Consiglio di Stato
Sezione III
Sentenza 7 gennaio 2020, n. 112
Presidente: Lipari - Estensore: Fedullo
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza appellata, il T.A.R. Lazio ha dichiarato inammissibile - essenzialmente in ragione della divisata violazione della regola del ne bis in idem - il ricorso proposto dall'odierna appellante per la condanna del Comune di Campagnano di Roma al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa da parte del Comune predetto, concretizzatosi attraverso l'adozione degli atti annullati con la sentenza del T.A.R. Lazio n. 2794 del 2 aprile 2008 e degli atti successivi impugnati con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, nonché per l'annullamento del d.P.R. 18 giugno 2012, recante la declaratoria di inammissibilità del medesimo ricorso straordinario.
L'odierna appellante, dott.ssa C. E., ha infatti vittoriosamente impugnato dinanzi al T.A.R. Lazio i provvedimenti con i quali il Comune di Campagnano di Roma l'aveva dichiarata decaduta dall'incarico di direttore della farmacia comunale, precludendole di detenere il medesimo incarico, come era ab origine stabilito con l'atto di conferimento, fino all'anno 2011.
Con la suddetta azione impugnatoria, in particolare, l'originaria ricorrente faceva valere il suo interesse alla conservazione dell'incarico di direttore della farmacia comunale, di cui era titolare fin dal 1° luglio 2003 (a seguito dell'esito favorevole della procedura selettiva all'uopo indetta ai sensi dell'art. 110 d.lgs. n. 267/2010) ed oggetto di conferma da parte del Sindaco eletto alle elezioni amministrative del mese di maggio 2006, mediante il decreto n. 14 del 3 luglio 2006, fino alla scadenza del mandato elettorale, ovvero fino al mese di maggio 2011.
All'origine del contenzioso, in particolare, la delibera n. 99 del 23 novembre 2006, con la quale la Giunta Comunale di Campagnano di Roma, obliterando l'esistenza del menzionato decreto sindacale, metteva a concorso il posto di direttore della farmacia (oltre che quello di collaboratore), il decreto n. 21 del 7 dicembre 2006, con il quale il Sindaco modificava il precedente decreto n. 14, riducendo al 31 dicembre 2006 la durata dell'incarico già conferito alla odierna appellante, ed infine il decreto n. 23 del 28 dicembre 2006, per effetto del quale l'incarico di direttore della farmacia era stato assegnato al dott. P. A., vincitore della procedura selettiva.
La dott.ssa C. E. ricorreva quindi dinanzi al T.A.R. Lazio contro gli atti suindicati (ricorso n. 1075/2007) ed il giudice adito, con la citata sentenza n. 2794/2008, premesso che il decreto n. 21/2006 sanciva la sostanziale decadenza dell'incarico della ricorrente e che tale decadenza non poteva ritenersi legittima, in ragione della sussistenza di un precedente valido rinnovo del rapporto contrattuale, accoglieva il ricorso, con il conseguente travolgimento di tutti gli atti relativi alla procedura di nuovo affidamento del servizio farmaceutico.
La sentenza, per effetto della reiezione del relativo appello, statuita dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 3753 del 12 giugno 2009, passava quindi in giudicato: rilevava nell'occasione il giudice di appello che l'illegittimità dell'azione amministrativa discendeva dal fatto che essa era "consistita nella mera rettifica di detto provvedimento di proroga (decreto sindacale n. 14/2006, n.d.e.), rettifica disposta successivamente all'indizione della procedura, in presenza di un atto che conteneva - come esattamente rilevato dal Tar - la specifica menzione dell'inclusione del servizio farmaceutico", aggiungendo che "tale immotivata rettifica - peraltro gravemente incidente sulla sfera giuridica dell'appellata - è stata adottata in luogo del dovuto eventuale provvedimento di autotutela che l'amministrazione avrebbe potuto adottare prima di indire la procedura, nel rispetto del contraddittorio con l'interessata e del canone costituzionale di cui all'art. 97 Cost.".
Essendo intervenuti, nelle more tra la camera di consiglio e la pubblicazione della sentenza di accoglimento, ulteriori atti che reiteravano il pregiudizio subito (in particolare, una delibera di riorganizzazione, con la quale il Comune sopprimeva il posto cui l'incarico dirigenziale si riferiva), la dott.ssa C. E. li contestava con ricorso straordinario, che veniva tuttavia dichiarato inammissibile per la ritenuta violazione della c.d. regola della alternatività (in quanto, in concreto, l'impugnativa avrebbe dovuto essere proposta dinanzi allo stesso giudice amministrativo precedentemente adito).
Ad ogni modo, ottenuta dal T.A.R. Lazio la citata sentenza favorevole, confermata come si è detto dal Consiglio di Stato, la dott.ssa C. E. ha agito, con distinti ricorsi:
- per ottenere il risarcimento del danno (da attività illegittima della P.A.) conseguente alla perdita dei vantaggi economici connessi al suddetto incarico, relativamente al periodo 2007 (anno in cui il Comune le aveva illegittimamente revocato l'incarico)-2011 (anno di naturale cessazione dello stesso).
