Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 27 ottobre 2017, n. 20755

Presidente: Di Tomassi - Estensore: Siani

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, resa in data 3 dicembre 2014-26 aprile 2016, la Corte di appello di Cagliari ha parzialmente riformato quella emessa dal Tribunale di Cagliari in data 14 marzo-16 settembre 2013 che aveva giudicato Ambrogio Muscas.

Costui era stato imputato, con altri:

- del delitto di cui all'art. 294 c.p., per avere, quale vice-sindaco del Comune di Donori, impedito al Sindaco di quel Comune, Rita Massa, l'esercizio della carica elettiva e comunque per averla costretta a rassegnare le dimissioni il 4 aprile 2007 (capo A);

- del delitto di cui agli artt. 56-629 c.p. per avere tentato di estorcere alla Massa il rinnovo della concessione per lo sfruttamento della cava comunale di sabbia all'impresa di Paolo Batteta, fino al febbraio 2007 (capo B);

- del delitto di cui agli artt. 81-367 c.p. per avere simulato reati ai suoi danni, con false denunzie, il 27 aprile 2006, il 29 maggio 2006 e il 29 ottobre 2006 (capo C);

- del delitto di cui all'art. 595 c.p., per avere diffamato Flavio Pisano, Ottavio Boi e Cesare Deiana, in data 16 febbraio 2007 (capo D);

- della contravvenzione di cui all'art. 660 c.p., per avere concorso a recare molestia telefonica ai componenti della famiglia della Massa, in data 9 febbraio 2007 (capo E).

1.1. Il Tribunale aveva dichiarato il Muscas responsabile dei primi tre reati, unificati in continuazione e, riconosciutegli le circostanze attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di anni tre di reclusione, mentre aveva dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine al reato sub D) per tardività della querela e in ordine al reato sub E), per essersi il reato estinto per prescrizione. Inoltre il Muscas era stato condannato al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili Rita Massa e Comune di Donori con la liquidazione, a tale titolo, dell'importo di euro 25.000,00 per ciascuna parte civile.

1.2. La Corte di appello - accogliendo parzialmente l'impugnazione del Muscas, i cui motivi avevano dedotto l'erronea valutazione delle risultanze processuali con riguardo a ciascuno dei reati per cui si era avuta condanna, prospettati come insussistenti - in corrispondente parziale riforma della sentenza di primo grado lo ha assolto dalla tentata estorsione sub B), per insussistenza del fatto, ed ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine ai fatti di simulazione di reato sub C) commessi in data 27 aprile 2006 e in data 29 maggio 2006, così scissa la relativa imputazione, essendosi tali reati estinti per sopravvenuta prescrizione, riducendo la pena a lui inflitta a quella di anni due, mesi due di reclusione e condannandolo alla rifusione delle spese in favore delle parti civili Rita Massa e Comune di Donori.

1.3. Per quanto ancora d'interesse in questa sede, le condotte addebitate al Muscas consistevano:

- quanto al reato di cui all'art. 294, contestato al capo A), nell'avere, quale Vicesindaco del Comune di Donori, in concorso con Lorenzo Soi, Luigi Pintus e Tarcisio Ruggeri, impedito alla Massa, Sindaco dello stesso Comune, mediante minacce, l'esercizio di tale carica elettiva, comunque determinandola a esercitarlo in modo difforme dalla sua volontà fino a costringerla a rassegnare le dimissioni in data 4 aprile 2007, in particolare facendole rinvenire presso il di lei domicilio, in più occasioni, dei proiettili di arma da fuoco, simulando nel contempo l'invio da parte di ignoti di analoghe munizioni presso il suo domicilio, diffondendo in quel Comune e facendo pervenire alla Massa, a terzi e, fittiziamente, anche a se stesso scritti anonimi contenenti affermazioni minacciose e diffamatorie nei confronti del Sindaco e della Giunta, controllando i movimenti della stessa Massa all'interno di quel centro abitato e facendo pervenire una telefonata intimidatoria anonima sempre alla Massa;

- quanto al reato di cui agli artt. 56 e 629 c.p., sub B), nell'avere compiuto, quale Vicesindaco, atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere, mediante le minacce sopra richiamate e forti pressioni, la Massa, all'epoca Sindaco, ad adoperarsi, contro la sua volontà, per il rinnovo da parte dell'Amministrazione da lei guidata della concessione per lo sfruttamento della casa di sabbia comunale all'impresa di Paolo Batteta, al fine di procurare a quest'ultimo un ingiusto profitto, non riuscendovi per cause indipendenti dalla propria volontà;

- quanto al reato di cui agli artt. 81 e 367 c.p., di cui al capo C), nell'aver compiuto in tre diverse circostanze temporali altrettante simulazioni di reato sporgendo denunzie presso la locale Stazione dei Carabinieri allo scopo di far aprire procedimenti penali contro ignoti, in particolare denunciando falsamente in data 26 aprile 2006 di avere ricevuto il 19 aprile dello stesso anno una telefonata anonima dal contenuto minaccioso e di avere subito il danneggiamento di due pneumatici della sua autovettura, poi denunciando falsamente in data 29 maggio 2006 di aver rinvenuto il giorno precedente sulla sua automobile una bustina contenente un proiettile da caccia calibro 12 ed infine falsamente denunciando il 19 ottobre 2006 di avere trovato il giorno precedente presso la sua abitazione una busta contenente un proiettile per pistola calibro 7,65.

1.4. La prova della responsabilità dell'imputato per il reato di cui al capo A), a cui ha contribuito anche la dimostrazione della materiale realizzazione delle ulteriori condotte oggetto di contestazione, pur non oggetto di condanna per ragioni di diritto (in ordine al reato di cui al capo B) e di decorso del tempo (in ordine ai primi due episodi del reato continuato sub C), si è fondata, secondo la concorde (sotto questo profilo) valutazione dei giudici di merito:

- innanzi tutto, sulla testimonianza di Rita Massa, ritenuta intrinsecamente credibile e coerente, oltre che estrinsecamente corroborata da altri elementi, e considerata l'asse portante del compendio probatorio: la persona offesa ha, per i giudici di merito, fornito un resoconto chiaro e genuino dell'intera vicenda che l'ha vista costretta a concludere in modo repentino il mandato sindacale con le dimissioni, vicenda che ha visto nella reiterata minaccia fatta pervenire alla Massa mediante il recapito di proiettili, nella creazione di un clima di diffusa intimidazione attraverso le false denunzie, nonché nella propalazione di notizie diffamatorie, mediante la lettera anonima, nella telefonata anonima la perpetrazione da parte dell'imputato di una serie coordinata di attività volte a mettere in crisi la Massa allo scopo, alfine raggiunto, si farla dimettere dalla carica di Sindaco;

- sulle intercettazioni telefoniche, esclusa quella del 29 ottobre 2000, acquisita da altro procedimento in violazione dell'art. 270 c.p.p.;

- sugli altri apporti dichiarativi, fra cui quello di Luigi Pintus e quello del M.llo Faedda, con il conseguente ingresso nel quadro valutativo dell'esito delle indagini di polizia giudiziaria, che hanno condotto alla specifica ricognizione delle attività organizzate dal Muscas, ivi incluse le false denunzie ed il fittizio ricevimento da parte sua di proiettili ed altri messaggi dal contenuto minatorio, ricognizione che, combinata agli elementi diacronicamente descritti dalla Massa, ha condotto i giudici di merito e, conclusivamente, la Corte territoriale a ritenere assodata l'ascrivibilità all'imputato della complessiva condotta minatoria in danno della Massa.

