prima ipotesi, l'ottemperanza potrebbe derivare da una condanna coperta da giudicato (se trattasi di sentenza civile) o da irrevocabilità, se sentenza penale, ex art. 648 c.p.p. Invoca, in suo favore, l'art. 27 Cost. e la presunzione di "innocenza" in esso cristallizzata, nonché la giurisprudenza contabile nomofilattica.

7) "violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 85/2005 e s.m.i., della l. n. 24/2010, dell'art. 43 della l. n. 114/2014 e del decreto del Presidente della Corte dei conti n. 98 del 21 ottobre 2015 - Violazione e falsa applicazione dei generali principii regolatori del giudizio contabile sotto il profilo informatico e telematico".

Gli atti richiesti dal difensore con pec del 22 marzo 2019 non gli sarebbero stati mai trasmessi, rendendo impossibile, nonostante il ripristino del servizio "Fascicolo On Line", l'espletamento del mandato difensivo, non avendo potuto conoscere il contenuto dell'integrale copia del fascicolo del PM. Si sarebbe consumata, pertanto, una grave violazione delle citate norme e del diritto di difesa, di cui agli artt. 24 e 111 Cost. nonché dell'art. 117 Cost. in materia di obbligo di osservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, dell'art. 6 della Convenzione approvata con l. n. 848/1955 e di numerose sentenze della Corte EDU, con integrazione di una nullità assoluta e insanabile del processo. Peraltro, il decreto del Presidente della Corte dei conti n. 98 del 21 ottobre 2015 (pubblicato nella G.U. 3 novembre 2015, Serie Generale, n. 256) ha precisato all'art. 3 che tutte le comunicazioni e notificazioni degli atti sono effettuate esclusivamente per via telematica, mentre, nel caso in esame, nessun atto o documento, nonostante la formale richiesta di visibilità e di copia del fascicolo del PM, trasmessa via pec il 22 marzo 2019, sarebbe stato mai messo a disposizione del difensore.

8) "illegittimità e ingiustizia della sentenza - Palese illogicità della motivazione".

La sentenza, pur motivando a pagina 24 che l'evento non potrebbe essere riconducibile a responsabilità del G., non lo ha, tuttavia, assolto, incorrendo così nel vizio di motivazione illogica, tale da indurre la nullità della sentenza.

9) "violazione delle norme e principii in materia di firma digitale".

L'atto di citazione avrebbe dovuto contenere la firma digitale del Vice Procuratore generale, invece assente; analogamente per il decreto fissativo dell'udienza, in quanto la copia allegata all'atto di citazione non sarebbe corredata da firma digitale: entrambi gli atti sarebbero, pertanto, viziati.

La firma del Vice Procuratore generale non emergerebbe da alcun atto, non essendo stata apposta né in modalità autografa (e cioè per esteso), né in modalità elettronica (e cioè con firma digitale), in contrasto con le disposizioni del d.lgs. n. 82/2005. L'impugnata sentenza sarebbe, dunque, erronea in quanto non avrebbe valorizzato il dato relativo all'omessa sottoscrizione dell'atto di citazione (priva sia di firma analogica, sia di firma digitale), e, comunque, avrebbe impropriamente richiamato l'art. 156 del codice di rito civile (oltre all'art. 44 del c.g.c.), la disamina del cui secondo comma offrirebbe, invece, conferma dell'insegnamento della Corte di cassazione, secondo cui dev'essere dichiarata la nullità dell'atto allorquando esso sia privo dei requisiti idonei al raggiungimento dello scopo.

Un'ulteriore causa di nullità si correlerebbe al rilievo che l'attestazione di conformità, recante la data dell'11 gennaio 2019, non farebbe riferimento alla copia digitale, essendo irrilevante che essa precisi trattarsi di "copia conforme all'originale esistente presso questo ufficio", atteso che viene fatto testuale riferimento a "n. 3 fogli", e dunque ad una consistenza cartacea non corrispondente né alle facciate, né alle pagine. Peraltro, l'attestazione dell'11 gennaio 2019 recherebbe la firma di un soggetto funzionalmente non identificabile, che non risulterebbe delegato dal dirigente, pure indicato nell'attestazione anch'essa carente di firma digitale.

10) "nullità della sentenza ed in subordine illegittimità della stessa, in relazione all'art. 199, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 174/2016".

La sentenza, pur avendo acclarato la posizione di garanzia contrattualmente assunta da [omissis], nulla avrebbe disposto in merito alla formale richiesta avanzata dal difensore al dichiarato fine di disporre l'integrazione del contraddittorio necessario: la sentenza dovrebbe, pertanto, essere annullata, con rinvio della causa al primo giudice, in forza del combinato disposto degli artt. 83, comma 2, e 199, comma 1, lett. b), c.g.c. In via subordinata, l'appellante chiede che sia sollevata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 83 c.g.c., soprattutto alla luce del citato art. 199 c.g.c., nella parte in cui non prevede l'ordine di integrazione del contraddittorio necessario nell'ipotesi di solidarietà passiva, in quanto violativo dei principi del contraddittorio e del giusto processo. La questione sarebbe rilevante e non manifestamente infondata, richiamando, all'uopo, la giurisprudenza di legittimità e contabile che si attaglierebbe perfettamente, ad avviso dell'appellante, al caso di specie, in quanto il fatto produttivo di danno non sarebbe imputabile a propria colpa grave, ma (salva la sua integrale attribuzione alla condotta di guida del ragazzo deceduto), alla condotta omissiva dell'[omissis] e/o della stessa amministrazione comunale che l'aveva eretta ad Azienda speciale. Si ribadisce che il G., dunque, non potrebbe essere considerato responsabile in solido con il Comune di Aprilia (e con l'[omissis]) del danno erariale addotto dalla Procura contabile, avendo dimostrato di essere estraneo a qualunque pur minima e parziaria ipotesi di responsabilità erariale. Come dedotto, la sentenza penale non sarebbe irrevocabile come previsto dall'art. 648 c.p.p., sicché sarebbe stato onere del Procuratore regionale provare la sussistenza della colpa. Chiede, pertanto, che la questione sia rimessa alla Corte costituzionale o alle Sezioni riunite, per contrasto dell'art. 83, comma 2, con l'art. 199, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 174/2016.

11) "violazione e falsa applicazione dei principii del litisconsorzio necessario - Violazione e falsa applicazione dell'art. 1226 c.c.".

Ulteriore profilo di nullità-illegittimità della sentenza deriva dalla norma da essa richiamata, di cui all'art. 1226 c.c., secondo la quale, ai fini della valutazione equitativa del danno, costituisce presupposto indispensabile l'impossibilità di dimostrarne il preciso ammontare; ammontare inequivocabilmente precisato nelle pagine 1 e 5 dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado. I primi giudici avrebbero, in realtà, utilizzato il richiamato principio al sol fine di colmare le lacune probatorie del quadro accusatorio e il mancato esercizio del potere di integrazione del contraddittorio, quale presupposto indispensabile per pervenire alla "giusta" decisione.

12) "palese illogicità della sentenza nelle sue diverse articolazioni - affermazioni non rispondenti al vero".

Come documentalmente provato, il contratto con l'[omissis] non sarebbe stato affatto stipulato dal G., ma dal legale rappresentante del Comune di Aprilia e, pur essendo a titolo oneroso (con il riconoscimento del consistente importo annuale di euro 3.807.780,00), l'incarico comprendeva la manutenzione ordinaria e straordinaria della viabilità comunale. Nessuna colpa grave avrebbe potuto essere ragionevolmente ascritta al G., il quale avrebbe rivestito mere funzioni amministrative e non sarebbe stato titolare di alcun potere deliberativo circa gli impegni di spesa. In quest'ottica, lamenta la totale irrilevanza della delibera n. 198 del 9 luglio 2008, "di interpretazione autentica del citato art. 19 del contratto", così come l'inopponibilità della sentenza civile n. [omissis], non essendo stato mai convenuto nel relativo giudizio innanzi al Tribunale di Latina, nonché l'irrilevanza del non conosciuto atto di transazione stipulato tra il Comune e il danneggiato.

13) "violazione e falsa applicazione delle norme e principii contenuti nel d.lgs. n. 267/2000 e nel d.lgs. n. 165/2001".

I primi giudici avrebbero erroneamente ritenuto responsabile del danno erariale il G., ex art. 107 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, motivando, altresì, alla stregua del contratto del 29 maggio 2003, le cui clausole avrebbero dovuto considerarsi "vaghe". Ancora una volta, si sarebbe commesso un grave errore di valutazione, attesa la totale estraneità dell'appellante alla stipula del contratto con l'[omissis] e agli atti di spesa ad esso connessi, di competenza consiliare.

14) "palese difetto dei presupposti del danno erariale indiretto - Rilevanza dell'art. 115 c.p.c. - Totale assenza dell'elemento psicologico della colpa grave".

La sentenza non avrebbe valorizzato i dati e le risultanze probatorie dalle quali sarebbe stato agevole desumere la totale estraneità del G. alla vicenda per cui è causa, per quanto riguarda sia la stipula del contratto tra Comune di Aprilia ed [omissis], sia il ragionevole affidamento sulla corretta esecuzione dello stesso, sia l'evento imprevedibile costituito dalla condotta di guida del conducente, come detto, gravemente violativa di più norme del codice della strada (cfr. la consulenza tecnica disposta dal PM penale e la consulenza tecnica dell'imputato). I primi giudici avrebbero disatteso l'art. 115 c.p.c., in quanto la sentenza non solo non accennerebbe minimamente alla consulenza tecnica, ma darebbe, per di più, per assodata (cfr. pag. 23) la circostanza che il ciclomotore marciava ad una velocità superiore a quella consentita, senza trarne poi le debite conseguenze in relazione all'assenza di colpa grave del funzionario convenuto. Peraltro, contrariamente a quanto affermato a pag. 23 della pronuncia, la velocità di 70 Km/h non sarebbe affatto di "poco superiore" a quella massima consentita (di 45 Km/h), in quanto lo scostamento sarebbe stato del 36% e la manovra palesemente azzardata, in quanto il sorpasso si sarebbe verificato in un tratto di curva, in spregio all'art. 148 c.d.s. Peraltro, secondo il consulente di parte, la velocità sarebbe stata pressoché pari a 100 Km/h, con violazione di più norme del codice della strada. L'evento sarebbe, pertanto, ricollegabile direttamente ed esclusivamente alla condotta di guida violativa delle norme del codice della strada e delle regole di comune prudenza.

15) "prescrizione".

Erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto di respingere l'eccezione di prescrizione dell'azione risarcitoria per decorrenza del termine quinquennale dall'esborso, laddove avrebbe dovuto considerarsi che il fattore genetico della domanda avanzata dalla Procura regionale sarebbe costituito dalla responsabilità penale ascritta dal PM di Latina all'ing. G. con la richiesta di rinvio a giudizio del 23-24 febbraio 2010. Conseguentemente, al più tardi, da tale data, sarebbe decorso il termine stabilito dall'art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, sicché, considerata la notifica dell'atto di citazione in data 24 gennaio 2019 al (solo) difensore, l'azione sarebbe ampiamente prescritta. Anche a voler subordinatamente ipotizzare che il termine di prescrizione abbia potuto coincidere con la data dell'autorizzazione concessa dal Gup alle parti civili per la citazione in giudizio del Comune di Aprilia, da loro ritenuto responsabile civile (30 marzo 2011), ne conseguirebbe l'avvenuta estinzione del diritto per prescrizione alla data del 30 marzo 2016.

16) "nullità dell'atto di citazione ai sensi dell'art. 86, comma 2, d.lgs. n. 174/2016 - Omessa notifica al convenuto - Rilievi relativi alla ordinanza collegiale del 23 maggio 2019".

Il motivo è sovrapponibile a quello riportato al n. 4). Si aggiunge che, laddove dovesse peraltro ritenersi applicabile il comma 5-bis dell'art. 86 c.g.c., dovrebbe considerarsi che tale norma potrebbe assumere, al più, rilievo allorquando l'interessato avesse eletto domicilio all'esito delle attività regolate dall'art. 67 del codice, ma non invece allorquando (come nella specie) non vi sarebbe stata alcuna sua partecipazione alle attività istruttorie successive all'invito.

17) "violazione e falsa applicazione del decreto presidenziale n. 98 del 21 ottobre 2015 e dell'art. 1 della l. n. 20/1994 - Violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c.".

La doglianza riproduce quando dedotto con il motivo di cui al n. 5).

18) "omesso rilievo della nullità dell'atto di citazione".

La censura è sovrapponibile a quella esposta al n. 9.

19) "violazione e falsa applicazione dei principii del litisconsorzio necessario anche in relazione all'art. 331 c.p.c. - Violazione dell'art. 199 c.g.c.".

La censura è sovrapponibile a quelle esposte ai nn. 11-12.

20) "Richiesta di deferimento degli atti alle Sezioni riunite, a norma dell'art. 114, comma 1, c.g.c. - Palese contrasto tra l'art. 83, comma 2, e l'art. 199, comma 1, lett. b), c.g.c.".

La censura è identica a quella dedotta al n. 10.

21) "violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 1-quater, della l. n. 20/1994 - totale difetto dell'elemento psicologico - violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. - violazione e falsa applicazione delle norme e principii relativi alla separazione tra attività degli organi politici e compiti riservati alla dirigenza".

