Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 10 settembre 2021, n. 43690

Presidente: Vessichelli - Estensore: Miccoli

RITENUTO IN FATTO

1. Con atto sottoscritto dal difensore di fiducia, S.R. propone ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia, emessa in data 22 settembre 2020, con la quale è stato dichiarato inammissibile per tardività l'appello proposto avverso la pronunzia di primo grado di affermazione di responsabilità del suddetto imputato per i reati di cui agli artt. 594, 612 e 660 c.p.

Con la stessa sentenza di primo grado l'imputato era stato condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile A.J.

1.1. La Corte territoriale ha dato atto che la sentenza appellata era stata emessa in data 8 luglio 2011 e la motivazione era stata depositata in data 21 luglio 2011, nel rispetto del termine di giorni trenta, stabilito dal giudice ai sensi dell'art. 544, comma terzo, c.p.p.

L'imputato era presente nel giudizio di primo grado, sicché non aveva diritto alla notifica dell'estratto contumaciale della sentenza.

Il termine per l'appello decorreva, pertanto, dal 16 settembre 2011, tenuto conto della sospensione feriale.

Conseguentemente il termine per proporre appello, pari a 45 giorni, scadeva il 31 ottobre 2011 (in quanto il 30 ottobre era domenica).

1.2. La Corte territoriale ha, quindi, rilevato la tardività dell'appello, assumendo che l'atto di impugnazione era stato presentato mediante invio di raccomandata alla cancelleria del giudice che aveva emesso la sentenza; il timbro di spedizione attestava che la raccomandata era stata inviata in data 3 novembre 2011 e, quindi, tre giorni dopo la scadenza del termine per l'impugnazione.

2. Con l'unico motivo di ricorso si denunzia violazione di legge processuale.

Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto tardivo l'appello, trascurando che l'atto di impugnazione non era stato proposto mediante spedizione a mezzo posta con raccomandata; esso, infatti, risulta depositato "a mani", da incaricato del difensore, presso la cancelleria del Tribunale di Padova in data 31 ottobre 2011.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

Così come emerge dagli atti, in calce all'originale dell'appello risulta il timbro della cancelleria del Tribunale di Padova (e firma del cancelliere Barbara Quarta), con il quale è stato attestato il deposito dell'atto in data 31 ottobre 2011 da parte di Ilaria Vanzan, che risulta appositamente delegata per tale incombenza dal difensore di fiducia avvocato Emanuele Scieri.

Peraltro, il ricorrente ha anche allegato un'attestazione a firma del cancelliere del Tribunale di Padova, relativa alla ricezione dell'atto di appello in data 31 ottobre 2011.

Dunque, l'atto di appello è tempestivo e la sentenza impugnata va annullata perché erroneamente ha dichiarato inammissibile l'impugnazione.

2. Va, altresì, dato atto che prima del giudizio di appello era decorso il termine di prescrizione in relazione ai reati di cui agli artt. 612 e 660 c.p., mentre nelle more dell'impugnazione della sentenza di primo grado (emessa in data 8 luglio 2011) il reato di ingiuria è stato abrogato per effetto del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7.

In ordine a tale ultima circostanza è incontroverso che questa Corte possa rilevare immediatamente l'avvenuta depenalizzazione del reato, conseguendo a ciò anche la revoca delle correlate statuizioni civili, fermo restando il diritto della parte civile di agire ex novo nella sede naturale, per il risarcimento del danno e l'eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria civile (Sez. un., Sentenza n. 46688 del 29 settembre 2016, Schirru e altro, Rv. 267884).

Quanto ai reati di minaccia e molestie, va rilevato che anche con riferimento ad essi è stata esercitata l'azione civile da parte della persona offesa, per cui si pone il problema della necessità o meno di dichiarare, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., l'estinzione per prescrizione, nonché di individuare il giudice che, in seguito alla cassazione della sentenza impugnata, deve esaminare le censure proposte con l'atto di appello, erroneamente ritenuto tardivo.

3. Non ignora questo Collegio principi interpretativi affermati dalla pronunzia Sez. 2, n. 8935 del 21 gennaio 2020, Pulcrano, Rv. 278588, secondo i quali, nel giudizio di cassazione, qualora risulti che la sentenza di appello abbia illegittimamente dichiarato l'inammissibilità dell'impugnazione avverso la condanna di primo grado e si proceda contestualmente anche agli effetti civili, la Corte non può immediatamente dichiarare l'estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione, limitandosi ad escludere la possibilità di un più favorevole proscioglimento per ragioni di merito ex art. 129 c.p.p., poiché il ricorso dell'imputato in ordine all'affermazione di responsabilità impone la valutazione del compendio probatorio "a cognizione piena", sia agli effetti penali che a quelli civili, con conseguente trasmissione degli atti al giudice penale a seguito di annullamento con rinvio.

3.1. Tale pronunzia si pone dichiaratamente nel solco segnato dalla sentenza delle Sezioni unite, n. 35490 del 28 maggio 2009, Tettamanti, Rv. 244273, «a parere della quale la Corte di cassazione, ove rilevi la sussistenza di una causa di estinzione del reato, non può rilevare eventuali vizi di legittimità della motivazione della decisione impugnata, poiché nel corso del successivo giudizio di rinvio il giudice sarebbe comunque obbligato a rilevare immediatamente la sussistenza della predetta causa di estinzione del reato, ed alla conseguente declaratoria; ad analoghe conclusioni deve giungersi anche in presenza di mere cause di nullità di ordine generale, assolute ed insanabili, identica essendo la ratio, fondata sull'incompatibilità del rinvio per nuovo giudizio di merito con il principio dell'immediata applicabilità della causa estintiva. A conclusioni diverse dovrebbe giungersi, peraltro, nel caso in cui l'operatività della causa di estinzione del reato presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito, nel qual caso assumerebbe rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla necessaria rinnovazione del relativo giudizio».

Aggiunge la sentenza Pulcrano: «A conclusioni diverse deve, tuttavia, giungersi quando il giudice, nonostante la rilevabilità di una causa di estinzione del reato, debba contestualmente pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria proposta dalla parte civile»; infatti in tale caso operano i principi affermati dalla sentenza Tettamanti, secondo i quali «all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l'impugnazione del P.M. proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma secondo, c.p.p.».

