Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 18 settembre 2018, n. 57871

Presidente: Mogini - Estensore: De Amicis

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 15 marzo 2018 la Corte d'appello di Brescia ha parzialmente riformato la sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto, emessa il 9 ottobre 2017 dal G.u.p. presso il Tribunale di Brescia nei confronti di Alfredo R., Piero C. e Federica G., imputati del reato di cui agli artt. 110, 323 c.p., dichiarando non luogo a procedere nei loro confronti limitatamente a un decreto di liquidazione emesso dal P.M. presso il Tribunale di Milano in data 12 maggio 2010, per essere il reato loro ascritto estinto per intervenuta prescrizione.

Contestualmente, la Corte d'appello ha disposto il rinvio a giudizio dei predetti imputati con riferimento alle residue imputazioni di abuso d'ufficio, attinenti alla contestata violazione, da parte del dr. Alfredo R., Magistrato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, della normativa concernente la registrazione e l'intestazione al F.U.G. - Fondo Unico Giustizia (art. 61, comma 23, d.l. n. 112 del 2008, convertito con la l. n. 133/2008, e art. 2, d.l. 16 settembre 2008, n. 143, convertito con la l. n. 181/2008) delle somme di denaro oggetto di un decreto di sequestro preventivo disposto nell'ambito di un procedimento penale pendente presso la Procura della Repubblica di Milano, mediante la nomina di custodi giudiziari individuati nelle persone del dottore commercialista Piero C. e dell'avvocato Federica G., ai quali liquidava compensi per importi assai rilevanti (pari ad una complessiva cifra di oltre 900.000,00 euro) e non giustificati a fronte dell'attività di gestione patrimoniale in concreto svolta riguardo ai cespiti oggetto di sequestro, così procurando loro un ingiusto profitto con il corrispondente danno a carico dell'erario.

2. Avverso la su indicata decisione hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di Alfredo R., deducendo quattro motivi il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.

2.1. Con il primo motivo di ricorso si censura la violazione degli artt. 582, comma 1, e 591, comma 1, lett. c), c.p.p., eccependo, sulla base di una recente decisione della Suprema Corte, l'inammissibilità dell'appello proposto dal P.M. avverso la sentenza di non luogo a procedere, sul rilievo che tale atto di impugnazione è stato depositato presso la Cancelleria del G.i.p. di Brescia senza alcuna indicazione della persona che materialmente ebbe a depositarlo, laddove la normativa processuale su richiamata fa obbligo al funzionario dell'ufficio che riceve l'atto di annotare il nominativo di colui che lo ha presentato.

2.2. Con il secondo motivo si deducono violazioni di legge con riferimento agli artt. 521, comma 2, 522, comma 1, e 129, comma 2, c.p.p., in ragione del difetto di correlazione tra il fatto oggetto dell'imputazione e il fatto oggetto della sentenza dichiarativa di prescrizione, nella parte in cui viene individuato un fatto di reato la cui non manifesta insussistenza ha consentito l'applicazione della causa estintiva.

Si assume, al riguardo, che la sentenza impugnata ha configurato una nuova imputazione, ipotizzando una condotta violativa - la disposizione di cui all'art. 259 c.p.p. - diversa da quelle oggetto dell'originaria contestazione. Negando, inoltre, la condizione della manifesta insussistenza del fatto, diverso da quello individuato dal P.M. e contestato al ricorrente, la decisione impugnata ha contestualmente violato la regola posta dall'art. 129, comma 2, c.p.p., che deve avere ad oggetto solo il fatto contestato, ed il concreto esercizio del diritto di difesa.

2.3. Con il terzo motivo si denunciano vizi della motivazione là dove la sentenza impugnata ha negato, in merito alla contestata violazione della normativa relativa al F.U.G., la sussistenza di una evidente prova dell'innocenza dell'imputato, così ponendosi in netta contraddizione rispetto ai passaggi della motivazione in cui ha invece ritenuto la violazione non della predetta normativa (rispetto alla quale, peraltro, egli non aveva alcun obbligo e non poteva esercitare alcun potere), ma, secondo lo schema dello sviamento di potere attraverso la nomina dei custodi, della su citata disposizione di cui all'art. 259 c.p.p., rinviandolo tuttavia a giudizio per violazione della prima.

