Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 14 settembre 2018, n. 5396

Presidente: Santoro - Estensore: Simeoli

FATTO

1. Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la RCS Mediagroup s.p.a. chiedeva l'annullamento del provvedimento n. 19088 emesso dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (di seguito anche: l'"Autorità") nell'adunanza del 5 novembre 2008, mediante cui era stata irrogata nei suoi confronti la sanzione amministrativa di euro 160.000,00, per pubblicità ingannevole ai sensi dell'art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 145 del 2007. L'Autorità, in particolare, aveva ritenuto che la rubrica «Gli esperti di Vodafone rispondono ai quesiti dei lettori» - pubblicata sul settimanale «Il Mondo» edito da RCS Periodici - integrasse una forma di pubblicità occulta in favore della società Vodafone Omnitel e dei suoi prodotti, in quanto la sua natura promozionale non era riconoscibile dai destinatari.

2. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), con sentenza n. 3210 del 2013, respingeva il ricorso.

3. La RCS Mediagroup s.p.a. ha quindi proposto appello avverso la predetta sentenza, sostenendone l'erroneità sotto i seguenti profili:

- la sentenza si sarebbe limitata a riportare ampie citazioni del provvedimento impugnato, senza sviluppare alcun autonomo argomento a supporto, e senza replicare agli argomenti sollevati dall'odierna appellante;

- tenuto conto che la rubrica contestata trattava di tecnologie applicabili al telefono cellulare molto avanzate per l'epoca a cui risale la pubblicazione (anno 2007) e ancora poco diffuse (come la possibilità di utilizzare un software capace di trasformare il cellulare in navigatore GPS, l'utilizzo del telefonino per la posta elettronica, la trasferibilità del numero fisso sul cellulare, la tecnologia HSDPA), l'Autorità avrebbe dovuto considerare che gli interessati agli argomenti trattati erano tutte persone con esigenze molto specifiche e con competenze ben diverse dal comune utilizzatore di telefonino, in grado quindi di porre particolare attenzione alla rubrica;

- a segnalare adeguatamente la natura promozionale della rubrica sarebbero sussistiti una serie di elementi grafici e figurativi di evidente percezione, sia per le dimensioni, sia per il loro collocamento, sia, infine, per la univocità del loro significato (in particolare: la dichiarata provenienza da «Esperti di Vodafone» del servizio di risposta ai quesiti dei lettori era una chiara indicazione della non provenienza del servizio da parte della redazione del giornale, bensì da una fonte aziendale);

- sotto altro profilo, la quantificazione della sanzione sarebbe stata determinata in modo sproporzionato dal momento che: in sede di contestazione dell'illecito, l'Autorità avrebbe individuato il target di riferimento della comunicazione nella clientela business, ma poi in sede di determinazione della sanzione, avrebbe valutato invece la gravità dell'illecito in ragione «del numero considerevole di consumatori» che il messaggio era suscettibile di raggiungere; sarebbe stato necessario conto, non genericamente di tutti utenti del servizio, ma solo di quanti erano qualificabili come "professionisti" ai sensi della normativa violata; l'Autorità avrebbe dovuto verificare la tiratura del settimanale "Il Mondo" (come monitorata da ADS e Audipress); sarebbe poi evidente lo scostamento fra la sanzione irrogata nel caso in esame e le sanzioni comminate usualmente in altri casi di pubblicità occulta, consumata anche attraverso mezzi di diffusione con un bacino d'utenza molto più ampio (vengono citati i provvedimenti dell'Autorità n. 24189/2013, n. 19956/2009, n. 20010/2009).

4. Si è costituita in giudizio l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, insistendo perché l'appello sia dichiarato infondato.

5. All'esito dell'udienza pubblica del 24 luglio 2018, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. L'appello è infondato.

Sono necessari preliminarmente alcuni spunti ricostruttivi.

2. In sede di adeguamento al quadro normativo europeo (dettato dalle direttive 2006/114/CE, 2005/29/CE e 84/450/CEE), il legislatore nazionale ha introdotto un sistema binario di protezione: con il d.lgs. n. 145 del 2007, sono state espunte dal d.lgs. n. 206 del 2005 (Codice del consumo) le disposizioni in materia di pubblicità ingannevole nei rapporti tra imprese e di liceità della pubblicità comparativa, facendole confluire in un apposito corpo normativo; con l'emanazione del d.lgs. n. 146 del 2007, la disciplina delle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e consumatori è stata innestata nel d.lgs. n. 206 del 2005 (Codice del consumo), agli artt. da 18 a 27-quater.

