Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 25 ottobre 2017, n. 53678
Presidente: Fumu - Estensore: Rago
RITENUTO IN FATTO
1. Con atto depositato in data 23 ottobre 2015, i difensori di R. Mariano, R. Antonia e P. Elviro proponevano istanza di revisione della sentenza n. 1795/2014 emessa dalla seconda sezione penale della Corte di Appello di Palermo, in data 14 aprile 2014, e divenuta irrevocabile a seguito della sentenza n. 47419/2014 con la quale questa Corte Suprema di Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto dagli imputati.
La Corte di Appello, accogliendo l'appello del Procuratore Generale, aveva riformato la sentenza emessa dal Tribunale di Palermo che aveva assolto tutti gli imputati dal reato di circonvenzione di persone incapaci loro in concorso ascritto e, pur ritenendo accertata la penale responsabilità degli imputati, aveva dichiarato di non doversi procedere nei loro confronti per essere il reato loro ascritto estinto per intervenuta prescrizione e li aveva condannati al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili B. Francesco e M. Vincenza.
La difesa, nel proporre l'istanza di revisione, deduceva che, a seguito della pronuncia di secondo grado, erano state scoperte delle prove nuove che unite a quelle già valutate avrebbero condotto all'assoluzione degli istanti.
Con sentenza del 5 aprile 2016, la Corte di Appello di Caltanissetta dichiarava inammissibile l'istanza di revisione facendo proprio il principio di diritto enunciato da questa Corte di legittimità (Cass. 2656/2017 Rv. 269528) secondo il quale «non è suscettibile di revisione la sentenza che dichiari l'estinzione del reato per prescrizione confermando le statuizioni civili della sentenza impugnata».
2. Contro la suddetta sentenza, R. Mariano, R. Antonia e P. Elviro, a mezzo del comune difensore, hanno proposto un unico ricorso per cassazione deducendo la violazione dell'art. 629 c.p.p. nella parte in cui non consente, secondo l'interpretazione fatta propria dalla Corte territoriale, la revisione della sentenza conclusasi con il proscioglimento per prescrizione sebbene ad essa sia conseguita la conferma delle statuizioni a favore delle costituite parti civili. I ricorrenti, hanno invocato, a loro favore, la sentenza n. 46707/2016 Rv. 269939 con la quale, questa Corte di legittimità, ponendosi in consapevole contrasto con la maggioritaria e consolidata giurisprudenza di legittimità, ha affermato che «è ammissibile l'istanza di revisione della sentenza che dichiara l'estinzione del reato per prescrizione confermando le statuizioni civili della decisione impugnata».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
La questione che è sottoposta a questa Corte, può essere enunciata nei seguenti termini: «se, in caso di sentenza passata in giudicato con la quale l'imputato sia stato prosciolto per prescrizione del reato ascrittogli, ma condannato al risarcimento dei danni a favore della parte civile costituita, sia o no ammissibile il giudizio di revisione».
Sulla suddetta questione, si è, di recente, formato un contrasto all'interno di questa Corte che può essere riassunto nei termini di seguito indicati.
2. La tesi contraria alla revisione è quella sicuramente maggioritaria: ex plurimis, Cass. 4231/1992; Cass. 1672/1992; Cass. 15973/2004; Cass. 2393/2011 Rv. 249781; Cass. 24155/2011 Rv. 250631; Cass. 2656/2017 Rv. 269528.
Gli argomenti che vengono addotti sono i seguenti:
- la revisione è configurata dal codice di rito come un mezzo di impugnazione straordinario preordinato al "proscioglimento" della persona già condannata in via definitiva; presupposto indefettibile per esperire il rimedio straordinario della revisione di cui all'art. 629 c.p.p. è, per espressa previsione normativa, l'esistenza di una sentenza di condanna o di un decreto penale di condanna ovvero di una sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., e non, quindi, di una sentenza di proscioglimento come, peraltro, si trova scritto nella Relazione al c.p.p.;
- l'art. 629 c.p.p. prevede la revisione "... anche se la pena è già eseguita o estinta": il che significa che il concetto di "pena" implica una condanna e il rifer[i]mento all'estinzione riguarda appunto la pena inflitta e non già il reato atteso che la dichiarazione di estinzione esclude, ovviamente, ogni pena;
- la revisione è finalizzata a "prosciogliere" il soggetto condannato: non può, quindi, ritenersi ammissibile rispetto ad una sentenza di proscioglimento, quale quella in forza della quale sia stata dichiarata l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione (art. 531 cit.), sia pure accompagnata da una statuizione di condanna a carico dell'imputato ai soli fini civilistici, ostandovi, valutato il complessivo sistema normativo, il principio di tassatività di cui all'art. 568, primo comma, c.p.p. e non essendo, pertanto, possibile una applicazione in termini analogici alla ipotesi della (sola) condanna civile.
