Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 11 luglio 2017, n. 52438
Presidente: Di Nicola - Estensore: Galterio
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data del 16 novembre 2016 la Corte di Appello di Napoli ha rigettato l'istanza di revoca, presentata nell'interesse di Raffaele S., della sentenza di condanna alla pena di un anno di reclusione senza il beneficio della sospensione pronunciata nei suoi confronti in data 6 maggio 2015 in relazione al reato di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, fondata sulla sopravvenuta pronuncia della Corte costituzionale n. 56 del 2016 che ha ricondotto all'area contravvenzionale i reati paesaggistici entro determinate soglie volumetriche, nelle quali rientra il fatto contestatogli. Ha ritenuto la Corte, a fondamento del rigetto, che essendo intervenuta non già l'abrogazione di una norma incriminatrice, bensì una parziale illegittimità per irragionevolezza del trattamento sanzionatorio, potevano essere dichiarate in via esecutiva esclusivamente le cause di estinzione del reato intervenute dopo il passaggio in giudicato della condanna e non già quelle maturate in pendenza del procedimento di cognizione e che comunque gli effetti della pronuncia della Consulta erano successivi alla condanna, intervenuta il 12 gennaio 2016.
Avverso la suddetta sentenza l'imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando un unico motivo con il quale deduce che la pronuncia di parziale incostituzionalità della norma avrebbe comunque quale effetto la disapplicazione di quella parte della disposizione dichiarata incostituzionale, dovendo altrimenti arrivarsi alla paradossale conclusione, fatta propria dalla Corte di Appello, di applicare una norma di fatto contraria all'ordinamento vigente applicando una sanzione perciò illegale. Ciò, peraltro, con motivazione palesemente illogica atteso che, pur avendo in premessa affermato che le cause di estinzione da rilevarsi in via esecutiva sono solo quelle intervenute dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, precisa contraddittoriamente che la sentenza de qua era diventata irrevocabile il 12 gennaio 2016, ovverosia antecedentemente alla pronuncia della Corte costituzionale intervenuta l'11 gennaio 2016, ma pubblicata sulla G.U. del 30 marzo 2016. A ciò si aggiunge il rilievo che il diniego della sospensione condizionale porta il ricorrente alla paradossale conseguenza di dover in concreto espiare una pena del tutto illegale. Siffatte considerazioni confermano, in ciò sostanziandosi il nucleo della censura svolta, che spetta al Giudice dell'esecuzione, in tale veste essendo stata adita la Corte di Appello partenopea, revocare la sentenza di condanna dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La problematica oggetto del presente ricorso riguarda gli effetti dell'intervenuta dichiarazione di parziale incostituzionalità dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004 successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna pronunciata nei confronti dell'imputato allorquando il reato in contestazione risultava qualificato come delitto. Com'è noto, con la sentenza n. 56/2016 la Consulta, nel ritenere l'irragionevolezza del differente trattamento sanzionatorio disposto dall'art. 181 d.lgs. 42/2004 di fattispecie analoghe, in relazione all'incidenza della condotta su beni sottoposti a vincolo legale (comma 1) ovvero a vincolo provvedimentale (comma 1-bis) attribuendo maggiore gravità alla seconda, ha ritenuto di parificare la risposta sanzionatoria con la riconduzione dei reati previsti dal comma 1-bis che non superino le soglie volumetriche ivi indicate alla fattispecie incriminatrice del comma 1, determinandone così la trasformazione da delitto a contravvenzione.
La specifica questione che si affaccia per la prima volta innanzi a questa Corte attiene, fra le varie ricadute che la pronuncia di incostituzionalità è destinata a produrre, alla prescrizione del reato in esame, sulla quale si fondava la richiesta, rigettata dalla Corte territoriale di Napoli adita quale giudice dell'esecuzione, di revoca della sentenza di condanna pronunciata nei confronti dell'imputato in data 6 maggio 2015 e diventata irrevocabile il successivo 12 gennaio 2016. Mentre antecedentemente alla pronuncia della Consulta il delitto paesaggistico fruiva del termine di prescrizione previsto per i delitti di sei anni, prorogabili per effetto delle sospensioni a sette anni e mezzo, dalla attuale natura contravvenzionale delle condotte di abuso paesaggistico sotto-soglia, fra le quali rientra la fattispecie ascritta al ricorrente, discende, invece, un più favorevole termine di prescrizione fissato dall'art. 157 c.p. in quattro anni, prorogabili al massimo fino a cinque. Se, quindi, ai fini dell'applicazione del principio successorio relativo all'applicazione della legge più favorevole sancito dall'art. 2, comma 4, c.p. deve essere considerata, oltre alle modificazioni concernenti la pena, anche l'incidenza del novum sulla prescrizione del reato quando quest'ultima in seguito alla disciplina sopravvenuta risulti maturata (Sez. 6, n. 14288 dell'8 gennaio 2014 - dep. 26 marzo 2014, Cassanelli, Rv. 259059), la questione diventa più delicata quando sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, in presenza della quale, come prevede la stessa norma, le disposizioni più favorevoli al reo non sono operative.
