Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 27 aprile 2021, n. 25492

Presidente: De Gregorio - Estensore: De Marzo

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 20 gennaio 2020 la Corte d'appello di Trieste, in parziale riforma della decisione di primo grado: a) ha riqualificato il fatto attribuito nel capo A) a Michele M. e Teresa C., ai sensi dell'art. 416, secondo comma, c.p.; b) ha rideterminato la pena irrogata a questi ultimi; c) ha confermato, nel resto, la sentenza del Tribunale che aveva condannato alla pena di giustizia Pasquale M., quale promotore e organizzatore dell'associazione per delinquere di cui al capo A), lo stesso M., nonché Michele M. e la C., in relazione ai delitti di falso ideologico di cui al capo B) e, infine, aveva dichiarato il Comitato A.N.S.I. - Coordinamento provinciale di Roma responsabile dell'illecito amministrativo di cui al capo 1 (art. 24-ter d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231), condannandolo al pagamento della relativa sanzione.

In particolare, il reato di cui al capo A riguarda l'associazione per delinquere finalizzata, per quanto ora rileva, al compimento dei reati di cui al capo B), ossia ad una pluralità d[i] delitti di falso ideologico commessi nell'attestazione delle presenze degli studenti durante le ore di lezione, delle attività didattiche e delle prove scritte svolte dagli studenti iscritti a due istituti scolastici paritari, l'istituto tecnico Parini e il liceo scientifico Alfieri, acquisiti come rami d'azienda dall'A.N.S.I. Comitato di coordinamento di Pordenone, le cui attività, per effetto della cessazione in data 22 dicembre 2013, erano state trasferite al Comitato provinciale A.N.S.I. di Roma.

2. Sono stati proposti distinti ricorsi nell'interesse degli imputati e del Comitato A.N.S.I. - Coordinamento provinciale di Roma.

3. La sostanziale sovrapponibilità delle censure svolte nell'interesse di Pasquale M., Michele M. e Teresa C. induce ad una trattazione unitaria, con l'evidenziazione di eventuali profili di distinzione, in relazione alla posizione dei singoli.

3.1. Con il primo motivo dei tre ricorsi si lamenta: a) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., erronea applicazione dell'art. 110 c.p.; b) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), del codice di rito, violazione degli artt. 521, comma 2, e 522 c.p.p.

Si osserva che, in entrambi i gradi di merito, si è realizzata una duplice violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, rilevando: a) che, secondo l'impostazione accusatoria, il ricorrente, unitamente a Michele M. e alla C., avrebbero suggerito agli insegnanti dei due istituti paritari le prassi contra legem descritte in sentenza, in tal modo ponendo in essere, in concorso tra loro, ai sensi dell'art. 110 c.p., il delitto di falso ideologico continuato di cui al capo B); b) che, tuttavia, la sentenza di primo grado aveva assolto gli insegnanti, sulla base di quanto da loro dichiarato, ossia che il sistema di rilevazione delle presenze negli istituti era stato loro imposto dai M. e dalla C.; c) che, pertanto, questi ultimi erano stati ritenuti responsabili degli episodi in via mediata ai sensi dell'art. 48 c.p. «ma anche per avere indotto singoli professori (o comunque molti di essi) alle suddette omissioni e falsità [...] costringendoli con modi minacciosi»; d) che, anche a prescindere dalla generale necessità che la contestazione del concorso morale si accompagni ad una puntualizzazione delle concrete modalità di atteggiarsi della condotta attribuita, in ogni caso, il testuale riferimento del capo d'imputazione alle «precise indicazioni» promananti dai tre ricorrenti indicati non era in alcun modo riconducibile alla invece ritenuta esistenza di una costrizione o di una costrizione mediante minaccia; e) che, del resto, la stessa decisione di secondo grado aveva fatto riferimento a condotte degli insegnanti poste in essere «su suggerimento o su indicazione o su pressione degli appellanti»; f) che la diversità del fatto ritenuto, ai sensi dell'art. 516 c.p.p., è confermata al rilievo che la soppressione dell'autodeterminazione assume, in relazione ad altre fattispecie (art. 317 e 319-quater c.p.), ai fini della qualificazione giuridica; g) che non era pertinente l'evocazione del concorso unilaterale, espressa dal riferimento della Corte territoriale alla configurabilità del concorso di persone anche in assenza del dolo di concorso in capo a taluno degli agenti; h) che, infatti, alla luce delle indicazioni della giurisprudenza di legittimità, al di fuori dell'alternativa tra previo concerto o intesa istantanea, da un lato, e ignoranza in capo all'esecutore materiale, dall'altro, non vi è spazio per ulteriori qualificazioni dell'approccio psicologico dell'esecutore materiale, il quale o è ignaro o agisce con consapevolezza e volontà; i) che, anche considerando la figura del c.d. autore mediato, la Corte distrettuale, oltre ad un contraddittorio richiamo ad «una sorta di violenza morale», in quanto tale incompatibile con la prima figura, aveva richiamato la fattispecie di cui all'art. 48 c.p.; l) che, in effetti, tale previsione era indicata nel capo di imputazione, ma si riferiva allo scopo del falso ideologico contestato agli imputati, ossia alla induzione in errore dei membri delle commissioni ministeriali d'esame; m) che, anche sotto tale profilo, si apprezzava la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.

