Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 29 agosto 2019, n. 5939

Presidente: Santoro - Estensore: Sabbato

FATTO E DIRITTO

1. Con ricorso n. 2045 del 2011, proposto innanzi al T.a.r. per la Campania, sede di Napoli, i signori Gaetano A. e Maria A., rispettivamente padre e figlia, dopo aver precedentemente impugnato l'ordinanza di demolizione n. 264 del 12 maggio 2003, con ricorso poi dichiarato perento con decreto del 9 marzo 2011, avevano chiesto l'annullamento del seguente atto:

a) nota n. 2573 del 1° febbraio 2011 con la quale il Comune di Massa Lubrense, preso atto della inottemperanza alla predetta ordinanza di demolizione n. 264 del 12 maggio 2003 delle opere edilizie abusive consistite nell'ampliamento e sopraelevazione di un manufatto adibito a porcilaia, accertava l'acquisizione di diritto e gratuita al patrimonio comunale dell'immobile abusivo, dell'area di sedime e di quella necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.

2. A sostegno della proposta impugnativa i ricorrenti - dopo aver evidenziato che trattavasi di ampliamento di locali preesistenti, oggetto di domanda di condono edilizio ex lege n. 724/1994 e di realizzazione di una mansarda, oggetto di ulteriore domanda di sanatoria questa volta ai sensi dell'art. 13 della l. n. 47 del 1985 - articolavano le censure così testualmente rubricate:

i) "violazione dell'art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 e ss.mm.ii. - carenza di istruttoria ed illegittimità manifesta", evidenziando che l'Amministrazione comunale non si sarebbe previamente pronunciata sull'istanza del 28 luglio 2003 di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, in ordine alle opere di ampliamento e sopraelevazione anzidette;

ii) "carenza di istruttoria - genericità ed illegittimità", in quanto il dirigente comunale non avrebbe tenuto conto della previa domanda di condono e del ricorso al T.a.r. proposto in data 11 luglio 2003;

iii) "violazione del corretto procedimento ed omessa motivazione", in quanto il dirigente comunale non avrebbe espresso le ragioni per le quali la domanda di condono edilizio era incompatibile con le opere contestate e quindi era ritenuto applicabile l'art. 31 su richiamato nonostante la preesistenza di porzione dell'immobile.

3. Costituitasi l'Amministrazione comunale al fine di resistere, il Tribunale adìto, Sezione VII, ha così deciso il gravame al suo esame:

- ha respinto il ricorso;

- ha compensato le spese di lite.

4. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che:

- "l'ordine di demolizione si è consolidato per effetto della intervenuta perenzione processuale, con ogni conseguenza in ordine alla intangibilità degli atti successivi e logicamente connessi quali il presente atto di acquisizione";

- è meritevole di condivisione l'orientamento secondo cui, dopo l'infruttuoso trascorso del termine di cui all'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, l'istanza di sanatoria si considera respinta, di guisa che sarebbe stato necessario proporre ulteriore impugnativa del silenzio-rigetto, pena la declaratoria di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse a coltivare il gravame e conseguente piena riespansione dell'efficacia dell'ingiunzione di demolizione.

5. Avverso tale pronuncia i signori Gaetano A. e Maria A. hanno interposto appello, notificato il 27 maggio 2013 e depositato il 15 giugno 2013, lamentando, attraverso cinque motivi di gravame (pagine 8-12), quanto di seguito sintetizzato:

I) avrebbe errato il Tribunale ad interpretare ed applicare l'art. 36, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 in ragione del disposto dell'art. 46-bis l.r. Campania n. 10 del 2004, prevedendo tale disciplina l'intervento sostitutivo del Commissario ad acta regionale cosicché il silenzio dell'autorità comunale non escludeva la conclusione del procedimento avviato ad istanza di parte;

II) avrebbe errato il Tribunale a reputare ormai efficace l'ingiunzione alla demolizione per omessa corretta considerazione degli effetti della richiesta di accertamento di conformità urbanistica, dal momento che l'efficacia dell'ingiunzione suddetta non viene meno per il richiesto annullamento in sede giurisdizionale, ma per la presentazione di domanda di accertamento di conformità urbanistica;

III) il Tribunale sarebbe incorso nell'errore di ritenere intangibile la nota impugnata per effetto della dichiarata perenzione del ricorso avverso l'ingiunzione alla demolizione, in quanto la nota stessa è un atto autonomamente impugnabile indipendentemente dal ritenuto consolidamento dell'ordine di demolizione;

IV) il Tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi circa l'eccepita carenza di istruttoria relativa alla illegittimità e genericità della nota impugnata;

IV.1) il Tribunale avrebbe, inoltre, omesso di pronunciarsi circa l'eccepita violazione del corretto procedimento ed omessa motivazione della nota impugnata, per non avere il dirigente del Comune valutato se la domanda di condono edilizio, avanzata ai sensi della l. n. 724 del 1994 ed avente ad oggetto i locali preesistenti poi ampliati con i lavori di cui all'istanza di sanatoria ordinaria, era compatibile o incompatibile con le opere oggetto di accertamento;

V) avrebbe errato il Tribunale a compensare le spese, dal momento che, un eventuale accoglimento dell'appello, comporterebbe la condanna del Comune di Massa Lubrense al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.