3. La tesi favorevole alla revisione è sostenuta, invece, sia pure isolatamente, dalla sentenza n. 46707/2016 cit. con la cui motivazione la Corte mostra di condividere l'opinione secondo la quale «la revisione sia un mezzo, sia pur straordinario, di impugnazione e che essa sia dunque soggetta al principio di tassatività di cui all'art. 568, comma 1, c.p.p. Ed è altrettanto indiscutibile che, riguardando l'art. 629 c.p.p. soltanto le sentenze di condanna e di patteggiamento, quelle di proscioglimento non siano suscettibili di revisione, come per l'appunto costantemente ribadito da questa Corte».
Il dissenso con l'opinione maggioritaria, invece, è relativo al significato da attribuire al sintagma "sentenze di condanna" (art. 629 c.p.p.) e al lemma "condannato" ossia al soggetto legittimato, ex art. 632 c.p.p. a proporre l'istanza e di cui il legislatore non ha fornito una precisa definizione. Secondo la suddetta tesi, infatti, poiché non sarebbe «dubitabile che la soccombenza dell'imputato nei confronti della parte civile venga veicolata da una pronunzia di condanna che presuppone l'accertamento della colpevolezza dell'imputato per il fatto di reato, come espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p.» ne deriverebbe che lo stesso imputato sia "condannato" alle restituzioni ed al risarcimento del danno.
In definitiva, «le locuzioni che delimitano soggettivamente ed oggettivamente la sfera di applicabilità del rimedio straordinario di cui si tratta, non possono allora essere arbitrariamente scandite in ragione del tipo di condanna subita dall'imputato, giacché l'essere stato costui convenuto in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili. Ma di tale distinzione non v'è traccia nel testo dell'art. 629 c.p.p., né può dirsi ricavabile una qualsiasi incompatibilità logica o strutturale della norma a consentire la revisione al condannato solo per gli interessi civili. In definitiva non è necessario ricorrere all'analogia od evocare la potenziale incoerenza costituzionale del dettato normativo di riferimento per ammettere che la condanna per la responsabilità civile pronunziata nel processo penale sia assoggettabile a revisione secondo le regole del rito penale, atteso che tale eventualità già discende dalla stessa lettera della legge processuale».
Ulteriore argomento, infine, è tratto dalla sentenza n. 28719/2012 Rv. 252695 con la quale le Sezioni unite hanno affermato la legittimazione del prosciolto condannato agli effetti civili ad esperire il ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p., disposizione che parimenti evoca, per l'appunto, la figura del "condannato" senza precisare oltre.
4. Questa Corte ritiene di aderire alla tesi maggioritaria che, nella fattispecie in esame, nega l'ammissibilità della revisione.
Le ragioni "formali" per le quali non è ammessa la revisione sono state illustrate con la sentenza n. 2656/2017 cit. che questo Collegio condivide e alla quale, quindi, si rinvia.
Questa Corte, invece, intende portare la propria attenzione su quello che appare essere il punto nodale intorno al quale ruota tutta la questione e sul quale ha fatto leva la sentenza n. 46707/2016 cit. per sostenere l'ammissibilità della revisione.
Si tratta, infatti, di stabilire cosa si debba intendere per "sentenza di condanna" ex art. 629 c.p.p. e per "condannato" ossia il soggetto al quale l'art. 632 c.p.p. accorda la legittimazione a chiedere la revisione.
Sul punto, è ben noto che questi due concetti hanno assunto - a seguito dell'evoluzione giurisprudenziale della Corte costituzionale e della Corte EDU - un significato ben più ampio di quello strettamente letterale.