Queste prove, secondo la Corte territoriale, hanno formato un quadro del tutto idoneo a dimostrare la responsabilità penale del Muscas in ordine al delitto di attentato ai diritti politici della Massa ex art. 294 c.p., in quanto la decisione della Massa di dimettersi - alfine assunta dopo avere appreso dai Carabinieri dell'esistenza di un procedimento penale a carico dello stesso Muscas - era stata la conseguenza diretta delle pressioni operate dall'imputato: la Massa, pervenuta al livello di non sopportabilità delle progressiva intimidazioni patite, aveva spiegato che la sua decisione anche sul piano politico era stata diretta a far sì che il Comune avesse degli amministratori non condizionati.

Circa le simulazioni di reato ex art. 367 c.p., secondo il computo dei giudici di appello, i primi due fatti erano comunque caduti in prescrizione e non sussisteva affatto la prova evidente dell'innocenza dell'imputato. Restava la responsabilità penale per il terzo episodio, quello - relativo alla denuncia del 19 ottobre 2016 - di aver trovato il 18 ottobre 2016 una busta contenente un proiettile cal. 7,65 presso la sua abitazione: la falsità della stessa si era chiaramente desunta dalla testimonianza di Luigi Pintus, combinata con quella dell'operante Faedda.

Viceversa, per la Corte di appello, impregiudicata l'effettività dei rapporti personali molto buoni ed anche di natura clientelare fra il Muscas e il Batteta, non era emersa prova sufficiente che gli atti prospettati come diretti a far conseguire la proroga della concessione all'impresa del Batteta fossero idonei alla scopo, così come non era certa la prefigurata ingiustizia del profitto derivante al Batteta dall'eventuale proroga e nemmeno che la proroga fosse contra legem, con conseguente esclusione della sussistenza della tentata estorsione.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso il difensore del Muscas chiedendone l'annullamento ed affidando l'impugnazione a sette motivi.

2.1. Con il primo motivo si prospettano violazione dell'art. 431 e dell'art. 270 c.p.p., in ordine all'omessa utilizzazione della conversazione del 29 ottobre 2000 tra il Muscas e la Massa captata in altro processo, prodotta all'udienza preliminare di questo procedimento ed entrata legittimamente nel fascicolo del dibattimento con l'accordo delle parti in sede di formazione del fascicolo stesso.

La Corte territoriale aveva considerato corretta l'espunzione della conversazione da parte del Tribunale, perché disposta in diverso procedimento ed acquisita al di fuori dei limiti stabiliti dall'art. 270 c.p.p.: aveva omesso, però, di considerare che l'atto era stato acquisito con il consenso delle parti, al momento della formazione del fascicolo del dibattimento. Né era stata fornita alcuna motivazione rispetto al dedotto carattere decisivo di quella prova per escludere il delitto di cui all'art. 294 c.p. Pertanto, considerata la legittima acquisizione della captazione, avrebbe dovuto stabilirsi per essa l'utilizzabilità ex art. 511 c.p.p.

2.2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell'art. 192 c.p.p. in riferimento al riscontro dell'elemento oggettivo e dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 294 c.p., con conseguente vizio di motivazione.

L'affermazione conclusiva secondo cui era evidente che la decisione delle dimissioni da parte della Massa era intervenuta a seguito dell'avere ella appreso dell'esistenza di un procedimento penale a carico del Muscas e per conseguenza diretta delle sue pressioni illecite era il risultato di una motivazione carente e priva di logica argomentativa. Nessuna considerazione risultava svolta circa la personalità forte e decisa della Massa, tale da affermare la propria soggettività anche nei confronti del Muscas; e, d'altro canto, la stessa testimone aveva affermato che Ambrogio Muscas le aveva lasciato molto spazio e che le scelte amministrative erano collegiali.

Né le diversità di opinioni su specifici temi, quale quello della coltivazione delle cave, poteva essere configurarsi quale intromissione nell'esercizio della funzione pubblica altrui. Anche l'intervento dell'imputato nella vicenda dell'impresa Batteta non aveva avuto alcunché di illecito, avendo il Muscas, anzi, insistito affinché l'imprenditore suddetto cedesse una parte del territorio in favore di altra ditta, la Meloni, come aveva precisato il teste Fiore, avendo d'altra parte il concessionario Batteta il diritto potestativo alla proroga contrattuale. Anche la deposizione dell'avv. Uras aveva confermato la liceità del comportamento del Muscas nella vicenda, essendo stato l'avvocato del Comune a proporre la scelta di transigere la vertenza con il Batteta, nel perseguimento del pubblico interesse. Peraltro l'assoluzione pronunziata dal giudice di appello con riferimento alla tentata estorsione finiva per confermare questo assunto. Il testimoniale escusso ed il documento rilasciato dall'Ing. Strinna avevano dimostrato, ancora, l'assenza di interferenze del Muscas nella vicenda della ditta Zedda, rispetto alla quale si era avuta una normale e chiara discussione politica. Infine era stata la stessa Massa a spiegare che si era dimessa per una sua scelta, in quanto sapeva che il Muscas sarebbe rimasto consigliere e voleva che il paese avesse degli amministratori: senza che però si intravedesse una qualsiasi costrizione dell'imputato al riguardo, né alcuna violazione del diritto politico della stessa Massa, la cui conduzione amministrativa non era stata soggetta a pressioni di sorta.

Inattendibile si era rivelato anche il maresciallo Faedda, la cui testimonianza era risultata ispirata a tesi preconcetta, come dimostravano le inesattezze riferite in ordine alla denuncia dell'arma da parte di Alessandro Muscas, figlio dell'imputato.

Le stesse dichiarazioni del coimputato Pintus erano da disattendere, in quanto volte ad alleggerire la sua posizione.

Pertanto, gli elementi valutati non costituivano affatto un quadro indiziario idoneo a sorreggere l'accusa inerente al delitto di cui all'art. 294 c.p., tenuto conto che nel dialogo politico le espressioni ed i toni usati potevano essere anche accesi, senza per questo potersi definire minacce o intimidazioni.

2.3. Con il terzo motivo è prospettata ancora violazione di legge nell'applicazione dell'art. 294 c.p.

La norma non era riferita, quanto all'oggetto dell'attentato, anche ai diritti funzionali, quale era quello all'esercizio del mandato sindacale, e non era legittimo all'interprete forzare il carattere tassativo della disposizione ampliando l'individuazione del suo oggetto. In tal senso non poteva, in ogni caso, ritenersi violato l'art. 294 c.p. D'altro canto, anche a voler far rientrare il mantenimento della carica sindacale nell'ambito del diritto politico, avrebbe dovuto verificarsi la sussistenza del dolo sul corrispondente fatto costitutivo ed anche ammettersi l'errore sulla norma extrapenale, ex art. 47 c.p.

