Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 19 luglio 2017, n. 49503

Presidente: Lapalorcia - Estensore: Scotti

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 7 aprile 2015 la Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Bologna del 14 dicembre 2009, appellata dall'imputato, che aveva ritenuto Stefano M. responsabile dei reati di cui agli artt. 81 cpv, 594, 610 e 612 c.p. e 3 della l. 205/1993 con l'aggravante della finalità di discriminazione e odio razziale, in danno della parte civile Terence A.T. e lo aveva condannato alla pena di mesi quattro di reclusione e al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio, accordando una provvisionale di Euro 2.000,00.

L'imputato era accusato di aver pronunciato, in presenza di più persone, all'indirizzo di Terence A.T. frasi pesantemente offensive e minacciose («che cazzo fai! Chi sei negro di merda, negro puzzolente, sporco negro, ti spedisco a casa in scatola, ti spacco la testa negro!») e di aver chiuso con violenza lo sportello del lato guida dell'autovettura della parte civile, impedendogli di uscire dal veicolo e costringendolo a subire frasi ingiuriose e minacciose.

2. Ha proposto ricorso nell'interesse dell'imputato il difensore di fiducia, avv. Elisabetta D'Errico, con motivo, pur formalmente unitario e tuttavia suscettibile di essere disaggregato in due separate censure.

2.1. Con la prima parte del motivo il ricorrente denuncia l'assoluta carenza e arbitrarietà della motivazione quanto all'elemento soggettivo del delitto di violenza privata, poiché la Corte aveva ignorato lo specifico motivo di appello riguardante la carenza di prova del fatto che l'imputato avesse agito con la precisa volontà di limitare la libertà della parte civile, esercitando azione diretta a determinare una coazione personale; al contrario risultava l'esortazione rivolta dall'imputato a Terence A.T. a scendere dall'auto.

2.2. Con la seconda parte del motivo, dedicata alla ravvisata aggravante dell'odio razziale, il ricorrente osserva che la Corte si era limitata a riportare la motivazione di primo grado, escludendo la necessità che la condotta incriminata sia percepita da terze persone.

Inoltre, secondo la Convenzione di New York e la direttiva attuativa di tale Convenzione, la discriminazione diretta si registra solo quando la persona per la propria razza e origine etnica sia trattata meno favorevolmente di come sarebbe stata trattata altra persona in analoga situazione.

Nella fattispecie, stanti le ragioni del diverbio, non v'era motivo di credere che altra persona di razza diversa da Terence A.T. sarebbe stata trattata differentemente da parte dell'imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Quanto alla prima censura, inerente l'elemento soggettivo del delitto di violenza privata, la Corte di appello di Bologna, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, ha puntualmente esaminato e affrontato il motivo di appello proposto sul punto.

La condotta addebitata consisteva nell'aver impedito ad A.T. Terence di scendere dall'auto, dopo l'insorgere del diverbio stradale (originato dal suono del clacson da parte del cittadino camerunense per invitare il M. a spostare la sua vettura che ostacolava il transito sulla via San Mamolo); la difesa del M. aveva rilevato, per un verso, la contraddittorietà dell'invito rivolto alla parte offesa «esci che ti spacco la testa» rispetto all'intento asseritamente perseguito, dall'altro, aveva sostenuto che l'imputato si era allontanato dallo sportello lasciando la persona offesa libera di scendere.

1.1. Le recriminazioni del ricorrente circa la ricostruzione dell'episodio accolta nella sentenza impugnata mirano a sollecitare inammissibilmente dalla Corte di cassazione una non consentita rivalutazione del fatto motivatamente ricostruito dalla Corte territoriale, peraltro in modo conforme sul punto alla decisione di primo grado, senza passare, come impone l'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., attraverso la dimostrazione di vizi logici intrinseci della motivazione (mancanza, contraddittorietà, illogicità manifesta) o denunciarne in modo puntuale e specifico la contraddittorietà estrinseca con «altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame».