Tuttavia il ritenere che il giudicato rappresenti "il punto di arresto" all'espansione della retroattività delle sentenze della Corte costituzionale, si traduce in una concezione "assolutistica" del giudicato, come norma del caso concreto, insensibile alle evenienze giuridiche successive all'irrevocabilità della sentenza, ormai ampiamente superata dalla recente elaborazione giurisprudenziale. È stato infatti affermato da questa Corte nel suo supremo consesso, sviluppando argomentazioni già contenute in nuce in altra sentenza, anch'essa a Sezioni unite, risalente a ben trent'anni prima e perciò di portata storica (Sez. un., n. 7682 del 21 giugno 1986, Nicolini, Rv. 173419), che in ambito penale la forza della cosa giudicata nasce certamente dall'ovvia necessità di certezza e stabilità giuridica e dalla stessa funzione del giudizio, volto a superare l'incertezza dell'ipotesi formulata dall'accusa a carico dell'imputato per pervenire, secondo le regole del giusto processo, ad un risultato che trasformi la res iudicanda in res iudicata, ma essa deriva soprattutto dall'esigenza di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera individuale e si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem, il quale soltanto assume nel vigente diritto processuale penale la portata e la valenza di principio generale, mentre nessun appiglio consente di ravvisare nell'ordinamento l'immodificabilità in assoluto delle sanzioni stabilite con la sentenza di condanna passata in giudicato: sulla base di tali premesse è stato perciò ritenuto che quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale che, pur diversa da quella incriminatrice, è comunque incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest'ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell'esecuzione è tenuto a rideterminare la pena in favore del condannato anche se il provvedimento "correttivo" da adottare non è a contenuto predeterminato (Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014 - dep. 14 ottobre 2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260697).
In tale ottica si è pronunciata anche la Corte costituzionale che con argomentazioni ancor più diffuse, nel dichiarare con la sentenza n. 210 del 2013 l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 19 gennaio 2001, n. 4, per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU, è arrivata ad affermare che "è proprio l'ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato": l'ordinamento nazionale, infatti, recita la Consulta, «conosce ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo».
Sulla scorta di tali premesse è possibile ora affrontare la specifica questione oggetto di causa che consiste nel valutare se in sede esecutiva possa dichiararsi, ora per allora, l'estinzione del reato per prescrizione, con revoca della sentenza passata in giudicato, con gli stessi strumenti e con le stesse possibilità che l'ordinamento avrebbe riconosciuto ai giudici di merito, qualora il reato contestato fosse stato fin dall'inizio il reato contravvenzionale e non il delitto dichiarato poi incostituzionale. Ritiene questo Collegio che al quesito possa darsi risposta affermativa.
In tema non si rinvengono precedenti specifici, ad eccezione della sentenza a Sezioni unite Jazouli, che nella parzialmente diversa ipotesi di un procedimento ancora formalmente pendente al momento della pubblicazione in G.U. della sentenza costituzionale, ha ritenuto che in presenza della causa estintiva, per effetto dell'intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma sanzionatoria, l'illegalità per incostituzionalità della pena debba essere rilevata di ufficio da parte della Suprema Corte anche a fronte di un ricorso inammissibile (Sez. un., n. 33040 del 26 febbraio 2015 - dep. 28 luglio 2015, Jazouli, Rv. 264207). Tuttavia percorrendo il solco tracciato dall'elaborazione giurisprudenziale citata si perviene alla incontrovertibile conclusione che l'omesso rilievo della prescrizione maturata illo tempore e non valutata dal giudice di merito ostandovi la natura delittuosa del reato originariamente contestato si tradurrebbe in una manifesta violazione dei diritti del condannato, che si troverebbe perciò esposto ad espiare una pena illegittima, ed in una contestuale elusione della disposizione dell'art. 30 l. 87/1953 che impone la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali della sentenza penale di condanna pronunciata in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale. Se è vero infatti che, secondo quanto sottolineato da autorevole dottrina, il valore del giudicato ed il fascio di interessi ad esso sotteso ben può essere considerato recessivo rispetto all'esigenza di far cessare una pena rivelatasi ex post come illegittima, così come il giudice dell'esecuzione deve autoinvestirsi del potere-dovere di rideterminare la pena diventata illegale per effetto della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice, deve del pari essere ritenuta ammissibile la dichiarazione in sede esecutiva della già intervenuta prescrizione del reato, a dispetto del giudicato formale, alla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, posto che anche in tal caso si tratta di eliminare gli effetti di una pena illegale in applicazione delle disposizioni più favorevoli al reo. Come infatti significativamente stigmatizzato in altra pronuncia a Sezioni unite di questa Corte "la conformità a legge della pena deve essere costantemente garantita dalla sua irrogazione alla sua esecuzione" (Sez. un., n. 18821 del 24 ottobre 2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651).