2.4. Con il quarto motivo vengono dedotti violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine al reato di cui all'art. 367 c.p. contestato sub C).

La Corte territoriale aveva, sul punto, trascurato le questioni relative all'inattendibilità del Pintus e del Faedda, in relazione alle quali aveva reso una motivazione del tutto carente. Il tutto era basato su una ricostruzione a posteriori, senza che alcun rilievo a carico del Muscas fosse stato mosso al momento delle perquisizioni e della presentazione della denuncia. Contrariamente a quanto affermato in sentenza, invero, era risultato che il Muscas aveva effettivamente ricevuto la telefonata denunciata così come si era realmente avuto il danneggiamento della sua autovettura. Del pari, era risultato chiarito il rapporto del Muscas con il coimputato Soi, in favore del quale egli era intervenuto per tutelarlo dal punto di vista lavorativo.

2.5. Con il quinto motivo sono lamentate violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all'entità della pena applicata, la motivazione fornita al riguardo essendo stata del tutto carente ed in ogni caso non osservante dei criteri di cui all'art. 133 c.p., mentre nemmeno l'assoluzione dell'imputato dalla tentata estorsione aveva indotto la Corte di merito a trarre le doverose conseguenze in tema di quantificazione della pena.

2.6. Con il sesto motivo si deducono violazione dell'art. 185 c.p. e vizio di motivazione in tema di risarcimento e liquidazione dei danni.

L'entità del danno riconosciuto a ciascuna parte civile era priva di fondamento, in quanto nessuno aveva dimostrato effettivamente quale fosse stato il pregiudizio patito da ciascuna di esse. Né risultava alcuna motivazione in merito. Il richiamo alla gravità del reato era del tutto insufficiente. La Massa, pur essendosi costituita parte civile, non aveva allegato e dimostrato pregiudizio alcuno.

Inoltre, pur avendo il primo giudice fatto riferimento alla dichiarazione di penale responsabilità del Muscas con riguardo i reati sub A) e B) tenendone conto ai fini della liquidazione del danno, senza comunque indicare i criteri seguiti, la Corte di appello aveva assolto l'imputato dal reato di tentata estorsione sub B), ma non aveva rivisitato in alcun modo il danno risarcibile.

2.7. All'attualità, comunque, tutti i reati per cui si era registrata condanna erano da ritenersi prescritti, con tutte le conseguenze di legge.

3. A seguito di opinamento espresso sul punto dal Collegio all'udienza del 20 luglio 2017, la difesa del ricorrente ha depositato memoria dell'11 ottobre 2017 con cui ha evidenziato i profili giuridici per i quali nella fattispecie mancava il riscontro dell'evenienza sia degli elementi di natura oggettiva e soggettiva del delitto di cui all'art. 294 c.p., sia di quelli relativi al delitto di violenza privata aggravata dalla qualità delle persona offesa, fattispecie oggetto della sollecitazione giudiziale, ribadendo che il corretto scrutinio delle prove acquisite, ivi inclusa l'intercettazione illegittimamente pretermessa, dimostrava l'evidente erroneità della valutazione compiuta dai giudici di merito, salva restando, in subordine, la riqualificazione del fatto nei sensi sopra prefigurati.

4. Soltanto la parte civile Comune di Donori ha partecipato al giudizio di cassazione concludendo, anche per iscritto, per il rigetto dell'impugnazione con il favore delle ulteriori spese.

5. Il Procuratore generale ha chiesto la declaratoria di estinzione dei residui reati per prescrizione ed il corrispondente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con rigetto del ricorso ai restanti effetti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. L'analisi dell'impugnazione conduce al parziale accoglimento della stessa, con particolare riguardo al settimo motivo, con corrispondente annullamento della sentenza senza rinvio per la parte relativa agli effetti penali di essa.

Il ricorso proposto dal Muscas non può ritenersi inammissibile, per manifesta infondatezza od altre ragioni, con riferimento ai motivi attinenti all'evenienza ed alla qualificazione giuridica del fatto sub A), in relazione al quale anche la Corte, con ordinanza del 20 luglio 2017, ha sollecitato le parti ad esprimersi in ordine all'eventuale sussumibilità della corrispondente fattispecie sotto il modello giuridico previsto da diversa norma incriminatrice, e con riferimento alle critiche relative alla sufficienza ed alla logicità della motivazione relativa all'analisi delle prove dimostrative del fatto sub C).

Tanto rileva perché, non vertendosi in tema di impugnazione in toto inammissibile per ciascuno dei residui reati oggetto di verifica e, dunque, essendosi formato un valido rapporto di impugnazione, non è precluso il potere-dovere di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p., nella specie la prescrizione dei residui reati maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. un., n. 32 del 22 novembre 2000, D.L., Rv. 217266; Sez. un., n. 6903 del 27 maggio 2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966).

2. Il computo dei termini prescrizionali va svolto come segue.

2.1. Muovendo anzitutto dal fatto ancora in imputazione di cui all'art. 367 c.p. ed operando la verifica del tempo trascorso dall'epoca della commissione dello stesso, si rileva che il commesso reato risale al 19 ottobre 2006.

Il termine di prescrizione, ex artt. 157 e ss. c.p., considerata la cornice edittale, è di anni sei, con riferimento a quello ordinario, e di anni sette, mesi sei, con riferimento a quello massimo. Quest'ultimo si sarebbe ordinariamente consunto il 19 aprile 2014. Vanno tuttavia computate le sospensioni del termine determinate all'udienza del 16 febbraio fino al 28 febbraio 2011 e, poi, dal 25 giugno 2012 al 14 marzo 2012, per più differimenti consecutivi determinati da esigenze difensive, per un lasso complessivo di mesi otto e giorni ventinove (come da rilevazioni svolte, in modo inoppugnato, dalla Corte di appello a pag. 41 della sua sentenza).

Pertanto, la fattispecie ha visto maturare il termine massimo di prescrizione alla data del 17 gennaio 2015.

2.2. In ordine al reato di cui all'art. 294 c.p. sub A), ferma la qualificazione del fatto per le ragioni che si esporranno nel prosieguo, il tempo del commesso reato va fissato al 4 aprile 2007.

Il termine di prescrizione, ex artt. 157 e ss. c.p., considerata la cornice edittale, è di anni sei, con riferimento a quello ordinario, e di anni sette, mesi sei, con riferimento a quello massimo. Quest'ultimo si sarebbe ordinariamente consunto il 4 ottobre 2014. Vanno però computate anche stavolta le già ricordate sospensioni del termine, per complessivi mesi otto e giorni ventinove, sicché questa fattispecie ha visto maturare il termine massimo di prescrizione alla data del 3 luglio 2015.