2.4. Con il quarto motivo, infine, si lamentano violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione agli artt. 157 e 323 c.p., per avere la Corte d'appello pronunziato la declaratoria di prescrizione del reato limitatamente al decreto di liquidazione del P.M. in data 12 maggio 2010, sull'erroneo assunto secondo cui il reato di abuso d'ufficio sarebbe "unitario", ma a "consumazione prolungata", con la conseguenza che lo stesso risulterebbe consumato non al momento del conferimento dell'incarico ai custodi, bensì al momento, successivo, della liquidazione dei compensi, in tal modo ponendosi in contrasto con un pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Dalla motivazione emerge, ad avviso del ricorrente, una evidente contraddizione là dove, per un verso, il reato in esame viene configurato nei termini sopra indicati, con la logica conseguenza che il termine prescrizionale dovrebbe iniziare a decorrere solo dall'ultimo decreto di liquidazione, per altro verso lo stesso viene dichiarato prescritto unicamente rispetto al primo segmento della condotta addebitata.

3. I difensori di Piero C. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la decisione sopra indicata, deducendo con il primo motivo censure comuni a quelle oggetto del primo motivo di ricorso del R., e con il secondo motivo vizi analoghi a quelli oggetto della quarta doglianza ivi enucleata.

4. I difensori di Federica G. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la decisione sopra indicata, deducendo con il primo motivo censure comuni a quelle oggetto del primo motivo di ricorso proposto dal R., e con il secondo motivo vizi analoghi a quelli oggetto della quarta doglianza ivi enucleata. Si evidenzia, al riguardo, che la Corte distrettuale, diversamente da quanto ritenuto dal primo Giudice, ha erroneamente ritenuto consumato il reato nel momento in cui il custode giudiziario ha ricevuto i compensi, giungendo ad affermare, in aperto contrasto con la stessa imputazione, che si sarebbero verificati più reati di abuso.

5. Con requisitoria pervenuta nella Cancelleria di questa Suprema Corte il 3 settembre 2018 il P.G. ha chiesto il rigetto dei ricorsi.

6. Con memoria depositata in data 11 settembre 2018 i difensori del C. hanno replicato alle conclusioni del P.G., illustrando ulteriori argomentazioni a sostegno dei motivi di ricorso dedotti sia in ordine al profilo della inammissibilità dell'appello, sia riguardo al tema dell'intervenuta prescrizione del reato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono infondati e vanno rigettati per le ragioni di seguito indicate.

2. Infondata, anzitutto, deve ritenersi la prima ragione di doglianza, comune a tutti i ricorrenti, con la quale si eccepisce la intervenuta violazione degli artt. 582, comma 1, e 591, comma 1, lett. c), c.p.p., muovendo dall'assunto secondo cui l'appello del P.M. è stato depositato presso la cancelleria dell'ufficio del G.i.p. presso il Tribunale di Brescia in data 20 novembre 2017 senza alcuna indicazione della persona che materialmente ebbe a depositarlo, sebbene le richiamate disposizioni normative facciano espressamente obbligo al funzionario dell'Ufficio giudiziario ricevente di apporvi l'indicazione, fra l'altro, della persona che lo presenta.

A sostegno di tale censura i ricorrenti hanno richiamato, in particolare, una decisione di questa Corte (Sez. 1, n. 3820 dell'11 gennaio 2017, dep. 2018, Errico, Rv. 272424), secondo cui è inammissibile, alla stregua delle su richiamate disposizioni normative, l'impugnazione presentata da un soggetto di cui non vi sia l'indicazione onomastica, giusta formale attestazione di deposito estesa sull'originale dell'atto dal pubblico ufficiale addetto alla ricezione presso la cancelleria del giudice a quo.

