Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 22 dicembre 2017, n. 113
Presidente: Fumu - Estensore: Ariolli
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 17 novembre 2016, la Corte di appello di Milano confermava la sentenza emessa dal Tribunale della medesima città in data 14 giugno 2013, che aveva affermato la responsabilità penale di P. Anna, R. Tomaso e R. Simone, con riferimento al reato di cui al capo C) della rubrica (artt. 81 cpv., 110 e 648 c.p.), con esclusione dei beni di cui al punto 5 e, per i primi due imputati, anche di quelli di cui al punto 6; che, per l'effetto, riconosciute le attenuanti generiche e ed applicata la continuazione, aveva condannato P. Anna alla pena di anni due di reclusione ed euro 900,00 di multa, R. Tomaso alla pena di anni due e mesi sei di reclusione ed euro 1.200,00 di multa, R. Simone alla pena di anni due mesi otto di reclusione ed euro 1.400,00 di multa; che, infine, aveva assolto gli imputati dai reati di cui ai capi A), B), e C) - con riferimento ai beni di cui al punto 5 e, per P. Anna e R. Tomaso, anche di cui al punto 6) - nonché al capo D) della rubrica, per non avere gli imputati commesso il fatto.
2. Avverso la suddetta decisione ricorrono per cassazione, a mezzo dei propri difensori, R. Tomaso, P. Anna e R. Simone, questi ultimi due con unico atto di ricorso ad essi comune, chiedendone l'annullamento.
Posizione P. Anna e R. Simone.
2.1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono il vizio di motivazione, per illogicità e carenza rispetto alle doglianze formulate in appello, nonché per omessa indicazione delle ragioni sottese al giudizio di colpevolezza degli imputati. In particolare, non si sarebbe tenuto conto che i ricorrenti, madre e figlio, gestissero un'area dl servizio per automobilisti composta, oltre che da una parte dedicata alla loro abitazione, da vari locali variamente destinati (bar, ufficio, officina per la sostituzione di pneumatici, magazzini, aree di deposito e dei distributori, parcheggi). Sicché non potrebbe apparire singolare che taluno dei componenti della famiglia non facesse ingresso, anche per lunghi periodi, in alcune di dette aree; ciò che, invece, sarebbe stato sottovalutato ed ignorato, ritenendosi così che tutti i coimputati avessero piena consapevolezza della provenienza illecita dei beni di cui al capo di imputazione. Né i giudici di merito, ritenendo gli imputati responsabili collegialmente e collettivamente, avrebbero dato credito e tenuto in debito conto (non solo a quanto sostenuto dai ricorrenti in ordine alla loro estraneità ai fatti, ma anche) alla dichiarazione scritta di R. Tomaso - talmente svalutata da non essere nemmeno citata in sentenza -, con la quale questi si attribuiva la paternità dell'illecito, così "scagionando" i coimputati, sebbene essa fosse dotata di credibilità intrinseca ed estrinseca, fosse logicamente corretta ed in linea con gli altri fatti di causa, così come risultanti dalle emergenze processuali. Sarebbe stata effettuata un'erronea applicazione dell'art. 648 c.p., giacché esso richiede, ai fini della integrazione della fattispecie ivi prevista, considerati altresì i consolidati principi giurisprudenziali sul punto, la sussistenza dell'elemento soggettivo, con la prova della piena consapevolezza dell'illegittimità dei beni di cui alle imputazioni. La Corte territoriale avrebbe inoltre ignorato - con conseguente censurabilità della motivazione, per mancanza di essa - il fatto che tutti i beni che si assumono oggetto di ricettazione non fossero in alcun modo occultati, ma perfettamente visibili; circostanza, questa, incompatibile con il dolo, financo nella sua forma eventuale, la cui sussistenza avrebbe richiesto il ricorso a pur modeste precauzioni nel conservare i beni in modo non così agevolmente rilevabile. Quanto sopra vale tenuto peraltro conto che trattasi, nella specie, di beni comuni e tali da non destare sospetto alcuno in ordine alla loro provenienza o "un'indicazione alternativa". La motivazione sarebbe inoltre contraddittoria, stante l'assoluzione degli imputati dal capo C della rubrica, con riferimento ai beni di cui ai nn. 5 e 6, avendo così i giudici "dato atto di un proprio convincimento", e avendo assolto gli imputati dall'"accusa particolarmente indicativa" delle alterazioni delle targhe di cui alla lettera D) dell'imputazione. La circostanza che i ricorrenti abbiano ricevuto o acquisito beni di limitato valore e tali da non suscitare sospetti non avrebbe inoltre potuto costituire la fattispecie di ricettazione, giacché, ai fini della configurabilità di tale reato, occorrono elementi oggettivi da cui desumere la sussistenza del dolo specifico (nonché degli altri elementi costitutivi) di cui alla norma incriminatrice, non potendosi inoltre accettare forme di responsabilità oggettiva ovvero di un giudizio di responsabilità basato su fatti indimostrati, riscontri inesistenti e deduzioni arbitrarie. Invece, nella specie, l'aspetto psicologico del delitto - nella sua duplice declinazione di consapevolezza dell'illegittima provenienza dei beni e del dolo specifico -, secondo quanto stabilito dall'art. 648 c.p., sarebbe stato indebitamente desunto dalla proprietà e gestione, da parte dei coimputati, dell'area di servizio.