2.3. Di conseguenza, entrambi i reati suddetti si sono, alla data della presente decisione, estinti per prescrizione.

La declaratoria di estinzione dei reati deve, allora, essere adottata in questa sede, posto che: la difesa dell'imputato ha sollecitato espressamente tale pronunzia, non segnalando (anzi, così implicitamente escludendo) l'eventuale sussistenza della formalizzazione della volontà di rinunciare alla causa estintiva da parte dell'assistito; il ricorso per ciascuno dei reati cumulativamente ascritti al Muscas non può considerarsi inammissibile; non sussistono (come risulterà chiaro dallo scrutinio degli ulteriori motivi) le condizioni per il proscioglimento ex art. 129 c.p.p.

La sentenza impugnata va annullata senza rinvio per questa parte.

2.4. Peraltro, vertendosi in giudizio di impugnazione, la declaratoria di estinzione del reato, essendosi avuta da parte della pronuncia impugnata condanna dell'imputato al risarcimento dei danni in favore delle due indicate parti civili, permane, ai sensi del'art. 578 c.p.p., il potere-dovere della Corte di accertare la sussistenza del fatto e la responsabilità dell'imputato ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili, non essendo sufficiente, allo scopo dello scrutinio delle doglianze che si riflettono sulla condanna al risarcimento del danno, dare atto dell'insussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 129, comma 2, c.p.p.

3. Ripercorrendo al precisato fine il catalogo delle doglianze articolate dal Muscas e premesso che la Corte territoriale ha individuato le prove ritenute determinanti per l'accertamento dei fatti nella testimonianza di Rita Massa, considerata corroborata dalle intercettazioni telefoniche, esclusa quella del 29 ottobre 2000, e nelle altre testimonianze, ivi inclusa quella del M.llo Faedda, va esaminata la questione processuale sollevata dal ricorrente con il primo motivo, avente ad oggetto la censurata inutilizzabilità della captazione 29 ottobre 2000, siccome acquisita da altro procedimento in violazione del limite fissato dall'art. 270 c.p.p.

La decisione assunta dai giudici di appello sul punto, in via confermativa di quanto aveva stabilito il Tribunale, non si profila censurabile.

Fuori questione essendo che l'intercettazione avvenuta tra il Muscas e la Massa è stata captata in relazione ad altro procedimento, i giudici di merito hanno rilevato che l'art. 270 c.p.p. fissa il principio secondo cui i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali le captazioni sono state disposte, con l'eccezione dell'ipotesi in cui essi risultino indispensabili per l'accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza: sicché l'intercettazione in parola, acquisita in altro procedimento, non poteva essere utilizzata in questa sede già per il solo fatto che il reato per il quale si procedeva (art. 294 c.p.) consentiva il solo arresto facoltativo in flagranza (la verifica avrebbe avuto lo stesso esito ove l'imputazione si fosse diretta verso l'alternativa configurazione del fatto ai sensi dell'art. 610 c.p.).

Decidendo nel senso indicato, dunque, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui l'inutilizzabilità delle intercettazioni per violazione dell'art. 270 c.p.p., in relazione all'alterità del procedimento, è da ritenersi di natura definita patologica, siccome inerente ad atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento (Sez. 5, n. 542 del 15 novembre 2016, dep. 2017, Mantella, Rv. 269020; sulla configurazione della inutilizzabilità patologica in generale Sez. un., n. 16 del 21 giugno 2000, Tammaro, Rv. 216246).

Il ricorrente ha prospettato l'utilizzabilità della conversazione ritenendo - il relativo atto - acquisito con il consenso, siccome inserito fra quelli indicati nella formazione del fascicolo per il dibattimento.

Sennonché va obiettato che la mera allegazione di un atto o di un documento al fascicolo previsto dall'art. 431 c.p.p. assolve ad una funzione soltanto strumentale rispetto alla formazione della prova e non equivale all'acquisizione del contenuto dell'atto o del documento medesimo, in quanto è al momento in cui il giudice ne dispone la lettura - oppure manifesta in altro modo la determinazione di avvalersene - che deve farsi riferimento per verificare la correttezza o meno dell'inserzione dell'atto nel fascicolo per il dibattimento e per la concreta attuazione del principio della formazione della prova al dibattimento nel contraddittorio delle parti.

D'altro canto, la sanzione processuale dell'inutilizzabilità non rientra tra le questioni lasciate nella disponibilità esclusiva delle parti, essendo sempre rilevabile d'ufficio (Sez. n. 32530 del 6 maggio 2010, H., Rv. 248220).

Pertanto, i giudici di primo grado e, poi, quelli di appello hanno escluso in modo giuridicamente ineccepibile quella prova dal novero delle prove utilizzabili.

4. In ordine al secondo motivo, con cui la sentenza impugnata viene criticata per la contraddittoria e carente valutazione del quadro probatorio posto dai giudici di merito alla base dell'accertamento della responsabilità del Muscas per il reato, di cui al capo A), di attentato contro i diritti politici del cittadino, nella persona della Massa, è da rilevare che la Corte territoriale ha considerato le prove costituite dalla testimonianza di Rita Massa, dal contributo dichiarativo del Pintus, dall'esito degli accertamenti di polizia giudiziaria, corroborati dalle intercettazioni telefoniche (esclusa, come si è visto, quella del 29 ottobre 2000), tali da formare una piattaforma del tutto idonea a dimostrare la responsabilità penale dell'imputato.

La Corte di appello ha fissato gli snodi essenziali della vicenda vissuta dalla Massa nella sua breve esperienza di Sindaco di Donori, che si era dipanata dalla prima seduta del Consiglio comunale del 21 maggio 2005, dopo le elezioni del 10 maggio 2005, fino alle dimissioni del 4 aprile 2007: convinta dallo stesso Muscas, compagno di schieramento e vecchio amico di famiglia, a candidarsi nel suo schieramento, di cui l'imputato era stato leader di prima grandezza, per essere stato eletto sindaco nelle due consiliature antecedenti (e quindi, ostandovi la disciplina vigente, impossibilitato ad ascendere per la terza volta consecutiva al seggio sindacale), la Massa era stata eletta sindaco ed il Muscas, quale consigliere comunale, era stato designato vicesindaco, nel rispetto dell'accordo elettorale stabilito. Intanto il Muscas era stato eletto consigliere provinciale.

Infatti, a meno di due anni dall'inizio del mandato, a cagione dell'azione orchestrata dal Muscas - che aveva organizzato progressivamente atti intimidatori pesanti ai danni della Massa, combinati a lettere e telefonate anonime tese ad isolare sempre più la donna, nonché aveva denunciato in modo falso di aver subìto un danneggiamento, al fine di rendere più credibili e non a lui ascrivibili gli atti intimidatori che venivano messi in essere in modo anonimo contro il Sindaco (salvo poi a lasciarsi andare in pubbliche riunioni ad altre pesanti intimidazioni), onde pervenire allo scopo di farla dimettere, per poter nuovamente ripresentarsi quale candidato Sindaco di Donori ed essere, dopo l'interregno, nuovamente eletto e, così, continuare a coltivare la commistione fra interessi pubblici e privati che il corredo intercettivo aveva fatto emergere - la Massa il 4 aprile 2007 aveva rassegnato le dimissioni irrevocabili dalla carica sindacale. Ella si era risolta a tale scelta una volta appreso che a carico del Muscas era stato iniziato procedimento penale, sostanzialmente ritenendo di essere stata oramai posta dall'imputato, in forza dell'attuazione del disegno da lui organizzato, nelle condizioni di non potere svolgere la funzione per la quale era stata eletta.