3.2. Con il secondo motivo dei tre ricorsi si lamenta: a) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., erronea applicazione dell'art. 416 c.p.; b) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), del codice di rito, illogicità della motivazione nella forma del travisamento delle risultanze istruttorie.

Si osserva: a) che la Corte territoriale aveva superato con affermazioni apodittiche le questioni poste con l'atto di appello, a proposito dell'insussistenza degli elementi costitutivi dell'associazione; b) che, a tacere dell'erronea attribuzione a Pasquale M. del ruolo di rappresentante legale dell'ente che gestiva gli istituti, in ogni caso, non era emersa l'esistenza di un vincolo destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti fine, posto che esso non poteva essere ravvisato nella mera reiterazione delle condotte; c) che il richiamo della sentenza impugnata al ricorso da parte degli imputati al personale scolastico era, oltre che erroneo in sé, comunque in contrasto con la ritenuta estraneità degli insegnanti e del personale amministrativo rispetto ai reati commessi; d) che, anzi, quest'ultimo rilievo denotava l'estemporaneità dei singoli comportamenti, connessi alla necessità di superare - di volta in volta e con riguardo a casi specifici - gli ostacoli costituiti dai professori; e) che la prova richiesta non poteva essere colta nella finalità attribuita agli agenti, in quanto attinente ai moventi dell'azione ed estranea agli elementi costitutivi della fattispecie; f) che la finalità di raccogliere il maggior numero di iscrizioni in relazione a ciascun anno scolastico era incompatibile con la contestazione di un indefinito programma criminoso.

3.3. Con il terzo motivo dei tre ricorsi si lamenta: a) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., erronea applicazione dell'art. 479 c.p.; b) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), del codice di rito, illogicità della motivazione nella forma del travisamento delle risultanze istruttorie.

Si osserva che nell'atto di appello era stato sottolineato che in alcuni casi la verifica delle assenze aveva condotto alla bocciatura degli studenti e che, in altri, casi, costoro avevano partecipato agli esami da privatisti, in tal modo rendendo irrilevante il superamento del numero massimo di assenze consentito. In altre parole, secondo tale prospettazione, le condotte ipotizzate erano inidonee a conseguire l'obiettivo di indurre in errore le commissioni in relazione all'ammissione agli esami finali.

Il motivo di ricorso critica la considerazione della Corte territoriale, secondo la quale quest'ultima finalità attiene al movente, ossia è estranea al perimetro della fattispecie incriminatrice. Si rileva, infatti: a) che proprio il capo di imputazione indicava una precisa finalizzazione delle condotte di falso; b) che l'argomentazione della sentenza impugnata è erronea in quanto l'innocuità del falso presuppone una valutazione avente ad oggetto elementi esterni al perimetro della fattispecie astratta.

3.4. Con il quarto motivo dei tre ricorsi si lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione ai fatti di cui al capo B).

Si osserva: a) che, incorrendo in un travisamento per omissione, la Corte d'appello non aveva considerato le deposizioni degli insegnanti - richiamate nell'atto di impugnazione - con le quali si escludeva l'esistenza di minacce; b) che la sentenza non aveva chiarito gli esatti termini nei quali siffatte, non meglio precisate, minacce si sarebbero realizzate; c) che la conclusione era comunque illogica, giacché sia che si fosse trattato di minacce, sia, a maggior ragione, che si fosse trattato di mere indicazioni e pressi[o]ni, non era dato intendere per quale ragione avrebbero dovuto essere raccolte da insegnanti che, secondo la stessa sentenza impugnata, erano pagati una decina di euro l'ora, erano consapevoli dell'illiceità penale delle condotte e avevano la disponibilità di altri incarichi presso scuole pubbliche; d) che, quanto alla induzione in errore degli insegnanti in relazione al sistema delle presenze, ulteriore profilo di illogicità era ravvisabile nel fatto - evidentemente legittima fonte di sospetto - che il registro di classe era conservato in stanza inaccessibile perché chiusa a chiave; e) che, anche con riguardo al sistema di registrazione delle assenze su un foglio, con successiva trascrizione ad opera del personale amministrativo, la sentenza impugnata non aveva considerato che i docenti, chiamati a controfirmare i registri, ben avrebbero potuto accorgersi delle erronee annotazioni; f) che analoghe considerazioni potevano essere svolte con riferimento al tema delle verifiche di profitto.

