Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 15 novembre 2021, n. 7591
Presidente: Simonetti - Estensore: Maggio
FATTO E DIRITTO
Con l'odierno ricorso la sig.ra Sara T. ha chiesto, sensi dell'art. 395, comma 1, n. 3, del c.p.c., la revocazione della sentenza di questa Sezione 16 dicembre 2019, n. 8505, con la quale era stato respinto l'appello dalla medesima interposto contro la sentenza del T.A.R. Abruzzo n. 395 del 2018.
Nello specifico la ricorrente ha sostenuto di aver appreso, dopo la pubblicazione della sentenza, di una decisione del Commissario regionale degli usi civici dell'Abruzzo e della relazione peritale sulla quale la stessa si fonda, dalle quali risulterebbe come l'area identificata in catasto al foglio 69, mappale 17, del comune di Carsoli, in relazione alla quale ella aveva presentato richiesta di concessione demaniale, sarebbe appartenuta in comproprietà al padre del suo dante causa.
Il dato avrebbe trovato, poi, conferma negli accertamenti svolti presso gli uffici del catasto.
Anche l'intimato comune avrebbe esplicitamente riconosciuto il suo diritto sul bene come si ricaverebbe dal verbale della Polizia municipale in data 27 maggio 2020, nel quale si afferma che "la Corte Comune in Piazza della Libertà è stata occupata con gazebo adiacente attività commerciale".
La ricorrente puntualizza di essersi trovata nell'impossibilità oggettiva di disporre della suddetta documentazione, a suo dire, decisiva, in quanto relativa a un giudizio di cui non era parte.
Da ciò conseguirebbe che la sentenza di questa Sezione 8505/2019 dovrebbe essere revocata in quanto l'odierna istante sarebbe stata in possesso di un titolo idoneo all'utilizzo dell'area di che trattasi.
Per resistere al ricorso si è costituita in giudizio l'amministrazione intimata.
Le parti hanno successivamente depositato memorie di replica.
Alla pubblica udienza del 4 novembre 2021 la causa è passata in decisione.
Il ricorso va dichiarato inammissibile.
Sotto un primo profilo occorre osservare che, ai sensi dell'art. 395, comma 1, n. 3, del c.p.c., i documenti ritrovati, intanto possono assumere rilevanza revocatoria, in quanto siano decisivi ai fini di causa.
Tale evenienza ricorre allorquando i nuovi documenti diano la prova di fatti che, se il giudice avesse potuto conoscere al momento della sua decisione, avrebbero portato a un diverso convincimento; i documenti sopravvenuti, in sostanza, devono essere idonei a procurare una differente decisione (C.d.S., Sez. V, 21 novembre 2018, n. 6575; Sez. IV, 9 settembre 2014, n. 4546; Cass. civ., Sez. II, 28 dicembre 2011, n. 29385).
Per consolidata giurisprudenza, inoltre, il carattere decisivo dev'essere negato quando i documenti non forniscono prova diretta dei fatti di causa, bensì semplici elementi presuntivi (ex plurimis, Cass. civ., Sez. I, 8 aprile 2009, n. 8515; 29 aprile 2004, n. 8202 e 22 luglio 2004, n. 13650) o al più argomenti di prova (C.d.S., Sez. V, 13 luglio 2020, n. 4484 e 20 giugno 2020, n. 4133).
Ne consegue che i documenti sopravvenuti debbono riguardare la prova di elementi concernenti domande ed eccezioni già introdotte in giudizio, mentre non possono essere presi in considerazione, per il generale divieto di ius novorum, ove siano dedotti a fondamento di domande ed eccezioni che non abbiano fatto parte del thema decidendum dibattuto nel giudizio stesso.
Nel caso di specie la natura pubblica dell'area di cui al foglio 69, mappale 17, non è mai stata posta in discussione nel corso del giudizio conclusosi con la sentenza di cui è chiesta la revocazione, dove, infatti, la ricorrente ha sostenuto di aver chiesto la concessione e di averla acquisita per effetto di apposito atto del Consiglio comunale (delibera 26 aprile 2017, n. 17) senza necessità della relativa convenzione.
