Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 27 febbraio 2019, n. 16164

Presidente: Andreazza - Estensore: Scarcella

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza 24 maggio 2018, la Corte d'appello di Milano, in parziale riforma della sentenza 27 aprile 2017 del GUP/Tribunale di Lodi, appellata dal M. e dal G., riduceva la pena nei confronti di entrambi gli imputati ad anni 4 di reclusione ed euro 3000,00 di multa ciascuno, confermando nel resto l'appellata sentenza che li aveva riconosciuti colpevoli, in esito al rito abbreviato richiesto, del reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di più reati di importazione illecita aggravata di cuccioli di animali da compagnia (artt. 110 c.p. e 4, commi 1, 2 e 3, l. n. 201 del 2010), di maltrattamento dei medesimi animali (artt. 110 c.p., 81, cpv, c.p. e 544-ter, commi 1 e 2, c.p.) aggravato dalla morte di numerosi cuccioli nonché, infine, dei reati di frode nell'esercizio del commercio (artt. 110 c.p., 81, cpv, c.p. e 515 c.p.) e di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (artt. 110, 81, cpv, 481 c.p.), contestati come commessi tra il maggio ed il dicembre 2015 secondo le modalità esecutive e spazio-temporali meglio descritte nei singoli capi di imputazione.

2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del G., iscritto all'Albo speciale previsto dall'art. 613 c.p.p., articolando tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.

2.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 416 e 110 c.p.

Si premette che la sentenza avrebbe preso in considerazione solo il capo A) della rubrica, ossia l'associazione per delinquere di cui il G. sarebbe promotore, costruttore ed organizzatore, avendo concepito un'organizzazione volta a importare dall'estero cani di razza destinati alla vendita clandestina; questa associazione sarebbe sorta con l'apporto di tre persone, numero minimo necessario per costituire un'associazione per delinquere, e la Corte d'appello analizza gli elementi a sostegno di questa ricostruzione, dimostrando come abbia voluto condannare per tale reato, pur in presenza di elementi che lo escludevano; il reato associativo viene contestato a G. e M. (oltre che a C. e Ma., separatamente giudicati), ma quest'ultimo non risulta più far parte della ritenuta associazione nella motivazione della sentenza; resta invece coinvolta la signora C. per aver aiutato il figlio M. nella cura dei cani, venendo infatti considerata parte integrante del reato in quanto mater familias che all'interno dell'abitazione si occupava dei cuccioli; tuttavia, si osserva, la signora era priva della consapevolezza di voler continuare ad essere parte di una associazione a delinquere di carattere rudimentale, e tale elemento è essenziale per la configurazione del reato di associazione a delinquere; ed invero, se manca tale consapevolezza si configura un'ipotesi di concorso di persone ex art. 110 c.p.; del resto, la donna si era limitata a continuare a svolgere i compiti di mater familias come ogni persona di buon senso e, pertanto, non poteva sapere di essere parte di detta associazione; parlare di associazione sembra dunque una forzatura e tale reato non si può ritenere esistente neppure per il fatto che il G. si spostava con auto prese a noleggio ritenute non idonee al trasporto degli animali; nemmeno i contatti intercorsi tra il G. e il M. possono essere considerati rilevatori della presenza di un'associazione a delinquere, in quanto erano unicamente funzionali alla consegna dei cani richiesti dal secondo; infine, il G. non ha mai importato i cani dall'Ungheria, dal momento che egli aveva contatti solo con Danilo Mar. con cui si incontrava in suolo italiano; pertanto, si dovrebbe ritenere assente l'esistenza del reato associativo attesa la carenza del numero minimo legale richiesto, atteso che la signora C. era stata considerata il terzo elemento pur svolgendo i suddetti compiti di basso profilo.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, vizio di omessa o insufficiente motivazione quanto alla qualifica attribuita al ricorrente in relazione all'art. 416 c.p.

Si osserva come l'art. 416 c.p. gradua le pene in virtù della qualifica rivestita nell'associazione criminale e al ricorrente è stata attribuita quella di promotore, costruttore e organizzatore che è punita con una pena da 3 a 7 anni di reclusione; tuttavia, i soggetti interessati erano solo due, il G. e il M., ed è da ritenere che con l'art. 416 c.p. il legislatore abbia voluto sanzionare non l'accordo tra due persone, ma l'intesa tra più soggetti per l'organizzazione e la suddivisione dei ruoli e sanzionare così i soggetti in grado di imporsi sugli altri per la loro personalità o per la loro forza economica; per questi motivi, dagli atti non emergerebbe alcun elemento dal quale ritenere che il G. fosse il promotore, costruttore e organizzatore dell'associazione a delinquere, potendosi al più parlare di concorso di persone ex art. 110 c.p.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, violazione di legge e correlato vizio di errata o insufficiente motivazione quanto ai residui capi di imputazione, sub B), C), D) ed E) della rubrica.

Ed invero, si osserva: a) quanto al capo B), è da ricordare che il G. reperiva i cuccioli da trasportare e consegnare al M. che, dopo aver pagato il G., con l'aiuto della madre provvedeva a tutto quanto fosse necessario per la salute e identificazione dei cuccioli; pertanto, dopo il pagamento, il G. si disinteressava di quanto il M. e la madre facessero per la pulizia, il benessere e la vendita dei cuccioli; dagli atti risulta che i cani erano visitati dal dottor Ma. e regolarizzati sotto il profilo documentale senza la presenza del G. e, pertanto, non si comprende come possa essere chiamato a rispondere di quanto contestato; b) in secondo luogo, quanto al capo C), è opportuno considerare che i cani rappresentavano una fonte di guadagno per il M. e pertanto non si comprende il motivo per cui egli avrebbe dovuto maltrattarli con sevizie e vessazioni nel tragitto tra Gorizia e Brescia; inoltre, per logica, alcuni dei cani ricevuti dal G. erano già in condizioni cliniche e igieniche precarie per cui era opportuno un intervento del veterinario una volta giunti a destinazione; c) infine, quanto ai capi C) ed E) della rubrica, il G. non poteva sapere quanto il M. stesse facendo per la vendita dei cani alle persone interessate; egli infatti non si era mai interessato delle caratteristiche che risultavano dai documenti e ignorava tutto quello che avveniva dal veterinario.

3. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del M., iscritto all'Albo speciale previsto dall'art. 613 c.p.p., articolando cinque motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.

3.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge e correlato vizio di mancanza della motivazione, attesa la nullità della sentenza per difetto dei requisiti di cui agli artt. 125, comma 3, e 546, comma 1, lett. e), c.p.p. e precisamente, per mancata motivazione con riferimento ai capi C), B), D) ed E) della rubrica.

In sintesi, si osserva che già in sede di appello la difesa aveva rilevato il difetto di motivazione della sentenza del giudice di primo grado che si era limitato a riportare il contenuto dell'ordinanza di applicazione della misura cautelare del 30 maggio 2016, avendo questi fatto riferimento alle conversazioni telefoniche e ambientali così come interpretate nella stessa ordinanza; pertanto, era stata eccepita la mancanza di un'autonoma valutazione del giudice dell'udienza preliminare, non essendovi i requisiti per potersi parlare di motivazione per relationem, dal momento che non esiste la dimostrazione che il giudice avesse ritenuto le ragioni esposte nel provvedimento cautelare coerenti con la propria decisione; la Corte di appello tuttavia non ha trattato del motivo di doglianza e, pertanto, la motivazione risulta esistente solamente per il capo A), mentre con riferimento ai capi B), D) ed E), la motivazione mancherebbe dal momento che essa rinvia alle condivisibili argomentazioni della sentenza impugnata che risultava già carente; inoltre, quanto al capo C), la motivazione del giudice di appello mostra di non tenere in considerazione l'obiezione della difesa che aveva allegato a sostegno della sua tesi - secondo la quale le condizioni di salute dei cuccioli non erano conseguenza della condotta volontaria del ricorrente -, il verbale della perquisizione effettuata il 14 giugno 2016 dal Corpo forestale dello Stato - comando provinciale di Lodi, in cui si constatava il buono stato di salute e nutrizionale degli animali.

3.2. Deduce, con il secondo motivo, violazione di legge e correlato vizio di contraddittorietà della motivazione sul punto della ritenuta responsabilità penale dell'imputato in ordine alla sussistenza del reato associativo, sotto il duplice profilo del lasso temporale di commissione delle condotte criminose nonché del numero legale.

In sintesi, si osserva che il giudice di appello aveva condiviso quanto affermato dall'accusa e dal giudice di primo grado circa l'esistenza di uno stabile vincolo associativo volto all'approvvigionamento di cuccioli acquistati dalla Ungheria e Slovenia dal G. e occultati e rinvenuti dal ricorrente unitamente alla madre; la difesa aveva contestato l'esistenza di tale vincolo sotto un duplice profilo: a) in primo luogo, quanto alla durata delle condotte criminose che, secondo il giudice di appello, sarebbero state anche precedenti e successive a quelle avvenute tra il mese di ottobre e dicembre 2015, come invece aveva sostenuto la difesa; del resto, la Corte territoriale ritiene esistente il vincolo associativo in tempi precedenti sulla base di contatti telefonici non oggetto di intercettazioni, invero riferendosi la Corte a numerosi contatti; inoltre, la Corte d'appello richiama il contenuto inequivoco di tali conversazioni, ma la stessa sarebbe incorsa in un travisamento della prova, non essendo stato il ricorrente oggetto di intercettazioni; del resto, prosegue il ricorrente, almeno fino al mese di settembre, il G. aveva un'autonoma gestione dei cuccioli e infatti in data 30 giugno 2015 tre bulldog francesi risultavano iscritti presso l'abitazione del coimputato e, sul sito online di cuccioli, i contatti erano sempre del G. così come le utenze successive al mese di settembre; pertanto, in epoca antecedente e successiva a quella indicata dalla difesa, i due devono aver agito separatamente, come dimostra il fatto che durante un intervento effettuato presso l'abitazione del M. il 20 luglio 2015 veniva accertata la presenza di dodici cani riconducibili al M., C. e B.; nell'annotazione di p.g. del 10 febbraio 2016, inoltre, si dà atto di alcuni passaggi di proprietà di cuccioli di cane tutti avvenuti tra il mese di settembre e ottobre del 2015, tranne due dell'agosto 2015 e lo stesso vale per i certificati di iscrizione all'anagrafe; infine, la Corte di appello non considera diverse segnalazioni a carico del M. avvenute tra aprile e maggio 2016 che danno conto del fatto che egli operasse da solo anche a causa del dissidio economico intercorso con il G.; b) in secondo luogo, si ritiene mancante il numero minimo legale considerando il ruolo svolto dalla madre del M.; infatti dagli atti risulta che gli accordi economici intercorrevano tra il M. e il G. e che il primo desse indicazioni al secondo circa le cure da prestare ai cuccioli telefonicamente; la madre era a conoscenza dell'attività del figlio e ne ascoltava le lamentele, ma era il M. che trattava con il veterinario, e lui stesso in una conversazione telefonica esclude la madre dai rapporti con il G.; inoltre, non si può ritenere che la madre fosse partecipe alla spartizione del denaro coadiuvando il figlio nel conteggio, ma comunque questa circostanza non sarebbe sufficiente per ritenerla parte del sodalizio criminoso; per questi motivi si devono ritenere esistenti i vizi di inosservanza di legge e contraddittorietà della motivazione.