3. Una costante linea interpretativa di questa Suprema Corte (Sez. 2, n. 2017 dell'11 aprile 2000, Mannuccia, Rv. 215911) afferma che, in tema di presentazione dell'atto di impugnazione, l'inammissibilità prevista dall'art. 591 per l'inosservanza delle formalità prescritte dall'art. 582 c.p.p. si configura solamente ove ricorra una situazione di concreta incertezza sulla legittima provenienza del gravame dal soggetto titolare del relativo diritto e non anche quando l'identità della persona appaia desumibile dal complessivo esame del documento. In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto ammissibile l'appello cautelare - di cui il ricorrente lamentava la mancata indicazione sia del soggetto che lo aveva presentato che del pubblico ufficiale ricevente - proposto dal P.M. con atto recante l'intestazione della Procura della Repubblica, la firma del magistrato ed il timbro dell'ufficio, nonché il timbro dell'ufficio ricevente, con l'indicazione della data e la sottoscrizione del pubblico ufficiale addetto.

L'inammissibilità, pertanto, può essere pronunciata soltanto se la violazione, che è addebitabile al pubblico ufficiale ricevente, assuma caratteristiche tali da far escludere anche la possibilità della presunzione (altrimenti doverosa) della legittima provenienza dell'atto, mentre alcun onere di controllo può essere ascritto, a colui che lo presenta, sull'operato della persona addetta a riceverlo.

Nello stesso senso la Corte si era già espressa (Sez. 1, n. 1289, 14 marzo 1991, Leanza, Rv. 187970; Sez. 1, n. 1448, 2 aprile 1992, Liberati, Rv. 192476; Sez. 1, n. 2537 del 1° giugno 1992, Ruiu, Rv. 190956), affermando che l'indicazione, da parte del pubblico ufficiale addetto, della persona che ha presentato l'atto di impugnazione, come prescritto dall'art. 582, comma 1, c.p.p., non richiede formule sacramentali.

L'adempimento può quindi considerarsi assolto anche quando l'identità della persona appaia desumibile dal complessivo esame dell'atto di impugnazione e dell'attestazione di ricezione, in assenza di elementi di equivocità tali da far ragionevolmente dubitare della legittima provenienza dell'atto stesso dal soggetto titolare del diritto di impugnazione.

L'inosservanza delle disposizioni richiamate dall'art. 591, comma 1, lett. c), c.p.p. in tanto può dar luogo alla inammissibilità dell'impugnazione in quanto sia addebitabile a difetto di diligenza da parte del titolare del diritto di impugnazione ovvero, trattandosi di inosservanza addebitabile agli uffici, la stessa assuma caratteristiche tali da far escludere anche la possibilità della presunzione, altrimenti doverosa, che il titolare del diritto di impugnazione abbia, per parte sua, osservato le prescrizioni a lui dirette.

Nessun onere di controllo sull'operato degli uffici addetti alla ricezione delle impugnazioni, relativamente agli adempimenti posti dalla legge a carico degli stessi, può ritenersi dunque gravante sui soggetti titolari del diritto di impugnazione.

Linea interpretativa, questa, i cui enunciati sono stati sempre confermati nella successiva elaborazione giurisprudenziale di questa Suprema Corte (Sez. 2, n. 5505 del 9 ottobre 2002, dep. 2003, Gregory, Rv. 224854; Sez. 1, n. 46171 del 5 novembre 2009, Tancredi, Rv. 245508; Sez. 2, n. 40254 del 12 giugno 2014, Avallone, Rv. 260443), le cui decisioni, peraltro, hanno avuto ad oggetto fattispecie concrete affini a quella qui considerata, nelle quali è stata esclusa l'inammissibilità dell'appello del P.M. in relazione al quale l'ufficio ricevente non aveva provveduto a identificare il presentatore dell'atto, né ad attestare l'esistenza di una delega in favore di quest'ultimo.