In tale sede, ella impugnava anche il decreto decisorio del Capo dello Stato, dichiarativo della inammissibilità del ricorso straordinario, sia per ottenere l'annullamento dei provvedimenti successivamente intervenuti e con esso impugnati, sia per dimostrare di aver assolto al suo onere di diligenza, per quanto di rilievo ai fini della domanda risarcitoria.
In dettaglio, con il ricorso suindicato, l'odierna appellante chiedeva, in primo luogo, il risarcimento di tutti i danni patiti a causa del comportamento tenuto dall'Amministrazione sia attraverso l'adozione degli atti annullati dal T.A.R. sia mediante i successivi atti assunti dall'Amministrazione ed oggetto del ricorso straordinario al Capo dello Stato, di cui deduceva appunto l'illegittimità (atti rappresentati essenzialmente dal decreto n. 19 del 31 dicembre 2007, con il quale il Sindaco del Comune di Campagnano di Roma aveva revocato il decreto n. 14 del 3 luglio 2006, riducendo ad un solo anno la durata - 1° gennaio 2008-31 dicembre 2008 - degli incarichi dei Responsabili di Settore, ed il decreto n. 21 del 31 dicembre 2007, con il quale il Sindaco del Comune di Campagnano di Roma aveva conferito sempre al dott. P. A. l'incarico di Direttore della farmacia comunale del Comune di Campagnano di Roma dal 1° gennaio al 31 dicembre 2008).
Ella chiedeva, infine, l'annullamento del d.P.R. 18 giugno 2012, dichiarativo della inammissibilità del ricorso straordinario, mediante il quale erano stati gravati i suddetti atti, adottati dal Comune nel periodo compreso fra la discussione della pubblica udienza del 5 novembre 2007 e la pubblicazione della sentenza del 2 aprile 2008 (va qui evidenziato che la scelta di contestare i menzionati atti sopravvenuti dinanzi al Capo dello Stato sarebbe derivata, come precisato con il presente atto di appello, dal fatto che essi impingevano in posizioni di diritto soggettivo di cui la stessa era titolare, specie per effetto della suindicata sentenza n. 2794/2008);
- per ottenere l'ottemperanza della sentenza, attraverso la restitutio in integrum, agli effetti giuridici ed economici, della sua posizione ed il risarcimento del danno da impossibilità di esecuzione in forma specifica della sentenza di annullamento, ex art. 112, comma 3, c.p.a.
Il T.A.R. definiva i due giudizi così introdotti con distinte sentenze.
Con quella (n. 10029/2015) impugnata con l'appello in esame, relativa al primo giudizio instaurato (quello di contenuto principalmente risarcitorio), dichiarava inammissibile il ricorso, sul rilievo della sovrapponibilità delle domande (quella proposta ai fini risarcitori e quella di ottemperanza) ed in ossequio al principio del ne bis in idem, in quanto la ricorrente, con il secondo ricorso (quello cioè di ottemperanza) avrebbe manifestato la volontà di rinunciare al primo (di carattere risarcitorio), in ordine al cui accoglimento non avrebbe quindi più avuto interesse.
Il T.A.R. in particolare, con la sentenza appellata, rilevato che, con il (successivo) ricorso incardinato con il n. di R.G. 12218/2014, la parte aveva proposto domanda di esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza del T.A.R. Lazio n. 2794/2008, al fine di ottenere, ex art. 112, comma 3, c.p.a., il risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale del giudicato, o alla sua violazione o elusione, e che, con l'autonomo ricorso n. di R.G. 596/2013, la medesima ricorrente aveva chiesto la condanna del Comune di Campagnano di Roma al risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa, attraverso gli atti annullati con la sentenza n. 2794/2008 e gli atti successivi impugnati con il ricorso straordinario, dei quali chiedeva l'annullamento insieme al decreto decisorio del Capo dello Stato, ha evidenziato in primo luogo che "nel giudizio pendente n. 12218/2014 sono poste domande in parte coincidenti con quelle svolte in questa sede. In sostanza, in quel giudizio la ricorrente chiede - tra l'altro - a titolo di restitutio in integrum la somma che qui pretende a titolo risarcitorio per illegittima condotta dell'amministrazione", concludendo che "in caso di riscontro della violazione del principio del ne bis in idem, deve in questi casi comunque "procedersi alla declaratoria dell'inammissibilità del primo ricorso, in quanto vanificato dallo stesso proponente e non sorretto, quindi, da alcun interesse valutabile ai sensi dell'art. 100 c.p.c." (Cass. 15441/2010)".
Con la sentenza emessa in sede di ottemperanza (sentenza n. 10047 del 22 luglio 2015), invece, il T.A.R. accoglieva la domanda di restitutio in integrum limitatamente all'anno 2007, anche condannando l'Amministrazione al pagamento delle retribuzioni non corrisposte, mentre, per il periodo successivo (2008-2011), la respingeva sul rilievo che l'impugnazione proposta (in sede straordinaria) avverso gli atti sopravvenuti era stata dichiarata inammissibile.