3.3. Deduce, con il terzo motivo, vizio di contraddittorietà della motivazione in ordine al ruolo di co-organizzatore di M. Omar con riferimento al capo A) della rubrica.

Si sostiene che la Corte di appello richiama alcune conversazioni, senza tener conto che sia il Gip che il Gup avevano sottolineato che il ricorrente faceva costantemente capo al G., che organizzava e pagava i viaggi per reperire i cuccioli e manteneva i contatti con i fornitori degli animali.

3.4. Deduce, con il quarto motivo, vizio di contraddittorietà della motivazione nella parte in cui non sono state concesse le circostanze attenuanti generiche e vizio di mancata motivazione in ordine alla mancata maggiore riduzione della pena base, nonché alla omessa riduzione della pena relativa agli aumenti in continuazione.

Si sostiene che la Corte di appello considera i precedenti anche specifici del ricorrente, ma egli risulta aver un solo precedente per guida in stato di ebrezza del primo febbraio 2009; la Corte di appello, inoltre, ritiene la pena base applicata dal giudice di primo grado troppo elevata, ma non spiega perché non si sarebbe potuta applicare una pena base prossima al minimo edittale e non motiva circa la mancata diminuzione con riferimento agli aumenti di pena applicati a titolo di continuazione.

3.5. Deduce, con il quinto motivo, vizio di contraddittorietà della motivazione in ordine alla omessa sospensione dell'esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale e relativamente alla omessa rinnovazione dell'istruttoria ai sensi dell'art. 603 c.p.p. volta all'acquisizione della documentazione relativa alla situazione reddituale dell'imputato e riguardo alla prova circa la sussistenza del danno.

In sintesi, non si comprende il motivo per cui la Corte di appello ritenga che la provvisionale è "di per sé esecutiva" in violazione di quanto previsto dall'art. 600 c.p.p. che ne consente la sospensione, a maggior ragione considerando il periculum in mora rappresentato nell'atto di appello che avrebbe giustificato l'accoglimento della richiesta di rinnovazione dell'istruzione per consentire l'acquisizione della sopramenzionata documentazione, rappresentata dalla dichiarazione dei redditi della madre dell'imputato, del contratto di locazione e la documentazione del Ser.T relativa all'imputato; infatti, il soggetto, disoccupato e affetto da dipendenza da sostanze stupefacenti ed alcoliche, risulta nullatenente e dimora con la madre in una casa il cui canone è pagato mensilmente con la pensione di quest'ultima; la Corte ritiene poi congrua la somma a titolo di provvisionale rispetto al danno, ma la difesa aveva sottolineato che mancava la prova di una sofferenza soggettiva patita in concreto dalla parte civile che non era stata provata né con riguardo al pati né con riguardo alla eventuale perdita patrimoniale subita per l'accudimento dei cani e per le spese.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. I ricorsi sono inammissibili.

5. Devono essere anzitutto esaminati i motivi proposti dalla difesa G.

6. Quanto al primo motivo, è manifestamente infondato.

Ed invero, nel caso di specie il Tribunale, in primo grado, e la Corte di appello ritengono colpevoli gli imputati dei delitti di cui all'art. 416 c.p. perché si erano associati per programmare e commettere i delitti di cui agli artt. 515 c.p., 544-ter c.p. e 481 c.p.: per i giudici, costoro avevano dato vita ad una organizzazione elementare, ma con stabili relazioni solidaristiche. Del resto, la Corte di appello richiama la motivazione del giudice di primo grado secondo il quale il quadro probatorio risulta inequivoco ed indice non solo della commissione di tutti i singoli fatti criminosi, ma anche dell'esistenza di uno stabile sodalizio criminoso per un ampio lasso temporale nel quale i soggetti si sono accordati per commettere una serie indeterminata di reati (elementi dimostrati dal numero dei viaggi minuziosamente programmati, dalla stabile individuazione di una base logistica in cui avveniva la regolarizzazione dei cuccioli e per le cautele utilizzate dai sodali).

Non esistono pertanto dubbi per i giudici di merito circa l'esistenza della stabilità dell'accordo criminoso. Quanto, poi, al ruolo svolto dalla C., è opportuno sottolineare che l'appartenenza di un soggetto ad un sodalizio criminale può essere ritenuta, anche in base alla partecipazione ad un solo reato fine, qualora il ruolo svolto e le modalità dell'azione siano tali da evidenziare la sussistenza del vincolo e ciò può verificarsi solo quando detto ruolo non avrebbe potuto essere affidato a soggetti estranei, oppure quando l'autore del singolo reato impieghi mezzi e sistemi propri del sodalizio in modo da evidenziare la sua possibilità di utilizzarli autonomamente e cioè come membro e non già come persona a cui il gruppo li ha posti occasionalmente a disposizione (Cass., Sez. V, n. 6446 del 13 febbraio 2015). A tal proposito, la Corte d'appello sottolinea il ruolo significativo della madre del M., la quale ha preso parte all'attività di collocamento e vendita dei cuccioli, avendo accompagnato in diverse occasioni il figlio agli incontri con il G., avendo custodito presso la sua casa gli animali e partecipato alla spartizione dei guadagni.

