Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 18 ottobre 2021, n. 40538

Presidente: Criscuolo - Estensore: Giordano

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 23 gennaio 2020, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato ha applicato a Simone O. la pena di anni due di reclusione (pena base anni quattro di reclusione; ridotta per le circostanze attenuanti generiche alla pena di anni due e mesi otto di reclusione; aumentata per la continuazione ad anni tre di reclusione, poi ridotta per il rito) e la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per anni uno e mesi uno, in relazione ai reati di cui agli artt. 314 e 640 c.p. commessi tra l'11 dicembre 2017 e l'8 luglio 2018. All'imputato, medico in servizio presso il Reparto di Ostetricia dell'Ospedale di Prato, erano ascritti alcuni episodi di peculato per essersi appropriato di materiale utilizzato per la esecuzione di visite ed esami strumentali eseguendo visite private che gli venivano remunerate con imprecisate somme di denaro e connessi delitti di truffa consistiti nell'allontanarsi dal reparto dove figurava in servizio per eseguire, in altri ambienti ospedalieri, le predette visite.

2. Con i motivi di ricorso il difensore chiede l'annullamento della sentenza impugnata in riferimento alla statuizione sulla pena accessoria in quanto non prevista nell'accordo convenuto tra l'imputato e il pubblico ministero ed applicata con riferimento ad un caso di patteggiamento, con pena finale di anni due di reclusione, che non prevede, a norma dell'art. 445, comma 1, c.p.p. l'applicazione della pena accessoria. Né il giudice avrebbe potuto applicare la previsione, recata dall'art. 445, comma 1-ter, c.p.p. introdotta con la l. n. 3 del 9 gennaio 2019 perché i fatti erano stati commessi in epoca antecedente. In ogni caso la statuizione della pena accessoria è priva di motivazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

Nel presente procedimento si sono succedute più richieste di applicazione pena ma può ritenersi pacifico che il quantum di pena applicata dal giudice (anni due di reclusione) corrisponde inequivocabilmente ad una delle ipotesi sottoposte al giudice delle indagini preliminari; che su tale ipotesi si era certamente perfezionato l'accordo tra le parti; e che l'accordo convenuto non prevedeva l'applicazione della pena accessoria, diversamente da altra richiesta che, invece, prevedeva l'applicazione della pena accessoria (ma con riferimento ad altra pena finale).

In relazione al contenuto dell'accordo convenuto fra le parti, con riferimento al tempus commissi delicti, non era consentita, per espresso disposto normativo, l'applicazione di pene accessorie: l'art. 445, comma 1, c.p.p., vigente all'epoca dei fatti, fissava in due anni di pena detentiva, soli o congiunti a pena pecuniaria, il limite quantitativo di pena in corrispondenza del quale era preclusa l'applicazione di pene accessorie. L'art. 445 c.p.p. era stato interpretato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che in caso di patteggiamento di una pena detentiva superiore ai due anni devono essere necessariamente applicate le pene accessorie obbligatorie per legge (Sez. 6, Sentenza n. 8723 del 6 febbraio 2013, Crudele, Rv. 254689), obbligatorietà che, per il delitto di peculato, discendeva dalla previsione recata dall'art. 317-bis c.p. secondo cui la condanna per detto reato "importa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici" o, la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, l'interdizione temporanea.

È solo con la l. n. 3 del 9 gennaio 2019, successiva ai fatti ed all'accordo di pena convenuto tra le parti ma precedente alla emissione della sentenza impugnata, che è stata aggiunta alla risalente previsione del codice di rito (art. 445, comma 1, c.p.p.) una deroga che ha generalizzato alla sentenza di applicazione di pena, quale che sia la pena irrogata, le disposizioni introdotte, con la medesima legge, dall'art. 445, comma 1-ter, c.p.p. che, per i reati in materia di pubblica amministrazione, fra i quali il peculato (art. 314, comma 1, c.p.), prevede l'applicazione delle pene accessorie di cui all'art. 317-bis c.p., anche questo oggetto di riscrittura (ma che, come anticipato, prevedeva per il delitto di peculato la possibilità di applicazione della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici anche per le pene inferiori a tre anni di reclusione).