Il T.A.R. in particolare, con tale statuizione, riconosceva la fondatezza della domanda reintegratoria per il periodo 1° gennaio 2007-31 dicembre 2007, ovvero per il periodo in cui la ricorrente avrebbe svolto l'incarico, ove non fosse stato emanato il provvedimento poi annullato con la sentenza n. 2794/2008: ciò sia ai fini giuridici ed economici, condannando l'Amministrazione, sotto tale ultimo profilo, al "trattamento economico globale non corrisposto dalla data in cui è stata disposta la decadenza anticipata alla data del 31 dicembre 2007, in cui il Sindaco ha nominato i responsabili dei nuovi settori a seguito di riorganizzazione della struttura amministrativa comunale", fissando il relativo importo in euro 46.529,29.
Mediante l'appello in esame, rivolto come detto avverso la prima sentenza (quella emessa in ordine al ricorso risarcitorio), viene formulato, in via principale ed assorbente, il motivo di appello inteso a lamentare la violazione del contraddittorio, con la conseguente richiesta di rimessione del giudizio al giudice di primo grado, avendo il T.A.R. dichiarato l'inammissibilità del ricorso sulla scorta di un motivo (la violazione del divieto di ne bis in idem) non preventivamente sottoposto, ex art. 73, comma 3, c.p.a., al confronto delle parti.
In subordine, la parte appellante censura il decreto decisorio del ricorso straordinario, al fine di dimostrare che ella ha assolto al suo onere di diligenza (per quanto di interesse ai fini risarcitori) impugnando gli atti sopravvenuti (a quelli annullati dal T.A.R.) ed ottenere l'accertamento della illegittimità/annullamento dei medesimi provvedimenti, in vista del conseguimento del risarcimento del danno anche per il periodo non coperto dalla sentenza emessa sul ricorso di ottemperanza (2008-2011): ciò sul rilievo che il T.A.R., con la sentenza emessa in sede di ottemperanza, ha respinto la pretesa risarcitoria relativa al periodo successivo al dicembre 2007, facendo leva sul principio di cui all'art. 30, comma 3, c.p.a., ovvero "alla luce del mancato esercizio degli strumenti di tutela che la parte avrebbe avuto a disposizione".
Tanto premesso, assumerebbe, in astratto, rilievo pregiudiziale la questione, sollevata dalla parte appellante con apposito motivo di appello, della mancata osservanza dell'art. 73, comma 3, c.p.a., che imporrebbe altrettanto astrattamente, ai sensi dell'art. 105, comma 1, c.p.a., la rimessione della causa al primo giudice ("il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio..."): tuttavia, la parte appellante, con dichiarazione resa in udienza, ha rinunciato al suddetto motivo di appello, sì che può senz'altro esaminarsi il motivo (collegato) inteso a lamentare l'insussistenza in radice dei presupposti applicativi del principio del ne bis in idem, quantomeno nei termini ravvisati dal giudice di primo grado.
Il motivo è fondato.
Basti osservare, sul punto, che il giudice di primo grado ha statuito l'inammissibilità della domanda risarcitoria sul presupposto della sua (peraltro dichiaratamente parziale) identità rispetto alla analoga (ma, deduce la parte appellante, non identica) domanda risarcitoria articolata con il ricorso di ottemperanza e del fatto che la proposizione di quest'ultimo, cronologicamente successiva a quella del ricorso de quo, sarebbe indicativa della insussistenza (sopravvenuta) dell'interesse della ricorrente sotteso alla introduzione del primo giudizio.
Ebbene, nessuno dei due dichiarati presupposti della censurata declaratoria di inammissibilità può ritenersi condivisibile.
Quanto al primo, invero, è sufficiente osservare che le domande (risarcitorie) formulate nell'ambito dei due giudizi progressivamente instaurati avevano contenuto diverso: quella formulata con il ricorso in esame, invero, era diretta a conseguire il risarcimento del danno derivante dall'attività illegittima della P.A. (compresa quella parte di essa che aveva trovato attuazione mercé l'adozione dei provvedimenti gravati con ricorso straordinario), mentre quella introdotta in sede di ottemperanza era rivolta, conformemente al disposto di cui all'art. 112, comma 3, c.p.a., al "risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione".
La non sovrapponibilità delle due azioni si coglie a fortiori in relazione al petitum reintegratorio che caratterizza quella introdotta in sede di ottemperanza, pur con riferimento alla sua componente meramente patrimoniale, attesa l'estraneità, alla relativa fattispecie generatrice, di profili di responsabilità strettamente intesi, che connotano invece l'azione ex art. 2043 c.c., fatta valere con il ricorso in esame.
Inoltre, ad ulteriormente differenziare il titolo giuridico delle due azioni, coerentemente con la diversa causa petendi alle stesse sottese, come dianzi illuminata, concorre altresì il fatto che solo con il ricorso di cui si tratta veniva impugnato anche il d.P.R. decisorio del ricorso straordinario, al fine di ottenere nella sede giurisdizionale "pura" l'annullamento degli atti con esso impugnati e/o l'accertamento della loro illegittimità, in vista del soddisfacimento dell'interesse risarcitorio fatto valere.