2.2. Con il secondo motivo, i ricorrenti eccepiscono il "vizio della motivazione con riferimento alla strutturazione della circostanza delle attenuanti generiche". In particolare, la Corte territoriale non avrebbe "considerato la riduzione di pena ai sensi dell'art. 62 c.p.", in relazione alla quantificazione del trattamento sanzionatorio, che avrebbe potuto essere diminuita, con applicazione della pena nel minimo edittale. Pur prescindendosi il fatto a R. Simone sia stata applicata - immotivatamente ed ingiustificatamente, in assenza di elementi di differenziazione nella condotta posta in essere - una sanzione superiore a quella inflitta a P. Anna, i ricorrenti rilevano come la pena avrebbe dovuto essere più mite, in considerazione dell'"economia del fatto", della mancanza di un danno particolarmente rilevante e dell'"inesistenza di particolare condotta", trattandosi invece di un episodio assai modesto e comunque non connotato di una particolare pericolosità. Né sarebbe possibile rinvenire nella condotta dei ricorrenti, alla luce altresì dei principi giurisprudenziali cui si è fatto supra riferimento, la partecipazione alla commissione del delitto di ricettazione sotto il profilo dell'elemento soggettivo.
Posizione R. Tomaso.
3.1. Con il primo motivo, il ricorrente eccepisce il vizio di motivazione e l'erronea e/o falsa applicazione della legge penale, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p., quanto al mancato riconoscimento della continuazione tra i fatti per cui è processo ed altro oggetto di ulteriore e precedente pronuncia di condanna, emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. In particolare, il ricorrente, enucleati i contorni dell'istituto e richiamati i principi elaborati sul punto da questa Corte, lamenta come i giudici di appello abbiano acriticamente ed illogicamente confermato la decisione assunta nella sentenza di prime cure e le argomentazioni ivi sviluppate sul punto. Nello specifico, sarebbe stata esclusa, in maniera incongrua, contraddittoria ed illegittima, la sussistenza degli elementi atti a configurare l'unitarietà del disegno criminoso, a fronte del significativo iato temporale tra i fatti per cui è processo e quelli oggetto della precedente sentenza citata, dell'eterogenea natura dei beni ricettati e, infine, per avere il ricorrente agito, nei fatti di cui ai due distinti procedimenti, in concorso con persone differenti. La motivazione resa sul punto sarebbe non soltanto "monca", incongrua ed illogica, ma altresì in contrasto con l'elaborazione esegetica in punto di indici rivelatori dell'unitarietà ideativa e cognitiva di cui all'art. 81, comma 2, c.p., facendosi riferimento ad elementi ultronei ed arbitrari. Invero, avrebbe dovuto attribuirsi rilievo la riconducibilità di entrambi i reati oggetto delle condanne (furto e ricettazione) alla categoria di delitti offensivi dell'integrità patrimoniale, essendo la natura del bene giuridico protetto a rivelare una previa ideazione cognitiva e deliberativa rilevante ai fini del programma criminoso di cui all'art. 81, comma 2, c.p. e non, invece, la tipologia dei beni oggetto di reato, irrilevante a tal fine. Sicché, stante l'omogeneità del tipo di violazioni perpetrate dall'imputato, l'unitarietà del bene giuridico leso, nonché le specifiche ed uniformi modalità della condotta, avrebbero dovuto indurre a ritenere sussistente il vincolo della continuazione, trattandosi di singole violazioni di legge ascrivibili ad un comune e previo piano ideativo e deliberativo di cui costituiscono attuazione, sebbene diluita e frazionata nel tempo. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, non ricorrerebbe nella specie una significativa distanza temporale tra la data di commissione dei reati, risalendo, quelli di cui alla condanna emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., al 2008 e quelli ad oggetto del presente procedimento al 2010, né sarebbero state indicate le ragioni per cui tale lasso di tempo sia stato considerato ostativo all'applicazione dell'istituto in parola, essendo stata tale conclusione assunta in modo acritico ed incongruo. Di contro, proprio la prossimità temporale delle condotte criminose relative ai due procedimenti penali avrebbe dovuto indurre a ritenere sussistenti gli estremi per il riconoscimento del vincolo della continuazione, con conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio ai sensi dell'art. 81, comma 1, c.p. Né avrebbe potuto attribuirsi rilievo, per disconoscere l'applicazione dell'istituto de quo, al fatto che, nella perpetrazione dei reati, abbiano concorso persone differenti, trattandosi di assunto distorsivo, fuorviante e contrario ai canoni logico-giuridici: sebbene le modalità della condotta assumano rilievo ai fini dell'individuazione della unicità del disegno criminoso, il riconoscimento della continuazione non comporterebbe infatti alcuna considerazione "collaterale" quanto all'esistenza di un vincolo associativo che accomuni i singoli concorrenti, giacché il disegno criminoso attiene ad un dato inerente alla psiche dell'agente, il quale si configura genericamente una serie di condotte delittuose da porre in essere, deliberandone, altrettanto genericamente, l'esecuzione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