Il motivo è sovrapponibile a quello già illustrato al n. 15. Si precisa che, non essendo stata acquisita dal PM la deliberazione consiliare n. 16 del 29 novembre 2002 nonostante la sua rilevanza in giudizio, i difensori ne depositano copia integrale (doc. n. 7), per le valutazioni conseguenti. I difensori, nonostante l'impegno profuso, non sono riusciti a reperire la deliberazione del Consiglio comunale n. 16 del 28 marzo 2003, che non risulta agli atti dell'Albo pretorio e della quale si chiede l'acquisizione su ordine del giudice.

Conclude, pertanto, per l'accoglimento dei motivi 1-15, con vittoria di spese legali.

Con atto depositato in data 2 novembre 2021, ha rassegnato le proprie conclusioni la Procura generale che ha, pregiudizialmente, chiesto che sia dichiarata l'inammissibilità del gravame in quanto redatto in violazione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali (art. 5 c.g.c.): l'atto d'appello consta di 94 pagine. Ha, poi, contestato i singoli motivi di gravame, chiedendone il rigetto, anche alla luce delle condivise argomentazioni esposte in sentenza e dei principi enunciati dalla giurisprudenza contabile sia sulle questioni di rito sia su quelle di merito.

Con note pervenute in data 5 novembre 2021, i difensori dell'appellante hanno precisato che l'art. 1 della l. 14 gennaio 1994, n. 20 è stato novellato dall'art. 21 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni in l. 11 settembre 2020, n. 120. Alla luce di tale sopravvenuta modifica normativa, invocano la totale assoluzione del proprio assistito, in quanto l'azione di responsabilità amministrativa richiederebbe ora la prova del dolo, e cioè la "dimostrazione della volontà dell'evento dannoso", che, nella specie, difetterebbe. Ha confermato i motivi d'appello, anche in relazione alle conclusioni della Procura generale, insistendo per il loro accoglimento.

In data 9 novembre 2021 la Corte d'appello di Roma ha trasmesso copia della sentenza n. [omissis] corredata in calce della copia del dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione, IV Sezione, il giorno [omissis] n. [omissis], nonché del dispositivo pronunciato dalla medesima Corte, III Sezione, in data [omissis].

Il giorno 17 novembre 2021 è pervenuta ulteriore memoria difensiva da parte dei difensori dell'odierno appellante, con la quale hanno chiesto l'espunzione del documento sopra indicato, in quanto proveniente direttamente dagli uffici del giudice ordinario e, in ogni caso, hanno depositato copia del ricorso promosso innanzi alla Corte EDU avverso la sentenza della Corte di cassazione n. [omissis].

All'udienza odierna, sentite le parti presenti che hanno confermato le conclusioni rassegnate in atti, la causa è passata in decisione. Il PM ha dichiarato di aver depositato la sentenza della Corte d'appello di Roma, ove non presente in atti, per produrre in calce l'attestato di irrevocabilità per cassazione.

DIRITTO

I. Alla stregua del sistema delineato dagli artt. 101 e 102 c.g.c., il Collegio decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio, e quindi il merito della causa.

II. Dell'inammissibilità dell'appello per violazione dell'art. 5 c.g.c.

La Procura generale ha "sottolineato" la violazione dell'art. 5, comma 2, c.g.c. Sul punto, il Collegio si limita a rimarcare che il principio di "sinteticità" degli atti processuali (già consacrato per il processo amministrativo dall'art. 3 c.p.a.), oltre alla solenne enunciazione di cui al comma in esame, è stato variamente declinato in numerose disposizioni del d.lgs. 174/2016 (art. 38, comma 3; art. 40, comma 3; art. 102 comma 2; art. 152, comma 1, lett. d); art. 174, comma 4), e trova puntuale riscontro in sede comunitaria (si pensi alle istruzioni pratiche relative ai ricorsi ed alle impugnazioni - adottate il 15 ottobre 2004 e modificate il 27 gennaio 2009 - dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, dove la lunghezza delle scritti di parte oscilla fra le 5 e le 15 pagine), come ricordato da una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. V, 30 novembre 2015, n. 5400). La svolta legislativa persegue l'obiettivo di un ottimale utilizzo della risorsa giudiziaria e, dunque, di "efficienza della macchina giustizia", in ossequio al principio della "ragionevole durata del processo" (di cui all'art. 3 c.g.c.), a sua volta strumento di attuazione del "giusto processo". La redazione di atti di parte sintetici e chiari determina un risparmio di tempo per il giudice, contribuendo in tal modo a una più rapida conclusione del giudizio.

In tal senso milita la giurisprudenza costante di legittimità che, nel tempo, ha posto in luce che l'inosservanza del dovere di sinteticità e chiarezza «collide con l'obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo, costituito dalla tendenziale finalizzazione ad una decisione di merito al duplice fine di assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost.», nonché «di evitare di gravare sia lo Stato sia le parti di oneri processuali superflui» (Cass. civ., Sez. VI, 20 agosto 2020, n. 17400; Sez. III, 10 ottobre 2019, n. 25424; Sez. II, 20 agosto 2019, n. 21524; Sez. lav., 12 gennaio 2018, n. 666; Sez. trib., 20 dicembre 2017, n. 30559; Sez. I, 13 aprile 2017, n. 9570).

Si tratta, tuttavia, di norme prive di sanzione, la cui mancata attuazione non produce alcuna forma di invalidità degli atti processuali, se non nei termini di cui all'art. 44, comma 2, c.g.c. per il primo grado, e all'art. 190 c.g.c. per l'atto d'appello.

La "chiarezza" e la "sinteticità", in forza delle dette disposizioni, sono da considerare, infatti, un'endiadi in grado di condizionare l'ammissibilità del gravame allorquando il ricorso a espedienti sintattici sia funzionale al solo ed esclusivo fine di aggravare la lettura dell'atto, ridondando a danno della chiarezza. L'ordito difensivo, aggravato da inutili orpelli espressivi, risulta, in tal caso, fortemente inquinato, di talché l'atto non può considerarsi idoneo al raggiungimento dello scopo.

Nel caso di specie, l'atto d'appello, benché caratterizzato da un notevole numero di pagine e costellato di inutili ripetizioni - al punto da presentare ben cinque motivi di censura (dal n. 16 al n. 21) ripetitivi delle doglianze espresse altrove - non può considerarsi inammissibile, in quanto non risulta gravemente compressa la chiarezza del ragionamento o la specificazione delle ragioni in fatto e in diritto sulle quali si fonda l'impugnazione. Si tratta, dunque, di una scelta difensiva che può incidere su un diverso canone - quello della lealtà e probità processuale - posto a presidio del divieto di abuso dello strumento processuale al quale può essere connessa la responsabilità disciplinare di cui all'art. 30 c.g.c.

III. Della giurisdizione.

1. Passando ai motivi di gravame, deve essere, pregiudizialmente, dichiarata l'inammissibilità del primo motivo per difetto di interesse a impugnare. L'appellante espone, con ampi e defatiganti rinvii alla giurisprudenza di legittimità, le ragioni dell'asserito difetto di giurisdizione in favore di un soggetto ([omissis]) estraneo al presente giudizio, come già rilevato dal giudice di prime cure. Non sussistono, pertanto, le condizioni per dare ingresso alle valutazioni di merito di siffatta censura, in quanto l'azione intrapresa dal PM contabile riguarda il G. che, nella qualità di dirigente del VI settore del Comune di Aprilia (LT), è stato condannato sul presupposto, pacifico tra le parti, che si tratti di un pubblico dipendente. Tale condizione è necessaria e sufficiente al fine di ritenere radicata la giurisdizione della Corte dei conti.

IV. Dei vizi della citazione e della notifica.

2. In merito alla censura avente a oggetto l'omesso rilievo delle nullità strutturali che avrebbero inficiato l'atto di citazione, si osserva quanto segue.

2.1. Del tutto inappropriato è, preliminarmente, il richiamo agli artt. 163 e 164 c.p.c., dal momento che, per effetto dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 174/2016 recante l'approvazione del codice della giustizia contabile, il rinvio alle norme del codice di procedura civile deve ritenersi limitato alle norme di principio di cui all'art. 7 c.g.c. (secondo cui "Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano gli articoli 99, 100, 101, 110 e 111 del codice di procedura civile e le altre disposizioni del medesimo codice, in quanto espressione di principi generali"). La struttura dell'atto di citazione introduttivo del giudizio di responsabilità e le relative nullità sono state puntualmente indicate nell'art. 86 c.g.c., dal quale si traggono sufficienti elementi per respingere la doglianza in esame. La domanda introduttiva deve essere, infatti, caratterizzata, ai fini della perimetrazione del petitum e della causa petendi, dalla presenza dei seguenti requisiti di forma-contenuto: "c) l'individuazione e la quantificazione del danno o l'indicazione dei criteri per la sua determinazione; d) l'individuazione del soggetto cui andranno corrisposte le somme a titolo di risarcimento del danno erariale; e) l'esposizione dei fatti, della qualità nella quale sono stati compiuti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni" (art. 86, comma 2). Non solo la formulazione testuale è parzialmente diversa da quella di cui al richiamato art. 163 c.p.c. ma, al tempo stesso, ai fini della dedotta nullità, il comma 6 dell'art. 86 precisa che "La citazione è altresì nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito dal comma 2, lettera c), ovvero se manca l'esposizione dei fatti di cui al comma 2, lettera e)". Ne consegue che il vizio in esame investe la mancanza o l'assoluta incertezza delle sole ragioni di fatto che sono poste a base della pretesa risarcitoria, nonché la mancata quantificazione del danno o dei criteri per la stessa, ma entrambi i profili di nullità evidenziati nell'atto d'appello non sono riconducibili alla dedotta ipotesi di invalidità dell'atto introduttivo.

2.2. L'omessa indicazione di una circostanza, quale quella indicata dall'appellante, infatti, non è affatto idonea a inficiare l'atto di citazione, posto che l'elevata velocità del conducente, vittima dell'incidente mortale di cui si discute, è da intendersi come "eccezione" e, dunque, come fatto impeditivo, modificativo, estintivo che, stando al criterio di riparto dell'onere della prova, cristallizzato nell'art. 2967 c.c., è onere del convenuto dedurre e provare. Rimane a carico di chi agisce l'onere di asserzione e di asseverazione dei soli "fatti costitutivi". Il concorso di colpa di un soggetto estraneo al giudizio integra una circostanza idonea ad attenuare o scriminare la responsabilità del convenuto, con la conseguenza che la relativa "eccezione" compete alla parte (o al più è rilevabile d'ufficio dal giudice), ma, certamente, non ridonda in termini di invalidità della domanda introduttiva.

2.3. Inoltre, l'incompleta "esposizione dei fatti" (recte, dei "fatti costitutivi") rileva soltanto ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio, tant'è che al giudice spetta il potere-dovere di rilevare la consequenziale nullità, e disporre la rinnovazione dell'atto, soltanto nel caso in cui il convenuto non si sia costituito; in caso contrario, la costituzione del convenuto sana il vizio e al giudice non rimane che disporre la mera "integrazione della domanda", ferme restando le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione (art. 86, comma 7).

A tali incombenze non era, tuttavia, chiamato il giudice di primo grado, in quanto, come rilevato dalla Procura generale, dopo l'esposizione riguardante l'antefatto penale, il libello introduttivo non ha mancato di fornire una descrizione particolareggiata dell'incidente stradale e delle sue cause (pagg. 2 e seguenti) con l'indicazione delle fonti di prova (testimonianze nel giudizio penale; rinvio alla motivazione della sentenza penale di primo grado), per poi approfondire il nesso con la responsabilità degli organi comunali e la loro conoscenza dello stato di degrado del manto stradale, con conseguente affermazione di responsabilità dell'odierno appellante. La pretesa risarcitoria, a prescindere dai profili che investono il "merito" (ossia la fondatezza o meno della stessa), è ampiamente integrata in tutti i suoi elementi costitutivi.

3. Parimenti destituita di fondamento è la censura relativa agli ulteriori profili di nullità della citazione per incertezza del petitum e della causa petendi. Non si comprende come l'asserita contraddittorietà logico-giuridica tra la posizione del Comune di Aprilia nel processo penale (quale responsabile civile del danno al terzo, privato cittadino) e quella assunta nel processo contabile (nel quale è amministrazione danneggiata), possa determinare il lamentato vizio, ex artt. 163 e 164 c.p.c.

3.1. Ancora una volta, il rinvio al regime giuridico dei vizi della citazione risulta del tutto inappropriato, dal momento che, come sopra evidenziato, l'individuazione del soggetto danneggiato, pur costituendo requisito dell'atto introduttivo (art. 86, comma 2, lett. d), non è ritenuto "essenziale" ai fini della validità dello stesso, tant'è che non ne è sanzionata né l'omessa né l'erronea indicazione.