Quanto al secondo profilo motivazionale della contestata statuizione di inammissibilità, deve rilevarsi che, anche ammessa la configurabilità di una violazione del ne bis in idem, questa avrebbe dovuto ritenersi caratterizzare il ricorso (di ottemperanza) successivamente proposto, venendo con lo stesso sottoposta alla cognizione del giudice una domanda (per ipotesi) già precedentemente articolata: con la conseguenza che la sanzione della inammissibilità avrebbe dovuto interessare il ricorso successivo (ovvero, si ripete, quello di ottemperanza), non quello precedentemente proposto, oggetto del presente giudizio.
La sentenza appellata, quindi, merita sul punto di essere rimeditata, mentre può prescindersi, siccome assorbito, dall'esame del motivo di appello inteso a lamentare l'error in procedendo in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado, laddove ha omesso di disporre la riunione dei giudizi, affinché fossero decisi con unica sentenza che operasse un esame congiunto e comparativo delle due domande.
Assume quindi rilievo principale la questione della legittimità del d.P.R. declaratorio della inammissibilità del ricorso straordinario.
Deve premettersi che la questione non può ritenersi pregiudicata dalla eccepita (dal Comune appellato) inammissibilità della relativa impugnazione, sul rilievo che lo stesso sarebbe stato comunicato alla parte in data 26 ottobre 2012, laddove il ricorso introduttivo è stato proposto solo in data 3 gennaio 2013: deve infatti osservarsi che, come riscontrabile in atti, la consegna del ricorso per la notifica al servizio postale è avvenuta in data 27 dicembre 2012, ovvero in tempo sicuramente utile (essendo i giorni 25 e 26 dicembre festivi) al fine di evitare di incorrere nella eccepita decadenza.
Va altresì evidenziato che la perdurante sindacabilità del suddetto decreto presidenziale - e, attraverso esso, degli atti amministrativi avverso i quali è stato proposto il ricorso straordinario - non rileva soltanto, come ritenuto dalla parte appellante, al fine di dimostrare che essa, promuovendo l'impugnazione straordinaria, ha assolto al suo onere di diligenza ai sensi dell'art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p.a., ai sensi del quale "nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti".
Premesso, infatti, che la suddetta disposizione attiene al quantum del risarcimento, e presuppone quindi che sia risolto in senso affermativo il quesito inerente all'an dello stesso, deve osservarsi che, nella fattispecie in esame, resta da dirimere anche la questione "a monte", attinente appunto alla spettanza del ristoro risarcitorio.
Poiché, infatti, l'azione risarcitoria de qua, se visualizzata nella sua prospettiva autonoma (dall'azione costitutiva di annullamento), risulta incorrere nella barriera decadenziale apprestata dall'art. 30, comma 3, primo periodo, c.p.a. (a mente del quale "la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo"), risalendo al 2007 i provvedimenti determinativi del danno (la cui fattispecie genetica, secondo le stesse allegazioni attoree, si è esaurita temporalmente nel mese di maggio del 2011), laddove il ricorso introduttivo del giudizio risarcitorio è stato proposto nell'anno 2013, deve evidenziarsi che la sola configurazione dell'azione risarcitoria che potrebbe affrancarla dall'effetto estintivo è quella che la "aggancia", in posizione ancillare, all'azione di annullamento, secondo il disposto dell'art. 30, comma 5, c.p.a., ai sensi del quale "nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza".
È quindi evidente, in tale ottica, il carattere decisivo che riveste, al fine di giustificare la perdurante esperibilità (da un punto di vista temporale, appunto) dell'azione risarcitoria, la possibilità di ritenere non definitivamente compromesso il petitum costitutivo (ferma ogni valutazione in ordine alla utilità di una effettiva pronuncia di annullamento, secondo il criterio delineato dall'art. 34, comma 3, c.p.a., a mente del quale "quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori").
Deve solo osservarsi che la "doppia" valenza della domanda di annullamento del d.P.R. decisorio del ricorso straordinario non esigeva alcun "avviso" alle parti, ex art. 73 c.p.a., costituendo già oggetto (centrale, verrebbe da dire) della controversia, alla stregua dei motivi di appello, la impugnabilità e la legittimità del decreto medesimo.
Ebbene, deve ritenersi che il gravame avente ad oggetto il suindicato decreto decisorio del ricorso straordinario debba essere dichiarato inammissibile: come evidenziato da questa Sezione (n. 1346 del 19 marzo 2014), invero, "sull'art. 10, terzo comma (d.P.R. n. 1199/1971, n.d.e.), la giurisprudenza si è da tempo consolidata nel senso che i vizi di forma e di procedura suscettibili di essere dedotti come mezzi di impugnazione del decreto decisorio sono solo quelli verificatisi nella fase successiva alla pronuncia del parere del Consiglio di Stato (Ad. plen., n. 22/1980; IV Sezione, n. 800/1996; VI Sezione, n. 3831/2006) (...) tale limitazione è opponibile solo alle parti che abbiano scelto, o accettato, che la controversia fosse decisa nella sede straordinaria: ossia al ricorrente da un lato, e dall'altro lato alle controparti che, avendo avuto la possibilità di chiedere la trasposizione alla sede giurisdizionale, non se ne siano avvalse".