3.5. Con il quinto motivo del ricorso proposto nell'interesse di Michele M. si lamenta: a) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., erronea applicazione degli artt. 110 e 479 c.p.; b) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), del codice di rito, vizio di motivazione nella forma dell'omissione e della contraddittorietà.

Si rileva che, nonostante le puntuali censure svolte nell'atto di appello, con le quali si erano sottolineate circostanze idonee a dimostrare l'estraneità del ricorrente ai fatti contestati, la Corte territoriale, invece di illustrare il contributo concorsuale del ricorrente, era rimasta completamente silente, incorrendo in ulteriore vizio di contraddittorietà, dal momento che, a parte il legame familiare, la posizione di Michele M. era analoga a quella degli altri docenti o del personale amministrativo, anche con riguardo ai presunti aiuti offerti nello svolgimento delle prove di verifica.

3.6. Con il sesto motivo del ricorso proposto nell'interesse di Michele M. si lamenta: a) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., erronea applicazione degli artt. 110 e 479 (recte: 416) c.p.; b) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), del codice di rito, vizio di motivazione nella forma della carenza e della contraddittorietà.

Con riferimento al delitto associativo, si svolgono considerazioni analoghe a quelle di cui al motivo che precede, sottolineando che la posizione di Michele M. era sostanzialmente sovrapponibile a quella degli altri insegnanti e degli altri dipendenti amministrativi che pure erano stati assolti. Si aggiunge che le considerazioni dedicate dalla Corte alla parziale condivisione, da parte di Michele M., del ruolo attribuito alla C. con riferimento alla gestione della segreteria confermava la fondatezza delle critiche, dal momento che la stessa sentenza impugnata aveva ricordato che la segreteria era gestita insieme alla B. e al R., soggetti che erano stati assolti.

3.7. Con il quinto motivo del ricorso proposto nell'interesse della C. si lamenta: a) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., erronea applicazione degli artt. 110 e 479 c.p.; b) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), del codice di rito, vizio di motivazione nella forma dell'omissione e della contraddittorietà.

La struttura della doglianza è analoga al quinto motivo del ricorso proposto nell'interesse del M., salva la diversa puntualizzazione delle circostanze, evidenziate nell'atto di appello e idonee a dimostrare la implausibil[i]tà - anche in ragione delle condizioni di salute della donna e della conseguente saltuarietà della sua presenza negli istituti scolastici - del coinvolgimento della ricorrente nel contestato sistema di rilevazione delle assenze.

Anche in questo caso si critica il silenzio della Corte d'appello rispetto alle doglianze difensive e si sottolinea che, alla stregua delle risultanze istruttorie, la C. aveva tenuto comportamenti del tutto sovrapponibili e anzi, in alcuni casi, anche meno significativi rispetto a quelli del restante personale amministrativo.

3.8. Con il sesto motivo del ricorso proposto nell'interesse della C. si lamenta: a) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., erronea applicazione degli artt. 110 e 479 (recte: 416) c.p.; b) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), del codice di rito, vizio di motivazione nella forma della carenza e della contraddittorietà.

La struttura e il contenuto della doglianza sono sovrapponibili al sesto motivo del ricorso proposto nell'interesse di Michele M.

3.9. Con il quinto motivo del ricorso di Pasquale M., il settimo motivo del ricorso di Michele M. e il settimo motivo del ricorso della C. si lamenta: a) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., erronea applicazione degli artt. 62-bis e 133 c.p.; b) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), del codice di rito, manifesta illogicità della motivazione nella forma del travisamento per omissione.