5. Il ricorso proposto dagli imputati P. Anna e R. Simone è inammissibile.
5.1. In particolare, il primo motivo di ricorso è inammissibile. La Corte territoriale ha anzitutto puntualmente esplicitato di non ritenere accoglibili le doglianze difensive formulate circa la concorrente responsabilità dei ricorrenti, mosse in punto di mancata attribuzione di credibilità, da parte dei giudici di prime cure, alla memoria prodotta dalla difesa dell'imputato R. Tomaso all'udienza del 2 aprile 2013, nella parte in cui questi, assumendosi la responsabilità dell'acquisto di bancali di bevande da alcuni zingari, sosteneva che il fratello e la madre fossero all'oscuro del fatto, nonché in ordine alla paventata mancanza di prove di alcuna partecipazione attiva al fatto da parte dei due imputati. I giudici di appello hanno, infatti, evidentemente ritenuto superabili le censure mosse dagli appellanti, osservando come i ricorrenti, cogestori dell'area di servizio dove i beni venivano conservati, abbiano fornito un contributo causale alla ricezione dei beni, consentendone il ricovero nell'area di comune proprietà. È inoltre evidenziato come la natura e il volume dei beni, la sproporzione di essi con le dimensioni della rivendita, l'assenza di documentazione di consegna e di fatturazione fossero indici fattuali e logici evidenti della provenienza delittuosa dei beni. I giudici di seconde cure hanno poi osservato come il fine di profitto fosse rinvenibile nell'intento di rivendere "in nero" i beni stessi, lucrando il margine di guadagno rispetto al prezzo di acquisto. Ne deriva che, da tali elementi, debitamente indicati in sentenza, i giudici di appello hanno ritenuto sussistente non soltanto, dal punto di vista oggettivo, una condotta partecipativa penalmente rilevante posta in essere dai ricorrenti, ma altresì l'elemento soggettivo del reato, costituito dalla consapevolezza, in capo agli stessi, della provenienza illecita dei beni, nonché il perseguimento del fine richiesto dalla norma incriminatrice, trattandosi, ai sensi dell'art. 648 c.p., di reato a dolo specifico. In chiusura ai rilievi sopra esposti, peraltro, i giudici di appello hanno osservato come né la P. (rimasta contumace), né R. Stefano, nel suo esame dibattimentale, abbiano fornito plausibili spiegazioni alternative dello scopo dell'illecita codetenzione, nonché di come essi non potessero non essere consapevoli della presenza in loco delle partite di merce di provenienza delittuosa, atteso che tutti e tre i membri della famiglia (la P. è madre di R. Stefano e R. Tomaso) gestivano insieme l'area di servizio e abitavano a pochissima distanza dalla stessa. Stante quanto sopra, la Corte territoriale risulta aver correttamente sviluppato il proprio percorso argomentativo posto a fondamento della conferma della condanna nei confronti degli imputati, ponendo correttamente in luce i plurimi elementi atti a dimostrare la ricorrenza, nella specie, degli estremi materiali e psicologici del delitto contestato in capo ai ricorrenti e che hanno logicamente consentito, quindi, di superare i rilievi sollevati, anche in ordine alla mancata credibilità delle dichiarazioni autoaccusatorie del coimputato R. Tomaso. Essa risulta essersi inoltre adeguata al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, ai fini della configurabilità della consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto nel delitto di ricettazione, non è indispensabile che essa si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove indirette, allorché siano tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto (Sez. 1, n. 29486 del 26 giugno 2013, Rv. 256108). Del resto questa Corte ha più volte affermato:
- che la conoscenza della provenienza delittuosa della cosa può desumersi da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dal comportamento dell'imputato che dimostri la consapevolezza della provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata - o non attendibile - indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede (Sez. 2, sent. n. 25756 dell'11 giugno 2008, Rv. 241458; Sez. 2, sent. n. 29198 del 25 maggio 2010, Rv. 248265);
- che l'elemento psicologico della ricettazione può essere integrato anche dal dolo eventuale, che è configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell'agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio, non potendosi desumere da semplici motivi di sospetto, né potendo consistere in un mero sospetto che consentirebbe la qualificazione del fatto come incauto acquisto (Sez. un., sent. n. 12433 del 26 novembre 2009, Nocera, Rv. 246324; Sez. 1, sent. n. 27548 del 17 giugno 2010, Rv. 247718).