La sentenza impugnata, come evidenziato nel ricorso, non contiene alcuna motivazione sulla statuizione relativa alla pena accessoria (pacificamente fuori accordo, come si è detto) ma riveste carattere preliminare ed assorbente rispetto all'annullamento con rinvio per carenza di motivazione - pure reclamato in subordine dal ricorrente - la verifica della legalità della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici inflitta all'imputato tenuto conto del quantum di pena applicata, dell'epoca di commissione dei fatti, del momento di formulazione della richiesta e di quello della decisione.

Il quesito, in estrema sintesi, attiene alla declinabilità, e con quali contenuti, del principio di legalità alla pena accessoria e, in particolare, se possa o meno ritenersi legale l'applicazione della pena accessoria in relazione alla sentenza di applicazione pena non superiore a due anni di reclusione intervenuta nella vigenza della l. n. 3 del 2019 ai fatti commessi in epoca precedente poiché, nel caso di patteggiamento non allargato, l'applicazione della pena accessoria era tout court preclusa dalla legge.

2. L'applicazione del principio di legalità alle pene accessorie è affermata in numerose pronunce di questa Corte. La lettura più approfondita di tali sentenze consente di verificare che le fattispecie esaminate si riferiscono, in effetti, all'applicazione di pene accessorie introdotte da una legge successiva al fatto (in particolare quelle di cui all'art. 4, modificativo della l. 1° ottobre 2012, n. 172, sostitutivo dell'art. 609-nonies c.p., in relazione a fatti commessi prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina, Sez. 3, n. 3214 del 22 ottobre 2014, dep. 2015, A., Rv. 262023).

Più complessa, invece, è la verifica del caso in esame che rinvia alla determinazione e conseguente applicazione del trattamento punitivo sfavorevole in forza di una norma di natura processuale, cioè l'art. 445, comma 1-ter, c.p.p.

3. Ad avviso del Collegio, il principio di legalità della pena e il divieto di retroattività sanciti dall'art. 25, secondo comma, Cost. precludono, a prescindere dal momento in cui la richiesta di definizione del procedimento è stata proposta al giudice, l'applicazione, ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore della l. n. 3 del 9 gennaio 2019, delle disposizioni recate dall'ultima parte dell'art. dell'art. 445, comma 1, c.p.p. («nei casi previsti dal presente comma è fatta salva l'applicazione del comma 1-ter») e dall'art. 445, comma 1-ter, c.p.p., introdotti, rispettivamente, dall'art. 1, comma 4, lett. e), n. 1, l. 9 gennaio 2019, n. 3, e dall'art. 1, comma 4, lett. e), n. 2, stessa legge.

Non è, dunque, consentita, l'applicazione delle pene accessorie, per iniziativa del giudice, nel caso di sentenza di applicazione pena non superiore a due anni di reclusione ai fatti commessi prima del 31 gennaio 2019 (data di entrata in vigore della l. n. 3 del 2019) trattandosi di un trattamento penale sfavorevole all'imputato dal momento che tale applicazione non era consentita dalla disciplina in materia di patteggiamento vigente al momento del fatto.

3.1. Come è noto, dall'art. 25, secondo comma, Cost. discendono pacificamente tanto il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante, quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato. Un divieto, questo, che trova esplicita menzione nell'art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CEDU, nell'art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché nell'art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE).