Si osserva: a) che la sentenza impugnata, nell'affrontare gli argomenti svolti nell'atto di appello, quanto alla necessità di concedere le circostanze attenuanti generiche, per adeguare la pena all'effettivo disvalore del fatto, aveva preso le mosse dall'erroneo presupposto che le stesse siano utilizzabili solo per consentire al giudice di comminare una pena inferiore al minimo edittale, laddove esse possono essere riconosciute persino nel caso in cui il giudice determini la pena nel massimo; b) che la Corte d'appello non aveva preso in considerazione gli indubbi elementi a favore dell'imputato, pur presenti nel caso di specie; c) che l'autonomia del giudizio relativo al tema in questione preclude la possibilità di utilizzare gli stessi argomenti spesi per la determinazione della pena; d) si sottolinea, a tal fine, che Michele M. e la C. sono soggetti incensurati.

3.10. Con il sesto motivo del ricorso di Pasquale M., l'ottavo motivo del ricorso di Michele M. e l'ottavo motivo della C. si lamenta: a) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., erronea applicazione dell'art. 133 c.p.; b) ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), del codice di rito, manifesta illogicità della motivazione nella forma del travisamento per omissione.

Si osserva che la valutazione della Corte territoriale era stata basata su una parziale considerazione dei criteri indicati dall'art. 133 c.p., trascurando, alla luce dei rilievi svolti nei precedenti motivi: a) che l'ipotizzata associazione a delinquere non aveva fatto ricorso sistematico alla falsificazione, che aveva finito per riguardare, secondo la ricostruzione dei giudici, un numero limitato di allievi; b) che, per molti studenti, le irregolarità erano sostanzialmente irrilevanti; c) che i precedenti di Pasquale M. erano risalenti rispetto ai fatti di causa; d) che, rispetto alla posizione di Michele M. e della C., manca del tutto la valorizzazione del limitato apporto ai fatti di causa e della incensuratezza, che incide sulla capacità a delinquere.

4. Il ricorso proposto nell'interesse del Comitato A.N.S.I. - Coordinamento provinciale di Roma è affidato ai seguenti motivi.

4.1. Con il primo motivo si lamenta nullità della sentenza di primo grado e dei successivi atti processuali, ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p., per violazione dell'art. 39 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, dal momento che l'ente, inizialmente rappresentato da un difensore d'ufficio, si era successivamente costituito in persona del legale rappresentante che, nonostante l'incompatibilità derivante dal citato art. 39, aveva provveduto alla nomina del difensore di fiducia. Quest'ultima, pertanto, doveva essere ritenuta priva di qualunque effetto.

4.2. Con il secondo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione degli artt. 27 e 35 del d.lgs. n. 231 del 2001, in relazione alla mancata declaratoria di estinzione dell'illecito amministrativo originariamente contestato all'A.N.S.I. - Comitato di coordinamento cittadino di Pordenone.

Si osserva che, per effetto del generale principio di cui all'art. 27 cit., e non ricorrendo un'ipotesi di fusione, scissione o cessione d'azienda, i giudici di merito avrebbero dovuto ritenere estinto l'illecito, prendendo atto che l'A.N.S.I. - Comitato di coordinamento cittadino di Pordenone Santa Maria delle Grazie, titolare degli istituti scolastici dei quali si discute, risultava essere sciolto con decorrenza 22 dicembre 2013, con mera devoluzione dei beni all'associazione ricorrente, stante la previsione statutaria di attribuzione del patrimonio residuo ad altri enti senza scopo di lucro e il generale divieto di ripartizione dei beni ai partecipanti ad un'associazione non riconosciuta.

4.3. Con il terzo motivo si lamentano vizi motivazionali in relazione alla ritenuta responsabilità dell'associazione ricorrente, quale ente subentrato all'A.N.S.I. - Comitato di coordinamento cittadino di Pordenone, nonostante l'assoluzione del suo legale rappresentante, Danilo M. Si osserva, al riguardo, che erroneamente i giudici di appello avevano ritenuto che Pasquale M. avesse assunto il ruolo di presidente dell'associazione di Pordenone, con decorrenza dal 30 agosto 2011. Si aggiunge che, contraddittoriamente, la responsabilità dell'associazione romana, fondata sulla successione nei rapporti facenti capo all'associazione di Pordenone, era stata argomentata dalla sentenza di appello anche in relazione ai vantaggi derivanti dalle condotte illecite di Pasquale M.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo dei tre ricorsi è inammissibile per manifesta infondatezza e assenza di specificità, dal momento che le doglianze insistono nel non confrontarsi con il rilievo che sono, in questa sede, del tutto indifferenti le ragioni - fondate o non che siano - che hanno indotto i giudici di primo grado ad assolvere alcuni degli imputati - e, in particolare, gli insegnanti - per difetto del necessario elemento soggettivo.