Trattasi di motivazione non solo immune dai denunciati vizi motivazionali, ma che mostra di fare buongoverno del principio, già affermato da questa Corte (Cass., Sez. II, n. 49691 del 28 dicembre 2004), secondo cui, in tema di associazione per delinquere, integra la condotta di partecipazione, specie in mancanza di un'affiliazione rituale, l'esplicazione di attività omogenee agli scopi del sodalizio, apprezzabili come concreto e causale contributo all'esistenza ed al rafforzamento dello stesso, da parte del soggetto che ne sia stato accettato e in esso sia stabilmente incardinato con l'assunzione di determinati e continui compiti, anche per settori di competenza. Nel caso in esame, pertanto, la donna aveva collaborato quotidianamente con il figlio in tutte le attività, con la piena consapevolezza dell'attività di vendita posta in essere dal figlio ed era a conoscenza di tutte le questioni economiche tra il figlio ed il G.; del resto, osserva il Collegio, il suo ruolo non può essere considerato quello di mera mater familias e, comunque, va ribadito che, in tema di associazione per delinquere, l'esistenza della consorteria criminosa non è esclusa per il fatto che la stessa sia imperniata per lo più intorno a componenti della stessa famiglia, atteso che, al contrario, i rapporti parentali o coniugali, sommandosi al vincolo associativo, rendono quest'ultimo ancora più pericoloso (Cass., Sez. III, n. 48568 del 17 novembre 2016). Né, del resto, nel caso di specie può ritenersi che la donna abbia agito con finalità e scopi leciti, ponendo in essere attività illecite e che manchi del tutto la prova di un collegamento tra tali fatti illeciti e le direttive generali impartite dai responsabili dell'organizzazione stessa (Cass., Sez. VI, n. 34489 dell'8 agosto 2013). Infine, è opportuno ricordare che una volta dimostrata l'esistenza di una associazione per delinquere e individuati gli elementi, anche indiziari, sulla base dei quali possa ragionevolmente affermarsi la cointeressenza di taluno nelle attività dell'associazione stessa, e, quindi la partecipazione alla vita di quest'ultima, non occorre anche la dimostrazione del ruolo specifico svolto da quel medesimo soggetto nell'ambito dell'associazione, potendosi la partecipazione al sodalizio criminoso, per sua stessa natura, realizzarsi nei modi più svariati, la cui specificazione non è richiesta dalla norma incriminatrice e non può, quindi, essere richiesta nemmeno nella sentenza di condanna (Cass., Sez. II, n. 43632 del 28 settembre 2016).

Il motivo è pertanto da ritenersi inammissibile.

7. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.

Ed invero, il ruolo del G. è stato ritenuto dai giudici di merito quello di promotore di un'associazione a delinquere.

È opportuno pertanto sinteticamente analizzare tale posizione, così come delineata da alcune sentenze della Corte di legittimità, che secondo la legge è punita con una pena maggiore. L'elemento materiale del delitto punito dall'art. 416 c.p. consiste nell'associarsi di tre o più persone allo scopo di commettere più delitti, senza che sia richiesta una distribuzione gerarchica di funzioni, l'esistenza di un rapporto di subordinazione e la presenza di un capo. Evenienza quest'ultima che la norma, al pari dell'esistenza di promotori, costitutori od organizzatori, considera come eventuale, configurando un'autonoma e più grave fattispecie criminosa (Cass., Sez. III, n. 19198 del 28 febbraio 2017). In una decisione di questa Corte (Sez. II, n. 52316 del 27 settembre 2016), del resto si afferma che, in tema di reato associativo, riveste il ruolo di promotore non solo chi sia stato l'iniziatore dell'associazione, coagulando attorno a sé le prime adesioni e consensi partecipativi, ma anche colui che contribuisce alla potenzialità pericolosa del gruppo già costituito, provocando l'adesione di terzi all'associazione ed ai suoi scopi attraverso un'attività di diffusione del programma. Ed ancora, si è affermato (Cass., Sez. II, n. 19917 del 15 gennaio 2013) che, nel reato di associazione per delinquere, "capo" è non solo il vertice dell'organizzazione, quando questo esista, ma anche colui che abbia incarichi direttivi e risolutivi nella vita del gruppo criminale e nel suo esplicarsi quotidiano in relazione ai propositi delinquenziali realizzati. Pertanto, non occorre che il promotore sia stato l'iniziatore dell'associazione, ma basta che sia colui che sovraintende l'attività e la gestione, assumendo funzioni decisionali (sul tema, cfr. Cass., Sez. VI, 45168 del 29 ottobre 2015).

Nel caso di specie, si osserva, il ruolo del G., organizzatore e promotore, e del M. devono essere sicuramente ritenuti preminenti rispetto a quelli svolti dalla donna. Basti pensare ai numerosi contatti con l'estero tenuti dal primo e ai numerosi viaggi svolti per prendere gli animali. Egli pertanto predisponeva mezzi e risorse umane (rivenditori fidati) ed il suo ruolo ben è stato identificato dal giudice di primo grado. Del resto, in tema di associazione per delinquere, la qualifica di organizzatore spetta all'affiliato che, sia pure nell'ambito delle direttive impartite dai capi e non necessariamente dalla costituzione del sodalizio criminoso, esplica con autonomia la funzione di curare il coordinamento dell'attività degli altri aderenti ovvero l'impiego razionale delle strutture e delle risorse associative o di reperire i mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso (Cass., Sez. VI, n. 37370 del 7 giugno 2011).

Anche tale motivo deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

8. Non sfugge al giudizio di inammissibilità anche l'ultimo motivo.

Per quanto riguarda il compimento dei reati fine, in particolare, la sentenza della Corte di appello rinvia per relationem alla motivazione espressa dal giudice di primo grado che li ritiene provati.