E, di conseguenza, «una eventuale assoluzione in luogo del proscioglimento per causa estintiva può avere luogo solo se l'esame ai fini civilistici porti ad affermare la applicabilità della relativa ampia formula assolutoria, e quindi senza pregiudizio per il principio di economia processuale, ma qualora non emerga che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso, ecc., non potrà addivenirsi ad una pronuncia assolutoria. Pertanto, fuori dal caso in cui non opera il principio di economia processuale, dovendosi comunque valutare la responsabilità ex professo ai fini civilistici, l'unico modo per ottenere un esame più approfondito, in mancanza della evidenza che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso, ecc., consisterà nel rinunciare alla causa estintiva».

3.2. Sui principi affermati dalla sentenza Tettamanti saranno svolti rilievi ulteriori in seguito.

Tuttavia, è opportuno subito evidenziare che può venire in rilievo la possibilità di una "eventuale assoluzione in luogo del proscioglimento per causa estintiva", nell'ambito di una valutazione del giudice penale ai fini civilistici, solo nel caso in cui nella decisione da emettersi si possa apprezzare l'esistenza di una richiesta ex art. 129, comma secondo, c.p.p. di pronunzia assolutoria; insomma, deve prospettarsi concretamente la possibilità di un proscioglimento nel merito che possa prevalere sulla causa estintiva della prescrizione.

Se invece - come nella specie - l'imputato non abbia, né nel ricorso e neppure nell'atto di appello, sollecitato una decisione di proscioglimento nel merito ex art. 129, comma secondo, c.p.p., è evidente che il rinvio al giudice dell'appello, che ha dichiarato inammissibile l'impugnazione, non potrà che avere, agli effetti penali, lo scontato esito della declaratoria di prescrizione del reato, con conseguente necessità ex art. 578, primo comma, c.p.p. di valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio solo ai fini civili.

Peraltro, non senza rilievo è la circostanza che nel caso in esame l'imputato abbia avuto modo, nell'effettiva pienezza del contraddittorio, di far valere già le sue ragioni ex art. 129, comma secondo, c.p.p., giacché la pronunzia di inammissibilità dell'appello è stata emessa non in sede predibattimentale (si veda in materia quanto affermato da Sez. un., Sentenza n. 28954 del 27 aprile 2017, Iannelli, Rv. 269809), bensì all'esito dell'udienza fissata dalla Corte di appello per lo svolgimento del giudizio.

Può dunque ritenersi che l'imputato nel suo ricorso per cassazione, dolendosi solo della declaratoria di inammissibilità dell'appello e non prospettando un concreto ed attuale interesse, a fronte della decorrenza del termine prescrizionale, ad ottenere un proscioglimento nel merito ai sensi del secondo comma dell'art. 129 c.p.p., abbia finito per circoscrivere l'oggetto dell'impugnazione alle statuizioni civili.

Invero, come si desume anche dalle conclusioni rassegnate dalle parti dinanzi alla Corte di appello, il Procuratore generale aveva già chiesto la declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione e la difesa, seppure in via subordinata rispetto alla richiesta di accoglimento dell'appello (con il quale erano stati solo denunziati vizi in ordine alla valutazione della prova), ha eccepito a sua volta la decorrenza del termine prescrizionale.

Né appare sostenibile che la pronuncia di proscioglimento nel merito, salva un'espressa delimitazione del devolutum agli effetti civili, sia sempre un dovere del giudice e che il correlato interesse dell'imputato possa essere anche implicito e non equivoco, nell'evidente vantaggio che ritrae dall'impugnazione in sede penale.

Invero, il secondo comma dell'art. 129 c.p.p. non ripropone la formula del primo, quanto alla possibilità di declaratoria di proscioglimento d'ufficio: «1. In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza. 2. Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta».

D'altronde, è incontroverso che la previsione di cui all'art. 129, comma secondo, c.p.p. non possa trovare applicazione nel giudizio di legittimità relativo a sentenza di assoluzione resa in grado d'appello promosso dalla sola parte civile, in quanto, essendo ispirata a ragioni di economia processuale, risulta compatibile con le garanzie difensive nel solo caso in cui il giudice si pronunci sulla "regiudicanda" penale e non su questioni civili, atteso che, solo nel giudizio penale, l'operatività del criterio di prevalenza di formule previsto da tale norma è bilanciato dalla possibilità, per l'imputato, di rinunziare alla causa di estinzione del reato (Sez. 5, Sentenza n. 19917 del 9 aprile 2021, Rv. 281179; si veda anche, per il giudizio di appello, Sez. 6, Sentenza n. 43644 dell'11 settembre 2019, Rv. 277375).

Sotto altro profilo e valutando sempre la necessità di una esplicita allegazione dell'interesse ad ottenere una pronunzia di proscioglimento pieno ex art. 129, comma secondo, c.p.p., questa Corte ha ritenuto che la sentenza d'appello pronunciata de plano in violazione del contradditorio tra le parti, che, in riforma della decisione di condanna di primo grado, dichiari l'estinzione del reato per prescrizione, va annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al giudice d'appello, solo quando l'imputato rinunci alla prescrizione, allegando, così, un interesse concreto ed attuale alla celebrazione del giudizio di appello da lui promosso (Sez. 3, Sentenza n. 15758 del 30 gennaio 2020, Rv. 279272; si veda anche Sez. 3, Sentenza n. 52834 del 31 maggio 2018, Rv. 274562).

E, ancora, l'imputato che impugni la sentenza abnorme di proscioglimento dal reato per prescrizione (nella specie, erroneamente pronunciata dal giudice in sede di opposizione al decreto di condanna) deve dedurre un interesse concreto ed attuale alla rimozione del provvedimento impugnato ed alla prosecuzione del processo, indicando gli atti dai quali esso può desumersi (Sez. 3, Sentenza n. 45560 del 15 marzo 2018, Rv. 274089).

4. A supporto della tesi qui sostenuta, in primo luogo, vanno richiamati i principi affermati dalla pronunzia delle Sezioni unite n. 40109 del 18 luglio 2013, Sciortino, Rv. 256087: nel caso in cui il giudice di appello dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, l'eventuale accoglimento del ricorso per cassazione proposto dall'imputato impone l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 c.p.p.