3.2. La censura è, ancor più precipuamente, priva di ogni efficacia impeditiva. Lo stesso difensore dell'appellante ha ben chiaro - come si evince dal testo del lungo atto di gravame - che la materia del contendere è qui costituita dalla responsabilità del G. per un danno qualificato come "indiretto". Non appare, pertanto, un fuor d'opera rimarcare che tale tipologia di responsabilità deriva direttamente dall'art. 28 Cost., alla cui stregua «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». Ne consegue che, qualora l'ente di appartenenza risulti soccombente nel giudizio promosso dal terzo danneggiato (ovvero riconosca come fondata la sua pretesa risarcitoria in via transattiva) e alla soccombenza consegua il ristoro effettivo della lesione subita, il PM contabile è legittimato ad agire nei confronti del soggetto ritenuto responsabile, al fine di traslare sullo stesso il peso economico delle conseguenze dannose riconducibili alla sua condotta. In tal modo il giudice contabile non si ingerisce nella scelta discrezionale dell'amministrazione di costituirsi o meno nel giudizio civile e/o amministrativo, quanto, piuttosto, è chiamato a valutare la sussistenza dei profili di responsabilità delle conseguenze dannose per l'erario comunale (in termini, Sez. II centr. app., n. 149/2020).

È insito, nella struttura stessa della responsabilità in esame, che l'amministrazione di appartenenza sia considerata il soggetto danneggiante nelle sedi (penale, civile o amministrativa) in cui è convenuta in giudizio dal terzo, mentre risulti soggetto danneggiato nel giudizio contabile, che è teleologicamente finalizzato al ripristino degli equilibri di bilancio e al recupero delle somme che l'ente pubblico ha dovuto versare per effetto di una condotta dolosa o gravemente colposa di un proprio dipendente, funzionario o amministratore.

D'altra parte, l'esatta individuazione del soggetto danneggiato, come anche la lamentata assenza di responsabilità per colpa grave del G., costituiscono oggetto del giudizio di "merito" e non sono idonee a integrare, come sopra precisato, profili di doglianza su questioni meramente processuali.

4. Quanto all'omessa notifica della citazione alla parte personalmente anziché presso il domicilio eletto, correttamente la Sezione territoriale ha rigettato la relativa eccezione, richiamando l'art. 88, comma 5, c.g.c. La disposizione, infatti, in deroga al principio evocato dall'appellante - in forza del quale gli atti introduttivi devono essere notificati alla parte personalmente - ha offerto al Procuratore regionale la possibilità di notifica della citazione alla parte presso il domicilio eletto, stabilendo che "Il decreto di fissazione dell'udienza di discussione, a cura del pubblico ministero, unitamente all'atto di citazione introduttivo del giudizio, è notificato al presunto responsabile nel domicilio eventualmente eletto in fase di istruttoria o, in assenza, alla residenza anagrafica".

Nel recepire orientamenti giurisprudenziali già in auge prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 174/2016 (ex multis, Sez. III centr. app., 27 giugno 2016, n. 270), il legislatore delegato ha non solo previsto la notifica dell'atto introduttivo nel domicilio eventualmente eletto in fase istruttoria, ma ne ha disposto persino la obbligatorietà, facoltizzando il PM a utilizzare il criterio della "residenza anagrafica" soltanto in via sussidiaria ("in assenza" di electio domicilii). L'art. 14, comma 1, d.lgs. 7 ottobre 2019, n. 114, nell'integrare l'art. 29 c.g.c., con l'inserimento del comma 1-bis ("La procura alle liti, contenente comunque l'elezione di domicilio, nella fase preprocessuale si rilascia in calce o a margine dell'invito o delle deduzioni di cui al comma 1 dell'articolo 67 e ha effetto anche per la fase del giudizio instaurato con atto di citazione di cui all'articolo 86") non ha fatto altro che esplicitare quanto era già insito nel sistema previgente, confermando l'estensione della procura, rilasciata in fase pre-giudiziale, anche alla fase giudiziale.

Il dato testuale è tranchant e non dà adito a dubbi circa la validità della notifica dell'atto con le modalità sopra descritte, sicché si rende del tutto superflua ogni successiva analisi dell'asserita idoneità dell'atto a raggiungere lo scopo, operata dai primi giudici in considerazione della costituzione in giudizio del convenuto e della concreta instaurazione del contraddittorio "sostanziale", del quale è sintomatica l'approfondita discettazione su tutti i temi controversi, sin dalla comparsa di costituzione e risposta, poi riproposti con il gravame.

I criteri stabiliti dall'art. 88 cit. non pongono, peraltro, problemi di coordinamento con l'art. 86, comma 2, lett. b), come eccepito dall'appellante, poiché quest'ultima disposizione individua, quale requisito dell'atto di citazione, l'indicazione del soggetto ritenuto responsabile, nonché della sua "residenza", "domicilio" o "dimora". Si tratta di elementi di contenuto-forma che incidono sulla validità dell'atto di citazione in sé e che nulla hanno a che vedere con le formalità prescritte per la fase della "notificazione", ossia per quell'insieme di attività (si parla di un vero e proprio sub-procedimento) indispensabili a rendere conoscibile l'atto al suo destinatario, e che sono da esso ben distinte e temporalmente separate.

4.1. Non ha pregio obiettare che il PM contabile sarebbe onerato della notifica dell'atto introduttivo, "che deve essere eseguita nei confronti non del difensore officiato per la fase istruttoria, ma del convenuto a norma dell'art. 86, comma 2, lett. b), del codice", come sostenuto nel gravame. L'atto non è diretto al "difensore officiato" bensì alla parte nel domicilio eletto, tant'è che nella relata di notifica della citazione compare il nominativo di G. Luciano quale destinatario dell'atto, e l'indirizzo p.e.c. del difensore, quale risultante dalla procura a margine delle deduzioni pervenute alla Procura regionale in data 1° ottobre 2018.

4.2. Alcun peso può, altresì, attribuirsi alla circostanza che, essendo stata rappresentata al PM la temporanea impossibilità di mettersi in contatto con il G. (cfr. pec del difensore in data 16 ottobre 2018, doc. n. 7 allegato alla comparsa di costituzione e risposta trasmessa in data 25 luglio 2019), questi non avrebbe potuto essere presente all'audizione, pur richiesta, per causa a lui non imputabile, con consequenziale lesione del diritto di difesa e invalidità della citazione. L'elezione di domicilio crea una "presunzione di conoscenza" o almeno di "conoscibilità obiettiva" da parte del destinatario (che - si badi - è la parte e non il suo difensore) dell'atto notificato, una volta pervenuto all'indirizzo indicato, ricollocando in capo all'indagato la facoltà di farsi assistere nella fase preprocessuale e di promuovere, per il suo tramite, il differimento della propria audizione, con le modalità e alle condizioni fissate dall'art. 67, comma 3, c.g.c. (sul punto, si rinvia a Sez. II centr. app., 21 dicembre 2020, n. 306).

Sarebbe stato, in conclusione, onere del convenuto (e del suo difensore) procedere tempestivamente a inoltrare la detta istanza e non del PM dover fornire "la prova degli adempimenti di cui all'art. 67 del codice di giustizia contabile", come sostenuto dal G. Tale conclusione è vieppiù avvalorata dall'ampio mandato sottoscritto dalla parte a margine delle controdeduzioni, sicuramente comprensivo "di ogni facoltà di legge [...] nel presente grado di giudizio e in tutte le successive fasi e gradi", e dalla lettera dell'art. 28, comma 3, c.g.c. che pone in capo all'avvocato il potere-dovere di "compiere e ricevere, nell'interesse della parte, tutti gli atti del processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati".

5. La doglianza configurata, poi, al n. 5 dell'atto d'appello, che investe la nullità dell'ordinanza di rinnovo della notifica della citazione, ha finalità puramente dilatorie. Sostiene l'appellante che, all'udienza di discussione, fissata per il 23 maggio 2019, il proprio difensore, presente in aula, dopo aver proceduto - prima dell'apertura dell'udienza - al deposito della comparsa e della allegata documentazione, non avrebbe potuto espletare il programmato intervento, in quanto la Presidente del Collegio, rilevato il difetto del mandato difensivo, disponeva il rinvio al 17 settembre 2019, onerando il difensore del deposito della procura ad litem. Secondo l'appellante, tale provvedimento sarebbe intrinsecamente contraddittorio: o sarebbero validi l'elezione di domicilio e il mandato rilasciato in fase preprocessuale, e allora tale validità dovrebbe rendere superflua l'ordinanza di regolarizzazione in esame; oppure quel mandato non estende i suoi effetti nella fase processuale, e allora sarebbe giustificata la necessità di sanatoria disposta in udienza ma al tempo stesso i giudici avrebbero dovuto dichiarare la nullità della notifica della citazione (effettuata alla parte nel domicilio eletto in fase preprocessuale).

Orbene, dalla documentazione in atti risulta che l'ordinanza è stata adottata per sanare l'assenza della procura a margine della memoria di costituzione e risposta del convenuto, peraltro su indicazione dello stesso difensore presente in aula, il quale ha riferito che "il convenuto non risulta al momento raggiungibile" e ha chiesto "un rinvio per la regolarizzazione della procura e quindi per la trattazione del giudizio". In realtà, la "regolarizzazione" della procura non ha alcuna interferenza con le sorti dell'elezione di domicilio.

Senza impingere a elementari nozioni del diritto processuale, l'elezione di domicilio (che trova la sua matrice nell'art. 47 c.c.) è un atto giuridico unilaterale che spiega efficacia indipendentemente dal consenso o accettazione del domiciliatario; ben diversamente la procura alle liti (regolata dall'art. 83 c.p.c. cui rinvia l'art. 29 c.g.c.), che è atto unilaterale, presuppone un rapporto di mandato con rappresentanza (contratto di patrocinio), ossia un contratto in forza del quale il mandatario/difensore acquisisce il potere di agire in nome e per conto del proprio assistito, in relazione alla specifica controversia cui l'atto accede. A norma dell'art. 182 c.p.c., nel testo modificato dall'art. 46 l. 18 giugno 2009, n. 69, applicabile alla fattispecie in forza del rinvio di cui al citato art. 29 c.g.c., il giudice è tenuto - ove rilevi un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore - a provvedere alla sanatoria di tale vizio, dovendosi equiparare la nullità della procura ad litem al difetto di rappresentanza processuale (Cass. civ., Sez. un., 22 dicembre 2011, n. 28337).

L'autonomia del primo atto negoziale (elezione di domicilio) rispetto al secondo (procura ad litem), nonostante la contestualità, è percepibile dalla permanenza degli obblighi di domiciliatario in capo al difensore persino quando la procura è revocata. Fino a quando non intervenga la nuova elezione con revoca della precedente, la facoltà della controparte di notificare validamente gli atti al domiciliatario è indipendente dalla concreta esistenza di accordo tra eleggente e domiciliatario, che attiene solo al loro rapporto interno: militano in tal senso l'art. 85 c.p.c. e la consolidata giurisprudenza di legittimità (ex pluribus, Cass. civ., Sez. V, ordinanza n. 4320 del 18 febbraio 2021).

Dal quadro normativo ed ermeneutico sopra descritto, discende la palmare incongruenza del ragionamento difensivo che presume una sorta di interdipendenza - genetica e funzionale - tra l'elezione di domicilio rilasciata a margine delle controdeduzioni preprocessuali (consentendo in tal modo al Procuratore regionale di poter validamente notificare la citazione presso lo studio del difensore, come sopra argomentato) e la validità del mandato ad litem, che, al contrario, deve essere rilasciata nei modi descritti dall'art. 83 c.p.c.

La distinzione è chiara e netta, con la conseguenza che correttamente è stata disposta la prescritta regolarizzazione, non potendo il convenuto costituirsi in giudizio con il patrocinio di un difensore privo di mandato rilasciato a margine, in calce o con foglio separato ma riferibile alla memoria di costituzione.

La censura deve essere, pertanto, rigettata.

6. Ancora in relazione ai profili di doglianza che afferiscono all'atto di citazione e al procedimento di notifica, viene in rilievo la questione relativa all'omessa firma digitale sulla copia della citazione notificata al convenuto, in violazione dell'art. 24 del d.lgs. n. 82/2005. Come dedotto nella comparsa depositata in primo grado, l'atto consterebbe di sette facciate, in calce all'ultima delle quali è riportata la data del 2 gennaio 2019 e la seguente stampigliatura: "Il Vice Procuratore generale". All'atto risulterebbe allegato il decreto presidenziale dell'11 gennaio 2019, di fissazione dell'udienza del 3 maggio 2019, nonché l'attestazione a firma del dirigente in data 11 gennaio 2019 di conformità all'originale, "che si rilascia ad uso notifica nell'interesse dell'Amministrazione" (atti notificati al difensore il 24 gennaio 2019). Secondo l'impostazione difensiva, l'atto è inesistente, in quanto privo della firma digitale (come anche il d.p. di fissazione dell'udienza). Altro profilo di nullità riguarderebbe l'attestazione di conformità, essendo irrilevante che essa precisi trattarsi di "copia conforme all'originale esistente presso questo ufficio", atteso che vi sarebbe il testuale riferimento a "n. 3 fogli", e, dunque, ad una consistenza cartacea non corrispondente né alle facciate, né alle pagine. Un terzo rilievo afferirebbe al fatto che l'attestazione dell'11 gennaio 2019 recherebbe la firma di un soggetto funzionalmente non identificabile, che non risulterebbe delegato dal dirigente.