5. La giurisprudenza della Corte EDU, fin dagli anni settanta del secolo scorso, con la storica sentenza Engel (8 giugno 1976, Engel contro Paesi Bassi § 82 e, successivamente, con la sentenza Oztürk c. Germania del 21 febbraio 1984, § 50 ss. ed altre) elaborò i criteri in base ai quali, una pronuncia, ai sensi dell'art. 6 CEDU, deve ritenersi comunque di natura penale al di là del dato formale con quale sia stata emessa, indicando tre alternativi criteri, ossia: «la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest'ultima, e la natura e il grado di severità della "sanzione"».
6. Anche la giurisprudenza costituzionale, nel porsi in chiara ed esplicita linea di continuità con quella Cedu, ha adottato una nozione di sentenza di condanna ben più ampia di quella meramente formale, avendo ritenuto come "sentenze di condanne" tutte quelle sentenze che, in un modo o nell'altro, arrechino «all'imputato significativi pregiudizi, sia di ordine morale che di ordine giuridico»: Corte cost. n. 85/2008.
Concetti, questi, ribaditi nelle successive sentenze n. 239/2009 e 49/2015 aventi ad oggetto la tormentata vicenda dell'ammissibilità della confisca urbanistica a seguito di una sentenza di proscioglimento per prescrizione.
Infatti, il Giudice delle Leggi, in specie nella sentenza n. 49/2015 - nel richiamare i principi enunciati dalla cit. sentenza Engel - ribadì che «nell'ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità» e che il sintagma "sentenza di condanna" va inteso, al di là del dato formale, in senso sostanziale e cioè come una pronuncia a seguito della quale sia inflitta all'imputato una sanzione, dovendosi valutare non la forma della pronuncia, ma la sostanza dell'accertamento.
7. Anche la giurisprudenza di questa Corte, nella sua massima espressione, ha recepito il suddetto concetto, come risulta, ad es. dalla sentenza n. 31617/2015 Rv. 264434 con la quale le Sezioni unite stabilirono, proprio recependo il concetto di pronuncia avente carattere sostanziale di condanna, che «il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporre, a norma dell'art. 240, comma secondo, n. 1, c.p., la confisca del prezzo e, ai sensi dell'art. 322-ter c.p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l'accertamento relativo alla sussistenza del reato».
In motivazione, si legge, a proposito dei criteri Engel, che: «da un lato, sottolinea infatti la Corte EDU, occorre verificare la natura della violazione, desunta in particolare dal suo ambito applicativo - che deve essere generale, e non limitato agli appartenenti ad un ordinamento particolare, dal momento che in tal caso la violazione assumerebbe caratteristiche di tipo disciplinare - e dagli scopi (di tipo punitivo e deterrente, e non meramente riparatorio o preventivo) per i quali la sanzione è prevista. Dall'altro lato - ed è questo il criterio sul quale assai spesso ha finito per misurarsi la valutazione dei giudici di Strasburgo - occorre aver riguardo alla natura ed alla gravità delle conseguenze che l'ordinamento fa scaturire dalla specifica violazione contestata».
8. Questo breve e notorio excursus, consente, quindi, di affermare che va considerata sentenza di condanna non solo quel provvedimento con il quale sia inflitta una sanzione strettamente penale ma, anche quel provvedimento che, al di là del dato meramente formale con il quale è denominato, nella sostanza, contenga una sanzione latamente penale e cioè una sanzione punitiva e deterrente (come ad es. la confisca) ma non quando da esso conseguano effetti meramente riparatori o preventivi, proprio perché tali conseguenze, non rientrando nell'ambito delle sanzioni punitive, si pongono al di fuori del perimetro latamente penale.
Questa fondamentale precisazione consente, quindi, di affermare che la sentenza di prescrizione, laddove si concluda solo con la conferma delle statuizioni civili che presuppone un accertamento sulla responsabilità penale, va ritenuta, pur sempre, non solo formalmente ma anche sostanzialmente, una sentenza di proscioglimento perché da essa non consegue alcun effetto di natura sanzionatoria o latamente penalistica.
Infatti, la condanna al risarcimento del danno a favore della costituita parte civile va ritenuta una semplice conseguenza di natura riparatoria che, quindi, nulla ha a che vedere con gli effetti sanzionatori di natura latamente penalistici.