Si è ritenuto che, una volta rilevata e dichiarata l'estinzione del reato per prescrizione, non possa residuare alcuno spazio per ulteriori pronunce del giudice penale e non abbia più ragion d'essere la speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile, venendo meno quell'interesse penalistico alla vicenda che giustifica il permanere delle questioni in sede penale.

Le Sezioni unite hanno valorizzato, oltre al tenore letterale, la ratio dell'art. 622 c.p.p., da ravvisare nel principio di economia processuale che vieta il permanere del giudizio in sede penale in mancanza di un interesse penalistico alla vicenda.

Si è inoltre affermato che la suddetta norma non presuppone un definitivo accertamento della responsabilità penale: tale disposizione, infatti, si limita nel suo incipit a contenere l'inciso "fermi gli effetti penali della sentenza", che non implica un "accertamento" della responsabilità penale, ma ricomprende tra "gli effetti penali della sentenza" anche quelli scaturenti da una declaratoria di estinzione del reato.

L'ampia dizione dell'art. 622 c.p.p. "non ammette distinzioni di sorta in relazione alla natura del vizio che inficia le statuizioni civili assunte dal giudice penale, che potranno riguardare sia vizi di motivazione in relazione ai capi o ai punti oggetto del ricorso, sia violazioni di legge, comprese quelle afferenti a norme di natura procedurale, relative al rapporto processuale scaturente dall'azione civile nel processo penale" (così in motivazione - par. 11 - Sezioni unite Sciortino).

Orbene, è pur vero che la decorrenza del termine di prescrizione pone l'imputato destinatario della pretesa civilistica, che non rinuncia a far valere la causa estintiva, di fronte a possibili esiti alternativi nel giudizio di rinvio: il proscioglimento pieno oppure la declaratoria di prescrizione, con conseguente condanna ai soli effetti civili.

Tuttavia, si ribadisce che, in applicazione dei principi dl economia processuale e di quelli del giusto processo, si rende necessaria l'esplicita prospettazione da parte dell'imputato (non rinunziante alla prescrizione) della possibilità di conseguire l'esito più favorevole dinanzi al giudice penale e, di conseguenza, il dichiarato interesse ad ottenere il rinvio dinanzi al giudice penale invece che dinanzi al giudice civile, il quale certamente non può prosciogliere l'imputato ex art. 129, comma secondo, c.p.p.

In altri termini, la sussistenza di un interesse concreto dell'imputato a un nuovo giudizio in sede penale, pur in presenza di una causa estintiva del reato, va verificata con riferimento alla prospettazione contenuta nell'atto di impugnazione degli specifici effetti favorevoli che lo stesso imputato si ripromette di ottenere e valutando se l'accoglimento dell'impugnazione possa effettivamente comportare la situazione di vantaggio perseguita.

Tale lettura interpretativa si pone certamente nel solco tracciato dalla citata sentenza delle Sezioni unite Sciortino, che - come si è già detto - ha individuato la ratio dell'art. 622 c.p.p. nella volontà di escludere la perdurante attrazione delle pretese civili nel processo penale, una volta che siano definitive le statuizioni di carattere penale, tra le quali rientrano anche quelle che dichiarano l'estinzione del reato per prescrizione.

Infatti, è proprio la sentenza Sciortino a sottolineare come ad analoghe conclusioni debba giungersi anche considerando le aspettative dell'imputato, per cui "il perseguimento dell'interesse a un pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, può ben essere assicurato dall'opzione di rinuncia alla prescrizione (art. 157, comma settimo, c.p.) o all'amnistia (ex Corte cost., sent. n. 175 del 1971)" (così in motivazione la sentenza Sciortino - par. 11).

5. Nella stessa ottica si è collocata la giurisprudenza (che - come si dirà approfonditamente più avanti - ha trovato conferma nella recente sentenza delle Sezioni unite n. 22065 del 28 gennaio 2021, Cremonini, Rv. 281228) secondo la quale, in caso di annullamento con rinvio, per vizio di motivazione, della sentenza di appello che abbia dichiarato la prescrizione del reato con affermazione della responsabilità dell'imputato ai soli effetti civili, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., in favore del giudice civile competente per valore in grado di appello (Sez. 5, Sentenza n. 28848 del 21 settembre 2020, Rv. 279599; Sez. 5, Sentenza n. 26217 del 13 luglio 2020, Rv. 279598; in senso conforme, n. 34878 del 2017, Rv. 271065; n. 594 del 2012, Rv. 252665; n. 26299 del 2009, Rv. 244533; n. 14822 del 2020, Rv. 278943; n. 15015 del 2012, Rv. 252487; n. 13869 del 2020, Rv. 278761; n. 9399 del 2007, Rv. 235843; n. 45786 del 2016, Rv. 268517; n. 14450 del 2009, Rv. 244002; n. 29627 del 2016, Rv. 267844; n. 32577 del 2010, Rv. 247973).

Si è condivisibilmente osservato che le diverse declinazioni, sostanziali e processuali, delle regole che presidiano l'accertamento della responsabilità civile da reato in ciascuna delle due sedi, penale e civile, non consentono di individuare agevolmente un regime deteriore per l'una o l'altra parte, sì da attribuire con certezza patenti di maggiore garanzia e da giustificare il superamento del chiaro tenore letterale dell'art. 622 c.p.p., con conseguente rinvio al giudice penale per il prosieguo esclusivamente civilistico di una vicenda definitivamente esauritasi sotto il profilo penale (così in motivazione la citata Sez. 5, n. 28848 del 21 settembre 2020, Rv. 279599).

In tale prospettiva, può sostenersi che l'art. 622 c.p.p. comporti la necessità di investire il giudice civile delle questioni relative alle istanze risarcitorie, non solo per le determinazioni del quantum debeatur in presenza di pronunzia consolidata sull'an, ma anche quando tale ultima pronunzia manchi, perché non vi sia stata la possibilità di decidere sull'an della responsabilità in sede penale in quanto è prevalsa una causa estintiva del reato. D'altronde, è incontroverso che i principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni unite Sciortino, in relazione alla pronuncia del giudice di appello che aveva dichiarato la estinzione del reato per prescrizione senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, siano estensibili al caso della prescrizione dichiarata in sede dl legittimità, ove siano rilevabili nella sentenza di appello vizi di motivazione (Sez. 4, n. 13869 del 5 febbraio 2020, Rv. 278761; Sez. 1, n. 14822 del 20 febbraio 2020, Rv. 278943).