Deve premettersi al riguardo che non può essere accolta l'eccezione, formulata dalla parte appellante con memoria del 14 novembre 2019, secondo cui l'eccezione comunale di inammissibilità della richiesta di annullamento del d.P.R. decisorio del ricorso straordinario al Capo dello Stato, formulata sul rilievo che non sarebbe ravvisabile alcun vizio di forma o di procedimento proprio del provvedimento impugnato, sarebbe inammissibile per tardività, in quanto era stata già proposta in primo grado dal Comune appellato ma non è stata esaminata dal T.A.R.: basti osservare che l'impugnabilità del decreto decisorio del Capo dello Stato attiene ai presupposti della domanda della parte appellante, il cui accertamento non presuppone alcuna domanda e/o eccezione della controparte.
Ebbene, come anticipato, nella specie, il predicato errore in cui il Consiglio di Stato, nel rendere il parere in ordine al suddetto ricorso straordinario, sarebbe incorso, laddove ne ha rilevato l'inammissibilità in forza della ritenuta violazione della c.d. regola di alternatività, oltre a non attenere alla patologia dei "vizi di forma o di procedimento", è collocabile già nella fase consultiva dell'iter di decisione del ricorso medesimo (e non quindi, come sarebbe necessario, nella "fase successiva alla pronuncia del parere del Consiglio di Stato").
Nemmeno il suindicato decreto decisorio potrebbe ritenersi sindacabile, nella presente sede giurisdizionale, alla luce del dedotto error in procedendo che lo inficerebbe, in quanto esso, senza neanche concedere la remissione in termini per errore scusabile, avrebbe rilevato la violazione del principio di alternatività, determinando una nuova ipotesi di decadenza non prevista dalle norme né da consolidata giurisprudenza.
Quanto al primo profilo, invero, la rimessione in termini avrebbe dovuto eventualmente essere riconosciuta dal giudice di primo grado, adito con il ricorso in esame, piuttosto che dall'organo decidente il ricorso straordinario.
In ogni caso, la rimessione in termini persegue la finalità di porre al riparo l'interessato dalla sanzione decadenziale connessa al mancato rispetto di un termine perentorio, mentre nella specie la stessa dovrebbe essere piegata alla diversa finalità di ammettere la sindacabilità del decreto decisorio del ricorso straordinario al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dal legislatore, in violazione del c.d. principio di alternatività.
Quanto al secondo profilo, invece, si è già detto che l'eventuale error in decidendo imputabile al Capo dello Stato non sarebbe censurabile nella presente sede giurisdizionale, ostandovi il disposto dell'art. 10, comma 3, d.P.R. n. 1199/1971.
In ogni caso, il provvedimento decisorio è conforme al dominante, ed ancora attuale, orientamento interpretativo, di cui è traccia nel recentissimo parere della sez. I del Consiglio di Stato, n.ro 2861/2019 del 13 novembre 2019, di cui vale la pena riportare i passaggi argomentativi essenziali:
"va osservato che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è un rimedio giustiziale di natura impugnatoria, per l'annullamento di provvedimenti definitivi, a tutela sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi, circoscritto alle sole censure di legittimità. Ai sensi dell'art. 7, comma 8, c.p.a. tale rimedio è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa.
4.1. Principio fondamentale dell'istituto è l'alternatività, in ossequio al quale il ricorso straordinario e il ricorso al giudice amministrativo non possono essere proposti contro il medesimo atto. L'art. 8, secondo comma, del d.P.R. n. 1199 del 1971 dispone infatti che non è ammesso il ricorso straordinario "da parte dello stesso interessato" se "l'atto sia stato impugnato con ricorso giurisdizionale". Ciò significa che non può essere proposta impugnazione nelle diverse sedi, straordinaria e giurisdizionale, avverso lo stesso provvedimento e, una volta esperito il primo rimedio, non è più consentito accedere al secondo (electa una via non datur recursus ad alteram). La ratio di questo principio va ravvisata nell'esigenza di evitare l'insorgere di contrasti tra le decisioni del Consiglio di Stato in sede consultiva e le sentenze del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, con conseguente sovrapposizione della decisione giurisdizionale alla decisione del ricorso straordinario.
4.2. Occorre aggiungere che, ai sensi dell'art. 48 c.p.a., la parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario può proporre opposizione ed il giudizio segue dinanzi al tribunale amministrativo regionale se il ricorrente, entro il termine perentorio di sessanta giorni dal ricevimento dell'atto di opposizione, deposita nella relativa segreteria l'atto di costituzione in giudizio, dandone avviso mediante notificazione alle altre parti. La norma in esame, che consente la trasposizione del ricorso straordinario al Capo dello Stato in sede giurisdizionale è "la norma fondante del rapporto tra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale. Il ricorso straordinario alternativo al ricorso giurisdizionale, postula che qualsiasi parte, diversa dal ricorrente, abbia la possibilità di optare per il rimedio giurisdizionale, che offre maggiori garanzie rispetto al ricorso straordinario. L'istituto dell'opposizione rappresenta, infatti, lo strumento di ciascuna parte per adire il giudice precostituito per legge, in quanto il ricorso straordinario, rimedio alternativo a quello giurisdizionale, presuppone una concorde volontà di tutte le parti all'utilizzo di tale rimedio" (C.d.S., sez. I, parere 18 dicembre 2015, n. 3496).