Invero, quanto al reato di cui al capo B), in base al quale gli imputati, al fine di ottenere un profitto, introducevano nel territorio nazionale cuccioli di età inferiore a 12 settimane privi dei sistemi di identificazione individuale e delle necessarie certificazioni, lo stesso risulta provato anche a seguito del sequestro di venti cuccioli effettuato al G. il 7 dicembre 2015. Quanto al capo C), che concerne le sevizie e i maltrattamenti insopportabili per i cani effettuati durante il trasporto, a causa dei mezzi utilizzati e delle scarse condizioni igienico sanitarie, risulta ampiamente provato dalle intercettazioni dei ricorrenti nelle quali parlano dei decessi di alcuni dei cani avvenuti durante il trasporto. Quanto al delitto di cui al capo D), ossia la consegna di cani illegalmente introdotti dall'Ungheria ad acquirenti, dichiarando provenienza ed età false, il reato è integrato stante le dichiarazioni false che gli imputati fornivano agli acquirenti quanto alla provenienza che era, in realtà, straniera, e quanto allo stato di salute che, contrariamente a quanto dichiarato, risultava precario. Infine, riguardo al capo E), in base al quale i ricorrenti avrebbero fatto attestare il falso nei libretti sanitari circa l'età, la nascita e la provenienza dei cuccioli, il reato è compiutamente integrato, come si desume dalle intercettazioni probatorie e dalle risultanze documentali. Il quadro probatorio a carico del ricorrente appare quindi completo, adeguato e correttamente motivato ed il motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

9. Può quindi procedersi all'esame dei motivi di ricorso dell'imputato M., anch'essi inammissibili.

10. Il primo motivo è inammissibile.

Ed invero, deve premettersi che la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: a) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; b) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; c) l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell'organo della valutazione o dell'impugnazione (cfr. Cass., Sez. II, n. 55199 del 29 maggio 2018; Cass., Sez. VI, n. 53420 del 4 novembre 2016). A ciò va aggiunto che, nel caso di specie, si tratta di una "doppia conforme" e, pertanto, le motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado vanno lette come un tutt'uno in caso di doppia conforme declaratoria di responsabilità a carico dell'imputato. Peraltro, nel caso di "doppia conformità" delle decisioni di merito, deve essere ritenuta pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d'appello per relationem rispetto a quella contenuta nella sentenza di primo grado, a condizione che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi e argomenti di novità, diversi da quelli già esaminati e disattesi. Il giudice del gravame, infatti, nell'effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui è fondata la sentenza impugnata, non è chiamato a un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame sulle quali si sia già soffermato il giudice a quo. In tali ipotesi le motivazioni delle due pronunce, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare la congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri analoghi a quelli usati nel primo grado e in base ai medesimi passaggi logico-giuridici della decisione (Cass., Sez. III, 15 maggio 2017 n. 23767). Tanto premesso, si comprende il motivo per cui il rinvio della sentenza di secondo grado alla sentenza di primo grado, per quanto concerne le argomentazioni relative ai reati contestati nei diversi capi agli imputati, è del tutto legittimo, rinviandosi a quanto già esposto a proposito del terzo motivo di ricorso del coimputato G.

Per quanto, poi, riguarda la specifica posizione del ricorrente M. nei reati in esame, occorre inoltre sottolineare che la sentenza di primo grado, quanto al reato di cui al capo B), fa riferimento al sequestro avvenuto nel giugno 2016, durante il quale erano stati rinvenuti dei cuccioli sotto le 11 settimane. Per quanto riguarda il capo C), la sentenza evidenzia il susseguirsi di diverse morti sospette dei cuccioli venduti dal M. (v., in particolare, sulla consapevolezza del G. delle modalità di trasporto degli animali, le conversazioni richiamate alla pag. 46 della sentenza di primo grado; la conversazione 7 novembre 2015, intercorsa tra G. e M. richiamata a pag. 27 della sentenza di primo grado; la conversazione 4 novembre 2015 tra il G. ed il Mar. in cui è lo stesso G. a rivelare la mancata sottoposizione dei cuccioli alle previste profilassi vaccinali, richiamata alla pag. 30 della sentenza di primo grado; ancora, rileva quanto indicato a pag. 72 della sentenza di primo grado, a proposto della sussistenza della responsabilità degli imputa[t]i nel delitto di maltrattamenti). Infine, quanto al capo E), occorre considerare che era lo stesso ricorrente a richiedere al veterinario di visitare i cuccioli e, sempre lui, elargiva al Ma. delle somme di denaro affinché effettuasse delle attestazioni false. Tale circostanza risulta dalle conversazioni tra il ricorrente e la madre, durante le quali egli si lamentava proprio dell'importo troppo elevato richiesto dal veterinario.

Elementi, tutti, che convergono verso un giudizio di inammissibilità del motivo di ricorso.

11. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.

Ed invero, quanto alla sussistenza del "numero legale" è sufficiente rinviare alle osservazioni di cui al primo motivo di ricorso del coimputato G.