6.1. Orbene, in atti è versato l'originale dell'atto di citazione firmato digitalmente dal V.P.G. dott. Bruno Tridico; l'atto è stato notificato all'indirizzo p.e.c. del difensore dell'odierno appellante in forza del combinato disposto degli artt. 6 e 88 c.g.c. (anticipati in parte qua dal citato decreto del Presidente della Corte dei conti n. 98 del 21 ottobre 2015, che già autorizzava il Pubblico Ministero a effettuare direttamente a mezzo della posta elettronica certificata le notificazioni previste dall'ordinamento, secondo le regole tecniche ed operative stabilite per le Segreterie delle Sezioni giurisdizionali: art. 3, comma 3). La copia notificata via p.e.c. (provvista di una sottoscrizione analogica), unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, risulta corredata dell'attestazione di conformità all'originale (cartaceo), firmata a sua volta digitalmente dalla funzionaria, conformemente a quanto stabilito dall'art. 22 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, richiamato dalla Procura generale, e dell'art. 5 del richiamato D.P. n. 98/2015. Tale ultima disposizione, nel menzionare proprio il citato art. 22, precisa che "Oltre che per le comunicazioni e notificazioni di cui all'articolo 3, le Sezioni giurisdizionali e le Procure della Corte dei conti si avvalgono della posta elettronica certificata anche per l'invio e per la ricezione di atti processuali, pre-processuali o istruttori, purché sottoscritti o dichiarati conformi all'originale con firma digitale o con firma elettronica qualificata, nonché in generale per la trasmissione di documenti e per ogni altra comunicazione che necessiti di una ricevuta di invio o di una ricevuta di consegna, fatto salvo l'utilizzo dei sistemi di cooperazione applicativa di cui all'art. 1, com[m]a 3".

L'iter descritto dalla norma risulta pedissequamente ottemperato.

6.2. Analogamente, la funzionaria ha sottoscritto con firma digitale la dichiarazione di conformità "per" cioè in luogo del dirigente, con ciò giustificando il suo potere rappresentativo e la delega sottostante: sicché anche su tale piano la censura non ha alcun peso dirimente.

6.3. In ogni caso, valga per tutti il principio enunciato dai giudici di legittimità, che merita piena condivisione, in virtù del quale la "irritualità" della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell'atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (Cass. civ., Sez. III, ord. 12 maggio 2020, n. 8815), come nella fattispecie.

7. Quanto poi all'erroneo rigetto dell'eccezione di inammissibilità dell'atto di citazione per omessa prova della irrevocabilità della sentenza penale, anche alla luce dell'art. 648 c.p.p. - sesto motivo d'appello - il Collegio ritiene di confermare, in questa sede, il solco interpretativo già tracciato nei precedenti citati in sentenza, che rispecchia un punto d'arrivo di una lunga e annosa diatriba.

7.1. Preliminarmente deve rilevarsi che la censura non avrebbe più ragion d'essere, in quanto, in data 9 novembre 2021, la Corte d'appello di Roma ha trasmesso copia della sentenza n. [omissis] corredata in calce della copia del dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione, IV Sezione, il giorno [omissis] n. [omissis], nonché del dispositivo pronunciato dalla medesima Corte, III Sezione, in data [omissis]. Dal tenore letterale dei detti dispositivi (di inammissibilità) si evince con chiarezza che la sentenza di condanna penale è ormai divenuta irrevocabile. Non hanno pertinenza alcuna le obiezioni mosse dai difensori dell'odierno appellante i quali, nella memoria del 17 novembre 2021, hanno chiesto l'espunzione del documento sopra indicato, in quanto proveniente direttamente dagli uffici del giudice ordinario e, in ogni caso, hanno depositato copia del ricorso promosso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo avverso la sentenza della Corte di cassazione n. [omissis].

Le deduzioni, infatti, non colgono nel segno nella misura in cui i provvedimenti adottati dal giudice di legittimità sono pervenuti su sollecitazione della Procura generale che, legittimamente, ha esercitato il diritto di difesa rispetto a documenti formatisi successivamente alla proposizione dell'appello contabile.

Del tutto irrilevante è, poi, la proposizione del ricorso alla Corte EDU, non solo perché i motivi in esso esposti e la materia del contendere non rientrano nella cognizione di questo plesso giurisdizionale, ma soprattutto perché si tratta di un rimedio post judicatum che non compromette né la proponibilità dell'azione risarcitoria né la relativa procedibilità. In via del tutto incidentale, deve osservarsi che, pur dopo la sentenza additiva n. 113 del 2011 della Corte costituzionale - che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p.p. per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par. 1, CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo - può legittimamente dubitarsi che tale rimedio sia esperibile in caso di pronuncia penale di assoluzione per prescrizione, sia pure con conferma delle prescrizioni civili, e, sicuramente, è da escludere l'obbligo di revisione per il giudicato civile, amministrativo o contabile.

L'art. 46, par. 1, CEDU impegna, infatti, gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell'uomo sulle controversie di cui sono parti» e, alla luce di quanto previsto dall'art. 41 della stessa Convenzione, quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo di equa soddisfazione, ma anche di adottare le misure generali e/o individuali necessarie a garantire la restitutio in integrum in favore dell'interessato, ponendo, cioè, il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si sarebbe trovato se non vi fosse stata una violazione della Convenzione.

E, tuttavia, l'indicazione della obbligatorietà della riapertura del processo è presente esclusivamente in sentenze rese nei confronti di Stati i cui ordinamenti interni già prevedono, in caso di violazione delle norme convenzionali, strumenti di revisione delle sentenze passate in giudicato (vengono richiamate le sentenze CEDU 5 febbraio 2015, Bochan c. Ucraina; 22 novembre 2016, Artemenko c. Russia; 26 aprile 2016, Kardoš c. Croazia; 26 luglio 2011, T.Ç. e H.Ç c. Turchia; 20 dicembre 2007, Iosif e altri c. Romania; 20 dicembre 2007, Paykar Yev Haghtanak LTD c. Armenia; 10 agosto 2006, Yanakiev c. Bulgaria; 11 luglio 2006, Gurov c. Moldavia), mentre la stessa CEDU ha costantemente affermato che, in linea di principio, non spetta ad essa, tranne casi eccezionali, indicare le misure atte a concretizzare la restitutio in integrum, le misure generali necessarie a porre fine alla violazione convenzionale, restando gli Stati membri liberi di scegliere i mezzi per l'adempimento di tale obbligo, purché compatibili con le conclusioni contenute nelle sue sentenze.

Se è vero, allora, che con la richiamata declaratoria di incostituzionalità l'istituto della revisione ha assunto (almeno allo stato della vigente legislazione e sino a quando non ci sarà uno specifico intervento normativo in materia, auspicato dalla stessa Corte costituzionale), una funzione diversa e ulteriore rispetto a quella tipicamente riconducibile alla sua natura di mezzo di impugnazione straordinario - consentendo la riapertura del processo stesso, ogni volta che intervenga una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo che abbia accertato l'assenza di equità del processo, onde garantire all'interessato una effettiva restitutio in integrum - è parimenti vero che la Consulta ha, di recente, escluso in radice l'obbligatorietà di tale effetto nelle materie diverse da quella penale. Per le sentenze dei giudici civili o amministrativi (e dunque anche per quelle contabili), in realtà non sussiste "un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo", e i singoli Stati sono soltanto "incoraggiati a provvedere in tal senso", fermo appunto restando che è rimessa ad ogni singolo Stato la decisione di prevedere o meno come necessaria misura ripristinatoria la riapertura del processo (Corte cost., 26 maggio 2017, n. 123).

7.2. In ogni caso, la doglianza è priva di fondamento. Dopo la sentenza delle Sezioni riunite (n. 14/QM/2011) la giurisprudenza, pressoché unanime, si è espressa in termini ritenuti conformi ai principi in essa espressi. In particolare, è stata tralaticiamente riportata l'affermazione secondo cui il dies a quo della prescrizione dell'azione di responsabilità per il risarcimento del danno c.d. indiretto va individuato nella data di emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato, senza dover attendere il futuro passaggio in giudicato della sentenza di condanna (civile, penale o amministrativa), essendo il danno concreto e attuale già con l'esborso consequenziale alla soccombenza in giudizio dell'amministrazione (in tal senso, ex pluribus, I Sez. centr. app., nn. 89, 90, 211, 248 del 2017; nn. 150, 183, 262, 301 del 2018; n. 109 e 252 del 2019; n. 133 del 2021; II Sez. centr. app., nn. 149, 161, 284, 319, 565 del 2017; n. 150, 565, 773, 780 del 2018; n. 284, 385, 408, del 2019; n. 105, 247 del 2020; nn. 51 e 164 del 2021; III Sez. centr. app., n. 604 del 2017; n. 122 del 2018; n. 143 del 2019; n. 13 del 2020; n. 78 del 2021; Sez. Sicilia app., n. 6 del 2017; n. 239 del 2018; n. 99 del 2019).

Il compatto formante giurisprudenziale in sede d'appello non risulta scalfito dal minoritario orientamento registrato in talune sezioni territoriali (ex multis, Sez. giurisd. Lombardia, n. 136 del 2016) che ravvisa un'errata interpretazione della citata pronuncia nomofilattica e un'ancor più errata applicazione dei principi cui essa si ispira.

I giudici lombardi hanno precisato che la detta sentenza n. 14/QM/2011 è stata adottata nell'ambito di un giudizio di responsabilità per un danno indiretto acclarato con sentenza civile già passata in giudicato (ergo non più sub iudice, come invece nel caso in esame), enunciando all'esito il principio di diritto per cui "il dies a quo della prescrizione dell'azione di responsabilità per il risarcimento del danno c.d. indiretto va individuato nella data di emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato". Il principio avrebbe avuto rilevanza, tuttavia, con esclusivo riferimento al caso esaminato, in quanto proiettato alla soluzione del contrasto interpretativo tra coloro che propugnavano l'ancoraggio del dies a quo prescrizionale al giudicato, e coloro che individuavano nell'emissione del titolo dalla p.a. soccombente l'esordio del detto termine. La sentenza citata non avrebbe affatto affermato, come sostenuto dalla giurisprudenza richiamata, che l'azione dell'organo inquirente non debba attendere il futuro passaggio in giudicato della sentenza di condanna al risarcimento del danno, avendo anzi ribadito che il danno diventa "certo", oltre che concreto e attuale, soltanto con il passaggio in giudicato, in linea con quanto affermato dalla precedente sentenza n. 3/QM/2003 del 15 gennaio 2003.

La tesi, benché pregevole, non è in grado di ribaltare gli esiti decisori ai quali questo Collegio è già pervenuto in passato. Non v'è dubbio che le Sezioni riunite, nella sentenza n. 14/QM del 5 settembre 2011, abbiano avuto a riferimento lo specifico caso ad esse sottoposto, e che, nell'alternativa posta dal remittente, abbiano scelto di ancorare il dies a quo della prescrizione dell'azione di responsabilità per il risarcimento del danno indiretto all'emissione del titolo di pagamento al terzo danneggiato, e non al passaggio in giudicato della sentenza, in quanto soltanto in quel momento "la diminuzione del patrimonio dell'ente danneggiato", che integra l'evento dannoso, presenterebbe i caratteri della concretezza, attualità ed irreversibilità.

Il principio di diritto ha finito, tuttavia, per debordare dagli angusti confini del giudizio a quo, per assumere un ambito applicativo di ben più vasto respiro, sulla scorta di argomentazioni che non sono affatto ancorate alla mera erronea interpretazione della detta sentenza nomofilattica.

7.2.1. In primo luogo, la più risalente giurisprudenza di questa Sezione (Sez. II, n. 195/A/2004; n. 198/A/2004; n. 286/A/2003; n. 174/A/2001), poi condivisa dalle altre Sezioni d'appello (Sez. III, n. 440/2003, n. 328/2014; Sez. I, n. 43/2014, n. 540/2017; e, ancora, Sez. app. Sicilia, n. 475/A/2014) aveva rilevato che il danno erariale deve ritenersi certo quando risulti incontestabile nella sua realtà materiale; effettivo quando la perdita non è ipotetica; determinato, quando è quantificato o quantificabile secondo i principi del codice civile; attuale se sussiste al momento dell'esercizio dell'azione di responsabilità, rimanendo a tal fine irrilevante l'astratta possibilità che lo stesso possa in futuro essere risarcito o venir meno per cause esterne. In tale ottica, deve essere valorizzata l'esigenza di non confondere attualità e definitività del danno, posto che tale ultimo connotato non è richiesto da alcuna norma.

7.2.2. In secondo luogo, deve rimarcarsi che la locuzione "danno indiretto" reca in sé un coefficiente di ambiguità che merita di essere rimosso. La categoria tipologica in esame, infatti, non è affatto diversa da quella del "danno erariale diretto", nella misura in cui la lesione patrimoniale è, in entrambi i casi, connessa, sul piano eziologico e soggettivo, alla condotta commissiva od omissiva del funzionario, dipendente o amministratore pubblico. Il sistema introdotto dall'art. 28 Cost. e la previsione in esso contenuta di una "garanzia patrimoniale rafforzata" a favore del cittadino danneggiato non sono idonei a snaturare l'azione di responsabilità amministrativa che funge, in tal caso, da strumento per "squarciare il velo" e traslare sull'unico vero autore dell'illecito le conseguenze dannose patite dall'amministrazione per effetto di comportamenti dei propri dipendenti lesivi di diritti del cittadino.