Se, quindi, la sentenza di proscioglimento per prescrizione - nel caso in cui contenga un giudizio sulla colpevolezza dal quale derivino conseguenze ai soli fini civilistici - non può essere considerata una sentenza di condanna, ne consegue che, neppure l'imputato, prosciolto per essere il reato estinto per prescrizione, può essere ritenuto - alla stregua dei criteri sostanzialistici della giurisprudenza Edu e Costituzionale - un "condannato" che, pertanto, abbia la legittimazione a proporre istanza di revisione.
Per completezza, è opportuno precisare che, in ordine al concetto di "condannato", di recente, si sono pronunciate le Sezioni unite (sentenza n. 13199/2017 Rv. 269788) le quali, nell'osservare che la nozione di "condannato", di cui all'art. 625-bis c.p.p., ricomprende anche il soggetto titolare della facoltà di chiedere la revisione della condanna, in quanto il rigetto o la dichiarazione di inammissibilità del ricorso contribuisce alla "stabilizzazione" del giudicato, hanno affermato il seguente principio di diritto: «il ricorso straordinario di cui all'art. 625-bis c.p.p. può essere proposto dal condannato anche per la correzione dell'errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione dichiara inammissibile o rigetta il ricorso contro la decisione della Corte d'appello che, a sua volta, abbia dichiarato inammissibile ovvero rigettato la richiesta di revisione dello stesso condannato».
La suddetta decisione, tuttavia, pur dando atto dell'ampliamento del concetto di "condannato", non solo non ha alcuna influenza sulla presente problematica ma, al contrario, conferma la soluzione qui sostenuta.
Le suddette Sezioni unite, infatti, pur ritenendo che la nozione di "condannato" «superi il riferimento oggettivo ai soli provvedimenti della Cassazione che determinino, per la "prima volta", la formazione del giudicato», hanno chiaramente affermato «che, come sottolineato da una attenta dottrina, il richiamo al "condannato" sta a significare che possono essere impugnate con il ricorso straordinario le decisioni della Corte di cassazione che rendano "incontrovertibile l'accertamento del dovere di punire", essendo evidente il collegamento con il giudicato sostanziale»: il che conferma che il prosciolto per prescrizione, anche se le statuizioni civili nei suoi confronti sono state confermate, non può essere considerato, agli effetti "penali" - sia pure nell'ampia accezione ritenuta dalla Corte Edu - un "condannato".
9. Quanto appena illustrato, rende poco proficuo il tentativo di attribuire la "condanna" al capo della sentenza che statuisce sulla responsabilità civile e, per questa via, tentare di veicolare l'ammissibilità della revisione: a ciò vi osta, innanzitutto, quel compatto ed univoco coacervo normativo evidenziato da questa Corte con la sentenza n. 2656/2017 cit.
In secondo luogo, in questa sede, è opportuno ribadire che, impropriamente, è invocata, a sostegno della tesi qui non condivisa, la sentenza n. 28719/2012 con la quale le Sezioni unite hanno ritenuto ammissibile, da parte del prosciolto condannato agli effetti civili, il ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p.
Il parallelismo fra il ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p. e la revisione non è corretto perché i due istituti sono profondamente diversi fra di loro sia nell'oggetto (il ricorso straordinario si può proporre solo contro le sentenze di cassazione, nel mentre la revisione ha ad oggetto la sentenza di merito) che nella finalità (l'uno è limitato esclusivamente alla mera correzione di un errore materiale o di fatto; l'altra, invece, è tesa a sovvertire la condanna passata in giudicato al fine di ottenere, all'esito di un nuovo processo, l'assoluzione).
Ed è in tale ottica, innanzitutto, che si spiega l'invocata sentenza delle Sezioni unite la cui ratio decidendi è racchiusa nell'affermazione (§ 4) secondo la quale una preclusione del ricorso per errore di fatto al prosciolto per prescrizione ma "condannato" agli effetti civili, «offrirebbe il destro per avanzare fondati dubbi di legittimità costituzionale - ove il sistema prefigurasse un rimedio per un tipo solo di condanna e lo precludesse per l'altro, per di più a differenza di quanto è previsto al riguardo nel processo civile. Si assisterebbe, infatti, ad una irragionevole disparità di trattamento, giacché mentre, ove l'azione di danno fosse stata esercitata in sede propria, la parte sarebbe ammessa a far valere l'errore di fatto della Corte di cassazione attraverso i rimedi previsti dal codice di procedura civile [ndr: art. 395/1, n. 4, c.p.c.], lo stesso diritto non sarebbe esercitabile in caso di azione civile esercitata nel processo penale».