La ratio di tale assunto è inquadrabile nell'ermeneusi secondo la quale, ove non vi sia più spazio per il giudice penale, stante lo scontato esito definitorio di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, non può essere adottata altra soluzione, ai fini delle determinazioni sulle statuizioni civili, se non quella del rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, non avendo più ragione d'essere la speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile (così in motivazione la citata Sez. 1, n. 14822 del 20 febbraio 2020, Rv. 278943).

6. La recente sentenza Sezioni unite n. 22065 del 28 gennaio 2021, Cremonini, ha suggellato il suindicato orientamento interpretativo, significativamente sottolineando come la «opzione in favore dell'una o dell'altra soluzione involge, all'evidenza, scelte di sistema attinenti ai rapporti tra azione civile ed azione penale nell'attuale assetto codicistico, ispirato al favor separationis e, al contempo, comporta ricadute immediate sull'ampiezza della tutela riconosciuta all'imputato ed alla parte civile, attese le diverse forme del giudizio di rinvio - a seconda che esso sia disposto in favore del giudice civile ovvero del giudice penale - e le relative regole probatorie» (così in motivazione - par. 4.1).

Il principio di diritto affermato è il seguente: «In ogni caso in cui il giudice di appello abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia), senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, a seguito di ricorso per cassazione proposto dall'imputato, ritenuto fondato dalla corte di cassazione, deve essere disposto l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 c.p.p.».

6.1. È stato evidenziato come l'assetto generale del nuovo processo penale sia ispirato all'idea della tendenziale separazione dei giudizi, penale e civile, «essendo prevalente, nel disegno del codice, l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all'interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione in tale sede» (par. 4.1).

Si è inoltre sottolineato come il fulcro del sistema sia imperniato sull'art. 538 c.p.p.: «il giudice penale decide sulla domanda per le restituzioni ed il risarcimento solo se pronuncia condanna dell'imputato, soggetto debitore quanto alle obbligazioni civili (neppure quando emette sentenza di assoluzione dell'imputato, in quanto non imputabile per vizio totale di mente, può pronunciarsi sulle pretese risarcitorie della parte civile). Alla regola generale dell'art. 538 c.p.p. il codice prevede la deroga con l'art. 578 c.p.p., secondo il quale nel caso in cui il giudice dell'impugnazione perviene ad una pronuncia dichiarativa di estinzione del reato per amnistia o prescrizione, nondimeno decide sull'impugnazione, ai soli effetti dei capi e delle disposizioni della sentenza che concernono gli interessi civili, quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata, con la sentenza impugnata, la condanna anche generica alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato a favore della parte civile. È coerente sviluppo del portato dell'art. 538, invece, il disposto dell'art. 576 c.p.p., che riconosce il diritto della parte civile ad una decisione incondizionata sul merito della propria domanda. Le due norme citate disciplinano due situazioni diverse: l'art. 578 mantiene, pur in assenza della impugnazione della parte civile, nonostante la declaratoria di estinzione del reato, la cognizione del giudice penale sulle disposizioni della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili; l'art. 576 conferisce al giudice investito della impugnazione della parte civile il potere di decidere sulla domanda di risarcimento, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto [...]. Da quanto esposto, discendono, quindi, alcune importanti conseguenze: da un lato, l'accessorietà dell'azione civile al processo penale; dall'altro, la tassatività delle eccezioni a questa regola generale contenuta negli artt. 576 e 578 c.p.p., che prevedono specifiche ipotesi in cui è conservato lo spazio decisorio del giudice penale, nonché nell'art. 3 c.p.p., con specifico riferimento alle questioni pregiudiziali» (parr. 4.1 e 5).

6.2. Nell'ulteriore ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in materia, le Sezioni unite Cremonini hanno ribadito quanto già in passato affermato nella sentenza Sez. un., n. 306 del 30 novembre 1974, Buzzi, Rv. 128995 (che, intervenuta a suo tempo in ordine all'applicabilità dell'art. 541 c.p.p. del 1930, antecedente della vigente norma, risolse il contrasto in ordine alla individuazione del giudice del rinvio in caso di accoglimento da parte della Corte di cassazione del ricorso proposto dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, ampliando l'ambito di applicazione del citato art. 541 c.p.p.), ovvero che, ove nulla vi sia da accertare agli effetti penali, ulteriori interventi del giudice penale sarebbero non giustificati.

Significativamente, però, si è fatto anche specifico riferimento alle Sezioni unite Tettamanti e Sciortino.

«La citata sentenza Tettamanti, infatti, ampiamente richiamata nella motivazione della sentenza Sciortino, nel chiarire il rapporto tra il principio di economia processuale e la tutela dell'innocenza dell'imputato, esclude che la disciplina dell'art. 622 c.p.p. - che, come si è visto, non lede la posizione del danneggiato - si possa risolvere in un pregiudizio per l'imputato.

La linea argomentativa della sentenza Tettamanti si sviluppa sul duplice piano della economia processuale e del diritto alla prova dell'imputato; diritto che, in ipotesi di prescrizione, trova il giusto bilanciamento appunto nella rinuncia alla causa estintiva (rinuncia, da ritenersi anch'essa vero e proprio "diritto", come precisato nella sentenza Tettamanti).

La decisione, dopo aver ribadito il principio che, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (già, in questo senso, Sez. un., n. 1021/2002 del 28 novembre 2001, Cremonese, Rv. 220511), opera il bilanciamento tra le diverse esigenze processuali in ragione della presenza della parte civile e dell'accertamento che questa presenza comporta nel processo penale.

In tale ultimo caso, la disposizione di cui al secondo comma dell'art. 129 c.p.p. - a termine della quale, in presenza di una causa estintiva del reato, l'assoluzione nel merito prevale solo nel caso in cui risulti evidente l'innocenza dell'imputato - deve coordinarsi con la presenza della parte civile e con pronuncia di una condanna in primo grado. Il giudice dell'appello, infatti, nel prendere atto di una causa estintiva del reato verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado, è tenuto a pronunciarsi, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., sull'azione civile: deve quindi necessariamente compiere una valutazione approfondita dell'acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di estinzione del reato, quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi.