In assenza di appello del p.m., come puntualizzato dalla sentenza impugnata, il tema è insuscettibile di utile approfondimento, giacché ciò che conta è il rilievo assunto, quali ispiratori e determinatori della condotta, dai tre ricorrenti.

E, in relazione a tale profilo, il tema della determinatezza dell'accusa è condivisibilmente stato risolto dalla Corte distrettuale, sottolineando che il capo di imputazione, facendo riferimento alle "precise indicazioni" rivolte da Pasquale M. e dai suoi stretti collaboratori, è sufficientemente preciso nel descrivere la condotta di concorso quantomeno morale.

Del tutto irrilevante è poi che, in altri ambiti, la individuazione delle fattispecie incriminatrici attribuisca rilievo alla soppressione della libertà di autodeterminazione di taluni dei soggetti coinvolti, in quanto ciò discende dalle specifiche finalità di politica criminale perseguite dal legislatore.

In tale prospettiva, va ribadito, alla stregua del consolidato orientamento di questa Corte, che la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e l'accertamento contenuto in sentenza si verifica solo quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale tale da recare un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. 4, n. 4497 del 16 dicembre 2015, dep. 3 febbraio 2016, Rv. 26594601), laddove, nella specie, la Corte territoriale ha chiarito che il ruolo di concorrenti morali dei ricorrenti restava immutato, quali che fossero state le modalità attraverso le quali, volta a volta, essi avevano indotto gli insegnanti a tenere le condotte illecite.

Peraltro, la proposizione argomentativa della sentenza va apprezzata non in quanto intenda sottrarsi alla verifica dei fatti, ma nella prospettiva di chiarire che non era affatto necessario indicare una soluzione unitaria per tutte le ipotesi, avendo il giudice di primo grado individuato in taluni casi (ma non in tutti) delle minacce.

Ciò che importava ed importa, rispetto alla censura qui reiterata, è che l'accertamento delle risultanze probatorie ha consentito di appurare la riconducibilità degli illeciti alla determinazione dei ricorrenti e alle loro indicazioni (espressione generale e non generica, nel senso che riassume il denominatore comune rilevante).

Nella medesima linea di pensiero si muove l'orientamento secondo il quale persino l'accertamento nel corso del processo di una diversa forma di estrinsecazione della condotta concorsuale che integri la medesima figura di reato contestata non determina alcuna violazione né del contraddittorio, né del principio di correlazione tra accusa e sentenza, quando l'enunciazione dei fatti e delle circostanze ascritte all'imputato sia desumibile dal complessivo contenuto della motivazione della sentenza e dalla contestazione - riferibile al capo di imputazione in senso stretto e a tutti gli atti conosciuti e conoscibili dall'imputato - purché l'imputato sia stato messo nelle condizioni di conoscere l'accusa e di esercitare le proprie difese, ed il fatto accertato sia omogeneo rispetto a quello contestato, ovvero ne costituisca uno sviluppo prevedibile (Sez. 2, n. 6560 dell'8 ottobre 2020, dep. 19 febbraio 2021, Rv. 28065401).

E sempre in tale prospettiva s'intende che, a fronte di indicazioni promananti dai ricorrenti, rispetto alla realizzazione di illeciti materialmente attuati da altri, non è dato intendere dalla lettura del ricorso quale lesione delle garanzie difensive si sarebbe realizzata per effetto di decisioni che hanno riguardato non la posizione dei primi ma dei coimputati.

Anzi, questa Corte ha escluso sinanche la contraddittorietà di decisioni nel riconoscimento della responsabilità di un soggetto quale concorrente nel medesimo reato dal quale un altro soggetto sia stato in precedenza assolto per mancanza dell'elemento psicologico (Sez. 3, n. 9576 del 25 gennaio 2012, Rv. 25224801).

2. Il secondo motivo dei tre ricorsi è inammissibile in quanto le censure aspirano ad una rivalutazione del compendio probatorio preclusa in questa sede.

Secondo il costante insegnamento di questa Corte, esula dai poteri del giudice di legittimità quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte: Sez. un., 30 aprile 1997, n. 6402, Dessimone, Rv. 207944; tra le più recenti: Sez. 4, n. 4842 del 2 dicembre 2003-6 febbraio 2004, Elia, Rv. 229369; Sez. 5, n 18542 del 21 gennaio 2011, Carone, Rv. 250168 e, in motivazione, Sez. 5, n. 49362 del 7 dicembre 2012, Consorte, Rv. 254063).