Le cit. Sezioni unite, quindi, hanno, expressis verbis, inteso colmare, con un'interpretazione costituzionalmente orientata, una lacuna al fine di evitare la disparità di trattamento fra quanto previsto in sede civile e quanto stabilito in sede penale.
La suddetta situazione, invece, non è ipotizzabile per l'istituto della revisione che ha, in sede civile, il suo pendant, nella revocazione, sicché, si spiega il motivo per cui il legislatore non ha inteso ammettere la revisione contro sentenze di proscioglimento che - seppure contengano un giudizio di colpevolezza - non arrechino all'imputato alcun pregiudizio di natura sanzionatoria o latamente penalistica.
Se così non fosse e si accedesse alla tesi del ricorrente, la revisione - istituto di netta ed esclusiva rilevanza penalistica - si trasformerebbe, di fatto, in una surrettizia ed anomala revocazione (art. 395 c.p.c.) del capo riguardante le statuizioni civili con la paradossale conseguenza che il prosciolto, come nel caso in esame, potrebbe ottenere la revisione del processo per una ipotesi (nuove prove) non prevista e, quindi, inammissibile in ambito civilistico ove il processo per la responsabilità civile si fosse svolto in quella sede: infatti, la revocazione della sentenza civile può essere ammessa, fra l'altro, o per falsità delle prove «riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza» (art. 395/1, n. 2, c.p.c.: ed è pacifico che la falsità dev'essere accertata con sentenza passata in giudicato) o sulla base di "documenti decisivi" (art. 395/1, n. 3, c.p.c.), ossia solo per fattispecie molto più restrittive di quelle previste per la revisione della sentenza penale.
La revisione, quindi, sarebbe strumentalizzata non per conseguire un beneficio di natura penalistica (ossia l'eliminazione di una sanzione sia pure latamente penalistica) ma un semplice beneficio di natura civilistica.
Né varrebbe obiettare che il prosciolto non avrebbe altro modo per rimediare ad una sentenza "ingiusta" che lo pregiudichi sia pure sotto solo il profilo civilistico, essendo costretto a "subire" l'insindacabile scelta processuale della persona offesa che, invece di far valere le proprie ragioni in sede civile, preferisca tutelarle nel processo penale costituendosi parte civile.
In realtà, a tale obiezione, in astratto fondata, si deve replicare osservando che l'eventuale declaratoria di prescrizione è la conseguenza di una precisa scelta processuale dell'imputato che, pur avendo interesse ad ottenere una sentenza di merito, non ritenga di rinunciare alla prescrizione.
Infatti, laddove l'imputato rinunci alla prescrizione, potrebbe conseguire un duplice risultato: nel caso di assoluzione (per insussistenza del fatto e per non averlo commesso), anche le pretese della parte civile sarebbero respinte; in caso di condanna, invece, avrebbe la possibilità, in presenza dei requisiti di legge, di promuovere istanza di revisione e, conseguentemente, travolgere, in caso di accoglimento, anche le statuizioni civili.
Il sistema, ha, quindi, una sua intrinseca coerenza nel non consentire la revisione di una sentenza penale a chi sia stato prosciolto per prescrizione del reato e da questa sentenza - che avrebbe potuto evitare rinunciando alla suddetta causa estintiva - non abbia subito alcuna conseguenza di natura sanzionatoria o latamente penalistica, tale non potendosi considerare, per le ragioni esposte, la condanna al risarcimento dei danni a favore della parte civile.
10. In conclusione, l'impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, alla stregua del seguente principio di diritto: «Ai sensi dell'art. 6 CEDU per sentenza di condanna deve intendersi ogni provvedimento con il quale il giudice, al di là del nomen iuris, nella sostanza, infligga una sanzione che abbia comunque natura punitiva e deterrente, e non meramente riparatoria o preventiva.
Di conseguenza, non è suscettibile di revisione la sentenza di proscioglimento dell'imputato per estinzione del reato per prescrizione dalla quale consegua la sola conferma delle statuizioni civili, in quanto la condanna al risarcimento del danno, avente natura riparatoria, non può essere considerata sanzione punitiva e, quindi, latamente "penale"».
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Depositata il 28 novembre 2017.