4.3. La giurisprudenza amministrativa ha costantemente ravvisato la ratio del principio di alternatività nell'esigenza di "impedire un possibile contrasto di giudizi in ordine al medesimo oggetto" (C.d.S., sez. III, 1° marzo 2005, n. 1852; cfr. C.d.S., sez. III, 15 novembre 2010, n. 1963; C.d.S., sez. I, 29 aprile 2010, n. 584; C.d.S., sez. III, 24 marzo 2009, n. 616; C.d.S., sez. V, 5 febbraio 2007, n. 454; C.d.S., sez. III, 23 settembre 2008, n. 734) e, dunque, di "evitare l'inutile proliferazione dei ricorsi ed il pericolo di pronunce contrastanti di organi appartenenti allo stesso ramo di giustizia" (C.d.S., sez. I, 6 marzo 2019, n. 761; sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2185; e ancora C.d.S., sez. I, 16 dicembre 2015, n. 211 per cui "la finalità del principio ... è quella di evitare duplicazioni della tutela contenziosa ed un possibile conflitto di decisioni").
Il Consiglio di Stato da tempo ritiene anche che il principio di alternatività, pur non essendo "suscettibile di interpretazione analogica, allorché le due impugnative riguardino atti distinti, deve comunque ritenersi operante nel caso in cui, dopo l'impugnativa in sede giurisdizionale dell'atto presupposto, venga successivamente impugnato in sede straordinaria l'atto conseguente, al fine di dimostrarne l'illegittimità derivata dalla dedotta invalidità del menzionato atto presupposto. Ciò per l'identità sostanziale delle due impugnative" (C.d.S., sez. III, 1° marzo 2005, n. 1852); pertanto esso trova applicazione "anche quando si tratti di atti distinti, purché legati tra loro da un nesso di presupposizione" (C.d.S., sez. V, 3 settembre 2013, n. 4375).
4.4. Giova a questo punto ricordare che la relazione intercorrente tra più atti amministrativi si riflette anche sul piano dell'invalidità e, per quanto di interesse in questa sede, impone di interrogarsi sulla possibilità, o meno, di utilizzare per la stessa serie provvedimentale contemporaneamente il rimedio straordinario e quello giurisdizionale.
Seguendo un orientamento risalente e consolidato, in materia di illegittimità derivata in seguito ad annullamento di un atto presupposto, bisogna distinguere tra invalidità ad effetto caducante (nei casi in cui più intenso è il nesso intimo tra atto presupposto ed atto conseguenziale) ed invalidità ad effetto meramente viziante, nelle ipotesi in cui meno intenso è detto nesso (C.d.S., Ad. plen., 4/1970).
Nel primo caso l'annullamento dell'atto presupposto si estende automaticamente all'atto conseguenziale anche quando quest'ultimo non è stato impugnato, mentre nel secondo caso l'atto conseguenziale è affetto da illegittimità derivata ma resta efficace ove non ritualmente impugnato (C.d.S., sez. V, 13 novembre 2015, n. 5188). Per la prima forma di vizio, di natura più dirompente, occorrono due elementi precisi: a) il primo dato dall'appartenenza, sia dell'atto annullato direttamente come di quello caducato per conseguenza, alla medesima serie procedimentale; b) il secondo individuato nel rapporto di necessaria derivazione del secondo dal primo, come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi; pertanto, qualora almeno uno dei due detti presupposti sia inesistente, è inapplicabile lo schema concettuale della caducazione e debbono ritenersi utilizzabili unicamente le usuali impugnative tipiche del diritto amministrativo (C.d.S., V, 10 aprile 2018 n. 2168).
4.5. Il principio di alternatività, operando rispetto ad un medesimo atto, in teoria andrebbe escluso nel caso in cui due atti, uno presupposto e uno ad esso connesso, siano l'uno impugnato in sede giurisdizionale e l'altro con ricorso straordinario, o viceversa.
Tuttavia - superata la tradizionale lettura restrittiva (sin dall'Adunanza plenaria, 18 aprile 1969, n. 15) che lo concepiva in senso formale, come operante esclusivamente rispetto ad un medesimo atto impugnabile - la giurisprudenza ha aderito ad una interpretazione in chiave sostanziale che, pur disconoscendo l'applicazione analogica, ha esteso l'operatività dello stesso anche ai casi in cui, pur essendovi atti formalmente distinti, sussiste una connessione sostanziale in termini di pregiudizialità/dipendenza. La regola dell'alternatività è dunque applicabile "non solo nel caso in cui vi sia identità formale di provvedimenti impugnati, ma anche in presenza di atti formalmente distinti, quando sussista un'obiettiva identità dell'oggetto del contendere" (...) "seppure tradizionalmente interpretata non suscettibile di applicazione analogica ma operante nel solo caso di impugnazioni aventi ad oggetto il medesimo atto" (così C.d.S., sez. III, 8 gennaio 2010, n. 3719). Pertanto, secondo la giurisprudenza amministrativa, in base al principio di alternatività così inteso, non è consentita la pendenza di un ricorso straordinario e di un ricorso al giudice amministrativo quando, pur essendo diversi gli atti impugnati, la questione è la stessa (in termini analoghi, C.d.S., sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2185; C.d.S., sez. II, 1° ottobre 2013, n. 4489; C.d.S., sez. I, 16 dicembre 2015, n. 211; C.d.S., sez. I, 6 marzo 2019, n. 866).