A questo riguardo, va aggiunto che (v., di recente, Sez. 5, n. 17568 del 22 marzo 2021) che è estraneo all'ambito applicativo dell'art. 606, comma 1, lett. e), ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per "brani" né fuori dal contesto in cui è inserito, sicché gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell'apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e che, pertanto, restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (Sez. 5, n. 8094 dell'11 gennaio 2007, Ienco, Rv. 236540; conf. ex plurimis, Sez. 5, n. 18542 del 21 gennaio 2011, Carone, Rv. 250168). Sono pertanto estranei al sindacato della Corte di cassazione i rilievi in merito al significato della prova ed alla sua capacità dimostrativa (Sez. 5, n. 36764 del 24 maggio 2006, Bevilacqua, Rv. 234605; conf., ex plurimis, Sez. 6, n. 36546 del 3 ottobre 2006, Bruzzese, Rv. 235510). Pertanto, il vizio di motivazione deducibile in cassazione consente di verificare la conformità allo specifico atto del processo, rilevante e decisivo, della rappresentazione che di esso dà la motivazione del provvedimento impugnato, fermo restando il divieto di rilettura e reinterpretazione nel merito dell'elemento di prova (Sez. 1, n. 25117 del 14 luglio 2006, Stojanovic, Rv. 234167); in altri termini, il vizio di travisamento della prova dichiarativa, per essere deducibile in sede di legittimità, deve avere un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto ed è pertanto da escludere che integri il suddetto vizio un presunto errore nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (Sez. 5, n. 9338 del 12 dicembre 2012, dep. 2013, Maggio, Rv. 255087; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 8188 del 4 dicembre 2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406).

Nella specie, la Corte territoriale ha dato conto con estrema precisione della struttura organizzativa, costituita da una divisione dei compiti, finalizzata ad eludere le previsioni che assicurano le necessarie verifiche sulla regolarità e serietà degli studi.

Escluso qualunque rilievo del ruolo formale di Pasquale M., dal momento che l'accertamento dei giudici di merito è ancora[to] a solidi dati fattuali (quegli stessi elementi - dalle deposizioni testimoniali ai contenuti di conversazioni intercettate - che hanno giustificato la differenziazione della sua posizione rispetto a quella degli altri due ricorrenti e sui quali il ricorso è sostanzialmente silente), la circostanza che siffatto meccanismo non abbia riguardato la generalità degli iscritti, come puntualizzato dalla sentenza impugnata, non assume alcuna decisività perché ciò che conta è che gli illeciti venivano prontamente realizzati ogniqualvolta le specifiche esigenze degli studenti lo richiedevano.

E la finalità di incrementare le iscrizioni illumina dal punto di vista soggettivo la condotta degli autori, anche quanto alla realizzazione della struttura associativa finalizzata alla commissione di una serie indefinita di reati.

3. Inammissibile è anche il terzo motivo dei ricorsi, alla luce della sua assenza di specificità. La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio indicato, conducente, a mente dell'art. 591, comma 1, lett. c), c.p.p., all'inammissibilità (Sez. 4, 29 marzo 2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30 settembre 2004, n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, 3 luglio 2007, n. 34270, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, 6 luglio 2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596).

Ora, nella specie, i ricorrenti insistono nella tesi della inidoneità dei falsi ad indurre in errore le commissioni esaminatrici, riproponendo rilievi che, oltre a riguardare solo alcuni casi, non considerano la struttura oggettiva e soggettiva dei reati di falso.

Premesso che l'indicazione della finalità perseguita dall'autore nel capo di imputazione non vale evidentemente ad alterare la consistenza degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice che il giudice è chiamato ad accertare, si osserva - e sotto questo specifico profilo la censura si connota per la sua manifesta infondatezza - che l'innocuità del falso è correlata all'oggettività giuridica del reato, ossia all'esigenza di protezione del bene giuridico che discende dalla costruzione della fattispecie.

E infatti, in tema di falsità in atti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ricorre il cosiddetto "falso innocuo" nei casi in cui l'infedele attestazione (nel falso ideologico) o l'alterazione (nel falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell'atto e non esplichino effetti sulla sua funzione documentale, non dovendo l'innocuità essere valutata con riferimento all'uso che dell'atto falso venga fatto (v., di recente, Sez. 5, n. 5896 del 29 ottobre 2020, dep. 15 febbraio 2021, Rv. 28045301).