Se la norma di riferimento non può essere identificata nell'art. 673 c.p.p. trattandosi di disposizione volta a regolamentare gli effetti dell'abolitio criminis e non già la diversa ipotesi della trasformazione del reato da delitto in contravvenzione, e che comunque non esaurisce tutti i casi in cui può trovare applicazione il principio di retroattività delle sentenze che dichiarano l'illegittimità costituzionale di una norma penale (Sez. 1, n. 977 del 27 ottobre 2011, Hauohu, Rv. 252062), è invece nell'alveo dell'art. 30, comma 4, l. 87/1953 che va individuata la soluzione essendo il giudice dell'esecuzione a dover essere investito del compito di adeguare la sentenza irrevocabile alle sopravvenienze derivanti dal mutato assetto normativo per effetto della dichiarazione di parziale incostituzionalità della norma incriminatrice. Questa disposizione, infatti, «non circoscrive in alcun modo, né direttamente, né indirettamente, il divieto di dare esecuzione alla condanna pronunziata in applicazione di una norma penale dichiarata incostituzionale» ed è anzi «l'unica conforme ai principi di personalità, proporzionalità e rimproverabilità desumibili dall'art. 27 Cost., che investono la funzione della pena dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione»: conseguentemente ben può essere consentita, in applicazione della medesima, la revoca della sentenza passata in giudicato ove si accerti ex post l'intervenuta causa estintiva del reato.
Non si ritengono pertanto condivisibili le argomentazioni spese dalla sentenza impugnata a fondamento del rigetto dell'istanza di revoca della sentenza di condanna pronunciata dalla stessa Corte di Appello di Napoli in data 6 maggio 2015 e diventata esecutiva in data 12 gennaio 2016, ovverosia antecedentemente alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale 56/2016, avvenuta in data 30 marzo 2016. Pur dovendosi escludere la contraddittorietà della motivazione, così come sostenuto invece dalla difesa, intendendo i giudici partenopei, forse con espressione resa ambigua dall'eccesso di sintesi, riferirsi nella parte finale del provvedimento alle cause di estinzione del reato intervenute dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, le quali soltanto avrebbero potuto, ad avviso dei medesimi giudici, essere dichiarate in sede esecutiva, laddove invece l'invocata prescrizione si sarebbe maturata in pendenza del procedimento di cognizione, l'errore in cui cade la sentenza impugnata consiste, invece, nel ritenere che gli effetti della pronuncia di incostituzionalità, non trattandosi di abrogazione di norma incriminatrice, ma di parziale incostituzionalità per irragionevolezza sanzionatoria, siano successivi alla sentenza di condanna pronunciata nei confronti dell'imputato. Al contrario, poiché la dichiarazione d'illegittimità costituzionale, spiegando effetti ex tunc, inficia fin dall'origine la disposizione impugnata, l'effetto che ne consegue è quello di incidere sul giudicato sostanziale precludendo ai giudici l'applicazione delle norme di legge dichiarate illegittime, a meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in modo definitivo ed irrevocabile, e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili in materia.
L'aspetto decisivo, che segna infatti il limite non discutibile di insensibilità del giudicato anche alla situazione di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata, è costituito dalla non reversibilità degli effetti, giacché l'art. 30 l. n. 87 del 1953 impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili, ossia quelli che non possono essere rimossi, perché già "consumati", come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena. L'esecuzione della pena, infatti, implica l'esistenza di un rapporto esecutivo che nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l'estinzione della pena. Sino a quando l'esecuzione della pena è in atto, per definizione il rapporto esecutivo non può ritenersi esaurito e gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere rimossi.