I due giudizi (quello penale, civile e amministrativo, da un lato, e quello contabile, dall'altro) rimangono, infatti, distinti e separati, in quanto governati da una reciproca autonomia, e instaurati per decidere su rapporti diversi per soggetti e oggetto. Rimane escluso qualsivoglia vincolo di pregiudizialità-dipendenza, in quanto il rapporto controverso in sede penale, civile o amministrativa investe il potere-dovere del soggetto pubblico, nel suo complesso e quale apparato, di riparare, in via diretta e immediata, il danno ingiusto subito dal privato, e non costituisce, pertanto, un antecedente logico-giuridico della responsabilità amministrativa, né integra un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del diritto tutelato in sede contabile; neppure l'esito accertativo in sé è in grado di spiegare effetti ultra partes, se non per la sentenza penale irrevocabile e nei limiti di cui agli artt. 651, 652 e 654 c.p.p.

In tale solco interpretativo, alla preventiva condanna dell'amministrazione in sede civile, penale o amministrativa può attribuirsi la qualifica di un mero presupposto processuale che, di per sé, non condiziona l'esercizio dell'azione contabile se non nella misura in cui è dotata di efficacia esecutiva, ossia di quella particolare idoneità a diventare titolo esecutivo e consentire al privato danneggiato il recupero coattivo delle somme dovute, con consequenziale esborso di denaro pubblico. Contrariamente a quanto assunto dall'appellante, la provvisoria esecutività è divenuta un predicato che si accompagna, ormai normativamente, a tutte le pronunce giurisdizionali di primo grado che abbiano contenuto di condanna al pagamento di somme di denaro.

L'art. 282 c.p.c. sancisce, infatti, la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado, come regola generale: è, pertanto, smentita l'affermazione secondo cui l'esecuzione della condanna presuppone, di solito, il passaggio in giudicato.

Nella stessa direzione, l'art. 540 c.p.p. stabilisce che la condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno è dichiarata provvisoriamente esecutiva, a richiesta della parte civile, quando ricorrono giustificati motivi (comma 1) e che la condanna al pagamento della provvisionale è immediatamente esecutiva.

Ancora, il codice del processo amministrativo, dopo aver previsto l'ottemperanza, non solo "delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato", ma anche "delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo" (art. 112, comma 2, lett. a e b), stabilisce, all'art. 115, comma 2, c.p.a. che "I provvedimenti emessi dal giudice amministrativo che dispongono il pagamento di somme di denaro costituiscono titolo anche per l'esecuzione nelle forme disciplinate dal Libro III del codice di procedura civile e per l'iscrizione di ipoteca".

Il danno non deriva dall'accertamento reso inter alios, bensì dalla concreta esecuzione del titolo di formazione giudiziale o dell'accordo negoziale di natura transattiva, con la conseguenza che tale "evento" invera quella deminutio patrimonii che è alla base dell'azione di responsabilità. Una volta posta in esecuzione la sentenza (o, negli stessi termini, un accordo transattivo), accertare le "cause" del costo sostenuto diventa necessario per evitare una permanente "socializzazione" del danno e per spostarne il peso economico sul soggetto responsabile. In tale ottica, l'iniziativa del PM contabile non può "avvantaggiarsi" dell'accertamento contenuto nella sentenza civile o amministrativa emessa inter alios o avente a oggetto la consumazione del reato, dovendo provare, in piena autonomia, tutti i requisiti dell'azione di responsabilità. La diversa tesi (minoritaria) finisce col reintrodurre la "pregiudiziale" civile, penale o amministrativa, aborrita dalla costante giurisprudenza contabile anche in sede nomofilattica (Sez. riun., ord. 24 aprile 2019, n. 6; 3 luglio 2018, n. 8; 6 aprile 2018, n. 4; 14 marzo 2018, n. 3; 8 marzo 2018, n. 2 e giurisprudenza ivi citata) e, addirittura, dai giudici di legittimità, che affermano la totale autonomia persino tra l'azione di rivalsa intentata dall'amministrazione nei confronti del proprio dipendente (Cass. civ., Sez. un., sentenza 12 ottobre 2020, n. 21992, in relazione al caso di domanda di manleva spiegata da un'azienda sanitaria nei confronti del medico responsabile) e quella contabile promossa dal procuratore regionale.

L'unica "pregiudizialità" che viene qui in rilievo (in senso ampio o atecnico) si muove lungo il binario dell'esecuzione e non della cognizione, posto che il danno erariale matura soltanto per effetto del concreto, materiale e attuale trasferimento di somme dal soggetto pubblico al privato danneggiato.

7.2.3. In terzo luogo, l'eventuale e successiva caducazione del titolo esecutivo, a causa della riforma o della cassazione della sentenza civile, penale o amministrativa, travolge i "provvedimenti" e gli "atti dipendenti" medio tempore adottati, in ossequio ai principi cristallizzati nell'art. 336, comma 2, c.p.c. (applicabile anche al processo amministrativo: cfr. C.d.S., 10 settembre 2021, n. 741; per il processo penale, cfr. art. 605 c.p.p.). L'efficacia espansiva "esterna", peraltro, non scaturisce, a sua volta, dal passaggio in giudicato della pronuncia di riforma o di cassazione (quest'ultima nei limiti dell'eventuale revocazione ordinaria), ma immediatamente, come la citata disposizione impone, dopo la riforma di cui alla l. 26 novembre 1990, n. 353, che ha soppresso l'inciso "con sentenza passata in giudicato". Si è posto, quindi, un rimedio legislativo alla querelle sulla decorrenza della pronuncia relativa alla restituzione delle somme pagate alla controparte in esecuzione della sentenza riformata, caratterizzata da due opposti fronti (dal giorno della pubblicazione o da quello del passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado). Dopo la riforma del 1990, è pacifico che la sentenza d'appello sia immediatamente operativa, anche in funzione della provvisoria esecutività delle sentenze di primo grado (art. 282 del c.p.c.).

E, tuttavia, anche in questo caso, la riforma della sentenza di primo grado, sebbene idonea a caducare immediatamente gli atti esecutivi e istruttori, produrrà i suoi effetti restitutori sulla condanna erariale soltanto se e in quanto il privato cittadino soccombente si veda costretto alla restituzione delle somme percepite, determinandosi in tal caso un'indebita locupletazione in favore della p.a. danneggiata. A tutela del dipendente, dunque, rimane l'azione di arricchimento senza causa, fermo restando l'accertamento dell'illecito, nelle sue componenti oggettive (condotta) e soggettive (dolo o colpa grave), nei termini stabiliti dalla pronuncia contabile.

La doglianza è, in definitiva, infondata.

V. Dei vizi del processo e della sentenza.

8. Continuando a seguire l'ordine di cui all'art. 101 c.g.c., dando priorità ai motivi di censura che investono questioni processuali, occorre scrutinare la fondatezza del motivo relativo al denegato accesso al fascicolo telematico. Orbene, l'appellante lamenta che sin dal 22 marzo 2019 il difensore aveva inoltrato, via p.e.c., istanza di "visibilità" del fascicolo telematico, ricevendo, in riscontro, una risposta del seguente tenore: "il servizio FOL è momentaneamente sospeso per motivi tecnici e al più presto verrà ripristinato". Come si evincerebbe dal documento estratto il 31 marzo 2020 dal sito della Corte, la consultabilità del fascicolo on line (FOL) sarebbe stata ripristinata [a] far data dal 15 gennaio 2020, tant'è che il 30 marzo 2010 lo stesso Procuratore regionale ne aveva fornito notizia a mezzo p.e.c. al difensore. Poiché la comparsa di costituzione e risposta sarebbe stata depositata (dopo il rinvio per il rilascio della procura ad litem) in data 25 luglio 2019, in vista dell'udienza del 17 settembre 2019, il mancato accesso al fascicolo telematico avrebbe compromesso gravemente il diritto di difesa del convenuto, in palese violazione dell'art. 43 della l. n. 114/2014 e del menzionato decreto del Presidente della Corte dei conti n. 98 del 21 ottobre 2015.

Il citato art. 43 della l. n. 114/2014 si limita a stabilire che "I giudizi dinanzi alla Corte dei conti possono essere svolti con modalità informatiche e telematiche e i relativi atti processuali sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge, purché sia garantita la riferibilità soggettiva, l'integrità dei contenuti e la riservatezza dei dati personali, in conformità ai principi stabiliti nel decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni" (comma 1), rinviando, per la relativa attuazione, ai decreti di cui all'art. 20-bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221. "Al pubblico ministero contabile si consente di effettuare, secondo le regole stabilite con i decreti di cui al comma 1, le notificazioni previste dall'ordinamento direttamente ad uno degli indirizzi di posta elettronica certificata di cui all'articolo 16-ter del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221".

Orbene, il primo dei decreti cui si riferisce la norma è stato adottato con d.p. n. 98/2015 che, tra gli altri, all'art. 6, comma 4, prevede l'inserimento nel fascicolo cartaceo dei documenti pervenuti via p.e.c. "a cura delle Segreterie, con l'annotazione che i corrispondenti documenti informatici sono memorizzati nei sistemi informativi della Corte dei conti. Nelle more dell'attivazione del servizio di accesso telematico diretto al fascicolo processuale informatico, la Segreteria garantisce l'accesso al fascicolo stesso con le modalità più idonee, ivi incluso l'invio di un messaggio di posta elettronica".

Il sistema di garanzie sopra delineato ha trovato poi conferma nell'art. 6 c.g.c. e nelle successive modificazioni della detta disposizione con d.lgs. n. 114/2019.

Nessuna delle modalità di accesso al fascicolo informatico sopra descritte era, tuttavia, possibile al momento della prima istanza, depositata dal difensore in data 22 marzo 2019, posto che il servizio FOL risultava all'epoca momentaneamente sospeso. Tale preclusione non ha compromesso in alcun modo il diritto di difesa dell'odierno appellante né può considerarsi causa di nullità del processo di primo grado.

Deve essere ricordato che tra le facoltà processuali esercitabili dalla parte e dei difensori si colloca quella disciplinata dall'art. 6 disp. att. c.g.c. rubricato "Potere delle parti sui fascicoli", alla cui stregua "Le parti o i loro difensori muniti di procura possono esaminare gli atti e i documenti inseriti nel fascicolo d'ufficio e in quelli delle altre parti e farsene rilasciare copia dalla segreteria, a proprie spese ed osservate le leggi sul bollo". Tale disposizione sopravvive alla "informatizzazione" e alla "digitalizzazione" dei processi, consentendo l'accesso al fascicolo cartaceo, con diritto di visionare ed estrarre copia. Analogo diritto investe l'accesso al fascicolo istruttorio, in fase preprocessuale (artt. 71 e 72 c.g.c.).

Infine, la memoria di costituzione è stata redatta in modo puntuale e approfondito, sicché, in concreto, il contraddittorio non ha subito la benché minima lesione: l'impianto accusatorio, infatti, è stato costruito sulle risultanze processuali del giudizio penale e di quello civile, già pienamente disponibili alla parte che, almeno nel primo, ha subito il rinvio a giudizio e la condanna.

9. Una ulteriore criticità processuale è stata rilevata in relazione all'omessa integrazione del contraddittorio, alla luce di quanto dedotto dal difensore dell'appellante anche in udienza, ove ha esibito l'ordinanza di rimessione della questione alla Corte costituzionale da parte della Sezione Campania (sent./ord. n. 158 del 2021).

L'odierno appellante ha lamentato l'omessa integrazione del contraddittorio nei confronti dell'[omissis] e del Comune di Aprilia, in un'ipotesi che non ha mancato di qualificare, con diffusi riferimenti normativi e giurisprudenziali, di litisconsorzio necessario. A riprova di tale assunto difensivo, ha richiamato l'art. 83, comma 2, c.g.c. - nel testo vigente prima dell'entrata in vigore delle modifiche di cui al d.lgs. n. 114/2019 - assumendo che la mancata partecipazione di tutte le parti (asseritamente responsabili) avrebbe determinato la nullità della sentenza con la consequenziale necessità di remissione della controversia al primo grado. In via subordinata, ha chiesto disporsi in appello l'integrazione del contraddittorio ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 331 c.p.c., versandosi in fattispecie di cause inscindibili o tra loro dipendenti; in via ulteriormente gradata, rimettere la questione alla Corte costituzionale e/o alle Sezioni riunite, qualora l'art. 83, comma 2, c.g.c. dovesse ritenersi non applicabile alle ipotesi di solidarietà passiva, quale quella determinatasi all'esito del giudizio penale, tra il G. e il Comune di Aprilia nonché l'[omissis] quale unico soggetto responsabile.

La vicenda merita un approfondimento, compatibilmente con le esigenze di sinteticità di cui al menzionato art. 5 c.g.c.