4. Il quarto motivo dei ricorsi è inammissibile per assenza di specificità, alla luce di quanto rilevato supra sub 1 del Considerato in diritto, giacché insiste nel voler indagare sulle ormai irrilevanti ragioni per i quali i ricorrenti hanno aderito alle richieste di porre in essere i reati oggetto dell'accertamento dei giudici di merito.

5. Il quinto e il sesto motivo del ricorso proposto nell'interesse di Michele M. sono inammissibili per assoluta assenza di specificità, in quanto deducono un'assenza motivazionale che non trova riscontro nella sentenza impugnata, la quale ha valorizzato il ruolo assunto dal ricorrente, ad es., nel fornire i compiti già predisposti o nel "gestire" le assenze degli studenti.

In tale contesto, va ribadito - e identiche considerazioni valgono anche per l'altra ricorrente C. - che l'intervenuta assoluzione di altri soggetti è indifferente - anche per la genericità della relativa deduzione - rispetto alla verifica della tenuta argomentativa della sentenza impugnata, in relazione alla affermazione di responsabilità per i reati di cui ai capi A e B.

6. Per le medesime ragioni sono inammissibili il quinto e il sesto motivo del ricorso proposto nell'interesse della C., giacché la sentenza ha individuato il suo ruolo nella "gestione" delle assenze e nella custodia dei registri, sottolineando, attraverso tali condotte, proprio quella ripartizione dei compiti con gli altri due ricorrenti che si attuava nella consumazione dei reati-fine.

7. Il quinto motivo del ricorso proposto nell'interesse di Pasquale M. e il settimo motivo degli altri due ricorsi sono inammissibili, in quanto la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata, nella sentenza impugnata, con motivazione esente da manifesta illogicità, che si sottrae, pertanto, al sindacato di questa Corte (Sez. 6, n. 42688 del 24 settembre 2008, Rv. 242419), anche considerato il principio, espressione della consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18 gennaio 2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16 giugno 2010, Giovane, Rv. 248244).

Solo per completezza, va rilevato che il brano valorizzato in ricorso, quanto alla possibilità di utilizzare le circostanze attenuanti generiche al di sotto del minimo, è condivisibilmente utilizzato dalla Corte territoriale solo per sottolineare il carattere del tutto generico dell'auspicato adeguamento della pena all'effettivo disvalore del fatto e non certo per sostenere che le circostanze di cui all'art. 62-bis c.p. sarebbero riconoscibili solo nel caso di individuazione del minimo edittale come pena base.

8. Il sesto motivo del ricorso proposto nell'interesse di Pasquale M. e l'ottavo motivo degli altri due ricorsi sono inammissibili, in quanto la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30 settembre 2013-4 febbraio 2014, Ferrario, Rv. 259142), ciò che - nel caso di specie - non ricorre, alla luce delle argomentazioni con le quali la Corte territoriale ha ricostruito i fatti e che smentiscono le contrarie asserzioni dei ricorrenti.

9. L'inammissibilità dei ricorsi preclude il rilievo della eventuale prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. un., n. 32 del 22 novembre 2000, De Luca, Rv. 217266).

10. Il primo motivo del ricorso proposto dal Comitato A.N.S.I. - Coordinamento provinciale di Roma è inammissibile per manifesta infondatezza.

Senza indugiare sul fatto che, a seguire la tesi svolta nel primo motivo, sarebbe inammissibile lo stesso appello proposto dall'avvocato Magaraci, nominato dal legale rappresentante incompatibile (inammissibilità rilevabile d'ufficio in questa sede, ai sensi dell'art. 591, comma 4, c.p.p.), con la conseguenza che l'ente avrebbe potuto al più giovarsi dell'effetto estensivo dell'impugnazione proposta dagli imputati, ma non certo sollecitare in questa sede, per la prima volta, le questioni, sviluppate nel secondo e nel terzo motivo del ricorso, espressione di motivi evidentemente personali, rileva il Collegio che l'art. 39 del d.lgs. n. 231 del 2001 è, nel caso di specie, inapplicabile.

Come chiarito dalla sentenza impugnata, la presenza del Comitato di Roma nel presente giudizio scaturisce non dal fatto che esso sia l'ente nell'interesse o vantaggio diretto del quale l'attività degli imputati è stata posta in essere, ma dal fraudolento trasferimento delle attività del Comitato di Pordenone in favore di un soggetto diverso, al fine di sottrarre il primo alle conseguenze sanzionatorie di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.