Il divieto della pubblicità ingannevole anche nei rapporti tra professionisti (pubblicità c.d. Business to Business) - oltre ad essere prescritto dal diritto europeo - persegue l'interesse costituzionalmente rilevante alla realizzazione di un mercato aperto, competitivo e libero da interferenze indebite. Tale limite non costituisce una restrizione alla libertà di iniziativa economica, ma vale, anzi a renderla effettiva, dando attuazione, sotto questo profilo, all'art. 41 Cost.

A questi fini, il d.lgs. n. 145 del 2007 sancisce il principio per cui la pubblicità deve essere «palese, veritiera e corretta» (art. 1, comma 2). Secondo quanto stabilito dall'art. 2, comma 1, lett. b), che per pubblicità ingannevole si intende «qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente». Secondo il legislatore, per determinare se la pubblicità è ingannevole se ne devono considerare tutti gli elementi, con riguardo in particolare ai suoi riferimenti: «a) alle caratteristiche dei beni o dei servizi, quali la loro disponibilità, la natura, l'esecuzione, la composizione, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, l'idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l'origine geografica o commerciale, o i risultati che si possono ottenere con il loro uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi; b) al prezzo o al modo in cui questo è calcolato ed alle condizioni alle quali i beni o i servizi sono forniti; c) alla categoria, alle qualifiche e ai diritti dell'operatore pubblicitario, quali l'identità, il patrimonio, le capacità, i diritti di proprietà intellettuale e industriale, ogni altro diritto su beni immateriali relativi all'impresa ed i premi o riconoscimenti».

Prevede, inoltre, l'art. 5 che la pubblicità debba essere comunque chiaramente riconoscibile come tale, vietando in ogni caso la «pubblicità subliminale». La pubblicità a mezzo di stampa deve essere distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente percezione.

Vengono inoltre definite le condizioni di liceità della «pubblicità comparativa», con tale espressione intendendosi quella «modalità di comunicazione pubblicitaria, diffusa su iniziativa di operatori economici, che identifica e mette a confronto le caratteristiche pertinenti, essenziali, rappresentative e verificabili, cioè dimostrabili, quali il prezzo, di almeno due prodotti o servizi che soddisfano medesimi bisogni dei clienti e che vengono offerti da due imprese concorrenti» (art. 4).

A differenza del d.lgs. n. 146 del 2007 - che assicura la protezione al consumatore nei confronti dell'attività contrattuale intesa nel suo complesso - la normativa in commento ricomprende nel suo campo di applicazione soltanto la tutela dalla pubblicità ingannevole e comparativa, riguardante quindi i soli rapporti precontrattuali intercorsi fra professionisti.

La recente sentenza della Corte di giustizia del 13 marzo 2014 (C-52/13) ha chiarito che la direttiva 2006/114/CE si riferisce, per quanto riguarda la tutela dei professionisti, alla pubblicità ingannevole e alla pubblicità illegittimamente comparativa come due infrazioni autonome, e che al fine di vietare e sanzionare una pubblicità ingannevole non è necessario che quest'ultima costituisca al contempo una pubblicità illegittimamente comparativa.

In considerazione del thema decidendum oggetto del presente giudizio, occorre soffermarsi principalmente sui caratteri della pubblicità ingannevole.

2.2. L'ingannevolezza può derivare, in primo luogo, dal contenuto dei messaggi diffusi. Sotto questo profilo, la liceità di un messaggio pubblicitario discende non solo (come è ovvio) dalla veridicità delle informazioni in esso contenute, ma anche dalla loro completezza. L'omissione di informazioni - censurabile nella misura in cui riguardi elementi fondamentali e necessari a comprendere esattamente il contenuto della comunicazione pubblicitaria per poi poter effettuare la scelta del prodotto o del servizio - va sanzionato tanto quanto la non corrispondenza al vero delle stesse. L'ingannevolezza di un messaggio pubblicitario può risiedere anche nell'utilizzo di termini inappropriati il cui significato non corrisponda fedelmente al bene o servizio offerto.