Le critiche mosse dal ricorrente non forniscono ragioni persuasive per porre in crisi la motivata valutazione compiuta dai giudici di merito che hanno ritenuto la ricostruzione dei vari passaggi esposti dalla Massa - inerenti alle varie intimidazioni, alla loro portata, ai relativi effetti e, conclusivamente, alla loro provenienza - frutto di dichiarazioni dettagliate, coerenti e del tutto credibili, non soltanto sotto il profilo intrinseco, ma anche sotto quello estrinseco, siccome sono risultate supportate da numerose altre prove che hanno confermato anche i dettagli della sua narrazione.

I giudici di appello hanno sottolineato che le altre prove orali e le intercettazioni (quale quella costituita dalla telefonata tra il Muscas ed il Soi) hanno fornito un quadro esauriente del coinvolgimento dell'imputato nelle intimidazioni messe in essere in danno della Massa, corroborate dalla condotta del Muscas che risulta aver simulato atti intimidatori nei suoi confronti in contestuale corrispondenza con quelli patiti effettivamente dalla Massa, per rendere ancora più credibili quelli effettivamente destinati alla persona offesa.

Nel considerare il complesso di elementi valutato dalla sentenza impugnata, non si scorgono ragioni concrete per ritenere illogica o contraddittoria la valutazione della prova costituita dalle dichiarazioni del coimputato Luigi Pintus, circa la versione fornitagli in ordine alla conoscenza da parte dell'imputato del calibro del proiettile contenuto della busta mostratagli dal Muscas e, soprattutto, della giustificazione fornita dal Muscas circa tale sua conoscenza, ossia di aver visionato il contenuto della busta con il M.llo Faedda: versione in sé inverosimile e poi smentita dal sottufficiale, il quale aveva confermato al Pintus che mai avrebbe potuto restituire un corpo di reato.

La posizione assunta dal M.llo Faedda è risultata, a sua volta, confermata, oltre che dalla ordinaria affidabilità da annettere alle dichiarazioni del pubblico ufficiale operante, dal rilievo dei giudici di merito secondo cui dalla denuncia acquisita agli atti del giudizio era risultato che il M.llo Faedda aveva appreso del rinvenimento del proiettile alle ore 07:30 del mattino, ossia dopo che il Muscas aveva già parlato con il Pintus.

Da tale rigorosa verifica e dalle restanti considerazioni svolte dalla sentenza impugnata si trae il corollario che le dichiarazioni del Pintus e vieppiù quelle del Faedda, che ha riferito un quadro significativo e coerente degli indicativi risultati delle indagini compiute, sono state apprezzate in modo congruo e senza cadute logiche dalla sentenza impugnata.

Né integra un rilevante elemento di contraddizione nel tessuto della motivazione della sentenza di appello il fatto che la Corte di merito abbia ritenuto giuridicamente insussistente la tentata estorsione (rubricata sub B) relativa all'attività finalizzata dal Muscas a far ottenere al Batteta la proroga della concessione per lo sfruttamento della cava di sabbia comunale: il fatto che non siano stati ritenuti adeguatamente configurati l'idoneità dei relativi atti e nemmeno, nella situazione giuridica derivante dalla concessione in atto, l'ingiustizia dell'obiettivo costituito dalla proroga stessa non ha impedito alla Corte territoriale di ribadire la mutata, rispetto al passato, qualità dei rapporti fra il Muscas e quell'imprenditore, rapporti confidenziali in base ai quali l'imputato aveva assicurato al Batteta il suo sostegno amministrativo supportando le sue posizioni e frenando le iniziative degli altri amministratori contrarie agli interessi del medesimo imprenditore.

In siffatta situazione, è restato anche sotto questo profilo intatto lo sfondo fattuale nel quale si è inscritta la condotta antigiuridica ascritta al Muscas sub B).

Del pari la progressione intimidatoria che ha costretto il Sindaco alle dimissioni è stata analizzata anche tenendo conto della personalità della Massa ed ha considerato, reputandoli ormai relegati nell'ambito delle esperienze definite, i pregressi rapporti personali fra imputato e persona offesa.

In definitiva, la valutazione delle prove analizzate ha condotto la Corte di appello a ribadire, con ragionamento immune da vizi logici, la conclusione per cui la decisione della Massa di dimettersi, infine assunta dopo avere appreso dai Carabinieri dell'esistenza di un procedimento penale a carico dello stesso Muscas, era stata la conseguenza diretta delle pressioni orchestrate ed operate dall'imputato: la situazione determinata dal Muscas ne aveva condizionato il comportamento in modo determinante fino al punto che ella, ritenendosi relegata in una situazione che le impediva di esercitare in modo libero ed effettivo il mandato sindacale, aveva ritenuto ineludibile la sua decisione, dando atto che ne aveva colto la necessità anche sul piano politico, siccome la sua uscita di scena avrebbe potuto far sì che il Comune potesse avere degli amministratori non condizionati.

Pertanto, espunta dalla complessiva doglianza quella parte di essa che sollecita inammissibile interpretazioni alternative del fatto, nessuna delle critiche mosse sotto il profilo della valutazione della prova con il secondo motivo si dimostra fondata.

5. Le considerazioni svolte valgono a far ritenere infondato anche il quarto motivo, relativo alla contestazione inerente alla condanna per simulazione di reato sub C), quanto al residuo episodio del 19 ottobre 2006.

I giudici di appello, dopo aver rilevato che i primi due fatti contestati ex art. 367 c.p. erano comunque caduti in prescrizione, hanno mantenuto ferma la responsabilità penale per il terzo episodio, quello - relativo alla denuncia del 19 ottobre 2016 - di aver trovato il 18 ottobre 2016 una busta contenente un proiettile cal. 7,65 presso la sua abitazione.

Come si è in precedenza evidenziato nell'ambito della più ampia analisi relativa al delitto di attentato (in relazione al quale anche questa condotta simulatoria integrata dal Muscas conserva la sua portata probatoria), la falsità della denuncia stessa era stata chiaramente desunta dalla testimonianza di Luigi Pintus, combinata con quella dell'operante Faedda, la valutazione della cui attendibilità è stata, come si è visto, ineccepibilmente affermata.

Pertanto, ferma l'accertata maturazione della prescrizione anche con riguardo al terzo fatto di simulazione di reato, deve constatarsi - pure sotto l'angolo visuale dell'art. 367 c.p. e per quanto rileva agli effetti civili - l'adeguatezza e logicità del ragionamento compiuto dai giudici di merito in ordine alla valutazione della prova del relativo fatto che ha concorso all'accertamento di quello, più ampio, concretante il reato di cui all'art. 294 c.p.