Il senso di quest'affermazione è reso ancora più chiaro, come in precedenza anticipato, sol che si distingua il fenomeno dell'abrogazione di una incriminazione da quello della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice, dovendosi evitare la sovrapposizione e la confusione dei due diversi istituti dell'abrogazione, da un lato, e dell'illegittimità costituzionale di una norma di legge, dall'altro, trattandosi di istituti che, invece, non sono identici tra loro perché si muovono su piani diversi con effetti diversi e con competenze diverse, tanto che si è ritenuto ammissibile il controllo di costituzionalità anche di una norma già abrogata, ove ne permangano gli effetti (Sez. un., n. 17179 del 27 febbraio 2002, Conti, in motiv.).
Su questa scia, la giurisprudenza di legittimità ha successivamente ribadito e ulteriormente precisato che «l'abrogazione di una disposizione o di una norma ricade nella normalità dell'evoluzione di qualunque ordinamento. Il diacronico succedersi di leggi, che in tutto o in parte disciplinano innovativamente - ampliando, riducendo o comunque modificando i loro ambiti - materie già regolate da leggi precedenti, è fenomeno che involge la fisiologica vita dell'ordinamento giuridico e le relative problematiche rinvengono soluzione (ove lo stesso legislatore non detti criteri volti a comporre l'interscambio temporale o successorio di norme) attraverso processi interpretativi, talora complessi, ispirati dai principi di diritto intertemporale di cui ciascun ordinamento è dotato [...]. La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma investe, invece, un evento che pertiene alla patologia ordinamentale. La norma illegittima è espunta dall'ordinamento perché infirmata da una invalidità originaria che ne ha condizionato l'applicazione, e che giustifica (rendendola, anzi, indispensabile) la proiezione sui rapporti giuridici pregressi, che da tale incostituzionale norma siano stati disciplinati (retroattività), della pronuncia di incostituzionalità, certificante - per dir così - la definitiva uscita dall'ordinamento di una norma geneticamente nata morta» (Sez. 6, n. 9270 del 16 febbraio 2007, Berlusconi, in motiv.).
Quindi, siccome i fenomeni dell'abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo ius superveniens, inficiano fin dall'origine, o, per le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di questa, la disposizione impugnata (Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, cit., in motiv.), con la conseguenza che, mentre l'applicazione della sopravvenuta legge penale più favorevole, che attiene alla vigenza normativa, trova un limite invalicabile nella sentenza irrevocabile, ciò non può valere per la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, che concerne il diverso fenomeno della invalidità. La norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall'ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria. Ciò impone e giustifica la proiezione "retroattiva", sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, già da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalità, la quale certifica, come si è visto, la definitiva uscita dall'ordinamento di una norma geneticamente invalida. Una norma che deve dunque considerarsi tamquam non fuisset, perciò inidonea a fondare atti giuridicamente validi, per cui tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall'universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati (Sez. 6, n. 9270 del 16 febbraio 2007, Berlusconi, cit., in motiv.).
Da ciò deriva che l'art. 30, comma 4, della l. n. 87 del 1953, ha, in materia penale, una portata più ampia, rispetto ad altri ambiti ordinamentali per i quali il principio è ugualmente valido, posto che «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali».
A questo proposito, la dottrina ha sostenuto come la disposizione de qua spinga al massimo grado l'incidenza "retroattiva" delle decisioni di incostituzionalità nella materia penale, quando sia stata pronunciata sentenza di condanna in applicazione di leggi poi dichiarate incostituzionali, sul condivisibile rilievo che tali sentenze, quantunque irrevocabili, cessano di avere esecuzione e di produrre qualsiasi effetto penale, cosicché il massimo livello di retroattività è stato costruito in funzione della maggiore tutela da attribuire al diritto di libertà personale, intaccato dall'applicazione di sanzioni gravi come quelle penali, essendo inaccettabile (come e più che nell'abrogazione) che tanto la struttura dell'incriminazione quanto le conseguenze che da essa derivano possano continuare a produrre un qualsiasi effetto, una volta riconosciuta l'incostituzionalità del loro fondamento normativo, sicché l'annullamento, da parte della Corte costituzionale, di una norma geneticamente invalida, perché contrastante con il parametro di legalità costituzionale, determina la sua rimozione dall'ordinamento giuridico con effetti ex tunc, con la conseguenza che la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, insensibile ed impermeabile persino al giudicato, impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli della res iudicata non divenuti nel frattempo irreversibili.