4.6. Per meglio sviluppare la nozione appena esposta, risulta necessario interrogarsi sulla relazione esistente tra il concetto di "identità della questione" e quello di "rapporto giuridico tra amministrazione e privato".
Come è noto, il processo amministrativo, soprattutto con il c.p.a., si è evoluto trasformandosi da giudizio sugli atti a vero e proprio giudizio sul rapporto amministrativo intercorrente tra il privato e la pubblica amministrazione. A giudizio della dottrina, la possibilità per il giudice amministrativo di risarcire il danno, previa valutazione della fondatezza della pretesa azionata, l'istituto processuale dei motivi aggiunti introdotto dalla legge 205/2000, l'art. 21-octies, comma 2 (che vieta di annullare, a determinate condizioni, un provvedimento che, seppur illegittimo, non poteva avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato) nonché da ultimo l'ampio ventaglio di azioni introdotte dal codice del processo amministrativo, sono tutti elementi sintomatici della trasformazione del processo amministrativo da giudizio sull'atto a giudizio sul rapporto. Per autorevole dottrina, "in una concezione più moderna, più conforme all'ideale dello Stato di diritto e che tiene conto dell'evoluzione subita dall'interesse legittimo ... potere amministrativo e interesse legittimo possono essere ricostruiti come i termini dialettici ... di una relazione giuridica bilaterale" relazione questa che supera la visione tradizionale in cui lo Stato era visto esclusivamente in una posizione di sovraordinazione istituzionale rispetto ai privati. È chiaro che questa relazione - seguendo lo schema norma-fatto-potere-effetto - si atteggia in modo diverso rispetto a quanto avviene nel diritto privato ma è pur sempre una relazione giuridicamente rilevante. Anche per la giurisprudenza amministrativa il giudizio amministrativo deve essere "volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata" (C.d.S., Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3) poiché "la verifica di legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati non va compiuta nell'astratto interesse generale, ma è finalizzata all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte attrice" (C.d.S., Ad. plen., 7 aprile 2011, n. 4). Ciò, oltre che per esigenze di economia processuale, anche in considerazione, come detto, di una lenta trasformazione del processo amministrativo da giudizio sull'atto a giudizio sul rapporto.
4.7. Riportando le considerazioni sino a qui espresse al rapporto tra processo amministrativo e ricorso straordinario, va escluso che del medesimo rapporto possano occuparsi contemporaneamente il giudice amministrativo e il Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario. Da tanto consegue che nell'ipotesi in cui l'atto presupposto (a monte) venga impugnato con ricorso straordinario e il successivo atto presupponente (a valle) con ricorso giurisdizionale dinnanzi al giudice amministrativo o viceversa, occorrerà - in applicazione del principio di alternatività - dichiarare inammissibile il giudizio introdotto per ultimo.
Tale conclusione deve reputarsi valida sia nel caso di stretta presupposizione - ossia quando, come detto al paragrafo 4.4., vi è la "necessaria derivazione del secondo dal primo come sua inevitabile ed ineluttabile conseguenza e senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi" - sia nel caso di mera derivazione cui conseguirebbe solo un effetto meramente viziante per l'atto a valle.
Per quest'ultima ipotesi, una visione moderna del principio di alternatività impone di rivolgersi allo stesso organo ogni qual volta si discuta del medesimo rapporto giuridico o quando le censure formulate siano identiche e, come detto, riferibili allo stesso rapporto giuridico tra amministrazione e amministrato. Ragionando diversamente si legittimerebbe il frazionamento della tutela giurisdizionale in contrasto con il principio del giusto processo (art. 111 Cost.) e con il suo corollario dell'economia dei mezzi giuridici; aumenterebbe inoltre il rischio di decisioni contrastanti all'interno dello stesso plesso giurisdizionale con conseguente lesione del principio dell'effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost. e art. 1 c.p.a.).
Da ciò consegue che, nel caso in cui l'atto presupponente sia impugnato con ricorso giurisdizionale, a fronte di un ricorso straordinario già promosso avverso l'atto presupposto, il ricorso giurisdizionale dovrà essere dichiarato inammissibile dal giudice amministrativo. Se invece l'atto successivo è impugnato in sede straordinaria, a fronte di un ricorso giurisdizionale già promosso avverso l'atto presupposto, il ricorso straordinario sarà inammissibile per violazione del principio di alternatività. Tale principio ha già trovato una qualche eco nella giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha sancito l'inammissibilità del ricorso straordinario "a cagione della violazione della regola di "alternatività" che s'impone come limite alla contestuale proponibilità di due distinti ricorsi (amministrativo/straordinario e giurisdizionale) vertenti sulla medesima questione di fatto e di diritto e recanti ad oggetto la medesima pretesa sostanziale (identità della materia del contendere): ricorsi che potrebbero sortire decisioni contrastanti e che la regola dell'"alternatività" intende, appunto, scongiurare" (C.d.S., sez. I, 13 febbraio 2019, n. 548)".