3.1. La diversa argomentazione rinvenibile nella motivazione di Sez. 6, n. 1349 del 14 aprile 1998, Raciti, Rv. 211731 - secondo cui la mancanza di quelle attestazioni comporta la inammissibilità della impugnazione, a norma dell'art. 591, comma 1, lett. c), c.p.p., "essendo d'altro canto onere di chi presenta l'atto, per evitare tale conseguenza, di pretendere e verificare l'osservanza di dette formalità" -, lungi dal costituire un precedente contrario all'orientamento dominante, mirava a valorizzare l'esigenza di un rigoroso rispetto dei criteri formali nella verifica delle modalità di presentazione dell'atto: esigenza del tutto giustificata in ragione della peculiarità della fattispecie concretamente esaminata, che riguardava, diversamente da quella qui considerata, un caso di appello cautelare proposto nell'interesse di una parte privata, in cui mancava qualsiasi possibilità di stabilire chi avesse presentato l'impugnazione in questione e quale pubblico ufficiale l'avesse ricevuta, poiché l'atto di impugnazione recava unicamente un timbro di deposito della cancelleria, sprovvisto tanto della sottoscrizione del funzionario addetto alla ricezione, quanto dell'identificazione del soggetto presentatore, inevitabilmente imponendosi, di conseguenza, in quel caso, la sanzione della inammissibilità del proposto appello.

3.2. Costituisce, pertanto, il frutto di un indirizzo interpretativo dominante sin dall'entrata in vigore del codice del 1988 l'enunciazione del principio secondo cui non può farsi ricadere sulla parte impugnante la conseguenza di un'inosservanza che va addebitata, se del caso, all'ufficio ricevente, con il logico corollario che l'impugnazione è ammissibile anche se manca la specifica indicazione della persona che presenta l'atto di impugnazione, non potendo addebitarsi al suo titolare una inosservanza compiuta dal pubblico ufficiale addetto alla Cancelleria (Sez. 1, n. 5021 del 20 dicembre 1991, dep. 1992, Piacenti, Rv. 189117; Sez. 2, n. 5501 del 24 febbraio 1992, Badiane, Rv. 190361).

Alla individuazione delle modalità di presentazione dell'atto di impugnazione così come descritte dal legislatore nella previsione dell'art. 582 c.p.p. si riconnette, invero, una funzione di sostanziale garanzia di certezza della provenienza dell'atto dal titolare del diritto di impugnazione, sicché non sono imposte particolari formalità neanche per la figura dell'incaricato, potendo il relativo conferimento avvenire anche oralmente ed essere dichiarato e accertato dalla cancelleria attraverso la qualificazione e la ricognizione del presentatore dell'atto e del suo rapporto con chi lo ha sottoscritto, ovvero, nel caso di impugnazione del Pubblico Ministero, con l'ufficio di provenienza (Sez. 6, n. 4947 del 26 febbraio 1997, Musca, Rv. 208910; Sez. 2, n. 35345 del 12 giugno 2002, Cordella, Rv. 222920).

Non è indispensabile, quindi, anche sotto tale connesso profilo, la materiale presenza del magistrato nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, essendo sufficiente che l'atto di impugnazione, già sottoscritto da un magistrato della Procura, sia presentato da personale interno all'ufficio della stessa Procura, incaricato della consegna, sempre che, in ragione del rapporto dell'incaricato con il titolare del potere di impugnazione, si abbia piena garanzia circa l'autenticità della sottoscrizione (Sez. 6, n. 28825 del 21 settembre 2017, dep. 2018, Scuto, Rv. 273663; Sez. 2, n. 52195 del 7 ottobre 2016, Sciscione, Rv. 268669).

Il registro di passaggio, le cui risultanze ben possono essere utilizzate al riguardo, non assolve certo la funzione propria di un atto costitutivo dell'impugnazione, bensì quella di un atto che documenta l'intervenuta presentazione del gravame nella cancelleria del giudice, ai fini interni dell'ufficio del P.M. (Sez. 6, n. 2642 del 30 settembre 1993, Tocci, Rv. 195888). Esso costituisce, dunque, il veicolo ufficiale di trasferimento degli atti da un ufficio giudiziario all'altro, con il logico corollario che la persona che ha presentato l'atto può essere agevolmente individuata attraverso la consultazione di tale registro (Sez. 1, n. 759 del 28 ottobre 1993, dep. 1994, Recchi, Rv. 196227).