Quanto al lasso temporale cui si riferisce il difensore, è opportuno sottolineare che, ai fini della configurabilità di una associazione a delinquere, è necessaria la esistenza di un programma criminoso che preveda un numero indeterminato di delitti da commettere, ben potendo tuttavia l'associazione essere progettata per operare per un tempo determinato (Cass., Sez. VI, n. 38524 dell'11 luglio 2018). Inoltre, ai fini della configurabilità del reato di partecipazione ad associazione per delinquere (comune o di tipo mafioso), non è sempre necessario che il vincolo si instauri nella prospettiva di una permanenza a tempo indeterminato, e per fini di esclusivo vantaggio dell'organizzazione stessa, ben potendo, al contrario, assumere rilievo forme di partecipazione destinate, ab origine, ad una durata limitata nel tempo e caratterizzate da una finalità che, oltre a comprendere l'obiettivo vantaggio del sodalizio criminoso, in relazione agli scopi propri di quest'ultimo, comprenda anche il perseguimento, da parte del singolo, di vantaggi ulteriori, suoi personali, di qualsiasi natura, rispetto ai quali il vincolo associativo può assumere anche, nell'ottica del soggetto, una funzione meramente strumentale, senza per questo perdere nulla della rilevanza penale (Cass., Sez. II, n. 52005 del 24 novembre 2016).

Pertanto, alla stregua della richiamata giurisprudenza di questa Corte, la doglianza risulta inconsistente, dal momento che anche se il sodalizio criminoso fosse durato per un minor tempo (e nello specifico tra ottobre e dicembre 2015), questo non sarebbe un elemento dirimente per escludere la configurabilità del reato di associazione a delinquere. Invero, come in precedenza sottolineato, sono il numero minimo di persone, l'esistenza di un sodalizio criminoso e la non predeterminazione dei reati fine gli elementi essenziali di detto reato. A sostegno di ciò, peraltro, merita di essere ricordato (Cass., Sez. III, n. 42228 del 3 febbraio 2015) che, in tema di associazione per delinquere, a fronte di plurime commissioni, in concorso con altri partecipi, di fatti integranti i reati-fine dell'associazione, grava sul singolo la prova che il suo contributo non è dovuto ad un vincolo preesistente con i correi, fermo restando che, a motivo della natura permanente del reato associativo, detta prova non può consistere nella limitata durata dei rapporti con costoro.

12. Altrettanto inammissibile è il terzo motivo.

Ed invero, la qualifica di organizzatore in un'associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti spetta a chi assume poteri di gestione, quand'anche non pienamente autonomi, in uno specifico e rilevante settore operativo del gruppo (Cass., Sez. IV, n. 52137 del 17 ottobre 2017).

Pertanto, la circostanza che agisca nell'ambito delle direttive impartite da altri, non osta al fatto che egli venga definito come organizzatore, nel caso in cui ponga in essere con autonomia la funzione di curare il coordinamento dell'attività degli altri aderenti ovvero l'impiego razionale delle strutture e delle risorse associative o di reperire i mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso (sul punto: Cass., Sez. V, Sentenza n. 37370 del 7 giugno 2011; Cass., Sez. VI, Sentenza n. 1793 del 3 giugno 1993).

Per tali ragioni non ha pregio la doglianza del ricorrente: infatti, il M. ha gestito i cuccioli nell'abitazione della madre, attraverso le attività di custodia, cura e regolarizzazione, ha intrattenuto i rapporti con il veterinario dal quale ha portato gli animali e ha svolto l'attività illecita di rivendita dei cani con la collaborazione della madre.

Il motivo deve quindi essere considerato inammissibile.

13. Anche il quarto motivo non sfugge al giudizio di inammissibilità.

Ed invero, per quel che riguarda le circostanze attenuanti generiche, il giudice di secondo grado considera non solo il precedente penale specifico, ma anche l'assenza di elementi positivi. Inoltre, la sentenza di primo grado aveva dal canto suo considerato non meritevoli gli imputati di alcun trattamento benevolo, considerando il comportamento processuale tenuto e la personalità indifferente e priva di rivalutazione critica e di alcun rimorso, sottolineando come comunque la sola incensuratezza in assenza di altri elementi positivi non fosse sufficiente per il riconoscimento delle invocate attenuanti generiche. Del resto, si ricorda, ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il pieno esercizio del diritto di difesa, se faculta l'imputato al silenzio e persino alla menzogna, non lo autorizza, per ciò solo, a tenere comportamenti processualmente obliqui e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento, e la cui violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice di merito (Sez. un., n. 36258 del 24 maggio 2012). È opportuno, poi, considerare che nell'applicazione delle circostanze attenuanti generiche il giudice non può tenere conto unicamente dell'incensuratezza dell'imputato, ma deve considerare anche gli altri indici desumibili dall'art. 133 c.p. (Cass., Sez. IV, n. 31440 del 25 giugno 2008).

Tuttavia, nel caso di specie, il ricorrente non risulta neppure incensurato, dal momento che correttamente è stata individuata la presenza di precedenti penali di cui uno specifico; invero, egli aveva a suo carico un precedente per detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di sofferenze, commesso il 7 febbraio 2014 in Pontoglio, oltre che a una condanna per guida in stato di ebrezza del 29 gennaio 2010.

14. Per quel che riguarda il trattamento sanzionatorio, i giudici di appello valutano la pena base applicata dal giudice di primo grado troppo elevata.

Non coglie nel segno la censura difensiva secondo cui non sarebbe stato spiegato il motivo per cui non si sarebbe potuta applicare una pena base prossima al minimo edittale, atteso che i giudici muovono dalla p.b. di anni 3 e mesi 8 di reclusione, superiore di appena 8 mesi al minimo edittale di cui all'art. 416, comma primo, c.p.

Sul punto, è sufficiente ricordare che nel caso in cui venga irrogata una pena prossima al minimo edittale, l'obbligo di motivazione del giudice si attenua, talché è sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (Sez. II, n. 28852 dell'8 maggio 2013 - dep. 8 luglio 2013, Taurasi e altro, Rv. 256464).

