Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 4 dicembre 2017, n. 5175

Presidente: Settembre - Estensore: Borrelli

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 12 luglio 2017, la Corte di appello di Cagliari ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in data 8 febbraio 2016 nei confronti di Raffaello F., condannato per il reato di diffamazione ai danni di Giorgio P., per aver pubblicato su Facebook una frase da cui si desumeva - attraverso il riferimento ad altro episodio in cui era stato coinvolto il P., di pubblico dominio - che la persona offesa avesse appiccato un incendio boschivo.

2. Avverso detta pronunzia ha proposto ricorso per cassazione il difensore del F. articolando un unico motivo, con cui deduce inosservanza o erronea applicazione degli artt. 595 c.p. e 192, 63 e 64 c.p.p., oltre che difetto e manifesta illogicità della motivazione. A detta del ricorrente, infatti, la motivazione della Corte di appello sarebbe scorretta perché avrebbe considerato elementi probatori equivoci e discordanti; in particolare il ricorrente contesta la valutazione di attendibilità della persona offesa a causa dei rapporti conflittuali con l'imputato, nonché la valenza probatoria della stampa della conversazione Facebook, dovendo trovare applicazione i principi della convenzione di Budapest sulla criminalità informatica e non essendo stata attuata una procedura che assicuri la conformità ai dati originali e l'immodificabilità di quelli copiati. Secondo il ricorrente, per accertare la paternità dello scritto, doveva effettuarsi un'operazione a ritroso mediante la ricerca e l'acquisizione dei cd. file di log, mentre il riconoscimento, da parte della polizia giudiziaria, della foto del profilo del social network come appartenente al F. non tiene conto del fatto che chiunque può aprire una pagina Facebook a nome di altri ovvero, sfruttando la password di un utente della rete, può utilizzare il suo profilo. È mancata, inoltre, una verifica diretta da parte della polizia giudiziaria della pagina Facebook per accertarsi della conformità tra la fotocopia prodotta e la schermata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

1.1. Quanto alla prima doglianza contenuta nell'unico motivo, quella dell'attendibilità della persona offesa, deve osservarsi che essa è inammissibile dal momento che non è questione che fondava specificamente (come necessario alla luce della sentenza delle Sezioni unite 8825 del 27 ottobre 2016, dep. 2017, Galtelli, rv. 268822) i motivi di appello, strutturati su altri profili di censura e contenenti solo un accenno incidentale alla doglianza in discorso, a proposito però di altra argomentazione («al di là di ogni considerazione in merito all'attendibilità della persona offesa e della compagna alla luce dei forti motivi di conflitto con l'imputato, è opportuno evidenziare»).

1.2. Circa la questione delle modalità di acquisizione della stampa della pagina Facebook, deve dirsi che correttamente la Corte di merito ha ritenuto che la l. 18 marzo 2008, n. 48 non abbia introdotto alcuna prova legale, limitandosi a richiedere l'adozione di misure tecniche e di procedure idonee a garantire la conservazione dei dati informatici originali e la conformità ed immodificabilità delle copie estratte per evitare il rischio di alterazioni, senza tuttavia imporre procedure tipizzate (Sez. 3, n. 2122 del 4 ottobre 2016, non massimata); del pari la disciplina in discorso non ha introdotto alcuna inutilizzabilità probatoria del dato acquisito (costituito, peraltro, nel caso di specie, da una mera stampa di una videata, frutto di un'operazione informaticamente elementare) senza il rispetto delle suddette procedure, che il giudice potrà valutare, secondo il principio del libero convincimento, al pari di qualsiasi altro documento.

Nella vicenda sub iudice la Corte di appello ha dato conto delle ragioni per le quali - partendo dall'apprezzamento dell'attendibilità della persona offesa, della di lui fidanzata e della convergenza tra i due contributi dichiarativi - non ha dubitato della paternità di quei commenti. Da una parte, l'idea che terzi avessero potuto utilizzare il profilo del F. ovvero crearne abusivamente uno nuovo è fantasiosa e smentita dalla circostanza che, nel processo, non risulta che l'imputato avesse contestato la riconducibilità a lui, né assunto iniziative tese a prendere le distanze dal profilo o a chiedere la cancellazione dei messaggi; dall'altra, vi sono altre conversazioni non solo sullo stesso argomento dell'incendio, ma anche eloquenti di una conoscenza del titolare del profilo con le persone con cui i dialoghi venivano intrattenuti. Altra circostanza che, infine, ha convinto la Corte di merito del rigetto dell'atto di appello è che il tenore del post è coerente con il malanimo che, per stessa ammissione della persona offesa, intercorreva tra quest'ultima e l'imputato e che non è risultato riconducibile ad altri rapporti interpersonali del P.

È evidente che da tali, stringenti argomentazioni si ricava anche il rigetto implicito dell'ultimo profilo di doglianza, quella della mancanza di una verifica diretta da parte della polizia giudiziaria in ordine alla conformità tra la stampa del messaggio ed il profilo. A quest'ultimo proposito va peraltro ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 2, Sentenza n. 12858 del 27 gennaio 2017, De Cicco e altri, rv. 269900, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 49970 del 19 ottobre 2012, Muia e altri, rv. 254107).

2. Alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende della somma, che si stima equa, di Euro 2.000,00, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 1.500,00 (millecinquecento), oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 1.500,00 (millecinquecento), oltre accessori di legge.

Motivazione semplificata.

Depositata il 2 febbraio 2018.