La prova dell'inoltro degli atti del P.M. ad altro ufficio, pertanto, può essere desunta, oltre che dal timbro di ricezione dell'atto da parte di quest'ultimo, anche dall'annotazione del medesimo sui registri di passaggio, che hanno natura fidefacente (Sez. 3, n. 35310 del 7 giugno 2011, Maracci, Rv. 250856).

4. A tale quadro di principii si è correttamente uniformata la sentenza impugnata, là dove ha evidenziato il fatto che l'appello proposto dal P.M. recava la chiara intestazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia, la sottoscrizione del Procuratore della Repubblica e del sostituto titolare dell'indagine, il timbro di deposito presso la segreteria di quell'Ufficio e il timbro dell'Ufficio ricevente, con l'indicazione della data di ricezione e la sottoscrizione del pubblico ufficiale addetto, traendone logicamente, sulla base delle indicazioni emergenti dal su richiamato insegnamento di questa Suprema Corte, la coerente conclusione della evidente riferibilità dell'atto di appello all'ufficio del P.M.

Deve altresì soggiungersi, come puntualmente evidenziato dal P.G. nella sua requisitoria, che nell'attestazione resa in data 20 novembre 2017 dal funzionario della cancelleria del G.i.p. presso il Tribunale di Brescia - contestuale alla data di deposito dell'atto d'impugnazione sia presso la segreteria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia che presso la cancelleria dell'ufficio ricevente - si dà atto che è il Pubblico Ministero, con dichiarazione del 20 novembre 2017, depositata in pari data presso quella cancelleria ed allegata in copia all'avviso di deposito che lo stesso funzionario, nella stessa data, ha inoltrato alle parti, ad aver proposto appello avverso la su richiamata sentenza del G.u.p., con la logica conseguenza che è lo stesso P.M., alla stregua di tali risultanze documentali, ad aver provveduto sia alla proposizione dell'atto d'impugnazione che al suo deposito presso la cancelleria dell'ufficio del G.i.p., avuto riguardo, per un verso, alla contestualità delle azioni, riferite entrambe allo stesso soggetto processuale, per altro verso alla contestualità dell'attestazione della cancelleria e del deposito della dichiarazione impugnatoria, sì come sottoscritta dai predetti magistrati dell'ufficio del P.M. che in tal senso vi hanno provveduto.

Irrilevante, dunque, a fronte di tali oggettive, palesi ed inequivoche risultanze documentali in ordine alla certezza di provenienza dell'impugnazione dal titolare del relativo potere, deve ritenersi la mancata annotazione, sull'attestazione resa dal funzionario dell'ufficio giudiziario ricevente, del nominativo della persona fisica che materialmente ha provveduto alla consegna dell'atto nella cancelleria del medesimo ufficio che, contestualmente, come si è già avuto modo di osservare, ne ha attestato il deposito allegandovi l'atto sottoscritto dai magistrati dell'ufficio impugnante.

Pur non condividendosi, in linea generale e per le ragioni or ora esposte, l'affermazione di principio (contenuta nella su richiamata decisione della Sez. 1, n. 3820 dell'11 gennaio 2017, dep. 2018, Errico, cit.) in ordine all'assolutezza del rispetto della formale esigenza dell'indicazione onomastica del soggetto che materialmente provvede alla presentazione dell'atto, deve tuttavia rilevarsi come la peculiarità della concreta fattispecie ivi esaminata ben giustificasse tale conclusione, trattandosi di una impugnazione del pubblico ministero depositata nella corrispondente segreteria e da questa trasmessa alla cancelleria della corte d'appello attraverso una incerta sequenza di passaggi di cui vi era una incompleta traccia nel solo registro di passaggio, con la conseguente, rilevata, presenza di non univoci elementi ricostruttivi circa la sicura provenienza dell'atto dall'ufficio impugnante, attesa la mancata prova dell'osservanza degli adempimenti prescritti dal secondo inciso del primo comma dell'art. 582 cit.

