Corte di cassazione
Sezione II civile
Ordinanza 30 agosto 2018, n. 21421
Presidente: Petitti - Relatore: Dongiacomo
FATTI DI CAUSA
F. Alberto, M. Arduino, S. Giuseppe Amedeo, T. Ignazio, B. Giosafatta, F. Marco e R. Felice, con ricorsi depositati tra il 29 settembre 2011 ed il 9 ottobre 2012, hanno proposto, ai sensi della l. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale asseritamente sofferto a causa della non ragionevole durata di cinque diversi giudizi presupposti, promossi presso il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio.
La corte d'appello di Roma, unificati i sette distinti procedimenti, si è dichiarata incompetente ai sensi dell'art. 11 c.p.p.
La corte d'appello di Perugia, con decreto del 12 febbraio 2016, ritenuta la propria competenza ai sensi dell'art. 3, comma 1, della l. n. 89 del 2001 ed accertata la legittimazione attiva dei ricorrenti, come si desume dai ricorsi introduttivi di tutti i giudizi presupposti, prodotti in atti al pari delle sentenze che hanno definito i giudizi presupposti, ha rigettato le domande proposte.
La corte, in particolare, ha, in sostanza, ritenuto:
a) l'assenza del patema d'animo, per l'esiguità della posta in gioco, sul rilievo che, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, ai sensi dell'art. 12 del Protocollo n. 14 alla CEDU, la soglia minima di gravità, al di sotto della quale il danno non è indennizzabile, va apprezzata nel duplice profilo della violazione e delle conseguenze, sicché dall'ambito di tutela della l. 24 marzo 2001, n. 89, restano escluse sia le violazioni minime del termine di durata ragionevole, di per sé non significative, sia quelle di maggior estensione temporale, ma riferibili a giudizi presupposti di carattere bagatellare, in cui esigua è la posta in gioco e trascurabili i rischi sostanziali e processuali connessi;
b) il giudizio presupposto non è durato un tempo particolarmente elevato;
c) sin dall'inizio vi era consapevolezza da parte dei ricorrenti, nell'ambito di un procedimento di natura collettiva e parasindacale, dell'infondatezza della pretesa, come ben delineato dal TAR del Lazio nella sua pronuncia conclusiva;
d) l'orientamento giurisprudenziale in merito alle questioni poste al TAR del Lazio dai ricorrenti era prevalentemente contrario alle loro determinazioni;
e) le domande proposte dai ricorrenti sono state tutte rigettate;
f) i ricorrenti nei giudizi presupposti hanno tenuto una prolungata inerzia, non essendosi avvalsi dei metodi acceleratori previsti per il procedimento amministrativo;
g) la pretesa dei ricorrenti di essere indennizzati per l'eccessiva durata del procedimento, ove sia sollevata questione di legittimità costituzionale, è temeraria, quanto meno a decorrere dalle date in cui la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni: ed infatti, la risoluzione in senso negativo della questione di legittimità costituzionale preclude, per il periodo successivo alla decisione, il riconoscimento del patema d'animo conseguente alla lunga durata del procedimento;
h) gli arresti giurisprudenziali contrari alle pretese formulate dai ricorrenti, sia in rapporto alla Corte costituzionale, sia in rapporto alla Corte di cassazione, si sono formati in epoca precedente alla maturazione dei termini per la irragionevole durata del procedimento, previsti dalla l. n. 89 del 2001;
i) la manifesta infondatezza delle pretese dei ricorrenti, originaria o sopravvenuta, attualmente rilevante ai fini del rigetto della domanda di equa riparazione, ai sensi del comma 2-quinquies dell'art. 2-bis della l. n. 89 del 2001, come modificata dall'art. 1, comma 777, della legge di stabilità 2015, in tutti i casi sottoposti all'esame del TAR del Lazio con la sola eccezione del ricorso n. 11675 del 2001, definito con la sentenza n. 7900 del 2008, poteva costituire, già nella normativa previgente, un motivo per il rigetto della domanda;
j) il patema d'animo, con riguardo al ricorso n. 11675 del 2001, poteva dirsi cessato con l'emanazione del d.l. n. 273 del 2005, sicché, considerata l'epoca di deposito del ricorso, era pressoché insussistente all'epoca dell'entrata in vigore del predetto decreto e della relativa legge di conversione.