6. Infondato è anche il terzo motivo, riguardante la configurabilità e sussistenza del reato sub B), con cui il ricorrente denunzia che l'art. 294 c.p. non è riferibile, quanto all'oggetto dell'attentato, anche ai diritti funzionali, quale ritiene sia quello all'esercizio del mandato sindacale, sicché non sarebbe da ritenersi legittimo che l'interprete forzi il carattere tassativo della disposizione ampliando l'individuazione del suo oggetto.

E prospetta, in via subordinata, che in ogni caso, se si fosse fatto rientrare il mantenimento della carica sindacale nell'ambito del diritto politico, avrebbe dovuto verificarsi la sussistenza del dolo sul corrispondente fatto costitutivo ed anche ammettersi l'errore sulla norma extrapenale, ex art. 47 c.p.

Al proposito è opportuno brevemente ricordare che l'art. 294 c.p. punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni chiunque con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l'esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà.

Consolidata e condivisa è l'osservazione che l'elemento oggettivo del reato di attentato contro i delitti [recte: diritti - n.d.r.] politici del cittadino, di cui all'art. 294 c.p., consiste in una condotta connotata da violenza, minaccia o inganno che si traduce nell'impedimento all'esercizio dei diritti politici in senso stretto, correlati al diritto di elettorato attivo e passivo, e non invece di qualsiasi manifestazione del pensiero che possa riguardare scelte politiche, il cui impedimento integra gli estremi della fattispecie generica e sussidiaria del reato di violenza privata di cui all'art. 610 c.p. (Sez. 6, n. 51722 del 9 novembre 2016, Camilletti, Rv. 268621).

Fra i diritti politici, l'impedimento all'esercizio dei quali ricade nel fuoco dell'incriminazione dell'art. 294 c.p., vanno tuttavia sicuramente annoverati il diritto all'elettorato, attivo e passivo (art. 51 Cost.), il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.), il diritto di rivolgere petizioni alle Camere (art. 50 Cost.), il diritto di esercizio dell'iniziativa legislativa (art. 71, secondo comma, Cost.), il diritto di referendum (artt. 75, 123, 132 Cost. e art. 138, secondo comma, Cost.).

Il concetto di diritto politico, che sta alla base dello schema descrittivo dell'art. 294 c.p., inerisce - nell'ordinamento democratico vigente, con l'impianto costituzionale che ne determina le linee portanti - a una serie di facoltà inviolabili riconosciute al cittadino il cui libero esercizio è coordinato al suo concorso all'organizzazione ed al funzionamento dello Stato che da esso promana.

Posto ciò, è assodato che il sistema costituzionale distingue i diritti politici dalle libertà costituzionali, essendo, i primi, riconosciuti in via originaria quali strumenti garantiti a ciascuno per la sua essenziale partecipazione alla vita - costituzionale ed amministrativa - dello Stato; afferendo, le seconde, alla titolarità ed all'esercizio di quei diritti personali dell'individuo con i quali egli esprime in modo infungibile la sua personalità.

Né può dubitarsi, come anticipato, che fra i diritti politici vada annoverato quello di elettorato passivo. L'art. 51 Cost. stabilisce che tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Anche l'elettorato amministrativo è considerato diritto politico del cittadino perché anche con esso si esercitano facoltà riguardanti l'organizzazione ed il funzionamento di Regioni, Province e Comuni, le cui strutture partecipano con rilevanza incontestabile all'organizzazione istituzionale promanante dall'ordinamento costituzionale.

In questa direzione si è chiarito che diritti politici, nell'attuale assetto costituzionale, sono quelli che permettono al cittadino di partecipare all'organizzazione ed al funzionamento dello Stato e degli altri enti di rilevanza costituzionale, come le Regioni, le Province e i Comuni, ai quali è attribuita la funzione di indirizzo politico in relazione ad un determinato aggregato di persone stanziate su una parte del territorio, e che, nel novero dei diritti politici rientra, pertanto, quello di elettorato passivo configurabile in riferimento alla carica di consigliere comunale (Sez. 1, n. 11055 del 14 ottobre 1993, Renna, Rv. 197545).

È però contestato che nell'ambito dei diritti politici in senso proprio vadano inclusi i diritti politici definiti "funzionali", da alcuni intendendosi con tale locuzione quei diritti che hanno per oggetto non solo l'esercizio dei poteri derivanti dalle pubbliche funzioni, ma anche, in senso lato, l'investitura di pubbliche funzioni e il mantenimento di esse.

Non mancano, infatti, opinioni che, muovendo dalla categoria dei diritti funzionali, ne individua il carattere saliente nella tutela, attraverso il loro esercizio, dell'interesse al buon andamento della pubblica Amministrazione: interesse rispetto al quale degraderebbe l'interesse di natura politica, quello al funzionamento ed all'organizzazione dello Stato, sicché la loro violazione, determinando in via diretta la lesione di un interesse amministrativo dello Stato, esulerebbe dall'area di applicazione dell'art. 294 c.p.

In tal senso si valorizza l'indicazione fornita dalla Relazione ministeriale al progetto del codice penale lì dove evidenzia che - quando il cittadino sia già investito di pubbliche funzioni - le ipotesi di impedimento, con violenza o con minaccia, dell'esercizio delle funzioni medesime, al pari delle ipotesi di costringimento ad esercitarle in modo difforme dalla sua volontà, esulano dalla sfera di applicazione dell'art. 294 c.p., essendo invece applicabili le norme di diritto comune, relative alla tutela del pubblico ufficiale dalla violenza o dalla minaccia.

Nell'esegesi pratica della norma si è, quindi, evidenziato, in particolare, che l'elemento materiale del reato di attentato contro i delitti politici del cittadino, previsto dall'art. 294 c.p., consiste in una condotta esplicantesi in violenza, minaccia o inganno che si traduce nell'impedimento all'esercizio di un diritto politico o nella determinazione del cittadino stesso ad esercitarlo in maniera difforme dalla sua volontà (v. Sez. 1, ord. n. 17333 del 21 aprile 2005, Cammisuli, Rv. 231103; Sez. 1, n. 11835 del 26 giugno 1989, Celentano, Rv. 182017). E in ciò sta la differenza rispetto alla fattispecie configurata dall'art. 610 c.p., che prevede il reato di violenza privata e delinea una fattispecie generica e sussidiaria, sicché questa è destinata ad essere assorbita in quella specifica di cui all'art. 294 c.p., in virtù del principio di specialità fissato dall'art. 15 c.p.: ciò, in fattispecie connotata dalla minaccia nei confronti di un candidato alla carica di consigliere comunale, al fine di costringerlo a ritirare la candidatura (Sez. 1, n. 11055 del 14 ottobre 1993, Renna, cit.).

Quel che pare certo è, però, che la tutela penale apprestata dall'art. 294 c.p. del diritto di elettorato passivo non può ricondursi al solo momento, per così dire, "genetico" inerente al suo esercizio.

Significativo, in questo senso, è che, nella giurisprudenza costituzionale, non si è mai dubitato che gli effetti di atti o leggi che colpiscano l'eletto nel corso del mandato ottenuto a seguito del positivo esercizio del diritto di elettorato passivo, determinandone a qualsivoglia titolo la decadenza o le dimissioni, influiscano direttamente sullo stesso diritto di elettorato, inteso come diritto al mantenimento della carica.