I limiti che presenta nel giudizio di legittimità il sindacato sulla motivazione, si riflettono anche sul controllo in ordine alla valutazione della prova, giacché altrimenti anziché verificare la correttezza del percorso decisionale adottato dai Giudici del merito, alla Corte di cassazione sarebbe riservato un compito di rivalutazione delle acquisizioni probatorie, sostituendo, in ipotesi, all'apprezzamento motivatamente svolto nella sentenza impugnata, una nuova e alternativa valutazione delle risultanze processuali che ineluttabilmente sconfinerebbe in un eccentrico terzo grado di giudizio. Da qui, il ripetuto e costante insegnamento (Sez. 6, n. 10951 del 15 marzo 2006, Casula, Rv. 233708; Sez. 5, n. 44914 del 6 ottobre 2009, Basile e altri, Rv. 245103) in forza del quale, alla luce dei precisi confini che circoscrivono, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., il controllo del vizio di motivazione, la Corte non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare, sulla base del testo del provvedimento impugnato, se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.

1.2. In ogni caso, il Giudice del merito ha ricostruito l'episodio in piena sintonia con il narrato della persona offesa, sulla base anche di due coerenti e conformi deposizioni testimoniali di testi oculari, l'avv. Roberto B. e il gestore del bar sito nei pressi, Davide B., chiarendo che la condotta violenta ostativa della discesa dall'autoveicolo era stata effettivamente posta in essere dal M., seppur per breve tempo e dopo aver invitato «bullescamente» Terence A.T. a scendere dall'auto per battersi.

Nella sostanza, secondo i Giudici del merito, il M., insultandola pesantemente, ha sfidato la persona offesa, al contempo impedendole di uscire dalla vettura, seppur temporaneamente, ma per un lasso apprezzabile: si tratta di una valutazione di fatto che compete al Giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità se non sorretta da motivazione contraddittoria o manifestamente illogica. Nella fattispecie, la prospettata incoerenza non vulnera la motivazione ma, semmai, il comportamento stesso del M. che, mentre pesantemente insultava la persona offesa, la sfidava a battersi, impedendogli però di reagire uscendo dal veicolo in cui si trovava.

Infine, occorre ricordare che ai fini della configurazione dell'elemento soggettivo del reato di violenza privata (art. 610 c.p.) è sufficiente la coscienza e volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine particolare: il dolo è, pertanto, generico (Sez. 5, n. 4526 del 3 novembre 2010 - dep. 2011, Picheca, Rv. 249247).

2. Anche la seconda censura mossa dal ricorrente è palesemente infondata.

2.1. La circostanza aggravante della «finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso» (art. 3 d.l. n. 122 del 1993, conv. in l. n. 205 del 1993), è integrata quando - anche alla stregua della Convenzione di New York del 7 marzo 1966, resa esecutiva in Italia con la l. 54 del 1975 - l'azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l'origine etnica o il colore e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità (Sez. 5, n. 11590 del 28 gennaio 2010, Rv. 24689, P.G. in proc. Singh).

Tale aggravante è configurabile quando essa si rapporti, nell'accezione corrente, a un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza; non ha invece rilievo la mozione soggettiva dell'agente e neppure è necessario che la condotta incriminata sia destinata o, quanto meno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all'esterno e a suscitare il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, giacché ciò varrebbe ad escludere l'aggravante in questione in tutti i casi in cui l'azione lesiva si svolga in assenza di terze persone (Sez. 5, n. 13530 dell'8 febbraio 2017, Zamolo e altro, Rv. 269712; Sez. 5, n. 25870 del 15 maggio 2013, C., Rv. 255435; Sez. 5, n. 49694 del 29 ottobre 2009, Rv. 245828, B. e altri).

2.2. L'aggravante sussiste quindi in tutti i casi in cui il ricorso ad espressioni ingiuriose riveli l'inequivoca volontà di discriminare la vittima del reato in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa, come si verifica allorché ad espressioni intrinsecamente ingiuriose, in quanto contenenti un insulto, si associno ulteriori espressioni legate alla razza, all'etnia, alla religione o alla provenienza, sintomatiche dell'orientamento discriminatorio della condotta (Sez. 5, n. 43488 del 13 luglio 2015, Maccioni e altri, Rv. 264825).