La portata del divieto di retroattività, anche con riferimento ai suoi omologhi nel diritto sovranazionale, è stata oggetto di esame da parte del Giudice delle leggi con la recente sentenza n. 32 del 2020 che tale divieto ha "sancito" in relazione agli istituti relativi all'esecuzione della pena per i reati in materia di pubblica amministrazione, parimenti introdotti dalla l. n. 3 del 2019, ricostruendone la ratio con argomentazioni che possono estendersi alle regole di diritto processuale idonee, come le disposizioni recate dall'ultima parte dell'art. 445, comma 1, c.p.p. e dall'art. 445, comma 1-ter, c.p.p., ad avere una concreta incidenza sulla commisurazione del trattamento punitivo, aggravandolo.

La ratio del divieto di retroattività discende, secondo l'esegesi compiuta nella sentenza ora richiamata, dalla necessità di garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale. E ciò sia per garantirgli - in linea generale - la «certezza di libere scelte d'azione» (sentenza Corte cost., n. 364 del 1988); sia per consentirgli poi - nell'ipotesi in cui sia instaurato un procedimento penale a suo carico - di compiere scelte difensive, con l'assistenza del proprio avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna.

La descrizione dei referenti sovranazionali del divieto di retroattività, esaminata nella sentenza 32 del 2020, è accompagnata dall'osservazione che il divieto di retroattività opera in definitiva come uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di "Stato di diritto". Un concetto, quest'ultimo, che evoca immediatamente la soggezione dello stesso potere a una "legge" pensata per regolare casi futuri, e destinata a fornire a tutti un trasparente avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potrà comportare.

3.2. Non appare revocabile in dubbio, ad avviso del Collegio, che norme processuali, come quelle che, attraverso le disposizioni recate dall'art. 1, comma 4, lett. e), nn. 1 e 2, l. 9 gennaio 2019, n. 3, hanno riscritto gli effetti dell'applicazione della pena su richiesta attribuendo per la prima volta al giudice, in caso di patteggiamento non allargato, la possibilità di applicazione discrezionale delle pene accessorie, non possiedono una valenza esclusivamente processuale - in quanto volte a stabilire gli effetti della sentenza di applicazione pena ed i correlativi poteri del giudice - trattandosi invece di norme che esplicano effetti sostanziali incidenti direttamente sull'an della pena, attraverso l'articolazione del trattamento punitivo, e sulla sua portata, e che incidono sulla ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si sarebbe trovato esposto l'agente trasgredendo il precetto penale in relazione alle conseguenze che ne derivano. Si tratta, pertanto, di norme processuali ad effetti sostanziali che aggravano il trattamento sanzionatorio, menomando la «certezza di libere scelte d'azione», già al momento della commissione del fatto e sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori a cui l'agente potrebbe andare incontro.

Ritiene il Collegio che i diversi effetti delle scelte premiali connesse al rito sono essi stessi costitutivi della pena inflitta e non si risolvono in mere norme che regolano l'accesso al rito dettando condizioni per la sua azionabilità o in previsioni che operano solo successivamente, nella fase di commisurazione concreta del trattamento punitivo.