In presenza di amnistia o prescrizione, pertanto, la valutazione approfondita a fini civilistici, che porti all'esclusione della responsabilità penale anche per l'insufficienza della valutazione del compendio probatorio, esplica i suoi effetti sulla decisione penale, con la conseguenza che deve essere pronunciata in tal caso la formula assolutoria ed il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova.

Il principio di economia processuale non opera, oltre che nei casi sinora illustrati, nell'ipotesi di rinuncia alla prescrizione.

Sotto tale ultimo profilo, una risposta positiva ed inequivocabile, circa la compatibilità di tale diritto con l'indirizzo interpretativo che queste Sezioni unite ritengono condivisibile, è riscontrabile nella decisione della Corte costituzionale n. 275 del 1990 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 157 c.p., per contrasto con gli artt. 3, comma 1, e 24, comma 2, Cost., nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere oggetto di rinuncia da parte dell'imputato, valorizzando il carattere inviolabile del diritto di difesa, inteso come diritto al giudizio e, con esso, alla prova.

Ne deriva che il sistema così come ricostruito non pregiudica in alcun modo la posizione dell'imputato, mentre l'estensione dello statuto di garanzia dell'imputato stesso al di fuori del processo penale, come vorrebbe l'indirizzo qui disatteso, finirebbe, come si è visto, con il contrastare con i principi fondanti il codice di rito, in particolare con quelli su cui sopra ci si è soffermati dell'accessorietà e della separatezza dell'azione civile.

E ancora una volta assume aspetto "predittivo" l'affermazione contenuta nella sentenza Sciortino secondo la quale «ammettere una riapertura del tema penale solo per effetto della incidenza che su di esso potrebbe in via di mera ipotesi determinare la rivisitazione dell'accertamento sulla responsabilità civile equivarrebbe a stravolgere finalità e meccanismi decisori della giustizia penale in dipendenza da interessi civilistici ancora sub iudice, che devono invece essere isolati e portati all'esame del giudice naturalmente competente ad esaminarli» (par. 10.2).

6.3. Nella sentenza Cremonini v'è anche una dettagliata analisi dei principi affermati in materia nelle pronunzie della Corte costituzionale (parr. 9 e 11), antecedenti alla più recente pronunzia n. 182 del 7-30 luglio 2021, di cui si parlerà in seguito (infra par. 7).

«Il primo è che l'inserimento dell'azione civile esercitata nel processo penale, in ragione del suo carattere accessorio e subordinato rispetto all'azione penale, subisce tutte le conseguenze derivanti dalla funzione e struttura del processo penale. Tale subordinazione si realizza, fra l'altro, con la prevalenza data dal legislatore, nell'interesse pubblico e dell'imputato, all'esigenza di una rapida conclusione del processo penale (v. Corte cost., sentenze n. 443 del 26 settembre 1990, n. 217 del 2009; ordinanze n. 424 del 1998 e n. 185 del 1994).

E proprio il diverso rilievo degli interessi di cui sono portatori l'imputato e la parte civile ha fatto ritenere costituzionalmente legittime le differenze di trattamento nel processo penale, non potendosi scorgere alcun profilo di irrazionalità, stante la preminenza delle predette esigenze rispetto a quelle collegate alle risoluzioni delle liti civili (ordinanza n. 115 del 1992) e considerato che si discute di condizionamenti giustificati dal fatto che oggetto dell'azione penale è l'accertamento della responsabilità dell'imputato (sentenza n. 532 del 1995).

In secondo luogo, nella giurisprudenza costituzionale è reiterato il rilievo che l'assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all'idea di separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale rispetto all'interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo (sentenza n. 168 del 2006; in senso analogo, sentenza n. 23 del 2015).

La ragionevolezza di siffatta scelta legislativa si lega ad un sistema processuale, qual è quello vigente, che ha fatto cadere la regola - stabilita dal codice di procedura penale abrogato - della sospensione obbligatoria del processo civile in pendenza del processo penale sul medesimo fatto, sicché non vi sono ostacoli processuali o condizionamenti alla attivazione della pretesa risarcitoria nella sede propria. Si è aggiunto, da parte della Corte costituzionale, che l'eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, perché resta intatta la possibilità di esercitare l'azione di risarcimento del danno nella sede civile: di modo che ogni separazione dell'azione civile dall'ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale, giacché la configurazione di quest'ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore (sentenze n. 168 del 2006, n. 433 del 1997 e n. 192 del 1991; ordinanza n. 124 del 1999).

La Corte costituzionale ha affermato principi di rilievo in ordine alla configurazione dell'azione civile esercitata nel processo penale nel codice di rito del 1988 e, quindi, ai fini della soluzione della questione qui controversa, con le due sentenze n. 12 del 2016 e n. 176 del 2019.

In particolare, il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 12 del 2016, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 538 c.p.p. nella parte in cui non consente al giudice di decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, quando pronuncia sentenza di assoluzione dell'imputato in quanto non imputabile per vizio totale di mente, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. [...].

Con la sentenza n. 176 del 2019, la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondate alcune questioni di legittimità costituzionale dell'art. 576 c.p.p., sollevate in riferimento agli artt. 3 e 111, comma secondo, Cost., ha ribadito che nel processo penale l'azione civile assume carattere accessorio e subordinato rispetto all'azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze di interesse pubblico, connesse all'accertamento dei reati ed alla rapida definizione dei processi [...].

Nell'affrontare il profilo del giudizio di rinvio, la Corte costituzionale qualifica l'art. 622 come "deviazione dal paradigma", che trova giustificazione nella particolarità della fase processuale collocata all'esito del giudizio di cassazione, dopo i gradi (o l'unico grado) di merito, senza che da ciò possa desumersi l'esigenza di un più ampio ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile che abbia sin dall'inizio optato per la giurisdizione penale.

Tale ultimo passaggio è significativo sotto due profili: il giudizio di rinvio si delinea, per volontà del legislatore, quale fase del tutto particolare della vicenda processuale, regolata da criteri diversi rispetto a quelli dettati dallo stesso legislatore per le altre fasi processuali; l'affermazione, per quanto estranea alla ratio decidendi della pronuncia, è in ogni caso preclusiva di un eventuale incidente di costituzionalità dell'art. 622 c.p.p.».