Quanto alla asserita mancanza di motivazione circa la mancata diminuzione con riferimento agli aumenti di pena applicati a titolo di continuazione, il giudice di appello applica un aumento complessivo, giungendo alla pena di anni 6 di reclusione reputando congrui gli aumenti in continuazione effettuati (dunque aumentando di anni 2 e mesi 4 di reclusione, rispetto alla pena base di 3 anni ed 8 mesi di reclusione), ridotta poi per il rito ad anni 4 di reclusione, oltre la multa, laddove il primo giudice aveva aumentato a titolo di continuazione in misura corrispondente (ossia di anni 2 e mesi 4 di reclusione). Orbene, sul punto è sufficiente ricordare che in tema di determinazione della pena nel reato continuato, non sussiste obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base (Sez. III, n. 44931 del 2 dicembre 2016 - dep. 29 settembre 2017, Portulesi e altri, Rv. 271787).

15. Anche l'ultimo motivo è colpito dalla sanzione della inammissibilità.

Ed invero, il primo giudice aveva riconosciuto alla costituita parte civile, l'associazione A.Di.Ca Onlus, associazione per la difesa del cane, il risarcimento del danno derivante dall'attività illecita accertata. All'affermazione del diritto al risarcimento, peraltro, non era conseguita la liquidazione integrale del danno richiesto, in mancanza di elementi cui ancorarne la relativa quantificazione, ritenendosi diversamente raggiunta la prova per accedere alla richiesta condanna generica con riconoscimento di una somma a titolo di provvisionale nei termini richiesti di euro 5000,00. Detto capo era stato impugnato in appello dalla difesa del M., chiedendo la sospensione dell'esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale, chiedendo a tal fine l'integrazione della documentazione sotto il profilo reddituale. Il giudice d'appello, nel rigettare la richiesta, ha ritenuto che la somma stabilita a titolo di provvisionale, di per sé esecutiva, fosse congrua in relazione al danno subito dalla parte civile costituita.

Tanto premesso, la censura difensiva svolta in relazione al capo contenente le statuizioni civili non ha pregio. Sul punto deve, anzitutto, essere ricordato che quando nel processo penale la persona offesa si è costituita parte civile, promuovendo domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, il giudice nel pronunciare la sentenza di condanna provvede anche alle statuizioni civili solamente nel caso in cui sia stata raggiunta la prova del danno da reato sia per quanto attiene all'an che al quantum. Al contrario, come avvenuto nel caso di specie, se è stata raggiunta la prova solo dell'an il giudice pronuncia condanna generica e rimette le parti davanti al giudice civile per la liquidazione dello stesso. Tuttavia, esiste la possibilità che la parte civile possa richiedere al giudice penale la concessione di una provvisionale, nei limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova che impone all'imputato e al responsabile civile il pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno anticipato rispetto alla definitiva determinazione dello stesso ed è immediatamente esecutiva. L'istituto in esame è disciplinato sulla scia della previsione di cui all'art. 278, comma secondo, c.p.c., ed anche in sede penale, ai fini della liquidazione della provvisionale non è necessaria la prova dell'ammontare del danno stesso, ma è sufficiente la certezza della sua sussistenza sino all'ammontare della somma liquidata (Sez. VI, n. 39542 del 22 marzo 2016 - dep. 23 settembre 2016, Fronti e altri, Rv. 268110, che, in motivazione, ha precisato che non è suscettibile di riesame in sede di legittimità la decisione sulla provvisionale congruamente motivata). Elementi essenziali della disciplina sono pertanto la richiesta di parte, non potendosi il giudice esprimere d'ufficio, nonché la presenza di una sentenza di condanna generica che richiede l'accertamento di un reato per il quale non è stata compiutamente raggiunta la prova in ordine all'entità del risarcimento ma soltanto la sua certezza sino all'ammontare della provvisionale. A ciò, peraltro, va aggiunto che la condanna al pagamento della provvisionale è immediatamente esecutiva ex lege, come espressamente prevede l'art. 540, comma secondo, c.p.p.

16. Ne discende, pertanto, che la censura difensiva secondo cui non si comprenderebbe il motivo per cui la Corte di appello ritenga che la provvisionale è "di per sé esecutiva" in violazione di quanto previsto dall'art. 600 c.p.p. che ne consente la sospensione. Nella specie, infatti, la Corte territoriale si è limitata a richiamare una previsione normativa e, di contro, la difesa del ricorrente non ha specificato, nemmeno in questa sede, le ragioni che avrebbero necessitato la sospensione ex art. 600, ultimo comma, c.p.p., che, come è noto, è sì consentita, "quando ricorrono gravi motivi (come oggi prevede la norma processuale in esame, a seguito della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza 27 luglio 1994, n. 353, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del previgente testo che subordinava la sospensione dell'esecuzione alla condizione che dalla stessa potesse "derivare grave e irreparabile danno").

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Sez. V, n. 19351 del 18 dicembre 2017), infatti, ai fini dell'accoglimento della richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile al pagamento di una provvisionale è necessaria la ricorrenza di un pregiudizio eccessivo per il debitore, che può consistere nella distruzione di un bene non reintegrabile ovvero, se si tratta di somme di denaro, nel nocumento derivante dal palese stato di insolvibilità del destinatario della provvisionale, tale da rendere impossibile o altamente difficoltoso il recupero di quanto pagato, nel caso di modifica della condanna (v. anche Cass., Sez. IV, n. 28589 del 2 febbraio 2016). Nel caso di specie i giudici di merito hanno, come visto, ritenuto non possibile la liquidazione integrale del danno richiesto dal momento che mancavano gli elementi per quantificarla, ma nel contempo hanno ritenuto raggiunta la prova per concedere la condanna generica e il riconoscimento della provvisionale di 5000 euro.