5. Gli adempimenti conseguenti alla ricezione dell'atto di impugnazione sono devoluti dall'art. 582, comma 1, c.p.p. alla cura del "pubblico ufficiale addetto".

Siffatta disposizione, in particolare, impone al pubblico ufficiale addetto alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento, quando riceve l'atto di impugnazione, di unire il documento agli atti del procedimento e di rilasciare, se richiesto, attestazione dell'atto di ricezione.

Da ciò discende, quale logico corollario, la condivisibile affermazione del principio in base al quale l'atto di impugnazione, una volta presentato dalla parte interessata, non è più nella disponibilità di chi vi ha provveduto, ma entra nella esclusiva disponibilità dell'ufficio che è tenuto ad osservare le ulteriori incombenze previste dal codice di rito (arg. ex Sez. 5, n. 1384 del 1° luglio 1992, Ferrara, Rv. 191866, con riferimento ad una fattispecie di impugnazione presentata davanti ad un agente consolare all'estero).

In caso contrario verrebbero a ricadere proprio sulla parte che propone l'impugnazione le conseguenze, potenzialmente irrimediabili, del mancato adempimento di obblighi che la legge pone a carico del pubblico ufficiale incaricato della ricezione, ossia a carico di un soggetto che non è legato da alcun vincolo alla parte impugnante, e sul quale quest'ultima - contrariamente a quanto affermato nel su menzionato passaggio motivazionale di Sez. 6, n. 1349 del 14 aprile 1998, Raciti, cit. - non è comunque abilitata ad intervenire per pretendere o sollecitare l'adempimento di formalità il cui rispetto gli è affidato.

Ne consegue, ancora, che in difetto di espressa menzione, nel testo normativo, delle forme dell'indicazione della persona che ha provveduto alla presentazione dell'atto, deve ribadirsi, in linea con il dominante indirizzo ermeneutico tracciato da questa Suprema Corte, che l'indicazione, da parte del pubblico ufficiale addetto, di colui che ha presentato l'atto di impugnazione non richiede formule sacramentali, sì che l'adempimento può considerarsi assolto anche quando l'identità della persona appaia desumibile dal complessivo esame dell'atto di impugnazione e dell'attestazione della ricezione di esso, sempre che non vi siano elementi di equivocità che inducano a dubitare ragionevolmente della provenienza di esso dal soggetto titolare del diritto di impugnazione.

5.1. Né può tralasciarsi di considerare, al riguardo, che la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 110 del 1° aprile 2003, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 582, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, primo comma, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, nella parte in cui consente soltanto alle parti private ed ai difensori - e non anche al pubblico ministero - di presentare l'atto di impugnazione nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, se tale luogo è diverso da quello in cui fu emesso il provvedimento impugnato.

Tale previsione, infatti, secondo il Giudice delle leggi, è agevolmente giustificabile in considerazione delle evidenti diversità di condizioni e status che caratterizzano i soggetti privati, da un lato, ed i magistrati del pubblico ministero, dall'altro, potendosi questi ultimi avvalere delle strutture del proprio ufficio e risultando, dunque, in concreto agevolati nella presentazione, eventualmente anche a mezzo di incaricato, dell'atto di impugnazione.

Nello stesso senso si è pronunciata questa Suprema Corte (Sez. 1, n. 32094 del 18 febbraio 2004, Ingrasciotta, Rv. 229487), che, nel ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 582 c.p.p. per violazione del principio di parità tra accusa e difesa, ha concretamente escluso, sulla base delle medesime argomentazioni, qualsiasi rischio di compromissione del potere di impugnazione.