7. La sentenza Cremonini, emessa in data 28 gennaio 2021, non ha potuto tener conto dei principi affermati dalla più recente sentenza della Corte costituzionale n. 182, depositata in data 30 luglio 2021.

Ritiene il Collegio che anche tale pronunzia consenta di supportare con ulteriori argomenti la tesi interpretativa che si sostiene nella presente decisione.

Invero, fatta salva l'esigenza di approfondire in altra occasione gli esiti ricostruttivi della sentenza n. 182 e del significato extraprocessuale che si è ritenuto di assegnare al principio di "presunzione di innocenza" (che trova il suo parametro convenzionale nell'art. 6, par. 2, CEDU, secondo cui "ogni persona accusata di un reato si presume innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata"), alla stregua della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Corte EDU, grande camera, sentenza 12 luglio 2013, Allen c. Regno Unito; sentenza 20 ottobre 2020, Pasquini c. San Marino; e sentenza 10 ottobre 2020, Papageorgiou c. Grecia), vanno sottolineati alcuni passaggi argomentativi che si rinvengono nella suddetta pronunzia e, in particolare, la netta riaffermazione (tra le precedenti pronunzie si vedano Corte cost. n. 176 del 2019, n. 12 del 2016 e n. 217 del 2009) del principio di autonomia e separazione nelle relazioni tra processo civile e processo penale, come risultante dal codice in vigore a differenza del sistema delineato nel codice del 1930 (ove l'assetto delle relazioni tra processo civile e processo penale era improntato ai principi di unitarietà della funzione giurisdizionale e di preminenza della giurisdizione penale).

Argomenta la Corte che, mentre in primo grado la condanna penale costituisce il presupposto indispensabile perché il giudice possa provvedere sulla domanda restitutoria o risarcitoria, nei gradi di impugnazione questa stessa regola «deflette a tutela del diritto di azione della parte civile», in virtù di «norme particolari che attribuiscono al giudice del gravame o al giudice del rinvio in seguito a cassazione, il potere-dovere di provvedere sulla domanda civile, pur in presenza di una pronuncia di proscioglimento e quindi in assenza dell'accertamento della responsabilità penale».

In effetti, con queste disposizioni il legislatore «ha voluto evitare che cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti, possano frustrare il diritto al risarcimento e alla restituzione in favore della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di condanna, oggetto di impugnazione; finalità questa che si coniuga alla necessità di salvaguardare evidenti esigenze di economia processuale e di non dispersione dell'attività di giurisdizione».

Tuttavia, secondo la Corte costituzionale, occorre distinguere tra quanto è disposto dall'art. 578 e quanto previsto dall'art. 578-bis c.p.p., entrambi riferiti alla sopravvenienza di una causa estintiva del reato, ma relativo l'uno alla decisione sull'azione civile, l'altro alla decisione sulla confisca.

In quest'ultimo caso, il giudice, anche in presenza di una causa estintiva del reato, è tenuto comunque a verificare la responsabilità personale dell'imputato, sebbene sia sufficiente che tale giudizio risulti nella "sostanza dall'accertamento" contenuto nella motivazione della sentenza, non essendo necessario che assuma, in dispositivo, la "forma della pronuncia" di condanna.

L'art. 578 c.p.p., invece, dispone che, nel conoscere della domanda civile, il giudice penale non deve minimamente «verificare se sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell'illecito aquiliano (art. 2043 cod. civile)».

In altri termini, «la mancanza di un accertamento incidentale della responsabilità penale in ordine al reato estinto per prescrizione non preclude la possibilità per il danneggiato di ottenere l'accertamento giudiziale del suo diritto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, la cui tutela deve essere assicurata, nella valutazione sistemica e bilanciata dei valori di rilevanza costituzionale al pari di quella, per l'imputato, derivante dalla presunzione di innocenza».

Insomma, è pur vero che l'illecito civile si fonda «sull'elemento materiale e psicologico del reato», ma «risponde a diverse finalità e richiama un diverso regime probatorio», come emerge «riguardo sia al nesso causale, sia all'elemento soggettivo dell'illecito».

In particolare, il giudice di appello, nel pronunciare la sentenza di non doversi procedere per sopravvenuta amnistia o prescrizione, «non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all'evento in base alla regola dell'alto grado di probabilità logica». Invece, trattandosi di illecito civile, il giudice deve attenersi al «criterio del "più probabile che non" o della "probabilità prevalente" che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell'ipotesi contraria (in tal senso è la giurisprudenza a partire da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 11 gennaio 2008, n. 576, n. 581, n. 582 e n. 584)».

L'autonomia dell'accertamento dell'illecito civile - argomenta ancora la Corte costituzionale - «non è revocata in dubbio dalla circostanza che esso si svolga dinanzi al giudice penale e sia condotto applicando le regole processuali e probatorie del processo penale (art. 573 c.p.p.)». L'applicazione dello statuto della prova penale «è pieno e concerne sia i mezzi di prova (sarà così ammissibile e utilizzabile, ad esempio, la testimonianza della persona offesa che nel processo civile sarebbe interdetta dall'art. 246 c.p.c.), sia le modalità di assunzione della prova (le prove costituende saranno così assunte per cross examination ex art. 499 c.p.p. e non per interrogatorio diretto del giudice), le quali ricalcheranno pedissequamente quelle da osservare nell'accertamento della responsabilità penale: ove ne ricorrano i presupposti, dunque, il giudice dell'appello penale, rilevata l'estinzione del reato, potrà - o talora dovrà (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 gennaio-4 giugno 2021, n. 22065) - procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale al fine di decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili (art. 603, comma 3-bis, c.p.p.)».

In definitiva - conclude la Corte costituzionale, dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 578 c.p.p. - «la regola dell'accessorietà dell'azione civile (che comporta il sacrificio dell'interesse della parte civile)», valida nel primo grado di giudizio, «non trova applicazione allorché la dichiarazione di non doversi procedere dipenda dalla sopravvenienza di una causa estintiva del reato riconducibile a prescrizione o ad amnistia, nel qual caso prevale l'interesse della parte civile a conservare le utilità ottenute nel corso del processo, che continua dinanzi allo stesso giudice penale, sebbene sia mutato l'ambito della cognizione richiestagli, che va circoscritta alla responsabilità civile»; sulla base, quindi, di un «accertamento che impinge unicamente sugli elementi costitutivi dell'illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità dell'imputato per il reato estinto».