6. Il Comune appellato, ancorché ritualmente intimato, non si è costituito nel presente giudizio.

7. In vista della trattazione nel merito del ricorso, parte appellante ha depositato memoria insistendo per l'accoglimento del gravame.

8. Il ricorso, discusso alla pubblica udienza del 23 luglio 2019, non merita accoglimento.

8.1. Va premesso che l'omessa pronuncia su una o più censure sollevate in prime cure non costituisce motivo per la rimessione della causa al prime giudice.

Il Collegio osserva che tale eventuale difetto, così come rappresentato in ricorso, non può precludere la disamina del merito del gravame, non integrando un'ipotesi di rimessione della causa al primo giudice ai sensi dell'art. 105, comma 1, c.p.a., che così recita: "Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l'ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio". Sul punto è sufficiente rinviare ai consolidati principi elaborati dalla recente giurisprudenza dell'adunanza plenaria che, come è noto, si è pronunciata ben quattro volte, nell'arco del 2018, sui limiti applicativi dell'art. 105 c.p.a. (cfr. sentenza 30 luglio 2018, n. 10; sentenza 30 luglio 2018, n. 11; sentenza 5 settembre 2018, n. 14; sentenza 28 settembre 2018, n. 15). L'autorevole Collegio, in tali occasioni, ha osservato in primo luogo che le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall'art. 105 c.p.a. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive. In particolare, non può rientrarvi "la mancanza totale di pronuncia da parte del primo giudice su una delle domande del ricorrente, rientrandovi invece il difetto assoluto di motivazione della sentenza di primo grado" (cfr. Ad. plen., n. 10 e 11 del 2018).

8.2. Il Collegio altresì rileva che il perimetro del giudizio di appello è circoscritto dalle censure ritualmente sollevate in primo grado, sicché non possono trovare ingresso le doglianze nuove proposte per la prima volta in questa sede in violazione del divieto dei nova sancito dall'art. 104 c.p.a.;

d) pertanto, per comodità espositiva, prende in esame direttamente le censure poste a sostegno del ricorso in prime cure e criticamente riproposte in appello (cfr., ex plurimis sul punto, C.d.S., sez. V, 10 febbraio 2015, n. 673; sez. V, 29 ottobre 2014, n. 5347).

8.4. Infondato è il primo motivo del ricorso di primo grado (pagina 4), col quale si valorizza la presentazione di istanza di sanatoria ai sensi dell'art. 13 della l. n. 47 del 1985 (ora, art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001), che avrebbe comportato l'inefficacia dell'ordinanza di demolizione rimasta ineseguita con conseguente onere dell'Amministrazione di reiterare l'esercizio del potere sanzionatorio. La tesi non può essere accolta, in quanto, secondo preciso orientamento di questo Consiglio, ormai consolidatosi dopo iniziali oscillazioni, "La presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria" (cfr. C.d.S., sez. IV, 10 settembre 2018, n. 5293; sez. VI, 7 maggio 2018, n. 2707; sez. VI, 25 settembre 2017, n. 4469; sez. VI, 4 aprile 2017, n. 1565; sez. VI, 8 aprile 2016, n. 1393; sez. VI, 2 febbraio 2015, n. 466). Orbene, il rigetto della domanda di sanatoria avanzata dall'appellante è intervenuto con il silenzio rigetto previsto dal su richiamato art. 36 e pertanto l'Amministrazione non aveva alcuna necessità di emettere una nuova ordinanza demolitoria dopo quella n. 264 del 12 maggio 1993.

8.5. Parte appellante, nel contestare tale capo della sentenza impugnata, evoca la previsione di cui alla l.r. n. 10 del 2004, il cui art. 10 contempla il potere sostitutivo della Regione ai fini della definizione delle domande di sanatoria. Il rilievo non coglie nel segno, in quanto la richiamata norma regionale si riferisce alle istanze proposte ai sensi della normativa sul condono edilizio (d.l. 30 settembre 2003, n. 269) e non alla sanatoria edilizia disciplinata dall'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001.