9.1. Del "litisconsorzio necessario" manca una qualsivoglia definizione anche nel codice di rito, tanto che l'art. 102 c.p.c. è definita come norma in bianco, in quanto volta a disciplinare il mero sub-procedimento che il giudice è chiamato ad attivare nell'ipotesi in cui sia pretermesso un litisconsorte necessario. La verifica della sussistenza di rapporto plurisoggettivo a "parti necessarie" è, dunque, una questione di diritto sostanziale che deve essere risolta di volta in volta, cercando di individuare quando una sentenza sia inutiliter data, perché resa in assenza di alcune delle parti in confronto della quali avrebbe dovuto essere pronunciata (Cass. civ., Sez. un., 13 novembre 2013, n. 25454). Fuori dalle ipotesi tassativamente previste dalla legge (litisconsorzio propter opportunitatem), il litisconsorzio necessario ricorre solo quando, per la particolare natura o configurazione del rapporto giuridico dedotto in giudizio e per la situazione strutturalmente comune a una pluralità di soggetti, la decisione non può conseguire il proprio scopo se non è resa nei confronti di tutti questi soggetti (litisconsorzio secundum tenorem rationis). La funzione dell'istituto è, infatti, quella di tutelare chi ha proposto la domanda, il quale non potrebbe conseguire quanto richiesto se la sentenza non producesse effetti nei confronti di tutti i litisconsorti, in un'ottica di "effettività della tutela giurisdizionale" e non, invece, quella di tutelare il diritto di difesa dei litisconsorti pretermessi, già sufficientemente protetti dall'inefficacia, nei loro confronti, di una pronuncia emessa a seguito di un giudizio cui essi siano rimasti estranei (Cass. civ., 9 marzo 2004, n. 4714). Al giudice non è dato il potere di emanare una valida decisione inter pauciores in assenza di un meccanismo atto a estendere il contraddittorio a tutti coloro che sono titolari dell'unico rapporto plurisoggettivo inscindibile.

9.2. Se da un lato risulta coerente con quanto appena precisato la previsione del previgente testo dell'art. 83 c.g.c., comma 2, prima parte (alla cui stregua "Quando il fatto dannoso costituisce ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale, tutte le parti nei cui confronti deve essere assunta la decisione devono essere convenute nello stesso processo"), tuttavia questa stessa disposizione non poteva ritenersi compatibile con la struttura dell'obbligazione risarcitoria annessa alla responsabilità amministrativa. L'art. 1, comma 1-quater, della l. 14 gennaio 1994, n. 20 (come modificato dall'art. 3 del d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, nella l. 23 dicembre 1996, n. 639) stabilisce che "se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso". L'eventualità che dal concorso di plurimi soggetti nella causazione dell'evento dannoso si generi un litisconsorzio necessario "sostanziale" è, pertanto, esclusa in radice, in quanto le singole posizioni sono di regola scindibili, e la pronuncia resa nei confronti di taluno non è affetta da alcuna invalidità, ben potendo il giudice valutare i singoli apporti causali, e decidere, in via separata e autonoma, le singole controversie.

La plurisoggettività del rapporto sostanziale non impedisce, in definitiva, che la pronuncia in ordine ad esso possa utilmente regolare le singole posizioni dei partecipanti al giudizio, lasciando impregiudicata la posizione degli altri: il litisconsorzio non è di certo necessario (Cass. civ., 26 marzo 2001, n. 4364), ma, al più, si verte in materia di "litisconsorzio facoltativo", caratterizzato da una o più parti e più cause, ciascuna distinta dall'altra.

Mentre nel processo civile, tuttavia, rientra nella "facoltà" della parte privata citare in giudizio più soggetti in via originaria (art. 103) o successiva (art. 106 c.p.c.), al Procuratore regionale non può attribuirsi analoga piena libertà. In quanto "parte pubblica", preposta ex lege alla tutela di interessi generali, il PM contabile deve instaurare il giudizio nei confronti di tutti [i] soggetti ritenuti responsabili, escludendo soltanto coloro che reputa, alla stregua delle indagini compiute in fase preprocessuale, estranei alla consumazione degli illeciti contestati, rispetto ai quali deve essere disposta l'archiviazione (art. 69 c.g.c.). Una volta compiuta la scelta, la perimetrazione soggettiva dell'illecito contabile non è stata considerata, dal legislatore, vincolante per il giudice ai fini dell'attribuzione delle singole quote di responsabilità, tant'è che il potere - già disciplinato dal previgente art. 83, comma 2, seconda parte - di tener conto dell'imputazione del fatto dannoso a soggetti non evocati in giudizio, in sede di distribuzione delle quote di addebito, rappresenta la trasposizione sul piano processuale della parziarietà stabilita sul piano sostanziale di cui al citato art. 1, comma 1-quater, della l. n. 20/1994.

9.3. Di tali linee direttrici ha tenuto conto il legislatore che, in sede di correttivo (d.lgs. 7 ottobre 2019, n. 114), ha riformulato l'art. 83, attribuendogli il seguente tenore letterale: "1. Nel giudizio per responsabilità amministrativa è preclusa la chiamata in causa per ordine del giudice. 2. Quando il fatto dannoso è causato da più persone ed alcune di esse non sono state convenute nello stesso processo, se si tratta di responsabilità parziaria, il giudice tiene conto di tale circostanza ai fini della determinazione della minor somma da porre a carico dei condebitori nei confronti dei quali pronuncia sentenza. 3. Soltanto qualora nel corso del processo emergano fatti nuovi rispetto a quelli posti a base dell'atto introduttivo del giudizio, il giudice ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero per le valutazioni di competenza, senza sospendere il processo. Il pubblico ministero non può comunque procedere nei confronti di soggetto già destinatario di formale provvedimento di archiviazione, ovvero di soggetto per il quale, nel corso dell'attività istruttoria precedente l'adozione dell'invito a dedurre, sia stata valutata l'infondatezza del contributo causale della condotta al fatto dannoso, salvo che l'elemento nuovo segnalatogli consista in un fatto sopravvenuto, ovvero preesistente, ma dolosamente occultato, e ne sussistano motivate ragioni. 4. Nei casi di cui all'ultimo periodo del comma 3, il pubblico ministero non può comunque disporre la citazione a giudizio, se non previa notifica dell'invito a dedurre di cui all'articolo 67".

Ferma restando l'esclusione del litisconsorzio necessario, è chiaro che il primo comma viene a regolare il diverso istituto dell'intervento coatto jussu judicis, di cui v'è traccia nell'art. 107 c.p.c., che ha finalità ben diverse dall'ordine di chiamata in causa del litisconsorte pretermesso di cui all'art. 102 c.p.c. cit. L'intervento coatto per ordine del giudice determina, infatti, un litisconsorzio facoltativo successivo, che presuppone, ancora una volta, non solo la pluralità di parti ma anche la pluralità di rapporti sostanziali: "il giudice, quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne ordina l'intervento". Si tratta di una facoltà discrezionale esercitabile soltanto quando il giudice civile ravvisi l'opportunità (dunque, non la necessità) della partecipazione al giudizio del terzo al quale ritiene la "causa comune", ossia sussista una connessione per titolo e/o per oggetto. In tal caso, una volta che l'ordine sia stato ottemperato, si determina un cumulo di giudizi con pluralità di parti, il cui legame deve essere mantenuto nel corso del processo ("litisconsorzio facoltativo a cumulo necessario") soltanto se tra i rapporti sostanziali e tra le corrispondenti controversie si instauri un vincolo di pregiudizialità-dipendenza, tale che essi debbano essere trattati e decisi contestualmente ("cause dipendenti") ai sensi dell'art. 331 c.p.c. e dell'art. 183, comma 1, c.g.c.

Nel processo contabile di responsabilità, tale potere rimane precluso, nel pieno rispetto della legittimazione esclusiva del Procuratore regionale ad agire in giudizio e del dovere di disporre l'archiviazione, qualora ritenga non fondata la notitia damni nei confronti di taluni soggetti, pur coinvolti nella vicenda. A riprova di tale ricostruzione, i commi 4 e 5 del menzionato art. 83 subordinano all'emersione di "fatti nuovi rispetto a quelli posti a base dell'atto introduttivo del giudizio", il potere-dovere del giudice di ordinare (non la chiamata in causa del terzo bensì) la trasmissione degli atti al pubblico ministero per le valutazioni di competenza, sempreché non sia stato adottato un formale provvedimento di archiviazione o, in tale ultimo caso, ricorrano le condizioni indicate nelle sopra riportate disposizioni.

Non si può disconoscere che qualche profilo di ambiguità permane nella formulazione della norma nella parte in cui limita il potere del giudice di tener conto dell'apporto causale dei soggetti non convenuti in giudizio, in modo "virtuale", ossia "ai (soli) fini della determinazione della minor somma da porre a carico dei condebitori nei confronti dei quali pronuncia sentenza", soltanto quando ricorra un'ipotesi di "responsabilità parziaria".

Una tale limitazione mette a nudo una lacuna facilmente intuibile e riferibile all'ipotesi in cui ricorrano le condizioni della responsabilità in solido delineate dall'art. 1, comma 1-quinquies, della l. n. 20/1994, ossia che i concorrenti abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo.

In questi casi, deve ancora una volta escludersi che la plurisoggettività del rapporto sostanziale si traduca in un'ipotesi di "litisconsorzio necessario", in quanto l'uniforme giurisprudenza di legittimità (anche più risalente e consolidata: Cass. civ., 21 ottobre 1995, n. 10958; 13 gennaio 1995, n. 1078; 23 aprile 1994, n. 3900; 30 maggio 1990, n. 5082; 8 maggio 1987, n. 4276; 13 giugno 1982, n. 182) reputa le obbligazioni solidali, pur derivate da un medesimo fatto generatore, un insieme collegato di più rapporti obbligatori, sicché ciascun debitore o ciascun creditore è titolare di una propria posizione di debito o di credito nei confronti del comune creditore o del comune debitore (titolare di un rapporto obbligatorio), autonomamente deducibile in giudizio. L'obbligazione solidale, di conseguenza, non comporta in linea di massima, sul piano processuale, l'inscindibilità delle cause, sicché deve continuarsi a discutere di "litisconsorzio facoltativo".

Tuttavia, la scelta, operata in sede di correttivo, di escludere sia l'intervento jussu judicis sia la valutazione "virtuale" dell'apporto causale del terzo, in caso di obbligazione in solido, è sintomatica di una precisa voluntas legis che individua in capo al giudice il potere-dovere di porre a carico dell'unico o dei più coobbligati in solido evocati in giudizio l'intero debito risarcitorio, salvo il diritto di regresso di cui all'art. 1299 c.c., anche in considerazione della funzione di mero "rafforzamento" della garanzia patrimoniale generica "esterna" che il vincolo solidaristico assolve.

9.4. Alla luce dei delineati canoni ermeneutici, diventa agevole pervenire alla soluzione dei molteplici profili critici veicolati nel gravame.

9.4.1. Sicuramente non è fondata la doglianza imperniata sull'asserita nullità della sentenza per mancata integrazione del contraddittorio necessario. La plurisoggettività del rapporto sostanziale non ha dato luogo a cause inscindibili, posto che la posizione processuale del convenuto/appellante non ha ricevuto alcun nocumento dalla mancata chiamata in causa di altri soggetti, di cui è asserita la concorrenza nella causa. La sua posizione è stata, infatti, valutata esclusivamente in relazione "alla parte" che egli vi ha preso.

Del tutto fuori luogo si appalesa, pertanto, il richiamo all'istituto della solidarietà passiva sia nel rapporto tra il dipendente comunale e l'amministrazione d'appartenenza, in generale, sia in quello tra il G. e l'[omissis], in particolare.

Nel primo caso, il regime solidaristico ha rilevanza soltanto nel rapporto esterno ex art. 28 Cost., e non si riverbera all'interno, neppure in sede di regresso o rivalsa, in quanto grava sul soggetto che abbia pagato "per altri" (in questo caso l'amministrazione rimasta soccombente e, per essa, il PM contabile) attivarsi nei confronti di ciascuno dei responsabili o corresponsabili ("Il debitore in solido che ha pagato l'intero debito può ripetere dai condebitori soltanto la parte di ciascuno di essi"): sul piano interno, la responsabilità è sempre pro parte. Deve, pertanto, escludersi che il Comune di Aprilia sia "parte necessaria" del processo in corso, trattandosi dell'amministrazione danneggiata il cui concorso può essere valutato in via incidentale, in applicazione del principio di cui all'art. 1227 c.c., pacificamente estensibile ai giudizi di responsabilità amministrativa.

In ogni caso, non ricorrono neppure i presupposti di cui all'art. 1, comma 1-quinquies, l. n. 20/1994, al fine di affermare la solidarietà passiva nei confronti dell'asserito coautore (o unico responsabile) del danno (ossia l'[omissis]), poiché non è stato prospettato alcun illecito arricchimento né risulta accertata una responsabilità dolosa. La posizione del terzo è stata oggetto di valutazione incidenter tantum ed è stata ritenuta non escludente, tant'è che, correttamente, i primi giudici ne hanno tenuto conto in termini di riduzione dell'addebito prospettato dalla parte pubblica in citazione.

9.4.2. Allo stesso modo deve escludersi la nullità della sentenza per la mancata integrazione del contraddittorio necessario in applicazione dell'art. 199 c.g.c. che, al pari di quanto stabilito già dall'art. 354 c.p.c., prevede il rinvio al primo giudice qualora in appello risulti la pretermissione di una parte necessaria. L'assenza di un litisconsorzio necessario esclude, infatti, la remissione al giudice territoriale, dovendosi ritenere perfettamente valida la sentenza emessa nei confronti dell'unico soggetto ritenuto responsabile.