Orbene, la pronunzia della Corte costituzionale finisce per dare preponderante rilievo all'interesse della parte civile a conservare le utilità ottenute nel corso del processo, mentre non considera il caso - come quello in esame - nel quale è indiscusso che il rinvio al giudice penale non sia destinato a realizzare un favor per l'imputato, giacché non vi sono le condizioni per un proscioglimento pieno che prevalga sulla declaratoria di estinzione del reato.

Di certo, l'approdo dell'interpretazione logico-sistematica della norma processuale di cui all'art. 578 c.p.p. cui giunge la sentenza n. 182/2021, onde evitare la violazione del principio di "presunzione di innocenza", in conformità alla richiamata giurisprudenza della Corte di Strasburgo e alla norma convenzionale dell'art. 6, par. 2, CEDU, attribuisce al giudice penale dell'impugnazione (dinanzi al quale la suddetta norma processuale prevede che prosegua il giudizio sull'accertamento dell'obbligazione risarcitoria) un netto mutamento dell'ambito della cognizione richiestagli, che «va appunto circoscritta alla responsabilità civile, sulla base di un accertamento che impinge unicamente sugli elementi costitutivi dell'illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità dell'imputato per il reato estinto».

Vengono allora ancora una volta in rilievo i principi affermati dalle sentenze delle Sezioni unite Sciortino e Cremonini, che - come si è visto - hanno sottolineato come, una volta rilevata e dichiarata l'estinzione del reato per prescrizione, non possa residuare alcuno spazio per ulteriori pronunce del giudice penale e non abbia più ragion d'essere la speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile, venendo meno quell'interesse penalistico alla vicenda che giustifica il permanere delle questioni in sede penale.

8. A sostegno della tesi ermeneutica qui propugnata, non senza rilievo è la scelta del legislatore della riforma "Cartabia", che è intervenuto anche sulla disciplina di cui all'art. 578 c.p.p., del quale ha modificato la rubrica, aggiungendo un comma 1-bis, che dispone in tal senso: «quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l'azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell'articolo 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale».

Insomma, il legislatore della riforma fa una scelta netta sull'inutilità di prosecuzione del processo dinanzi al giudice penale se residua la sola possibilità di accertamento della responsabilità civile; viene ancora una volta privilegiata l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all'interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione in tale sede.

Peraltro, a fronte di disposizioni immediatamente vigenti, l'art. 1, tredicesimo comma, lett. d), della legge di riforma attribuisce al governo una delega destinata a regolamentare proprio i rapporti tra l'improcedibilità dell'azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione e l'azione civile esercitata nel processo penale, nonché i rapporti tra la medesima improcedibilità dell'azione penale e la confisca disposta con la sentenza impugnata, adeguando conseguentemente la disciplina delle impugnazioni per i soli interessi civili e assicurando una regolamentazione coerente della materia.

Non ignora questo Collegio che la dottrina, in alcuni primi commenti sulla nuova disciplina prevista dall'art. 578 c.p.p., ha affermato che il vero problema sia rappresentato proprio dalle prospettive affrontate dalla citata Corte costituzionale n. 182 del 2021. Si è infatti rilevato che la possibilità di riesaminare i medesimi fatti oggetto dell'originaria imputazione in un distinto processo civile, quando il processo penale si sia concluso con pronuncia non vincolante per il danneggiato (ossia non solo quando quest'ultimo abbia scelto di intraprendere un'autonoma azione civile ma anche, ad esempio, nelle ipotesi di sentenza di proscioglimento per prescrizione), ha riguardo essenzialmente al tema dell'unitarietà o non della giurisdizione e, in definitiva, al modo - che parrebbe appartenere all'area dell'apprezzamento discrezionale dello Stato - in cui vengono configurati i rimedi dell'ordinamento destinati a reprimere gli illeciti e a consentire ai danneggiati di ottenere un ristoro del pregiudizio sofferto.

V'è l'esigenza indubbiamente di rivalutare la tenuta costituzionale e convenzionale della nuova norma, ma - allo stato - il tenore dell'art. 578, comma 1-bis, c.p.p. consente di affermare che la scelta del legislatore abbia fatto pienamente riespandere il principio di accessorietà dell'azione civile rispetto all'azione penale, dovendo considerarsi che, nel caso dell'improcedibilità, diversamente dall'ipotesi di estinzione del reato, è impedita qualsiasi indagine di merito, prevalendo essa su ogni formula assolutoria.

9. Residua l'analisi della questione se l'interpretazione qui sostenuta sia in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo e possa porsi in conflitto con le norme sovranazionali, in particolare con le direttive dell'Unione europea in tema di protezione della vittima del reato.

Ancora una volta si può fare riferimento all'analisi fatta già sul punto dalla sentenza Sezioni unite Cremonini (si vedano, in particolare, i parr. 13 e 14), nella quale in primo luogo si è evidenziato come la Corte costituzionale, nella sentenza n. 12 del 2016 e nelle sentenze n. 23 del 2015 e nn. 63 e 56 del 2009, nonché in quella n. 148 del 2005, abbia rilevato che «alla luce dello stesso richiamo al connotato di ragionevolezza, che compare nella formula costituzionale, possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza».

La direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, nell'istituire norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime del reato, all'art. 16, par. 1, precisa che l'obbligo degli Stati membri di garantire alla vittima il diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell'autore del reato, nell'ambito del procedimento penale, entro un ragionevole lasso di tempo, risulta subordinato alla condizione che il diritto nazionale non preveda che tale decisione sia adottata nell'ambito di un procedimento giudiziario: ciò che, per l'appunto, è previsto nell'ordinamento nazionale vigente.

«Questo implica, tra l'altro, che il procedimento entro cui si inserisce l'azione civile sia concluso entro un termine ragionevole (v. Corte EDU, Sez. 5, 17 marzo 2020, Vasilea c. Bulgaria), tra parti ("attore e convenuto" anziché "imputato e parte civile") in posizione di parità tra loro. E ciò, laddove si riesca a perseguire anche il risultato del rispetto della ragionevole durata, viene senz'altro a soddisfare le esigenze del giusto processo tratteggiate nell'art. 111 Cost., anche con riferimento al processo civile (v., in particolare, i commi 1 e 2).