In definitiva, il giudice dell'esecuzione, quando ritualmente investito, deve realizzare - nella misura consentita da rapporti non esauriti e con l'esclusione di questi - una doverosa "bonifica" della sentenza irrevocabile, privandola degli elementi "inquinanti", oggetto della declaratoria di incostituzionalità, che debbono essere eliminati ab origine perché tamquam non fuissent; nei medesimi termini, dunque, nei quali si sarebbe pronunciato il giudice della cognizione, qualora intervenuto successivamente alla sentenza della Corte costituzionale (Sez. 3, n. 38691 dell'11 luglio 2017, Giordano, non ancora mass.).
Quanto allo strumento con il quale intervenire, per risolvere i problemi posti dalle declaratorie di incostituzionalità che attengono al mutato trattamento sanzionatorio ma che si possono estendere, come nel caso in esame, alla sussistenza di cause estintive del reato, che il giudice della cognizione avrebbe avuto l'obbligo di dichiarare in presenza della norma costituzionalmente compatibile, si deve fare ricorso all'art. 30, comma 4, della l. n. 87 del 1953 di maggiore ampiezza, sotto la prospettiva che qui interessa, rispetto alla norma codicistica di cui all'art. 673 c.p.p.
Né, in siffatti casi, il giudice dell'esecuzione si imbatte nello sbarramento previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 673 e 676 c.p.p., in quanto, siccome la causa estintiva non era stata dichiarata dal giudice della cognizione per effetto dell'applicazione della norma ratione temporis vigente ma poi dichiarata invalida perché incostituzionale, l'intervenuta declaratoria di incostituzionalità, rimossa con efficacia ex tunc la disposizione "inquinante", impone al giudice dell'esecuzione la rideterminazione della pena, se al momento del giudizio non era maturata alcuna causa estintiva o, nel caso contrario, di dichiararla, ora per allora, rimanendo assorbita la questione del trattamento sanzionatorio dalla rimozione del giudicato di condanna e dei suoi effetti, come esige l'art. 30, comma 4, l. n. 87 del 1953.
Palesemente inconferente risulta, allora, l'indirizzo giurisprudenziale richiamato dalla Corte territoriale, secondo cui le cause di estinzione del reato che possono essere dichiarate in sede esecutiva, ai sensi dell'art. 676 c.p.p., sono esclusivamente quelle che operano dopo la condanna, cioè successivamente al passaggio in giudicato del provvedimento con cui la condanna è stata inflitta, sicché dal novero di esse va esclusa la prescrizione del reato che ha effetti estintivi soltanto in relazione al decorso del tempo in permanenza della fase di cognizione, e anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza, mentre l'eventuale compimento del termine prescrizionale dopo tale evento non può avere alcun effetto, non potendo la sentenza di condanna diventata irrevocabile essere suscettibile di alcuna modificazione in sede esecutiva, poiché ciò comporterebbe una inammissibile violazione del principio di intangibilità del giudicato penale (ex multis Sez. 1, n. 7164 del 21 dicembre 2015 - dep. 23 febbraio 2016, Fioravanti, Rv. 266612; Sez. 3, n. 20567 del 28 aprile 2010 - dep. 1° giugno 2010, Ventroni, Rv. 247188). A differenza dei casi ordinari presi in esame dalla giurisprudenza citata in cui la qualificazione del reato originariamente contestato resta immutata, nella fattispecie in esame è l'illegalità della pena conseguente alla pronuncia di incostituzionalità, a fronte della spiegata efficacia retroattiva, a travolgere l'efficacia del giudicato, atteso che la causa di estinzione del reato non avrebbe potuto essere invocata dall'imputato, né apprezzata dal giudice della cognizione illo tempore stante la diversa qualificazione originaria del reato come delitto ed il più ampio termine di prescrizione ad esso applicabile.
Poiché, in definitiva, l'approdo interpretativo così delineato appare l'unico conforme al quadro costituzionale di riferimento e, in particolare, ai principi fissati dagli artt. 3, 25, comma secondo, e 27 Cost. trattandosi di interpretazione in bonam partem, ovverosia in senso più favorevole al reo, delle ricadute della pronuncia di parziale incostituzionalità dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004 sui processi definiti con sentenza irrevocabile, deve concludersi per l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Napoli che dovrà procedere a nuovo giudizio attenendosi ai principi sopra enunciati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Napoli.
Depositata il 16 novembre 2017.