L'articolazione delle conclusioni della Corte costituzionale non consente di "marginalizzare" la rilevanza dei principi affermati alla materia dell'esecuzione penale - praticamente rivoluzionata, rispetto al passato - perché offre argomenti significativi e puntuali, sulla portata del divieto di retroattività e sulla prevedibilità del trattamento sanzionatorio, che consentono di superare anche l'obiezione di chi ritiene che alle richieste presentate successivamente alla entrata in vigore della legge dovrebbe applicarsi la nuova disciplina: ciò perché il trattamento sanzionatorio "di partenza", cui riferire la stessa applicazione del principio di cui all'art. 2, comma 4, c.p., non può che essere quello in vigore al momento della richiesta del rito che, in definitiva, cristallizza, in relazione al reato o ai reati per i quali si procede, il trattamento sanzionatorio. È solo lo iato tra la scelta processuale operata e la (successiva e sfavorevole) disciplina sanzionatoria applicata che può vanificare, secondo tale ricostruzione, il legittimo affidamento riposto dall'interessato nello svolgimento del giudizio secondo le regole previste (violando l'art. 6 CEDU) e di precludere la generale retroattività/ultrattività in mitius della legge penale violando altresì l'art. 7 CEDU (cfr. Sez. 1, n. 56730 del 28 novembre 2017, n.m.). Il tema richiama alla mente la nota vicenda Scoppola, esaminata dalla Corte Edu (C. Edu, Scoppola c. Italia, 17 settembre 2009, §§ 106 ss., 112), e la controversa applicabilità dell'art. 7 CEDU alla norma che aveva disciplinato la riduzione di pena in caso di opzione per il rito abbreviato (si trattava dell'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 4 del 2001), ritenendola direttamente incidente sul quantum di pena irrogabile in sede di condanna, nonché le vicende successive, che hanno chiamato in causa, in relazione al giudicato formatosi, il principio di applicazione retroattiva del trattamento in mitius. È in relazione a queste vicende che le Sezioni unite di questa Corte hanno richiamato il principio secondo cui la regola di cui all'art. 2, comma 4, c.p., con riferimento al mutamento di disciplina della pena, in tanto può operare, in quanto la fattispecie complessa (trattamento punitivo più favorevole-norma processuale di accesso al rito) risulti essere stata integrata in tutte le sue componenti durante la vigenza della lex mitior intermedia: in particolare, l'interessato doveva avere chiesto, in tale arco temporale, l'accesso al rito semplificato, evento processuale questo che cristallizza la pena meno severa in quel momento prevista, attribuendole efficacia retroattiva rispetto alla data di consumazione del fatto reato e ultrattiva rispetto al suo superamento ad opera della legge successiva più rigorosa (cfr. Sez. un., n. 34233 del 19 aprile 2012, Giannone, Rv. 252932).

Non è pertanto sufficiente a salvare dal divieto di retroattività in cui incorre, per i fatti commessi prima del 31 gennaio 2019, la norma recata dall'art. 444, comma 3-bis, c.p.p. la circostanza che la norma sia vigente al momento della richiesta di applicazione della pena poiché, come bene evidenziato nella sentenza della Corte costituzionale (che a questo riguardo richiama precedenti risalenti nel tempo) la portata del principio di legalità e il divieto di irretroattività presidiano, in linea generale, non solo il momento della scelta processuale dell'imputato ma il momento della condotta: è in questo momento che l'agente deve avere un quadro completo delle conseguenze alle quali si espone trasgredendo la legge alla quale è soggetto lo stesso potere dello Stato, che non può che regolare i futuri comportamenti illeciti.

È, giustappunto, quanto si è verificato attraverso la "riscrittura" delle regole processuali in materia di applicazione pena "riscrivendo la sintassi" del patteggiamento e sovvertendo regole processuali vigenti al momento del fatto e rispetto alle quali l'agente ha "regolato" la propria condotta, anche scegliendo di commettere un fatto illecito.

Ai fini dell'esame delle disposizioni recate, in sintesi, dagli artt. 445, comma 1, ultima parte, e 445, comma 1-ter, c.p.p., non si tratta solo di valorizzare gli effetti delle scelte del legislatore che elidono uno dei maggiori vantaggi per l'imputato che intenda accedere al patteggiamento non allargato, costituito dalla automatica mancata applicazione delle pene accessorie, ai sensi dell'art. 445, comma 1, c.p.p., ma di ricondurre tali effetti, certamente funzionali sul piano della politica di prevenzione speciale che delle pene accessorie costituisce un aspetto fondante, alla funzione di pena delle misure interdittive, al loro grado di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona e alla loro funzione di "rieducazione del reo" che ne scolpiscono la funzione di pena e che, come si è innanzi precisato, ha già condotto la giurisprudenza di questa Corte a sussumerne l'applicazione nell'ambito del principio di legalità.

Dal ragionamento svolto consegue la illegalità della pena accessoria applicata a Simone O., che va eliminata.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla pena accessoria che elimina.

Depositata il 9 novembre 2021.