Nel caso di specie, sebbene la preclusione della decisione in sede penale sulle questioni civili comporti il differimento dei tempi della pronunzia definitiva sulla domanda risarcitoria, onerando la persona offesa dal reato ad instaurare un autonomo giudizio civile, si deve ribadire che l'azione civile esercitata nel processo penale ha carattere accessorio e subordinato, sicché diventa prevalente l'interesse pubblico alla sollecita definizione del processo penale, nel quale non sono adottabili altri provvedimenti (ai fini penali), inibiti dalla declaratoria di estinzione del reato» (così in motivazione la sentenza Cremonini).

In proposito va anche rilevato come nella citata sentenza Cremonini si è ritenuta la sostenuta lettura interpretativa dell'art. 622 c.p.p. «più in linea con le garanzie dell'equo processo stabilite dall'art. 6 CEDU e dell'art. 16 della direttiva 25 ottobre 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di protezione delle vittime del reato, giacché l'applicazione delle regole del processo penale non si giustifica quando residuino solo interessi civili, venendo tale interpretazione a pregiudicare il diritto al risarcimento del danno e la funzione della responsabilità civile alla cui base stanno istanze di solidarietà sociale, che rinviano alla costruzione di un illecito civile, valutabile sulla base di diversi canoni probatori e giudicabile nell'ambito di un sistema giudiziario efficace ed indipendente (v. Corte EDU, Sez. 1, 28 marzo 2020, Barletta e Farnetano c. Italia). La soluzione interpretativa sopra indicata è, pertanto, perfettamente conforme con la giurisprudenza della Corte EDU dalla quale emerge che, in linea di principio, è tutt'altro che incompatibile con il canone convenzionale l'accertamento affidato alla duplice giurisdizione nazionale - civile e penale - che, per un verso, proclami l'assenza di responsabilità penale e, per l'altro, statuisca la condanna risarcitoria».

D'altronde, rileva ancora la sentenza Cremonini, «neanche la giurisprudenza elaborata dalla Corte EDU, come evidenziato dalla citata sentenza Schirru, «lascia ipotizzare scenari che chiamino in causa la violazione dell'art. 117 Cost. quale parametro interposto, dovendosi considerare che, sebbene l'art. 6, par. 1, della Convenzione sia stato interpretato reiteratamente come fonte di "un diritto di carattere civile" della vittima del reato a vedersi riconosciuta la possibilità di intervenire nel processo penale per difendere i propri interessi tramite la costituzione di parte civile (cfr., fra le molte, Corte EDU, 20 marzo 2009, Gorou c. Grecia), tuttavia, con riferimento al caso della mancata valutazione della domanda della parte civile per essersi il processo penale chiuso con provvedimento diverso dalla condanna dell'imputato, la Corte EDU non ha individuato violazione di un diritto di accesso ad un tribunale: violazione che, invece, viene ritenuta ravvisabile solo quando la vittima del reato non disponga di rimedi alternativi, concreti ed efficaci per far valere le sue pretese (Corte EDU, Sez. 3, 26 giugno 2013, Associazione vittime del sistema S.C. Ronnpetro S.A. e S.C. Geonnin S.A. e altri contro Romania)». E, nel caso in esame, come sopra indicato, l'ordinamento italiano prevede la possibilità di rivolgersi al giudice civile [...]. Nella stessa prospettiva si pone anche la più recente giurisprudenza della Corte EDU. Emblematica sul punto è la sentenza della Corte EDU, Sez. 1, 10 novembre 2020, Papageorgiou c. Grecia, secondo cui la decisione assolutoria (nella specie, per il reato di guida in stato di ebbrezza) non può automaticamente esonerare il ricorrente da ogni forma di responsabilità civile, posto che il rispetto della decisione assolutoria non preclude l'accertamento della responsabilità civile derivante dagli stessi fatti, valutata in base ad un onere probatorio meno stringente. Alla luce di tale principio il ricorso per cassazione proposto dalla parte avverso la condanna risarcitoria in sede civile, basato sulla violazione della presunzione di innocenza, è stato rigettato, in quanto è stato ritenuto che l'art. 6, comma 2, della CEDU non abbia rilievo nel caso di giudizio civile instaurato a seguito di proscioglimento in sede penale, non essendo il giudice civile vincolato alla decisione assunta in sede penale.

Sotto il profilo della compatibilità della soluzione con la garanzia convenzionale della effettività della tutela dei diritti soggettivi, assicurata anche dalle regole di giudizio e probatorie civilistiche, assume rilievo ai fini della presente decisione anche la sentenza della Corte EDU, Sez. 3, 19 gennaio 2021, Timofeyev e Postupkin c. Russia, relativa all'applicazione di misure di sorveglianza amministrative disposte dal giudice civile successivamente all'esecuzione della pena inflitta per gravi reati, anch'esse soggette alle garanzie di cui all'art. 6, comma 1 (durata ragionevole, giudice imparziale, pubblicità della udienza, contraddittorio inteso come parità delle armi)».

10. Conclusivamente può affermarsi che nel giudizio di cassazione, qualora risulti che la sentenza di appello abbia illegittimamente dichiarato l'inammissibilità dell'impugnazione avverso la condanna di primo grado e si proceda contestualmente anche agli effetti civili, la Corte può immediatamente dichiarare l'estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione, ove sia esclusa, per mancata allegazione da parte dell'imputato di un concreto ed attuale interesse, la possibilità di un più favorevole proscioglimento per ragioni di merito ex art. 129, comma secondo, c.p.p., con conseguente rinvio dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello, essendo venuta meno la ragione stessa dell'attrazione dell'illecito civile nell'ambito della competenza del giudice penale.

Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere, in primo luogo, annullata senza rinvio, limitatamente alla ingiuria, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

La stessa sentenza deve essere altresì annullata senza rinvio agli effetti penali, per essere gli ulteriori reati estinti per prescrizione e, in ordine a tali ultimi reati, va disposto il rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla ingiuria, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Annulla altresì la stessa sentenza senza rinvio agli effetti penali, per essere gli ulteriori reati estinti per prescrizione e, in ordine a tali ultimi reati, rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Depositata il 26 novembre 2021.