2.3. La comunicazione pubblicitaria - oltre che sotto il profilo della veridicità dei suoi contenuti - va valutata anche con riguardo alla sua veste esteriore. Il carattere ingannevole, in particolare, può riguardare le modalità con cui un messaggio veicola al professionista un determinato bene o servizio, quando incidono sulla capacità dello stesso di comprendere l'esatta natura di ciò che gli viene offerto, manipolandone artificialmente il processo selettivo. In questi casi, il giudizio di ingannevolezza riguarda la stessa forma espositiva del messaggio, indipendentemente dal contenuto veritiero dello stesso, e si incentra sulla valutazione del primo impatto che la comunicazione ha sul consumatore considerando tutti gli elementi (grafici e di contesto) che possono distogliere l'attenzione del professionista.

2.4. Al concetto di ingannevolezza va ricondotta altresì la pubblicità occulta che si sostanzia in una condotta insidiosa fondata su un'informazione apparentemente neutrale e disinteressata. Qui ad essere occultato non è il contenuto del messaggio bensì la sua funzione, che viene fatta apparire estranea all'ambito concorrenziale e quindi non strumentale alla vendita del prodotto. Il carattere insidioso della pubblicità occulta risiede evidentemente nella sua capacità di intaccare le risorse critiche alle quali il pubblico è solito ricorrere dinanzi ad una pressione pubblicitaria palese.

Nell'ambito del divieto di pubblicità occulta, tradizionalmente vengono ricondotte, sia le ipotesi di pubblicità c.d. «redazionale» - quella cioè che si rivolge al pubblico con le ingannevoli sembianze di un normale servizio giornalistico -, sia quelle rappresentate dal c.d. «product placement», che si concreta nella ripetuta esibizione, in modo apparentemente casuale, all'interno di un film o di una trasmissione televisiva, di prodotti o di servizi i cui marchi risultano ben riconoscibili.

La valutazione dell'Autorità in ipotesi di pubblicità non trasparente si attua mediante due fasi distinte

Nella prima fase - volta ad accertare la natura commerciale della comunicazione - la presenza di uno scopo promozionale (di per sé incompatibile con finalità informative o d'intrattenimento) va verificata mediante la prova (diretta) del rapporto di committenza che di tale scopo costituisce il consueto fondamento; in mancanza di quest'ultima, facendo ricorso ad altri elementi presuntivi, gravi, precisi e concordanti (segnatamente: il contenuto grafico e testuale del messaggio, le modalità di presentazione del prodotto, lo stile enfatico, et similia).

Nella seconda fase valutativa - diretta a stabilire la riconoscibilità del messaggio - occorre stabilire se l'operatore pubblicitario abbia effettivamente adottato tutti gli accorgimenti necessari a consentire ai destinatari di distinguere agevolmente tale pubblicità dalle altre forme di comunicazione al pubblico.

2.5. Il carattere ingannevole della pratica commerciale deve essere valutato a prescindere dall'esito concretamente lesivo prodotto dalla condotta del professionista. La ratio della disciplina in materia pubblicitaria è infatti quella di salvaguardare la libertà di autodeterminazione del destinatario di un messaggio promozionale da ogni erronea interferenza che possa, anche solo in via teorica, incidere sulle sue scelte e sui riflessi economici delle stesse fin dal primo contatto pubblicitario, imponendo, dunque, all'operatore un preciso onere di chiarezza nella redazione della propria comunicazione d'impresa.

L'idoneità ingannatoria di un messaggio non può essere esclusa neppure dalla circostanza secondo la quale il pubblico è posto nella condizione di apprendere ulteriori informazioni in un momento successivo alla lettura del messaggio, posto che il fine promozionale si realizza esclusivamente attraverso il messaggio, il quale esaurisce la sua funzione nell'indurre il destinatario a rivolgersi all'operatore.

2.6. Su queste basi, è possibile esaminare ora i motivi di gravame.

3. Con la prima doglianza, l'appellante lamenta che l'Autorità avrebbe illegittimamente applicato la sanzione rispetto ad una fattispecie nella quale appariva evidente la riconoscibilità del messaggio pubblicitario in quanto lo stesso risultava concretamente distinguibile dalle altre forme comunicative contenute nel periodico.

La censura è infondata.

3.1. La comunicazione commerciale oggetto di censura è consistita in un servizio di risposta - da parte di esperti Vodafone - alle domande inviate dai lettori alla redazione de «Il Mondo» e da quest'ultima trasmesse a Vodafone medesima.

3.2. Alcun dubbio sussiste in ordine alla presenza, nella fattispecie concreta, della finalità - perseguita per il tramite della anzidetta rubrica - di promuovere presso gli utenti business i servizi di Vodafone (e, in particolare, lo smartphone, il servizio mail e la tecnologia HSDPA). La natura pubblicitaria del messaggio è documentata dal rapporto di committenza (con tanto di fattura per l'acquisto dello spazio pubblicitario in atti), tra Vodafone e RCS, come palesemente ammesso anche dalla stessa odierna appellante.