Si richiama, per tutte, l'analisi di Corte cost., sent. n. 276 del 2016, che (dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'istituto della sospensione dalle cariche elettive locali prevista dall'art. 8 d.lgs. n. 235 del 2012, che stabilisce, fra l'altro, al comma 1, che sono sospesi di diritto dalle cariche indicate all'art. 7, comma 1, coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all'art. 7, comma 1, lett. a, b e c) ne ha valutato la natura movendo dal presupposto che la stessa fosse idonea ad incidere sul diritto di elettorato passivo del soggetto interessato, sebbene la ritenuta natura non penale e non punitiva, nel senso più ampio affermato dalla Corte EDU, abbia condotto il Giudice delle leggi a considerare legittima la sospensione stessa.

Nello stesso senso Corte cost., sent. n. 236 del 2015, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 235 del 2012, nella parte in cui dispone che sono sospesi di diritto dalle cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati dall'art. 10, lett. a), b) e c), stesso d.lgs., in riferimento agli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.

D'altronde, l'attenzione della giurisprudenza costituzionale alla verifica del vaglio e degli effetti delle questioni di incompatibilità, in relazione a quelle di ineleggibilità, pure in rapporto alle peculiarità degli ordinamenti regionali, muove da un concetto di elettorato passivo che rinviene il dispiegarsi della corrispondente posizione soggettiva sicuramente anche in momento successivo rispetto a quello della elezione. Così Corte cost., sent. n. 235 del 1988 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per violazione degli art. 3 e 51 Cost., l'art. 175, primo comma, d. leg. pres. Sicilia 29 ottobre 1955, n. 6, nella parte in cui prevede, per le cause di incompatibilità preesistenti all'elezione, la sanzione della nullità dell'elezione stessa, anziché quella della decadenza dalla carica, così come previsto dall'art. 6 l. 23 aprile 1981, n. 154.

In questa ed in altre occasioni la Corte costituzionale ha evidenziato la portata del diritto di elettorato passivo quale diritto politico fondamentale che l'art. 51 Cost. riconosce e garantisce ad ogni cittadino con i caratteri propri dell'inviolabilità (ex art. 2 Cost.), diritto che, essendo intangibile nel suo contenuto di valore, è suscettibile di essere disciplinato unicamente da leggi generali che possono limitarlo al solo fine di realizzare altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali e generali, senza porre discriminazioni sostanziali tra cittadino e cittadino, qualunque sia la regione o il luogo di appartenenza. Con esso, dunque, si impone un vincolo costituzionale, comune a tutti i diritti dell'uomo e del cittadino, di carattere inviolabile.

Si è, in definitiva, reiteratamente affermato che è proprio il principio di cui all'art. 51 Cost. a svolgere il ruolo di garanzia generale di un diritto politico fondamentale, riconosciuto a ogni cittadino con i caratteri dell'inviolabilità ex art. 2 Cost. (Corte cost., sent. n. 288 del 2007; Corte cost., sent. n. 539 del 1990), e che il diritto di elettorato passivo si riferisce al mantenimento della carica così come al diritto di essere eletto.

Non appare secondario rilevare, inoltre, che anche dall'analisi della giurisprudenza civile si desume la considerazione che il diritto di elettorato passivo non si esaurisce con la partecipazione all'elezione, ma si estende all'effettivo mantenimento della carica alla quale cittadino è stato eletto (Sez. un., civ., n. 11131 del 28 maggio 2015, Rv. 635364, in tema di provvedimento di sospensione della carica di sindaco).

Tale affermazione, resa anch'essa nell'interpretazione della disciplina introdotta dal già citato d.lgs. n. 235 del 2012, è di notevole interesse anche per la presente analisi, lì dove segnala come l'elezione alla carica di sindaco determini l'assunzione di funzioni pubbliche e lo svolgimento di dette funzioni costituisca elemento da valutarsi alla luce del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Invero, una volta che il cittadino sia eletto, le vicende soggettive che lo riguardano e che sono tali da incidere sulla possibilità di continuare a svolgere le funzioni per le quali egli è stato eletto, dispiegano effetti rilevanti non solo dal punto di vista del diritto di elettorato passivo, del quale anche l'esercizio delle funzioni elettive costituisce manifestazione, ma anche dal punto di vista del buon andamento dell'ente locale.

7. Le considerazioni svolte, confermando l'immanenza del diritto di elettorato passivo pur dopo il momento dell'avvenuta elezione, inducono a ritenere, senza per questo addivenire ad alcuna alterazione della tipicità formale della fattispecie in parola, che la protezione assicurata dalla norma incriminatrice di cui all'art. 294 c.p. al diritto di elettorato passivo, così come agli altri diritti politici, se colloca la sua sfera applicativa anzitutto nella fase corrispondente all'esercizio dello stesso in vista dell'elezione del cittadino, non esaurisce l'intero ambito di detta sfera in quella fase.

In effetti - essendo volta a sanzionare anche l'esercizio del diritto in modo difforme dalla volontà del titolare - essa ha ad oggetto anche quelle condotte che, pur successivamente alla fase in cui attraverso il suo esercizio il cittadino abbia avuto accesso alla pubblica funzione, la condotta violenta, intimidatoria o decettiva messa in essere ai suoi danni persegua e determini il radicale abbandono da parte sua della pubblica funzione elettivamente conseguita, in tal senso vanificando, a posteriori, ma in modo parimenti incisivo, l'esercizio del diritto politico.

È, dunque, vero che altre norme prevedono e puniscono gli attentati (non all'esercizio dei diritti politici del cittadino, bensì) al libero esercizio delle pubbliche attività funzionali, essendo evidente il rinvio, al riguardo, agli artt. 289, 336, 337, 339 e 339 c.p.

Ed è corretto ritenere che l'ipotesi di cui all'art. 294 c.p. non riguarda l'esercizio di specifiche attività funzionali che, ove incise da condotte violente, minatorie o ingannatrici nei confronti dell'esercente la pubblica funzione, vanno ricondotte alle norme penali che tutelano, appunto, l'espletamento delle pubbliche funzioni.

Ma nettamente distinto da quest'ultimo ambito è quello relativo, non già all'espletamento delle singole attività funzionali, bensì al mantenimento stesso della carica, ovverosia al persistente esercizio del diritto politico, nella specie del diritto di elettorato passivo, quando la condotta censurata risulti mirata, attraverso violenza, minaccia od inganno, alla sua eradicazione, pur postuma rispetto alla fase dell'elezione, ma in guisa tale che, perseguendo e conseguendo l'obiettivo delle dimissioni dell'eletto dalla funzione, impedisca di fatto il compiuto esercizio del diritto politico stesso.

In quest'ultimo caso - che è quello di fatto accertato dai giudici di merito - la lesione non afferisce alla mera sfera funzionale delle prerogative assegnate al cittadino eletto, ma al suo stesso diritto di elettorato passivo, il cui esercizio, a cagione del comportamento antigiuridico dell'imputato, è stato posto nel nulla mediante il costringimento della persona eletta ad abbandonare la carica a cui l'esercizio del succitato diritto politico l'aveva, con l'elezione, assegnata.