Alla luce delle argomentazioni sviluppate, si è in presenza di un percorso motivazionale giuridicamente corretto e logicamente coerente, come tale non sindacabile in questa sede, mentre, al contrario, le critiche dei ricorrenti finiscono per sollecitare una diversa valutazione della vicenda fattuale, attività preclusa nel giudizio di legittimità, e sono, in quanto tali, inammissibili (sul punto, fra le molte, Sez. un., sent. n. 12 del 31 maggio 2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. 6, n. 9923 del 5 dicembre 2011-14 marzo 2012, Rv. 252349).
Quanto, poi, alla censura con la quale i ricorrenti si dolgono che la Corte territoriale non avrebbe esaminato in sentenza le doglianze proposte con i motivi di appello, si osserva come, secondo i principi sovente affermati da questa Corte, nella motivazione della sentenza il giudice di appello non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 49970 del 19 ottobre 2012, Rv. 254107).
6.2. Il secondo motivo di ricorso è parimenti inammissibile. In esso non vengono infatti enucleati gli aspetti inficianti il percorso logico e argomentativo reso sul punto nella sentenza impugnata, ma ci si limita ad indicare gli elementi a fronte dei quali gli imputati sarebbero stati meritevoli di una diminuzione di pena; dati, questi, inconferenti nel giudizio di legittimità, trattandosi, quella inerente alla dosimetria della pena, di questione di merito non sindacabile in questa sede, se non per profili di illegittimità o incongruità della motivazione, che, tuttavia, non vengono esaminati nel motivo di ricorso. La graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra, infatti, nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30 settembre 2013-4 febbraio 2014, Ferrario, Rv. 259142), che, però, non viene in questa sede contestato.
Peraltro, la Corte territoriale ha osservato che l'istanza di riduzione della pena al minimo edittale non sia stata trascritta tra le richieste conclusive dell'atto di appello con riferimento a P. Anna e R. Simone e, comunque, non sia stata per i predetti in alcun modo motivata. Ne deriva che la richiesta formulata in appello fosse non ossequiosa del disposto dell'art. 581 c.p.p. e, per l'effetto, già in quella sede, non ammissibile.
7. Anche il ricorso di R. Tommaso è inammissibile.
7.1. Va al proposito osservato come la Corte territoriale non si sia limitata alla conferma del rigetto dell'istanza di applicazione della continuazione dei fatti per cui è processo con quelli di cui alla sentenza n. 575/2009 emessa, ex art. 444 c.p.p., dal Tribunale di Milano, condividendo e riportandosi alle argomentazioni elaborate sul punto il giudice di prime cure. Essa ha, infatti, altresì specificato di essere pervenuta a siffatta conclusione per non essere stato fornito, da parte della difesa, nell'atto di appello, alcun argomento di supporto dell'istanza. Ne deriva che i giudici di appello abbiano reso sul punto una motivazione ossequiosa dei principi espressi da questa Corte, secondo cui, ai fini del riconoscimento della continuazione, costituisce in sede di giudizio di cognizione un vero e proprio onere della prova a carico dell'imputato l'allegazione degli specifici elementi dai quali è desumibile l'unicità del disegno criminoso (tra le molte, Sez. 5, n. 18586 del 4 marzo 2004, Rv. 229826; Sez. 6, n. 43441 del 24 novembre 2010, Rv. 248962). Onere che, in sede d'impugnazioni non totalmente devolutive nelle quali si iscrivono l'appello ed il ricorso per Cassazione, si coniuga inoltre con l'obbligo della specifica indicazione degli elementi in fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento delle singole richieste speculari agli errori in iudicando ed in procedendo dai quali si assume essere viziata la decisione impugnata (Sez. 2, n. 40342 del 2003, Rv. 227172). Alla luce delle considerazioni appena esposte, i paventati vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale non sussistono.
8. All'inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al versamento ciascuno a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 2.000,00 così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000,00 ciascuno a favore della Cassa delle ammende.
Depositata il 5 gennaio 2018.