3.2. Si è trattato poi di una forma di pubblicità non trasparente.

RCS non ha introdotto alcuna dicitura "pubblicità" o analoghe modalità grafiche al fine di rendere palese la natura pubblicitaria e non informativa della rubrica, sebbene l'art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 145 del 2007 prescriva espressamente che la pubblicità a mezzo di stampa deve essere distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico «con modalità grafiche di evidente percezione».

Che si sia trattato di un messaggio di contenuto pubblicitario camuffato in un contesto solo apparentemente informativo è reso palese da una serie di elementi: le dichiarazioni rese sono state pubblicate senza alcuna apparente elaborazione, verifica o riflessione critica della redazione che si è limitata ad accertare l'esistenza, l'operatività; analogamente risultava assente qualsiasi raffronto con altre iniziative commerciali che potesse focalizzare i punti di forza e i limiti delle varie proposte; l'impostazione grafica e la denominazione della rubrica ("Infotech") erano del tutto simili a quelli utilizzati per gli altri articoli di informazione presenti sulla rivista e nella specifica sezione ove era riportato ("Hitech").

In questo contesto, la mera specificazione in un riquadro che la rubrica era curata da esperti Vodafone era del tutto inadeguata a consentire - anche da parte di una clientela business - di distinguere il carattere non informativo bensì promozionale, anzi ne accentuava il carattere confusorio. La realizzazione del messaggio pubblicitario sotto forma di intervista è un elemento atto a mascherare i reali contenuti promozionali perseguiti. L'effetto provocato dalla pubblicità redazionale consiste nell'influenza sulla credibilità del messaggio prodotta dalle intenzioni che il lettore attribuisce a chi comunica. Infatti, mentre il consuma[to]re è consapevole del fatto che le intenzioni dell'impresa che pubblicizza i propri prodotti o servizi sono di condizionarne il comportamento spingendolo all'acquisto, viceversa al giornalista o alla redazione di un giornale non viene associato alcun vantaggio personale derivante dalla decisione del consumatore di orientarsi verso l'acquisto di un determinato prodotto.

4. Secondo l'appellante, la quantificazione della sanzione sarebbe basata su criteri inconferenti - per quanto concerne: l'apprezzamento della gravità dell'illecito; il numero dei consumatori coinvolti; la diffusione spaziale e temporale del periodico -, nonché sproporzionata rispetto alle altre sanzioni comminate dall'Autorità in altri casi di pubblicità occulta.

Anche tale censura va respinta.

4.1. La sanzione è stata calibrata in modo adeguato alla sua concreta funzione dissuasiva, avuto riguardo: alla gravità della violazione, stante il carattere particolarmente insidioso della pubblicità occulta; alle condizioni economiche dell'impresa stessa, rapportato al fatturato complessivo realizzato; alla capacità di penetrazione del messaggio, dovuto alla notorietà e conseguente credibilità dell'impresa (RCS Periodici Editori s.p.a. faceva parte di un gruppo editoriale che rappresentava uno dei principali operatori del settore in Italia); alla potenzialità offensiva del messaggio, da considerarsi in relazione all'ambito spaziale di diffusione del periodico (intero territorio nazionale), pur tenendo conto della tiratura dello specifico mezzo di informazione; alla durata della violazione (la campagna pubblicitaria promozionale ha impegnato l'arco temporale di ottobre, novembre e dicembre 2007); alla cornice edittale (da euro 5.000,00 a euro 500.000,00), rispetto alla quale la sanzione si colloca ben al di sotto del massimo.

Va rimarcato che la natura di illeciti di pericolo, e non di danno, delle condotte in questione comporta che l'Autorità, nell'accertare il carattere scorretto e ingannevole della pratica, è chiamata a valutare l'impatto della condotta posta in essere con riguardo al potenziale condizionamento dell'autodeterminazione del consumatore, anche a prescindere dagli effetti concreti, in termini di vantaggio economico, verificatisi per il professionista.

5. Le spese del secondo grado di giudizio seguono la soccombenza come di norma.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello n. 5013 del 2013, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante al pagamento delle spese di lite in favore della controparte costituita, che si liquidano in euro 4.000,00, oltre IVA e CPA come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.