5.2. È proprio siffatta diversità di condizioni e status che caratterizzano i soggetti privati, da un lato, e i magistrati del P.M., dall'altro, unitamente alla connotazione di impersonalità che fonda e caratterizza la struttura interna dell'ufficio del P.M. (Sez. 1, n. 941 del 23 marzo 1987, Mandaliti, Rv. 175728), a suggerire - se del caso anche sulla base delle risultanze probatorie di un atto avente natura fidefacente quale il registro di passaggio e fatta salva, comunque, la particolarità delle evenienze di volta in volta considerate - una diversa intensità del preliminare vaglio delibativo da espletare ai fini della concreta verifica della legittimazione del soggetto che materialmente procede al deposito dell'atto: mentre nel caso della parte privata, come osservato nella requisitoria del P.G., la varietà soggettiva dei "latori" dell'atto è potenzialmente notevole ed esorbita dal novero dei soggetti legittimati alla proposizione dell'impugnazione, con il conseguente rilievo di un formale controllo sul nominativo del soggetto che materialmente lo presenta, in relazione a quello che legittimamente lo propone, nel caso della parte pubblica la garanzia di sostanziale certezza che il legislatore intende presidiare con la posizione della su indicata norma processuale può dirsi raggiunta, di regola, attraverso l'accertamento della legittimazione funzionale dell'ufficio - e non certo della persona fisica - a proporre l'impugnazione, indifferente essendo verificare chi, fra i magistrati dell'ufficio del P.M., abbia provveduto, direttamente o attraverso una persona incaricata, al materiale deposito dell'atto, una volta che ne sia stata pacificamente accertata la riferibilità all'ufficio in tal senso legittimato.

6. Inammissibili devono altresì ritenersi i profili di doglianza oggetto del secondo e del terzo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Alfredo R.

Il nuovo comma 3-bis dell'art. 428 c.p.p., introdotto dall'art. 1, comma 40, della l. 23 giugno 2017, n. 103, stabilisce che "contro la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello possono ricorrere per cassazione l'imputato e il procuratore generale solo per i motivi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1 dell'articolo 606".

La ricorribilità per cassazione si estende, in assenza di limitazioni espressamente imposte dal legislatore, non solo alla sentenza di non luogo a procedere pronunziata dal giudice d'appello a conferma della decisione emessa all'esito dell'udienza preliminare, ma anche a quella pronunziata con formula differente, sia essa più o meno favorevole rispetto alla precedente.

Drastica, invece, risulta nel nuovo quadro normativo la contrazione dei casi di ricorso, ora circoscritti ai soli motivi di cui all'art. 606, comma 1, lett. a), b) e c), laddove nell'originaria disciplina il ricorso per cassazione era proponibile senza limiti.

Se la limitazione alle sole violazioni di legge si pone, per un verso, in linea con la disciplina di ordine generale dettata dal nuovo art. 608, comma 1-bis, c.p.p. per la ipotesi del ricorso proposto dal P.G. avverso la conferma in appello della sentenza di proscioglimento, per altro verso si giustifica - alla luce del rafforzamento del principio della presunzione di non colpevolezza dell'imputato - con il fatto che, quanto meno nella parte afferente l'oggetto del processo, sotto il profilo della completezza degli elementi necessari per effettuare una valutazione di sostenibilità dell'accusa in giudizio, la sentenza di non luogo a procedere non possa né debba esser più messa in discussione, esistendo già al riguardo una doppia valutazione conforme.

La scelta del legislatore è altresì giustificata dal fatto che la valutazione della Corte di cassazione, mancando necessariamente una rinnovazione istruttoria in appello, non farebbe altro che replicare, appesantendo inutilmente la procedura, la valutazione già effettuata dal giudice di secondo grado.

L'oggetto del giudizio di legittimità viene pertanto delimitato dal legislatore escludendo, con evidenti finalità deflattive, i motivi di cui alle lett. d) ed e) dell'art. 606, mentre il provvedimento impugnabile in sede di legittimità è solo la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello, non certo il decreto che dispone il giudizio emesso dalla Corte d'appello in esito alla riforma, totale o parziale, della originaria sentenza di non doversi procedere emessa nella fase conclusiva dell'udienza preliminare.