Solo in sede di revocazione l'odierna istante ha dedotto di essere comproprietaria dell'area (e quindi di non aver titolo per l'utilizzo della stessa), ma tale circostanza è del tutto estranea al thema decidendum perché mai prima introdotta nel processo.
Da qui l'irrilevanza ai fini di causa dei nuovi documenti invocati dalla ricorrente.
Sotto altro profilo va rilevato che, in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale, è inammissibile il ricorso per revocazione proposto a seguito del ritrovamento di nuovi documenti o della scoperta della falsità di quelli già posseduti, se non è indicato il giorno della scoperta, decorrendo da questo il termine per l'impugnazione di cui all'art. 92, comma 2, del c.p.a.
La parte che deduce la sopravvenuta scoperta di documenti decisivi ha, inoltre, l'onere di provare l'impossibilità di produrre in giudizio tale prova per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario.
Al riguardo non è sufficiente un generico accenno al rinvenimento dei documenti dopo la sentenza, ma è necessario indicare quali indagini siano state esperite per il ritrovamento, al fine di consentire la valutazione della diligenza con la quale esse siano state compiute e, quindi, l'accertamento dell'assenza di colpa in cui si concreta il concetto di forza maggiore di cui all'art. 395, comma 1, n. 3, c.p.c. (C.d.S., Sez. VI, 20 marzo 2020, n. 1989; Sez. IV, 7 agosto 2020, n. 4972; 2 luglio 2019, n. 4533 e 30 marzo 2017, n. 1447; Cass. civ., Sez. II, 21 febbraio 2019, n. 5144).
In tale prospettiva, l'odierna istanza di revocazione si rivela inammissibile anche sotto questo secondo profilo, stante la mancata prova della diligenza nel ricercare la nuova documentazione invocata e l'omessa indicazione del preciso giorno della sua scoperta, in quanto, come più sopra anticipato, è da tale momento che decorre il termine tassativo di impugnazione.
Sul punto parte ricorrente obietta, con memoria di replica depositata in giudizio il 14 ottobre 2021, di aver indicato, in ricorso, la data in cui avrebbe appreso di essere comproprietaria dell'area e avrebbe acquisito conoscenza della documentazione invocata.
Il comune eccepisce la tardività della memoria di replica e ne chiede lo stralcio dagli atti di causa.
L'eccezione è fondata.
E invero, ai sensi dell'art. 73, comma 1, del c.p.a. la facoltà di replica discende in via diretta dall'esercizio della correlata facoltà di controparte di depositare memoria difensiva nel termine di trenta giorni prima dell'udienza di merito, con la conseguenza che, ove quest'ultima facoltà non sia stata esercitata, non può consentirsi la produzione di memoria, definita di replica, la quale ha, per l'appunto, come unica funzione, quella di contrastare le difese svolte nella memoria conclusionale avversaria.
La ratio legis di tale disciplina si individua nell'impedire la proliferazione degli atti difensivi, nel garantire la par condicio delle parti, nell'evitare elusioni dei termini per la presentazione delle memorie e, soprattutto, nel contrastare l'espediente processuale della concentrazione delle difese nelle memorie di replica, con la conseguente impossibilità per l'avversario di controdedurre per iscritto (C.d.S., Sez. III, 6 novembre 2019, n. 7584; 18 ottobre 2019, n. 7077; Sez. II, 30 settembre 2019, n. 6534; Sez. IV, 7 settembre 2018, n. 5277).
Non avendo il comune resistente presentato memoria difensiva nei trenta giorni prima dell'udienza di merito, la ricorrente non poteva depositare memoria di replica.
Di quanto con quest'ultima dedotto non può, quindi, tenersi conto.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della parte resistente, liquidandole forfettariamente in complessivi euro 8.000/00 (ottomila), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.