La sostanziale correttezza della statuizione di inammissibilità (del ricorso straordinario) recata dall'impugnato d.P.R., insieme alla non impugnabilità in radice di quest'ultimo, precludono conseguentemente la disamina delle questioni di illegittimità costituzionale profilate dalla parte appellante, investendo esse disposizioni (l'art. 8, comma 2, d.P.R. n. 1199/1971, ove interpretato nel senso di assoggettare alla regola dell'alternatività anche l'impugnazione di atti conosciuti successivamente alla pubblicazione della sentenza del T.A.R. e diversi da quelli impugnati con il ricorso giurisdizionale, l'art. 13, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 1199/1971, nella parte in cui prevede che la facoltà - di cui può avvalersi il Consiglio di Stato nel caso di parere di inammissibilità del ricorso - di assegnazione di un breve termine per presentare all'organo competente il ricorso proposto, per errore ritenuto scusabile, è prevista soltanto nei casi d'impugnazione di atti non definitivi e non anche di quelli definitivi, l'art. 14 d.P.R. n. 1199/1971, nella parte in cui non prevede che, in sede di decisione del ricorso straordinario, con decreto del presidente della Repubblica, possa essere concessa la facoltà di assegnazione di un breve termine per presentare al T.A.R. il ricorso proposto inizialmente in sede straordinaria, per errore ritenuto scusabile, e ritenuto inammissibile) che, da un lato, attengono al momento decisorio del rimedio straordinario, esulando quindi dal perimetro dei vizi (inerenti, come si è detto, ai profili di forma o di procedura) che delimitano il perimetro esplicativo della facoltà di impugnazione del decreto presidenziale, dall'altro lato, presuppongono la riconoscibilità di un errore scusabile, a fondamento della impugnazione proposta al Capo dello Stato, che collide con l'orientamento interpretativo prevalente (e recepito, da ultimo, con il parere dianzi citato) e con le condivisibili ragioni da esso evidenziate a fondamento della delimitazione, nei termini indicati, della regola della c.d. alternatività.
Analogamente, quanto ai dubbi di legittimità costituzionali formulati dalla parte appellante con riferimento agli artt. 10, commi 3, 14 e 15, d.P.R. n. 1199/1971, nella parte in cui non prevedono la possibilità di impugnazione del decreto del Presidente della Repubblica che abbia dichiarato inammissibile il ricorso straordinario sulla base di una interpretazione estensiva dell'art. 8, comma 2, d.P.R. n. 1199/1971, deve osservarsi che essi non appaiono caratterizzati dal requisito della "non manifesta infondatezza", essendo l'interpretazione contestata del tutto coerente con la regola della alternatività, come intesa dal citato orientamento interpretativo, costituente il principio-cardine sul quale ruota il rapporto tra azione giurisdizionale e rimedio straordinario.
Le considerazioni che precedono precludono l'analisi delle censure mosse, in sede straordinaria, avverso i provvedimenti all'origine del danno di cui la parte appellante chiede in questa sede il ristoro.
Non accoglibile è anche la domanda di rimessione in termini con riferimento all'azione di annullamento dinanzi al T.A.R. degli atti impugnati con ricorso straordinario, analogamente a quanto avviene nel caso di sentenze declinatorie della giurisdizione in applicazione del principio della translatio iudicii, ritenendo la parte appellante sussistere le medesime esigenze di effettività della tutela giurisdizionale ex artt. 3, 24, 111 e 113 Cost.: basti evidenziare, in senso nuovamente contrario, che i principi invocati non si attagliano alla fattispecie in esame, ergo al rapporto tra rimedio giustiziale e rimedio giurisdizionale, il quale è dominato dalla vigenza della regola della alternatività.
Né, infine, vale affermare, come fa la parte appellante, che non sussisterebbe nella specie il pericolo di decisioni contrastanti, alla cui prevenzione è strumentale la regola suindicata, atteso che, alla data della decisione del ricorso straordinario, la sentenza n. 2794/2008 era ormai passata in cosa giudicata: basti osservare, in senso contrario, che la diversità degli atti impugnati nelle due sedi non consentiva di attribuire alla sentenza precedentemente intervenuta un effetto conformativo assoluto, tale da escludere in radice ogni possibilità di conflitto decisorio.
In conclusione, la domanda risarcitoria proposta con il ricorso in esame non può trovare accoglimento, ostandovi sia ragioni connesse alla intempestività della domanda, ex art. 30, comma 3, primo periodo, c.p.a., sia motivi relativi al mancato assolvimento dell'onere di diligenza di cui all'art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p.a., mediante la proposizione di una tempestiva ed ammissibile azione impugnatoria avverso i provvedimenti all'origine del danno.
La sentenza appellata deve quindi essere confermata, sebbene con diversa motivazione, nei termini esposti.
La peculiarità dell'oggetto della controversia giustifica infine la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e conferma, con diversa motivazione, la sentenza appellata.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.