8.6. Col secondo e terzo motivo del ricorso instaurativo della lite (pagina 5), suscettibili per il loro tenore di trattazione congiunta, il ricorrente lamentava che il dirigente comunale non si era preoccupato di verificare la rilevanza, oltre che del ricorso al T.a.r., della previa domanda di condono edilizio, proposta ai sensi della l. n. 724 del 1994, la quale quindi dava atto della "preesistenza della porzione dell'immobile" (cfr. pagina 6 del ricorso di primo grado).

La censura non può essere condivisa, stante la evidenziate difformità tra le opere sanzionate e quelle descritte nella domanda di condono. Nell'ordinanza di demolizione n. 264 del 12 maggio 2003, infatti, si discorre di "Corpo di fabbrica su due livelli con tetto in tegole a falde spioventi" mentre nella domanda di condono del 1° marzo 1005, di "locali agricoli adibiti a porcilaia ed a deposito masserizie". Nella stessa predetta ordinanza si dà atto che il piano terra del predetto corpo di fabbrica è stato realizzato "in sopraelevazione a manufatto adibito a porcilaia di remota realizzazione" e questo costituisce conferma della notevole trasformazione che lo stato dei luoghi ha subìto dopo la domanda di condono tanto da comportare la scomparsa del manufatto originario con la modifica della sua destinazione d'uso in senso abitativo. Da ciò non può che derivare l'irrilevanza della previa domanda di condono, in quanto afferente ad un manufatto non più esistente dopo l'esecuzione delle ulteriori opere abusive, pertanto senz'altro perseguibili a prescindere da ogni determinazione sull'istanza medesima. Non potrà trovare applicazione quanto statuito dall'art. 38 della l. 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive), laddove prevede che la presentazione della domanda di condono sospende il procedimento per l'applicazione di sanzioni amministrative. Per effetto di tale statuizione normativa, nella pendenza della definizione di tali domande, non può essere, tra l'altro, adottato alcun provvedimento di demolizione e tale disposizione si applica anche ai condoni presentati ai sensi dell'art. 32 d.l. 30 settembre 2003, n. 26 (C.d.S., sez. VI, 29 novembre 2016, n. 5028). Invero, la presentazione della richiesta di sanatoria fa sorgere l'obbligo per il Comune di esaminarla, con conseguente necessità di assumere un nuovo provvedimento favorevole o sfavorevole cosicché l'originario provvedimento repressivo è destinato a perdere efficacia e non può più essere portato ad esecuzione. Il principio suddetto, infatti, postula la sostanziale coincidenza tra il manufatto oggetto di demolizione e quello interessato dalla domanda di condono, che, come detto, nel caso di specie non ricorre. La divergenza plano-volumetrica tra i due manufatti (quello descritto nella domanda di condono e quello oggetto della disposizione dirigenziale di demolizione) rende irrilevante la domanda di condono, sebbene l'ubicazione degli stessi sia identica. Difatti, come osservato da parte di condivisibile giurisprudenza di prime cure in una vicenda analoga, "questa palese discrasia impedisce che il meccanismo di sospensione dei procedimenti sanzionatori, per effetto della presentazione di una istanza di condono, possa trovare concreta applicazione alla struttura oggetto dell'ordinanza di demolizione" (T.a.r. Campania, sede di Napoli, sez. IV, 2 maggio 2018, n. 2930).

Non trova quindi applicazione il principio secondo il quale l'Amministrazione non può emettere alcun provvedimento sanzionatorio senza prima aver definito il procedimento scaturente dall'istanza di sanatoria, ostandovi i principi di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa (C.d.S., sez. VI, 17 aprile 2018, n. 2315). I suddetti principi, infatti, impongono il dovere di procedere prioritariamente all'esame della domanda di condono prima di assumere iniziative pregiudizievoli per lo stesso esito della sanatoria edilizia, ciò però sul presupposto di una coincidenza dei manufatti oggetto di entrambi i provvedimenti. Nel caso di specie, al contrario, la suddetta corrispondenza tra i due immobili non è ravvisabile, dal momento che il manufatto oggetto della domanda di condono è destinato ad abitazione, mentre quello risultante dalla disposizione dirigenziale di demolizione è un manufatto adibito al ricovero di animali.

In conclusione sul punto, se è vero che, secondo un principio generalmente recepito in sede pretoria, sono illegittimi i provvedimenti sanzionatori edilizi quando per gli immobili sanzionati pendono istanze di sanatoria rimaste inevase, ciò non vale allorché, come nel caso di specie, la domanda di condono riguardi un manufatto tutt'affatto diverso. Tale evidente diversità conculca ogni possibile interferenza tra il procedimento sanzionatorio con quello di sanatoria aliunde attivato.

9. Tanto premesso, l'appello è infondato e deve essere respinto.

10. Nessuna determinazione va assunta sulle spese del presente grado di giudizio, stante la mancata costituzione del Comune appellato.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto (R.G. n. 4604/2013), lo respinge.

Nulla per le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.