Trattasi, all'evidenza, di una somma correttamente ritenuta "congrua" dalla Corte d'appello, tenuto conto non solo del danno patrimoniale derivato all'associazione (quest'ultima, infatti, risulta essere stata nominata custode dei cani caduti in sequestro nel corso del procedimento, ed ha dunque provveduto alla loro cura e mantenimento), ma anche del danno morale conseguito all'illecito (ed invero, la sofferenza dei cani curati ed assisiti dall'Ente, e, in taluni casi, deceduti, quali vittime dei reati fine connessi al piano criminoso dell'associazione per delinquere, determina l'insorgenza del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, atteso che, sulla base di quanto risulta dallo statuto e dall'atto costitutivo e dell'attività svolta all'interno del procedimento, è ravvisabile, come evidenzia il primo giudice, una corrispondenza ontologica degli interessi tutelati dall'Ente con quelli protetti dai reati per cui si procede, valutati in stretta aderenza con la struttura e a natura della fattispecie criminosa). A ciò, peraltro, va aggiunto che il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva, non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (Sez. V, n. 5001 del 17 gennaio 2007 - dep. 7 febbraio 2007, Mearini e altro, Rv. 236068).

17. Né, infine, può ritenersi illegittimo il diniego di rinnovazione istruttoria ex art. 603, c.p.p. (rappresentata dalla richiesta di acquisizione della dichiarazione dei redditi della madre dell'imputato, del contratto di locazione e la documentazione del Ser.T relativa all'imputato), implicitamente rigettata dalla Corte d'appello (possibilità ammessa con orientamento ormai consolidato: Sez. VI, n. 11907 del 13 dicembre 2013 - dep. 12 marzo 2014, Coppola, Rv. 259893), atteso che, versandosi in tema di impugnazioni delle statuizioni civili della sentenza di condanna penale, la disciplina relativa alla ripartizione dell'onere probatorio è governata dalle regole civilistiche. Ne discende, pertanto, che l'onere della esistenza di fatti impeditivi, modificativi od estintivi del diritto del richiedente al risarcimento del danno, non compete a quest'ultimo (né, tantomeno, può essere supplito ex art. 603, c.p.p. con richiesta di integrazione probatoria, atteso che l'istanza di sospensione dell'esecuzione deve essere sostenuta da elementi che giustifichino la ricorrenza dei "gravi motivi", dovendosi peraltro nel caso in esame rilevare che i documenti di cui era stata chiesta l'ammissione erano in possesso della stessa parte istante e non avrebbero dovuto essere acquisiti presso terzi), ma, secondo il principio generale di cui all'art. 2697 c.c., a colui il quale l'esistenza di tali fatti intenda eccepire. Il mancato assolvimento dell'onere probatorio della ricorrenza dei "gravi motivi" ex art. 600, ultimo comma, c.p.p., gravante su chi richiede la sospensione dell'esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale, non può essere supplito dalla richiesta di rinnovazione del dibattimento ex art. 603 c.p.p., in quanto la prova della ricorrenza dei "gravi motivi" deve essere offerta dalla parte che ne fa richiesta, non rientrando nel legittimo esercizio delle facoltà istruttorie integrative previste dall'art. 603 c.p.p., che può dispiegarsi solo sui fatti oggetto di prova ex art. 187 c.p.p., il cui comma terzo, limita l'oggetto della prova in caso di costituzione di parte civile ai "fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato", non estendendosi anche ai fatti impeditivi, modificativi od estintivi del diritto della parte civile costituita a ottenere la provvisionale immediatamente esecutiva ex lege, fatti per i quali vale la regola civilistica dettata dall'art. 2697 c.c., con conseguente onere probatorio in capo a colui il quale l'esistenza di tali fatti intenda eccepire.

18. Ciascun ricorso dev'essere complessivamente dichiarato inammissibile.

A tale proposito è il caso di precisare che manifestamente infondata, ai sensi dell'art. 606, comma 3, c.p.p., non è soltanto la questione palesemente pretestuosa o artificiosa oppure quella apparente, tale cioè da presentarsi ictu oculi come inconsistente e priva di ogni ragionevolezza, o quella caratterizzata da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell'ordinamento (da ultimo, ex multis, Sez. un., n. 12602 del 17 dicembre 2015, dep. 2016, Ricci, in motiv.), situazioni processuali che non esigono perciò un particolare sforzo motivazionale per essere confutate.

Manifestamente infondata è, invece, anche la questione che - pur dando luogo, sul piano logico, all'impostazione di un sillogismo - rende assolutamente vana, sul piano giuridico, la prospettazione dell'ipotesi strutturata con il motivo di ricorso, per l'assoluta inconsistenza della premessa che muove dall'interpretazione della norma o del principio giuridico invocati.

Ne consegue che, ai fini della valutazione del carattere manifesto, o meno, dell'infondatezza, occorre delibare sulla solidità delle ragioni poste a fondamento della doglianza, non potendo l'ampiezza della motivazione giudiziale o la complessità e la diffusività delle argomentazioni spese dal ricorrente con il motivo di impugnazione essere ritenute logicamente incompatibili con un procedimento ermeneutico e che sfoci in un'affermazione di manifesta infondatezza del ricorso per cassazione. Infatti, proprio la carenza di fondamento dell'ipotesi prospettata con il motivo di gravame può richiedere la produzione di un particolare sforzo argomentativo per sostenerla, così da esigere parallelamente un'articolata motivazione per confutarla.

E ciò è quanto avvenuto nel caso in esame.

19. Consegue pertanto la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stata presentata senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.

Depositata il 15 aprile 2019.