La soluzione è coerente con gli approdi della giurisprudenza di legittimità, la quale ha puntualizzato che l'estinzione dell'illecito previsto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 consegue all'estinzione fisiologica e non fraudolenta dell'ente, giacché solo nel primo caso ricorre un caso assimilabile alla morte dell'imputato (Sez. 2, n. 41082 del 10 settembre 2019, Starco s.r.l., Rv. 2771070).

Proprio la finalità elusiva perseguita attraverso la cessazione dell'attività giustifica in tale caso - ricorrente nella specie, secondo il motivato apprezzamento dei giudici di merito - l'applicazione dell'art. 33 del d.lgs. n. 231 del 2001 che prevede la responsabilità solidale del cessionario dell'azienda.

In questo caso il legislatore individua il cessionario non come responsabile dell'illecito - che resta il cedente, ove ancora esistente come soggetto giuridico - ma come solidalmente obbligato al pagamento della sanzione pecuniaria.

Significativamente, mentre gli artt. 28, 29, 30 del d.lgs. 231 del 2001 fanno riferimento alla nozione di responsabilità "per i reati commessi", l'art. 33 disciplina il diverso fenomeno della responsabilità civilistica solidale del cessionario per il pagamento della sanzione.

Le finalità perseguite dal legislatore e la tecnica della costruzione di un'obbligazione solidale assumono un duplice rilievo, per quanto interessa in questa sede: per un verso, illuminano i limiti del principio di legalità di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 231 del 2001, nella misura in cui non viene in gioco la responsabilità diretta del cessionario per un fatto costituente reato; per altro verso, rende inoperante la regola dettata dall'art. 39 del d.lgs. n. 231 del 2001.

Quest'ultima ha condotto la giurisprudenza a ritenere che, in tema di responsabilità da reato degli enti, il rappresentante legale indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore dell'ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall'art. 39 d.lgs. n. 231 del 2001 (Sez. un., n. 33041 del 28 maggio 2015, Rv. 26431001; Sez. 3, Sentenza n. 5447 del 21 settembre 2016, dep. 6 febbraio 2017, Rv. 269754; Sez. 2, Sentenza n. 51654 del 13 ottobre 2017, Rv. 27136001; Sez. 6, n. 15329 del 26 febbraio 2019, Rv. 27543301).

Tuttavia, la lettera della legge ha riguardo all'ente responsabile del reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, come dimostra la correlazione dell'art. 39 con i successivi art[t]. 40 e 41, e risponde all'evidente ratio giustificativa che riposa sulla presunzione di un conflitto di interessi tra il rappresentante legale imputato e l'ente responsabile. In tale caso, l'atto di nomina del difensore rappresenta un atto sospettato - per definizione legislativa - di essere produttivo di effetti potenzialmente dannosi sul piano delle scelte strategiche della difesa dell'ente che potrebbero trovarsi in rotta di collisione con divergenti strategie della difesa del legale rappresentante indagato (Sez. un., n. 33041 del 28 maggio 2015, cit.).

Ma siffatta ratio normativa non ha alcuna ragion d'essere nel caso dell'ente cessionario, che, per quanto detto sopra, non è un soggetto responsabile del fatto costituente reato (per usare l'espressione dell'art. 2 del d.lgs. n. 231 del 2001).

Nessun rilievo assume poi la circostanza che, per le peculiarità della vicenda concreta - fraudolenta estinzione del soggetto responsabile -, quest'ultimo non sia presente nel procedimento.

11. Il secondo motivo del medesimo ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza per le ragioni appena indicate, giacché l'art. 33 del d.lgs. n. 231 del 2001 è applicabile anche al caso di fraudolento trasferimento delle attività in favore di altro ente, attesa l'identità di ratio rispetto all'ipotesi di cessione d'azienda.

12. Il terzo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza e assenza di specificità, dal momento che l'assoluzione del legale rappresentante del Comitato di Pordenone è del tutto irrilevante (al pari dell'attribuzione a Pasquale M. del ruolo di presidente del Comitato). Nell'economia della decisione, infatti, ciò che conta è l'individuazione di un'attività illecita, posta in essere dagli appartenenti al sodalizio che esercitavano - e ciò vale certamente per Pasquale M.: e tanto è assorbente di ogni altro profilo - l'attività di gestione dell'ente e che era destinata a garantire al comitato di Pordenone un evidente vantaggio economico.

13. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna di ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Depositata il 5 luglio 2021.