F. Alberto, M. Arduino, S. Giuseppe Amedeo, T. Ignazio, B. Giosafatta, F. Marco e R. Felice, con ricorso notificato il 22 luglio 2016, hanno chiesto, per un motivo, la cassazione di tale decreto. A tale ricorso il Ministero dell'economia e delle finanze ha resistito con controricorso notificato in data 29 agosto 2016.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con un unico articolato motivo, i ricorrenti, lamentando la falsa applicazione degli artt. 2, comma 1, e 3 della l. n. 89 del 2001 e dell'art. 6 della CEDU, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., hanno censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d'appello, con motivazione contraddittoria e non aderente al quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ha ritenuto esigua la posta in gioco, ha qualificato come temeraria la lite sottesa al procedimento presupposto, arrivando, perfino, ad affermare che il limite della ragionevole durata del processo, ai fini di cui alla l. n. 89 del 2001, non è stato superato, laddove, al contrario: a) i ricorrenti, nel procedimento presupposto, hanno proposte domande che, per ciascuno di loro, erano tese ad ottenere, in caso di accoglimento, un miglioramento economico sul trattamento stipendiale, destinato a riverberarsi in maniera stabile e duratura anche sul futuro trattamento pensionistico; b) la controversia introdotta innanzi al TAR del Lazio si è rivelata infondata solo in epoca posteriore al deposito, in data 30 giugno 1994, del ricorso, in conseguenza di due pronunce della Corte costituzionale e del Consiglio di Stato intervenute quando il procedimento presupposto era già pendente da ben cinque e sei anni, per cui l'esito della lite è rimasto incerto almeno fino all'anno 2000.
2. Il motivo, nei termini che seguono, è fondato. Questa Corte ha, infatti, ritenuto che:
- in tema di equa riparazione ai sensi della l. n. 89 del 2001, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali: sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione - il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata l. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subìto dal ricorrente (Cass., Sez. un., n. 1338 del 2004; Cass. n. 24696 del 2011; più di recente, Cass. n. 53 del 2016);
- in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all'equa riparazione non è condizionato dalla scarsa entità della posta in gioco, salvo che la parte non abbia promosso una lite temeraria o non abbia abusato del processo (Cass. n. 15905 del 2015; Cass. n. 23721 del 2015);
- non influisce sulla configurabilità di un danno non patrimoniale il fatto che la controversia irragionevolmente protrattasi sia una causa collettiva: l'essere stata la lite promossa collettivamente, in corrispondenza ad una rivendicazione di categoria di taglio sindacale, è, invero, circostanza in sé priva, sul piano logico, di alcun valore ai fini della esclusione della sofferenza morale prodotta nelle parti dall'eccessivo protrarsi del processo (Cass. n. 17572 del 2015);
- l'esito sfavorevole della lite non esclude il diritto all'equa riparazione per il ritardo, se non nei casi in cui sia ravvisabile un vero e proprio abuso del processo, configurabile allorquando risulti che il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con tattiche processuali di varia natura, il perfezionamento della fattispecie di cui alla citata l. n. 89 del 2001 (Cass. n. 53 del 2016): la configurabilità del danno risarcibile ai sensi della l. n. 89 del 2001, non può essere, infatti, esclusa in ragione dell'esito sfavorevole del giudizio, a meno che dagli atti processuali non risulti la prova che la parte, che richiede il risarcimento del danno, abbia proposto una lite temeraria al solo fine di conseguire la irragionevole durata del giudizio, mentre la mera consapevolezza della scarsa probabilità di successo dell'iniziativa giudiziaria è irrilevante al fine di escludere il diritto al risarcimento del danno, potendo semmai rilevare ai fini della quantificazione del danno: nel caso di specie, non risulta dal decreto impugnato che l'Amministrazione abbia fornito la prova, cui è onerata, di fatti dai quali poter ragionevolmente desumere la volontà dei ricorrenti di precostituire, con la loro iniziativa giudiziaria, il presupposto per un'azione ai sensi della l. n. 89 del 2001 (Cass. n. 17572 del 2015);