Neppure ha pregio l'asserito contrasto di tale ultima disposizione codicistica con il più volte citato art. 83 c.g.c., considerata la diversità degli ambiti oggettivi di riferimento, alla luce delle argomentazioni sopra esposte che ritagliano a tale ultima norma un'area applicativa limitata alle sole ipotesi di litisconsorzio facoltativo.

9.4.3. Del tutto estraneo alla materia del contendere rimane, poi, il contenuto della sentenza/ordinanza n. 158/2021 della Sezione Campania. I giudici territoriali hanno ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 83, commi 1 e 2, c.g.c. e (nel testo conseguente alle modifiche recate dal d.lgs. 7 ottobre 2019, n. 114) nella parte in cui preclude, nel giudizio per responsabilità amministrativa, la chiamata in causa per ordine del giudice. Tale scelta si porrebbe in contrasto con i principi e criteri espressi nella legge-delega, con annessa violazione dell'art. 76 Cost., nonché con l'art. 3 Cost. in quanto finirebbe col violare il diritto di difesa del soggetto la cui responsabilità sarebbe "accertata" sia pure virtualmente nel corso del giudizio, e col diminuire la garanzia di soddisfazione del credito erariale, precludendo la chiamata in causa di ulteriori soggetti potenzialmente individuabili quali compartecipi alla determinazione del nocumento pubblico. Ne deriverebbe, altresì, la grave compromissione del diritto di difesa del convenuto e una posizione di maggior favore per la Procura contabile.

La questione è stata, tuttavia, dichiaratamente circoscritta all'istituto di cui al sopra citato art. 107 c.p.c. e non impatta sull'asserita violazione del contraddittorio tra le "giuste parti" di cui è espressione l'art. 102 c.p.c., invocato dall'odierno appellante. Deve essere respinta, pertanto, l'istanza di sospensione in attesa della pronuncia della Consulta, considerato che il thema decidendum si colloca fuori dal perimetro difensivo (incentrato sul litisconsorzio necessario).

In ogni caso, anche a voler reinterpretare i motivi di gravame e ritenere che l'appellante abbia voluto censurare il mancato esercizio della facoltà di cui all'art. 107 c.p.c., non residua spazio né per la questione di legittimità costituzionale né di rimessione alle Sezioni riunite.

Sotto il primo profilo, infatti, difetta la "rilevanza" della questione nel giudizio in corso. Qualora il convenuto contesti (come nella fattispecie) il proprio difetto di legittimazione (recte, titolarità) passiva, indicando un altro soggetto non evocato in giudizio quale effettivo e unico debitore ("rapporto alternativo"), si verifica un'ipotesi di litisconsorzio facoltativo, come già precisato, e non necessario, come sostenuto dall'appellante. A carico del giudice si pone solo la facoltà di ordinare la chiamata in causa del terzo, non sindacabile in sede di gravame (Cass. civ., Sez. III, 1° dicembre 2004, n. 22596; Sez. I, 22 marzo 2002, n. 4129; Sez. I, 13 marzo 2013, n. 6208; Sez. III, 3 febbraio 2020, n. 2395), sicché, qualunque sia l'esito del sindacato di costituzionalità, non potrebbe incidere sugli esiti decisori. A fortiori, la rilevanza deve escludersi allorquando sia inibito, come al giudice della responsabilità amministrativa, il potere di provocare l'intervento coatto, ovvero debba escludersi, come nella fattispecie, la sussistenza, in grado d'appello, di "cause inscindibili o tra loro dipendenti". Presupposto indispensabile per l'applicazione dell'art. 183, comma 1, c.g.c. (riproduttivo dell'art. 331 c.p.c.) e per il consequenziale ordine di integrazione del contraddittorio è, infatti, la sussistenza di un litisconsorzio facoltativo a cumulo necessario (comunemente indicato dalla giurisprudenza di legittimità come "litisconsorzio necessario meramente processuale": ex multis, Cass. civ., Sez. I, 28 febbraio 2018, n. 4722). Non essendo stato celebrato in primo grado un processo litisconsortile, ed essendo al giudice d'appello preclusa la valutazione sul mancato esercizio dell'intervento coatto da parte del collegio di prime cure, la pronuncia della Corte costituzionale non potrebbe avere alcun impatto sull'oggetto di causa.

Sotto il secondo profilo, non può che registrarsi l'assenza dei presupposti di cui all'art. 114 c.g.c. Le questioni di massima devono presentare in sé un elevato grado di complessità, in ragione di particolari difficoltà interpretative su profili consistenti, sempreché attengano a problemi di carattere generale, non assumendo invece alcun rilievo la circostanza che la questione possieda le potenzialità di determinare un contrasto tra i giudici a causa di obiettive difficoltà interpretative, o, ancora, che si ponga per la prima volta (Sez. riun., 5/QM/2006). Orbene, l'esegesi delle norme richiamate d'appellante è tutt'altro che controversa o complessa, essendo, di contro, del tutto agevole alla stregua dei sedimentati principi sopra enunciati, ampiamente condivisi in tutti i plessi giurisdizionali.

9.5. Le conclusioni cui perviene il Collegio corroborano l'infondatezza anche del motivo d'appello esposto al n. 11 del gravame, ossia la nullità della sentenza per violazione dell'art. 1226 c.c. Devesi rilevare come la valutazione equitativa non riguarda la responsabilità del convenuto, bensì l'incidenza su di essa della quota addebitabile, in via virtuale, al soggetto non evocato in giudizio. Non ricorrendo affatto la solidarietà passiva sulla quale è costruita la censura in esame, né il litisconsorzio necessario (e neppure meramente processuale), i giudici di prime cure hanno dovuto calibrare l'addebito posto a carico del G. sulla "parte che vi ha preso", alla stregua di quanto già stabilito nell'art. 1, comma 1-quater, della l. n. 20/1994, decurtando la parte di danno imputabile ai soggetti rimasti estranei, per i quali ricorre l'oggettiva impossibilità di quantificare il relativo apporto causale.

Alcuna nullità processuale si è, pertanto, verificata, e la doglianza non merita accoglimento.

10. Con il motivo esposto al n. 8 del gravame, infine, l'appellante ha dedotto la nullità della sentenza per violazione del principio di cui all'art. 132 c.p.c. per illogicità della motivazione. Secondo la prospettazione dell'appellante, i primi giudici avrebbero condannato il G. pur avendo testualmente affermato che l'evento (id est: l'incidente stradale) non può essere a lui riconducibile.

Di tutt'altro tenore sono, al contrario, le affermazioni contenute nella sentenza. A pag. 23 del provvedimento, il collegio territoriale si limita a precisare che "Sotto ulteriore, ed ultimo, profilo occorre considerare anche la condotta imprudente del giovane deceduto, che conduceva il ciclomotore ad una velocità superiore, anche se di poco (70/100 Km orari), quella consentita dal limite di velocità (50 Km orari), fatto che, malgrado le risultanze delle consulenze svolte nel corso dei precedenti giudizi, non può essere riconducibile a responsabilità del convenuto".

Nel diminuire il carico di responsabilità sul G., dunque, i giudici hanno considerato anche la condotta imprudente del giovane deceduto, quest'ultima solo "non riconducibile" al funzionario, la cui omissione colpevole è, tuttavia, stigmatizzata, diffusamente, in diversi punti propedeutici del testo. A pag. 19 della sentenza si legge che "Alla luce dei fatti di causa, questa Sezione ritiene dunque sussistere la responsabilità del convenuto, che, in assenza dell'individuazione di altre figure di riferimento, in base all'organigramma dell'ente è da considerare l'unico responsabile, ex art. 107 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e s.m.i. (t.u.e.l.), per non essersi prontamente attivato per l'esecuzione di idonei lavori di manutenzione, omettendo il controllo ed il collaudo dei pochi interventi eseguiti sul tratto di strada interessato dall'evento, che nel frattempo non aveva intercluso, né adeguatamente segnalato tramite la collocazione di segnali di pericolo idonei ad avvertire gli utenti della strada". Alcuna illogicità vizia il provvedimento che, anzi, ha ben circoscritto il ruolo del G. nella vicenda e la specificità dei compiti a questi assegnati.

11. Risolti in senso negativi i motivi di censura relativi alle questioni di rito e processuali, si può ora passare allo scrutinio della doglianza che attiene alla questione preliminare di merito, ossia alla dedotta prescrizione del credito erariale.

Nessuno dei due termini indicati in appello può essere considerato quale valido dies a quo per il decorso del termine prescrizionale.

Sicuramente non rileva la richiesta di rinvio a giudizio penale, risalente al 23-24 febbraio 2010, trattandosi di danno indiretto, nel quale, come sopra precisato, non viene in ril[i]evo l'accertamento del fatto dinanzi ad altro plesso giurisdizionale ("pregiudiziale civile, penale o amministrativa") bensì il mero esborso di denaro quale evento dannoso consequenziale alla statuizione civile emessa, in questo caso, in sede penale. Non può sostenersi, pertanto, che "il fattore genetico della domanda avanzata dalla Procura regionale è costituito dalla responsabilità penale ascritta dal PM di Latina all'ing. G.", essendo tale affermazione in netto contrasto con l'autonomia del giudizio contabile e dei relativi accertamenti.

Neppure può validamente prendersi in considerazione la data in cui il GUP, in sede penale, ha autorizzato la citazione in giudizio del Comune di Aprilia (30 marzo 2011), dal momento che, al più, tale evento potrebbe venire in rilievo nell'ipotesi di danno diretto. Nel caso di specie, come condivisibilmente accertato dai primi giudici, "ciò che rileva è il depauperamento delle casse dell'Ente pubblico, e dunque i singoli pagamenti effettuati dal Comune quale conseguenza della condanna provvisionale disposta dal giudice penale (risalgono al 2013 i mandati relativi al pagamento di euro 153.842,40; mentre sono del 17 giugno 2013 e 5 febbraio 2014 quelli per la cifra di euro 3.876,91), ciascuno da considerare dies a quo della prescrizione, interrotto comunque dall'Amministrazione comunale con l'atto di diffida e costituzione in mora dell'ing. G. del 14 marzo 2016". Il quinquennio di cui all'art. 1, comma 2, della l. 14 gennaio 1994, n. 20, è stato, pertanto, ampiamente salvaguardato, considerata la data della notifica dell'invito a dedurre al convenuto del 2 luglio 2018.

12. Nel merito, gli accertamenti e le valutazioni compiute dai primi giudici sono degni di essere confermati.

12.1. Non trova ingresso, infatti, la censura relativa all'erronea valutazione della preponderante o escludente condotta colposa del conducente. L'Ing. G., all'epoca del sinistro, ricopriva l'incarico di dirigente del VI settore del Comune di Aprilia, quale "responsabile dei servizi tecnologici, di manutenzione, cimiteri, vigilanza su appaltate e aziende, trasporti, autoparco, officine, magazzino tecnico". Il decesso del sedicenne, a seguito della perdita del controllo del ciclomotore di cui era alla guida durante un sorpasso, è risultato, in sede penale, riconducibile al pessimo stato di manutenzione dell'asfalto per la presenza di numerose buche, di discontinuità ed avvallamenti sulla sede stradale, nonché all'assenza di segnaletica orizzontale o verticale indicante la situazione di pericolo per l'utente della strada. In dettaglio, le escussioni testimoniali e gli accertamenti effettuati dalla polizia stradale hanno consentito di appurare che il giovane ha perso il controllo del ciclomotore da lui condotto dopo un sorpasso di altra autovettura, proprio a causa di una buca sull'asfalto, toccando il bordo del marciapiede e, quindi, cadendo a terra, per poi colpire un palo della pubblica illuminazione, decedendo poco dopo sul posto. Le accertate infrazioni al codice della strada, pur rimarcate dall'odierno appellante, non sono idonee a scriminare l'illecito a questi imputabile, in quanto l'elevata velocità unitamente alla manovra azzardata (sorpasso in curva) non avrebbero potuto determinare, alla stregua di un criterio di regolarità statistica, l'evento letale, qualora il manto stradale si fosse trovato in perfetto stato manutentivo.

In tal senso sono dirimenti le chiarissime affermazioni di responsabilità contenute nella sentenza penale di primo grado (Tribunale di Latina n. [omissis]). Non solo risulta perfettamente individuato il punto in cui il conducente del mezzo "deve aver perso il controllo dello stesso (punto di abrasione)", ma anche che proprio "in corrispondenza di tale punto, il manto stradale si presentava in pessimo stato di manutenzione in quanto vi erano fessurazioni, trasversali e longitudinali che il teste ha definito 'a macchia di leopardo'". In particolare, il consulente del PM penale ha concluso nel senso che, proprio all'altezza del numero civico 41 ed all'accesso di via Palermo, la strada percorsa dal giovane centauro "presentava due tipi di 'accentuati dissesti' riconducibili a due tipologie: 1) alterazione della regolarità della pavimentazione conseguente all'usura superficiale, rappezzi, presenza di buche e distacco dello strato di usura, avvallamenti, dissesti in presenza dei chiusini posti sulla via; 2) fessurazioni della pavimentazione sia trasversali e che longitudinali, determinanti ai fini della qualità della pavimentazione percepita dagli utenti, della durata della pavimentazione stessa ed incidenti sulla regolarità del traffico soprattutto dove, come nel caso in esame, vi sono buche e distacchi di asfalto".