Né merita censura la Corte territoriale per avere considerato, nel quadro indicato, sussistente il reato di cui all'art. 294 c.p. anche per quanto concerne il relativo elemento soggettivo: premessa, invero, la necessità del riscontro dalla consapevolezza e volontà della condotta costituente l'elemento materiale con lo scopo di cagionare l'evento previsto dalla legge come vulnus all'esercizio del diritto politico del cittadino, ossia nel caso in esame le dimissioni della Massa, la contestazione della sua evenienza formulata dal ricorrente non si confronta con lo specifico accertamento compiuto sul punto da giudici di merito i quali hanno chiarito, in modo del tutto insuperato, che il Muscas non faceva mistero che il suo scopo era quello di far allontanare la Massa dalla carica di Sindaco ed andare a nuove elezioni prima possibile.

Infine, sempre sotto il profilo dell'elemento soggettivo, la caratura e l'esperienza politica del Muscas, già due volte egli stesso Sindaco, rende assolutamente inverosimile la prospettazione di un suo errore circa la natura del diritto inciso. Fermo restando che, in ogni caso, non si richiede la consapevolezza in capo all'agente che il diritto conculcato con la propria condotta sia un diritto politico, posto che questo identifica l'oggetto della tutela penale, per cui l'eventuale (e peraltro soltanto predicato) errore sul punto sarebbe restato irrilevante, per gli effetti di cui all'art. 47 c.p.

Conseguentemente, il terzo motivo del ricorso deve essere rigettato.

8. Il quinto motivo, riguardando questioni sulla pena, non va esaminato, data l'accertata prescrizione dei reati.

9. In ordine al sesto motivo, relativo alla mancata risposta in ordine al carattere eccessivo ed immotivato dalla liquidazione dei danni ed alla mancata considerazione dell'assoluzione del tentativo di estorsione sub B), la verifica della motivazione fornita dai giudici di merito non appare censurabile sotto i profili dedotti.

In effetti, l'esame della motivazione della sentenza di primo grado, confermata da quella di appello, rende chiaro che alla base dell'accertamento del pregiudizio ritenuto patito con riferimento a quello morale (o, meglio, non patrimoniale), da un lato, dal Comune di Donori e, dall'altro, dalla Massa sono stati posti, in via generale, la considerazione della natura dolosa della condotta antigiuridica del Muscas e poi, per un verso, la valutazione del pregiudizio e del discredito patiti dal Comune suddetto, costretto al commissariamento ed a nuove elezioni anticipate, e, dall'altro, il rilievo della sofferenza personale e familiare patita dalla Massa nonché delle conseguenze ulteriori di natura permanente o comunque duratura subìte dalla medesima parte civile, costretta ad abbandonare la carica sindacale e la politica attiva, anche in tal caso in diretta dipendenza dell'azione minatoria e molesta riconducibile all'imputato.

Quanto alla liquidazione, essa è avvenuta, ai sensi dell'art. 1226 c.c., secondo criterio equitativo alla stregua dei suindicati fattori.

9.1. Orbene, assodato in premessa che anche i danni non patrimoniali, rappresentati da turbamenti morali della collettività, sono risarcibili a favore degli enti pubblici esponenziali di essa, deve ribadirsi il principio secondo cui la liquidazione di questa categoria di danno è affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito il quale ha, peraltro, il dovere di dare conto delle circostanze di fatto considerate in sede di valutazione equitativa e del percorso logico posto a base della decisione, senza che debba, tuttavia, indicare in modo analitico i calcoli in base ai quali ha determinato il quantum del risarcimento (Sez. 6, n. 20279 del 30 marzo 2017, Foglia, n. m.; Sez. 4, n. 18099 del 1° aprile 2015, Lucchelli, Rv. 263450).

I giudici di merito si sono attenuti a tale principio enucleando con sufficiente precisione le circostanze di fatto che sono state poste, con discorso giustificativo congruo, alla base dell'accertamento e della quantificazione dei danni patiti dall'ente territoriale, per un verso, e dalla Massa, dall'altro.

9.2. Emerge, poi, con nettezza che è stata la complessiva attività antigiuridica ascritta al Muscas in relazione al reato di cui all'art. 294 c.p. a fornire ai giudici di merito gli elementi su cui l'attività di accertamento e liquidazione equitativa si è poi dispiegata.

La denunciata incongruenza della mancanza di un intervento modificatore in diminuzione dell'importo risarcitorio a seguito dell'avvenuta assoluzione dell'imputato dal reato di cui agli artt. 56-629 c.p., di cui al capo B), non si rivela effettivamente sussistente.

È vero che il Muscas è stato assolto dalla sentenza di appello dal reato sub B) per insussistenza del fatto, senza alcuna riliquidazione del danno. Tuttavia, l'analisi della condotta che sostanzia la tentata estorsione sub B) indirizza in modo piano verso la conclusione che essa riguarda fatti che, non idonei a configurare il reato di tentata estorsione, risultano poi sussunti anche nell'ambito dell'imputazione di cui al capo A), quali comportamenti che hanno avuto rilievo nella complessiva, effettuale condotta intimidatoria che ha integrato la fattispecie ex art. 294 c.p.

Questo rilievo impone di concludere nel senso che il danno conseguenza del reato sub B), pur considerato dalla sentenza che lo ha liquidato, si identifica con lo stesso pregiudizio determinato da quello sub A), secondo le chiare indicazioni desumibili dalla richiamata motivazione.

10. In definitiva, agli effetti civili, l'impugnazione non merita di essere accolta.

Il rigetto di essa determina, quanto al regolamento delle spese processuali del grado relativo alla posizione della parte civile Comune di Donori (l'unica che ha svolto attività processuale in questa sede).

Tali spese sono da porre a carico del Muscas, anche qui soccombente rispetto all'azione civile proposta nei suoi confronti, e vanno adeguatamente liquidate, tenendo conto dell'attività effettivamente prestata, nell'opportuna misura di euro 4.000,00, secondo la seguente specificazione.

Fase di studio: euro 700,00.

Fase introduttiva: euro 1.400,00.

Fase decisionale: euro 1.900,00.

Totale: euro 4.000,00.

Ai compensi professionali non va aggiunto alcun ristoro di spese borsuali, non richiesto. Spetta invece alla suddetta parte civile, ex art. 2 d.m. n. 55 del 2014, il rimborso delle spese forfettarie nella - giusta - misura del 15%, oltre all'IVA ed al contributo per la Cassa Previdenziale, da computarsi sull'imponibile.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché i reati sono estinti per prescrizione.

Rigetta il ricorso nel resto e agli effetti civili. Condanna il ricorrente alla rifusione, in favore della parte civile Comune di Donori, delle spese sostenute nel grado, che liquida in complessivi euro 4.000,00, oltre accessori (spese generali, Iva e Cpa) come per legge.

Depositata il 10 maggio 2018.