- il diritto all'equa riparazione per la durata irragionevole del processo spetta a tutte le parti a prescindere dal fatto che esse siano vittoriose o soccombenti (Cass. n. 11828 del 2015);
- la manifesta infondatezza della pretesa azionata nel giudizio presupposto non costituisce, di per sé, condizione idonea ad escludere il diritto all'indennizzo (Cass. n. 9505 del 2016), a meno che non si tratti di lite temeraria, e cioè quando la parte abbia agito o resistito in giudizio con la consapevolezza del proprio torto o sulla base di una pretesa di puro azzardo, ovvero di causa abusiva, che ricorre allorché lo strumento processuale sia stato utilizzato in maniera distorta, per lucrare sugli effetti della mera pendenza della lite: solo se qualificata dal requisito ulteriore di temerarietà o di abusività la domanda manifestamente infondata osta al riconoscimento di un'equa riparazione (Cass. n. 18837 del 2015), come, del resto, ha stabilito l'art. 2, comma 2-quinquies, della l. n. 89 del 2001, introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla l. n. 134 del 2012, a tenore del quale "non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all'articolo 96 del codice di procedura civile; (...)";
- la sopravvenuta consapevolezza della infondatezza della domanda non è, di per sé, idonea a giustificare la esclusione in radice del diritto all'equa riparazione: una situazione soggettiva scevra da ogni ansia derivante dall'incertezza dell'esito della lite può, infatti, essere originaria o sopravvenuta, secondo che la consapevolezza del proprio torto da parte dell'attore preesista alla causa ovvero intervenga nel corso di questa, per effetto di circostanze nuove che rendano manifesto il futuro esito negativo del giudizio. In quest'ultimo caso, pur non potendosi configurare una fattispecie di lite propriamente temeraria, per l'iniziale buona fede della parte attrice, la reazione ansiogena su cui si fonda il diritto all'equa riparazione ai sensi della l. n. 89 del 2001 è da escludersi a decorrere dal momento in cui la parte stessa acquisisce tale consapevolezza, facendo venir meno da allora in poi il diritto all'indennizzo per la successiva irragionevole durata della causa (cfr. Cass. n. 4890 del 2015);
- la mancata presentazione della istanza di prelievo assume certamente rilievo ai fini della decisione delle domande di equa riparazione per la irragionevole durata dei giudizi amministrativi, ma solo limitatamente alla entità dell'indennizzo che può in concreto essere liquidato: invero, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall'instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell'istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa. La previsione di strumenti sollecitatori, infatti, non sospende né differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, in caso di omesso esercizio degli stessi, né implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell'apprezzamento della entità del lamentato pregiudizio (Cass., Sez. un., n. 28507 del 2005). Solo a far data dalla entrata in vigore dell'art. 54 del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133 del 2008, la mancata proposizione dell'istanza di prelievo rende improponibile la domanda di equa riparazione nella parte concernente la durata del giudizio presupposto successiva alla data (del 25 giugno 2008) di entrata in vigore di quella disposizione che, avendo configurato la suddetta istanza di prelievo come "presupposto processuale" della domanda di equa riparazione, deve sussistere al momento del deposito della stessa, ai fini della sollecita definizione del processo amministrativo in tempi più brevi rispetto al tempo già trascorso, fermo restando che l'omessa presentazione dell'istanza di prelievo non determina la vanificazione del diritto all'equa riparazione per l'irragionevole durata del processo con riferimento al periodo precedente al 25 giugno 2008 (Cass. n. 6996 del 2013);
- l'istanza di prelievo assolve la funzione di manifestare il permanente interesse della parte alla definizione del giudizio e di accelerarne, pertanto, la definizione. Sebbene la persistenza dell'interesse alla sollecita decisione del ricorso amministrativo non sia cristallizzabile nel tempo una volta e per tutte, ma abbia senso solo se intesa diacronicamente (per i possibili mutamenti che può subire nel tempo il rapporto sostanziale fra il soggetto che esercita il potere amministrativo e colui che ne subisce gli effetti), nessuna norma e nessun principio processuale impongono la reiterazione dell'istanza di prelievo ad intervalli più o meno regolari. Ne consegue che l'epoca della presentazione dell'istanza di prelievo segna il momento di presumibile maggior espansione dell'interesse al ricorso, ma non autorizza ad escluderlo né per il periodo anteriore né per quello successivo (Cass. n. 14388 del 2015);