2.3. Nella fattispecie le espressioni usate raggruppano a più riprese l'insulto e la qualificazione razziale («negro di merda», «sporco negro», «negro puzzolente») e appaiono chiaramente espressive di un senso di predominanza e superiorità di una razza sull'altra, come del resto puntualmente e nitidamente illustrato, anche con specifici riferimenti al complessivo significato delle dichiarazioni ingiuriose del M., dal Giudice di prima cura.

È quindi del tutto fuor d'opera l'assunto del ricorrente che la persona offesa sia stata trattata in modo non differente da come sarebbe stato trattato un cittadino italiano bianco: a parte il triplice insulto con l'ossessivo riferimento al colore della pelle, Terence A.T. è stato minacciato di essere rispedito a casa in una scatola, con una complessiva allocuzione il cui significato facilmente comprensibile era la negazione di potersi comportare come un cittadino italiano bianco.

3. La Corte deve tuttavia rilevare che il reato di ingiuria di cui all'art. 594 c.p. è stato abrogato dall'art. 1 del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 e sostituito da un corrispondente illecito civile.

L'abolitio criminis, sopravvenuta alla sentenza impugnata, deve essere rilevata anche nel caso di ricorso inammissibile ed indipendentemente dall'oggetto dell'impugnazione, atteso il principio della ragionevole durata del processo, che impone di evitare una pronunzia di inammissibilità che avrebbe quale unico effetto un rinvio della soluzione alla fase esecutiva (Sez. 5, n. 44088 del 2 maggio 2016, Pettinaro e altri, Rv. 267751; Sez. 5, n. 40282 del 14 aprile 2016, Montemurno, Rv. 268204; Sez. 5, n. 39767 del 27 settembre 2002, Buscemi, Rv. 225702).

3.1. Ciò comporta a norma dell'art. 129 c.p.p. e dell'art. 2, comma 2, c.p. l'annullamento della sentenza in parte qua perché il fatto non è previsto dalla legge come reato e l'eliminazione della pena inflitta a tale titolo.

3.2. Il necessario annullamento della sentenza di condanna per un fatto che la legge non prevede più come reato travolge anche le relative statuizioni civili, nella parte in cui ad esso si riferiscono, alla luce della regola generale del collegamento necessario tra condanna e statuizioni civili da parte del giudice penale, della tassatività della preclusione di deroga contenuta nell'art. 578 c.p.p., nonché della diversa disciplina espressamente sancita dall'art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016 per gli illeciti oggetto di depenalizzazione, non prevista per le ipotesi di abolitio criminis dal d.lgs. n. 7 del 2016, né ad esse applicabile in via analogica.

In tal senso si è ormai consolidata la giurisprudenza di legittimità secondo cui l'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per una delle fattispecie criminose abrogate dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, determina la revoca delle statuizioni civili, cui potrà seguire, per effetto della eventuale azione risarcitoria davanti al giudice civile competente per valore, il giudizio civile per l'accertamento dell'illecito depenalizzato, l'irrogazione della sanzione pecuniaria ed il risarcimento del danno (Sez. un., del 29 settembre 2016, Rv. 267884; Sez. 2, n. 26091 del 10 giugno 2016, Tesi, Rv. 267004; Sez. 5, n. 32198 del 10 maggio 2016, Marini, Rv. 267002).

Nella fattispecie tuttavia la condanna al pagamento della somma complessiva di Euro 2.000,00 è stata pronunciata solo a titolo di provvisionale, sicché la Corte non ha ragione per intervenire al proposito, poiché la determinazione definitiva del congruo risarcimento per i residui reati di violenza privata e minaccia è devoluta ad altro giudizio.

4. La sentenza impugnata va quindi annullata, quanto alla condanna per il reato di cui all'art. 594 c.p., non più previsto dalla legge come reato, e la pena corrispondente, applicata in continuazione (giorni 15 di reclusione) deve essere eliminata.

5. Il contenuto della decisione, di parziale annullamento della sentenza impugnata, giustifica la decisione di non infliggere a carico del ricorrente la condanna al pagamento delle spese processuali e alla sanzione in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all'addebito di ingiuria perché il fatto non è previsto dalla legge come reato; dichiara inammissibile nel resto il ricorso ed elimina la pena di giorni quindici di reclusione.

Depositata il 27 ottobre 2017.