Neppure dell'idoneità di tali precondizioni a causare il sinistro e l'evento letale si può dubitare, alla luce delle illuminanti argomentazioni sviluppate dal giudice penale, il quale conferma che l'evento stesso costituisce "aggravamento del rischio" che le norme di condotta poste a base dei rispetti[vi] capi di imputazione sono dirette e prevenire. In particolare, se il manto stradale fosse stato integro, sarebbe stato possibile percorrere la curva sinistra, ad ampio raggio, senza perdere aderenza al suolo e senza dunque rovinare a terra, "potendo detta curva essere percorsa anche a (quella) velocità sostenuta, senza conseguenze di sorta (cfr. test. M. pag. 72 del verbale del 25 settembre 2012)". Anche alla maggiore velocità di 70 Km/h, il decesso sarebbe stato, con ogni probabilità, evitato, considerato che il consulente del PM penale ha correttamente tenuto conto che lo "scarrocciamento" di 16 mt. era comunque compatibile con la velocità più elevata rappresentata dal perito di parte, mentre è rimasta esclusa quella di oltre 100 Km/h, sostenuta dall'appellante anche in questa sede, per palese contrasto con la tipologia di automezzo.

Soprattutto, proprio mentre il ragazzo si approcciava al tratto stradale in curva (verso sinistra), "deviava verso destra, urtava con la ruota anteriore contro il cordolo marciapiede, si ribaltava sul fianco destro e dopo circa 16 mt. si arrestava in posizione ribaltata. Il conducente disarcionato andava ad urtare contro il palo di illuminazione pubblica situato sul marciapiede e moriva sul posto".

L'imprudenza da parte del giovane deceduto costituisce, pertanto, motivo di riduzione dell'addebito, dovendo il giudice tener conto dell'apporto causale dei terzi non convenuti (né convenibili) in giudizio, ma non elide del tutto i profili di responsabilità del G., al quale si imputa l'omesso controllo sul tratto stradale in esame, l'omessa segnaletica, l'omesso collaudo dei lavori effettuati e il totale disinteresse per le sorti di un bene pubblico il cui uso era stato più volte causa di sinistri e risarcimento di danni a terzi.

12.2. Alcun pregio assumono, poi, le argomentazioni difensive incentrate sul ruolo svolto dall'[omissis] e sull'ampiezza dei compiti ad essa affidati in sede contrattuale.

I giudici di legittimità hanno da tempo chiarito (ex multis, Cass. civ., Sez. III, sentenza 23 gennaio 2009, n. 1691), che in caso di danno alle cose o alla persona causate da una buca presente sul manto stradale trova automatica applicazione l'art. 2051 c.c., configurando un'ipotesi di responsabilità semioggettiva (a colpa presunta), purché sussista la possibilità concreta per l'ente, avuto riguardo all'estensione della rete stradale di riferimento, di esercitare un continuo ed efficace controllo, idoneo ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo per i terzi. La circostanza che si tratti della rete stradale contenuta nella perimetrazione del centro abitato, in particolare, è sintomatica della sussistenza di una possibilità effettiva di sorveglianza e, pertanto, comporta il più rigoroso regime di responsabilità delineato dall'art. 2051 c.c. Soprattutto, i giudici di legittimità affermano che l'affidamento in appalto della manutenzione delle strade, per segmenti, a terzi rappresenta un ulteriore elemento concreto, indicativo dell'effettiva possibilità, per l'ente pubblico, di esercitare un controllo continuo ed efficace sulla rete stradale, con la conseguenza che l'affidamento a terzi, lungi dal costituire una causa di esenzione di responsabilità, convalida l'applicazione del detto art. 2051 c.c., in quanto non trasferisce l'obbligo di custodia del bene demaniale dal Comune alle imprese appaltatrici, permanendo in capo all'ente proprietario il dovere di sorveglianza, espressamente posto a suo carico dall'art. 14 del d.lgs. n. 285/1992 (codice della strada). Tale approdo ermeneutico trova sicuramente ampio sbocco applicativo nel rapporto con il terzo danneggiato e, tuttavia, può costituire un valido punto di riferimento anche nella valutazione del rapporto interno tra l'amministrazione e il proprio dipendente.

In particolare, in sede di accertamento dei presupposti della responsabilità amministrativa, l'affidamento a un soggetto terzo (nel caso di specie, peraltro, un'azienda speciale costituita dal Comune con una pluralità di funzioni) non può considerarsi, di per sé, causa esimente, dovendosi di volta in volta valutare se, in concreto, il funzionario o il dipendente preposto allo specifico settore di riferimento abbia comunque concorso alla determinazione dell'evento dannoso. Nel caso di specie, l'istituzione di un'azienda speciale con l'affidamento di servizi di pubblica utilità quali la "manutenzione strade urbane ed extraurbane - segnaletica pubblica" (come stabilito dall'art. 3 del contratto [omissis]) non può autorizzare il responsabile dell'ufficio manutenzione a considerarsi esonerato da qualsivoglia obbligo di sorveglianza sulla gestione ed esatto adempimento degli obblighi derivanti dalle pattuizioni negoziali, proprio a tutela degli interessi pubblici ad esse sottesi. A fortiori, tale onere sussiste in presenza di clausole contrattuali di dubbio contenuto - quale quella contenuta nell'art. 19 del detto contratto - dalle quali non si evince, con chiarezza, l'oggetto dell'affidamento. Si legge nella disposizione che spetta all'[omissis] la "sorveglianza, intervento e riparazione di dissesti del manto stradale" e il tenore letterale sembra alludere a lavori di manutenzione ordinaria (come poi confermato dalla stessa amministrazione comunale con la delibera G.M. n. 198 del 9 luglio 2008, "di interpretazione autentica del citato art. 19 del contratto"), tanto più se si considera che rientrano in tale nozione soltanto quelle attività dirette alla "conservazione del bene" e dello status quo ante, mentre sono sicuramente straordinarie quelle attività che ne determinano una trasformazione, una modifica, un miglioramento. Proprio l'incertezza sull'esatta portata del vincolo negoziale avrebbe, comunque, dovuto imporre una maggiore prudenza, cura e diligenza da parte del funzionario preposto allo specifico settore, soprattutto all'esito delle molteplici segnalazioni che i cittadini non hanno mancato di inoltrare all'ente proprietario.

Come per il giudice penale, anche in questa sede deve ribadirsi che "Tale obbligo non coincide con quello della mera opportunità o utilità dell'adozione di un accorgimento non prescritto, perché in tal modo assumerebbe un'estensione infinita sino a comprendere qualsiasi possibile mezzo, anche il più sofisticato o complesso astrattamente idoneo a scongiurare il pericolo, ma il limite di detto obbligo è dato dal ricorso al concetto di prevedibilità, intesa come criterio di accertamento della colpa, ossia al principio che, al di fuori dell'ipotesi di inosservanza di specifiche prescrizioni di legge, possono ascriversi a colpa solo quegli eventi che in relazione a particolari circostanze del caso concreto siano prevedibili dal soggetto al momento della realizzazione della sua condotta omissiva, con la conseguenza che non possono essere attribuiti all'agente evenienze improbabili ed eccezionali secondo la comune esperienza (Cass. pen., Sez. 4, n. 316/1985; 21040/2008). Nel caso di specie, le condizioni di fatto e le plurime segnalazioni dei cittadini erano chiari segni premonitori che avrebbero dovuto allertare il G. e spingerlo ad adottare le più ampie cautele, anche mediante attività propulsive, di indagine e, se del caso, sostitutive.

12.3. Su entrambi i fronti difensivi, in conclusione, si deve escludere che sia il comportamento del conducente sia le asserite omissioni imputabili all'[omissis] rappresentino cause sopravvenute idonee a determinare, in via esclusiva, l'evento dannoso (art. 41 c.p.) e le conseguenze immediate e dirette che da esso sono derivate (art. 1223 c.c.). A governare la prima fase dell'accertamento del rapporto eziologico tra condotta ed evento è, infatti, il criterio della "causalità adeguata" che, introducendo un correttivo al criterio della condicio sine qua non, opera attraverso un giudizio di prognosi postuma ex ante, in virtù del quale l'evento è imputabile alla condotta umana solo se ne è conseguenza normale, sviluppo probabile o, quantomeno, non improbabile, alla stregua, stando alla più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576; in termini già Sez. II, 25 febbraio 2019, n. 46), del canone della preponderanza dell'evidenza causale. Nello schema generale della probabilità va, infatti, determinata l'attendibilità dell'ipotesi accusatoria, sulla base dei relativi elementi di conferma ricostruiti nel quadro probatorio complessivo (evidence and inference nei sistemi anglosassoni).

Sulla scorta del previo riscontro positivo di tale verifica, è consentito di porre, poi, a carico del responsabile tutte le conseguenze dannose risarcibili (art. 1223 c.c.), purché connesse all'evento in via immediata e diretta. In fase di accertamento della "causalità giuridica", il giudice è chiamato a perimetrare l'ampiezza del danno risarcibile e la propagazione del fatto dannoso, ricomprendendovi, sulla base dell'id quod plerumque accidit, tutti gli accadimenti che siano prevedibilmente sviluppo causale del primo evento, ossia, per quanto rileva in questa sede, la soccombenza in giudizio del Comune di Aprilia e l'esborso economico che ne è conseguito.

13. Parimenti infondate si rivelano le censure che afferiscono all'elemento soggettivo, anche alla luce dello jus superveniens che il difensore dell'appellante ha puntualmente riportato nella memoria integrativa.

La questione relativa all'applicabilità dell'art. 21 d.l. 76/2020 si appalesa infondata, alla luce di argomentazioni già espresse da questa Sezione in plurimi pronunciamenti (ex multis, Sez. II centr. app., 18 marzo 2021, n. 95). La norma ha inserito nell'art. 1, comma 1, della l. n. 20/1994 l'alinea "la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso". L'intervento additivo ha carattere sostanziale, in quanto incide su uno degli elementi costitutivi della fattispecie dell'illecito erariale e, dunque, non può spiegare effetti su vicende verificatesi prima della sua entrata in vigore, ai sensi dell'art. 11 disp. prel. c.c. Sebbene il tenore letterale della disposizione sembri conferirle carattere processuale (in quanto si utilizzano termini come "prova" e "dimostrazione"), un'interpretazione logico-sistematica non può non considerare che il legislatore, in un contesto emergenziale e con finalità dichiaratamente semplificatorie, ha operato un innesto su una norma sostanziale (art. 1, comma 1, l. n. 20/1994), introducendo una nozione di dolo "erariale" a contenuto tipizzato. Anche qualora si volesse annettere valore processuale allo jus superveniens, in virtù del principio espresso dal brocardo latino tempus regit actum, la restrizione in questione non potrebbe farsi retroagire al momento in cui essa non operava per il PM contabile, al quale, diversamente opinando, sarebbe poi paradossalmente preclusa una integrazione probatoria in appello, giusta il disposto dell'art. 194 c.g.c. (in termini, Sez. I app., sent. n. 234/2020 e n. 263/2020).

In ogni caso, la norma non sarebbe applicabile al caso di specie, in quanto l'art. 76 [recte: 21 - n.d.r.] cit., al comma 2, ha previsto, per effetto anche delle successive modifiche, che "Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2023, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l'azione di responsabilità di cui all'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente". Poiché l'illecito contestato al G. ha natura omissiva, la limitazione al dolo rimane fuori gioco.

La colpa grave è qui ampiamente provata, alla stregua di quanto accertato in sede penale e dai primi giudici. Non v'è dubbio che, oltre alla violazione di un preciso obbligo di legge (art. 107 t.u.e.l.) - quale componente "normativa" della colpa - viene in rilievo anche la "prevedibilità" dell'evento dannoso e delle sue conseguenze, come già sopra evidenziato. In tema di sinistri stradali, infatti, possono essere condivisi i principi di recenti espressi dai giudici di legittimità in tema di reati colposi. Sebbene, infatti, per gli illeciti penali si imponga la prova degli elementi costitutivi "al di là di ogni ragionevole dubbio", si è ritenuto che l'elemento soggettivo del reato richieda non soltanto che l'evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall'agente con l'adozione di regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto comportamento alternativo lecito), non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato (Cass. pen., Sez. IV, n. 34375 del 2017). E, tuttavia, come precisato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione - nel caso della "TyssenGroup" - la causalità della colpa si configura non solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico, ma anche quando una condotta appropriata avrebbe avuto apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno (Cass. pen., Sez. un., n. 38343 del 2014), come nella fattispecie.

Le numerose segnalazioni, l'oggettivo e mai smentito stato di dissesto del manto stradale, lo stato di incuria in cui versava l'intero tratto stradale, rappresentano tutti elementi di stimolo all'esercizio dei poteri di sorveglianza e intervento che sono da ricondurre alla figura del responsabile dell'ufficio manutenzione e che, in concreto, sono stati sistematicamente disattesi.

14. Conclusivamente, l'appello deve essere rigettato, con conferma integrale della sentenza di primo grado. Le spese di lite seguono la soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

la Corte dei conti, Sezione seconda centrale d'appello, così definitivamente pronunciando, rigetta l'appello e, per l'effetto, conferma integralmente la sentenza impugnata.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano in euro 432,00 (quattrocentotrentadue/00).