Analoghe considerazioni devono svolgersi nell'ipotesi in cui l'epilogo decisorio dinanzi alla Corte d'appello si scinda, come verificatosi nel caso qui esaminato, in una duplice direzione, pronunciando il giudice di secondo grado, pur all'interno di un unico dispositivo, una decisione di rigetto dell'azione penale con la conferma del proscioglimento per una parte dell'imputazione e statuendo, al contempo, il rinvio a giudizio per l'altra parte dei temi d'accusa: a fronte di tale evenienza procedimentale il ricorso per cassazione non può attingere quest'ultima parte del decisum, ma può investire solo la prima, poiché in caso contrario sospingerebbe il vaglio della Suprema Corte su un oggetto - la decisione intervenuta sul rinvio a giudizio - la cui cognizione le è preclusa in quanto insuscettibile di impugnazione in sede di legittimità ex art. 428, comma 3-bis, cit., ponendosi altrimenti la Corte quale giudice interposto rispetto alla naturale sede del giudizio, che è quella propria del giudice del dibattimento di primo grado.

Ciò posto, deve rilevarsi come i su indicati motivi del ricorso presentato nell'interesse del R. si concentrino su vizi di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione il cui controllo è dalla su citata disposizione normativa radicalmente precluso in questa Sede, ovvero su censure il cui esame, dietro l'apparente schermo dell'enunciata violazione di legge ex artt. 521, comma 2, e 522, comma 1, c.p.p., direttamente involge i contorni di una tipica quaestio facti, attraverso il richiesto vaglio delibativo in merito alla contestata modifica della struttura del fatto nella parte relativa alla condotta violativa di legge oggetto dell'imputazione di abuso in atti d'ufficio, ossia alla individuazione e alla correlativa giustificazione sul piano motivazionale dei presupposti stessi di configurabilità della fattispecie di reato oggetto del rinvio a giudizio disposto dalla Corte d'appello, irrilevante dovendosi ritenere, al riguardo, il fatto che una porzione di quella condotta abbia costituito oggetto della declaratoria di prescrizione: profili, questi, sui quali solo il giudice del dibattimento può ritualmente intervenire sulla base di un apprezzamento di merito complessivamente esteso sull'intera condotta oggetto dell'imputazione.

7. Entro la medesima impostazione ricostruttiva deve altresì inquadrarsi la doglianza, comune a tutti i ricorrenti, rispettivamente enucleata nel quarto motivo del ricorso proposto nell'interesse del R. e nel secondo motivo dei ricorsi proposti nell'interesse di C. e G., incentrandosi tali censure sulla contestata configurazione del delitto di abuso in atti d'ufficio quale reato unitario a consumazione prolungata, il cui definitivo spirare, pertanto, dovrebbe verificarsi non al momento del materiale affidamento degli incarichi di custodia giudiziaria (sì come ritenuto dal giudice di primo grado), ma nella successiva fase della liquidazione dei relativi compensi, con la conseguente erronea delimitazione dell'operatività della causa estintiva prescrizionale al solo decreto di liquidazione del 12 maggio 2010 e non anche a quelli successivamente adottati: profili di censura, questi, che evidentemente involgono l'apprezzamento non tanto della correttezza, o meno, del parziale esito liberatorio fondato sulla declaratoria di non luogo a procedere per la prescrizione di una porzione della condotta, quanto invece della correttezza della configurazione giuridica del reato accolta nel contestuale decreto che dispone il giudizio, siccome basata, secondo i ricorrenti, sull'erroneo presupposto, in tesi, che i decreti di liquidazione successivamente emessi integrassero, in via progressiva e crescente, l'ingiusto danno patrimoniale all'erario cui fa espresso riferimento il tema d'accusa delineato nel decreto che dispone il giudizio, con la inevitabile conseguenza in punto di ammissibilità delle censure al riguardo formulate.

Precluso, in definitiva, deve ritenersi, per le medesime ragioni sopra evidenziate, il sindacato di legittimità in questa Sede esercitabile.

8. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ex art. 616 c.p.p.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 20 dicembre 2018.