- infine, se una domanda viene proposta prospettando la illegittimità costituzionale della disciplina applicabile, prospettazione disattesa dal giudice delle leggi, la valutazione del giudice di merito, secondo cui la protrazione del giudizio presupposto successivamente alla detta pronunzia non ha determinato un patema d'animo suscettibile di indennizzo, appare plausibile e ragionevole e non contrastante con gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di questa Corte in ordine alla consapevolezza, da parte di chi agisce in equa riparazione, della infondatezza della propria pretesa nel giudizio presupposto (Cass. n. 11828 del 2015; Cass. n. 18654 del 2014, per la quale "la Corte ha errato nel ritenere sussistenti, nel caso di specie, i presupposti della fattispecie di abuso del processo sull'assunto della manifesta infondatezza della prospettazione d'incostituzionalità delle norme su cui si fondava il diritto azionato dagli istanti; ... infatti, il giudizio iniziato ... non può reputarsi ab origine pretestuoso, avuto riguardo alla data di presentazione del ricorso introduttivo del giudizio amministrativo (1995), giacché, semmai, è solo a far data dalla pronuncia di manifesta infondatezza della Corte costituzionale che è divenuta insussistente qualsivoglia speranza di successo dell'intrapresa iniziativa giudiziaria, con la correlata cessazione del patema d'animo derivante dalla situazione di incertezza per l'esito della causa promossa al fine di ottenere la perequazione del trattamento stipendiale"; cfr. Cass. n. 4890 del 2015, per la quale "non può reputarsi ab origine pretestuoso il ricorso introduttivo di un giudizio amministrativo, che solo a far data da un certo momento, per effetto di una sopravvenuta pronuncia della Corte costituzionale, abbia perso ogni possibilità di successo, con la correlata cessazione del patema d'animo derivante dalla situazione d'incertezza per l'esito della causa").
3. Il decreto impugnato non ha fatto buon governo dei predetti principi e dev'essere, quindi, cassato.
4. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la Corte decide nel merito. Ora, tenuto conto che, nello scrutinare analoghi ricorsi, aventi ad oggetto decreti della corte d'appello di Perugia concernenti domande di equa riparazione proposte con riferimento a giudizi amministrativi nei quali si poneva la questione della estensione ai militari del trattamento economico previsto - per il periodo 1986-1991 - per i Carabinieri e altri corpi di polizia, si è ritenuta (Cass. n. 19473 del 2014) immune dalle proposte censure la decisione della corte d'appello secondo cui la consapevolezza, in capo ai ricorrenti, che la loro domanda di adeguamento, la quale postulava la proposizione di una questione di legittimità costituzionale, fosse manifestamente infondata e insuscettibile, in quanto tale, di arrecare pregiudizio per la protrazione del processo oltre il limite della ragionevole durata, poteva considerarsi maturata solo nell'anno 1999, per effetto della pronuncia della Corte costituzionale n. 331; che, pertanto, ai fini della ragionevole durata, deve considerarsi solo il periodo che va dall'introduzione del ricorso, nel 1994, e la predetta pronuncia della Corte costituzionale, nel 1999, pari, quindi, a cinque anni: esclusi tre, che corrispondono alla durata ragionevole del giudizio, vanno indennizzati solo i residui due, corrispondenti, per ciascun ricorrente, alla somma di E. 500,00 per ogni anno di durata irragionevole, per un totale di E. 1.000,00, oltre agli interessi legali dal momento della domanda all'effettivo soddisfo.
5. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte così provvede: accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell'economia e delle finanze al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti, della somma di E. 1.000,00, oltre agli interessi legali dal momento della domanda all'effettivo soddisfo; condanna il Ministero al pagamento delle spese di lite, che liquida in E. 1.198,50 per il giudizio di merito ed in E. 900,00 per il presente giudizio, oltre accessori di legge e SG nella misura del 15%.