Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Sentenza 23 marzo 2017, n. 39746

Presidente: Canzio - Estensore: Cammino

RITENUTO IN FATTO

1. All'esito dell'udienza preliminare il G.u.p. del Tribunale di Messina disponeva il giudizio dinanzi al predetto Tribunale nei confronti di [omissis] e dei coniugi [omissis] e [omissis], imputati in concorso fra loro del delitto continuato di violenza sessuale di gruppo ai danni dei minori [omissis] e [omissis], con l'aggravante di avere gli imputati commesso il fatto con l'uso di armi e su persone di età inferiore a dieci anni e per l'[omissis] e la [omissis] con l'ulteriore aggravante di aver commesso il fatto nei confronti di loro discendenti essendo nonni materni dei due minori persone offese (capo A: artt. 81 cpv., 110, 609-octies e 609-ter, primo comma, nn. 2 e 5, e secondo comma, c.p.), e, inoltre, l'[omissis] e la [omissis] anche del delitto di riduzione in schiavitù o in servitù ai danni dei medesimi minori (capo B: artt. 110, 600, primo e terzo comma, c.p.).

2. Con sentenza in data 19 marzo 2014 il Tribunale di Messina dichiarava la propria incompetenza per materia e disponeva la trasmissione degli atti alla Corte di assise di Messina (competente in ordine al delitto ascritto al capo B ai sensi della lett. d-bis dell'art. 5 c.p.p. e, per connessione ex art. 15 c.p.p., anche in ordine al delitto ascritto al capo A).

Il Tribunale riteneva di trasmettere gli atti al giudice competente per materia, anziché al pubblico ministero presso lo stesso, perché, rientrando il delitto di riduzione in schiavitù o in servitù tra quelli previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p., il pubblico ministero e il giudice dell'udienza preliminare sarebbero stati gli stessi che avevano già rispettivamente esercitato l'azione penale e celebrato l'udienza preliminare.

3. La Corte di assise di Messina, con sentenza in data 13 gennaio 2015, dichiarava gli imputati colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti e condannava il [omissis] alla pena di dodici anni di reclusione e gli altri due imputati, unificati i reati dal vincolo della continuazione, ciascuno alla pena di diciotto anni di reclusione, con l'applicazione per tutti delle pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell'interdizione legale durante l'esecuzione della pena nonché, a pena espiata, della misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata minima di tre anni. Gli imputati venivano inoltre condannati al risarcimento dei danni, da liquidare in sede civile, in favore della parte civile avv. [omissis], tutore dei minori persone offese, ai quali veniva assegnata una provvisionale immediatamente esecutiva di 50.000,00 euro ciascuno.

4. La Corte di assise di appello di Messina, con sentenza in data 22 ottobre 2015, assolveva il [omissis] dal reato ascrittogli (capo A) per non aver commesso il fatto, confermando nel resto la sentenza impugnata.

5. Avverso la predetta sentenza gli imputati [omissis] e [omissis], tramite il loro difensore, hanno proposto ricorso per cassazione.

5.1. Con il primo motivo si deduce la erronea applicazione degli artt. 21 e 23 c.p.p., in relazione agli artt. 429 c.p.p. e 132 disp. att. c.p.p., nonché degli artt. 178, comma 1, lett. b), e 179 c.p.p. Si deduce, in particolare, l'abnormità della sentenza del Tribunale di Messina essendo stata disposta, a seguito della dichiarazione di incompetenza per materia, la trasmissione degli atti direttamente alla Corte di assise di Messina, anziché al pubblico ministero presso quest'ultima.

I ricorrenti si dolgono altresì della mancanza di motivazione dell'ordinanza dibattimentale del 17 luglio 2014 con la quale la Corte di assise aveva rigettato la relativa eccezione di nullità, limitandosi ad osservare che l'azione penale ed il procedimento erano stati trattati nella fase dell'udienza preliminare da magistrati competenti nelle rispettive posizioni di pubblico ministero e di giudice dell'udienza preliminare, senza tener conto del dettato riguardante l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale, con violazione quindi di norme previste a pena di nullità assoluta e conseguente invalidità dei successivi gradi del giudizio, fino alla sentenza di secondo grado.

5.2. Con il secondo motivo si censura la mancata assunzione di prova decisiva, la contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e l'omessa risposta alle doglianze difensive formulate con l'atto di appello. Si sostiene che con l'appello i ricorrenti avevano contestato la valutazione dell'unico elemento probatorio a loro carico, costituito dalle dichiarazioni testimoniali rese nelle forme dell'incidente probatorio dal minore [omissis], mentre all'udienza preliminare avevano inutilmente chiesto al giudice di disporre, ai sensi dell'art. 421-bis c.p.p., un'integrazione probatoria al fine di accertare, mediante perizia, la capacità a testimoniare del minore e la sua attendibilità.

5.3. Con il terzo motivo si deduce la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione delle prove, con specifico riferimento al delitto di riduzione in schiavitù o servitù. Con l'appello, infatti, era stata messa in discussione l'effettiva e significativa compromissione della capacità di autodeterminazione delle persone offese, anche alla luce delle contraddizioni nelle dichiarazioni testimoniali del minore [omissis] emerse in sede di controesame.

5.4. Con il quarto motivo si deduce la inosservanza o erronea applicazione della legge penale - con riferimento agli artt. 112, primo comma, n. 1, 62-bis e 133 c.p. - e il vizio della motivazione quanto al trattamento sanzionatorio, per avere il giudice di merito preso in considerazione, nel determinare la pena, esclusivamente la gravità dei fatti e, inoltre, ingiustificatamente disatteso la richiesta difensiva di esclusione delle circostanze aggravanti e di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

6. La Quinta Sezione, con ordinanza in data 3 novembre 2016, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite rilevando, con riferimento al primo motivo, la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale, riguardante gli effetti della trasmissione degli atti da parte del giudice del dibattimento dichiaratosi incompetente per materia in ordine ad uno dei reati previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. e, in particolare, la legittimità in questo caso della trasmissione degli atti da parte del giudice dichiaratosi incompetente per materia direttamente al giudice competente, anziché al pubblico ministero presso quest'ultimo.

Il contrasto giurisprudenziale riguarda essenzialmente la portata della sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale n. 104 del 2001. Pronunciandosi in relazione ad un caso di incompetenza territoriale, la Corte costituzionale in detta sentenza - evocando le sentenze con le quali era stata dichiarata l'illegittimità costituzionale degli artt. 23 e 24 c.p.p., nella parte in cui disponevano, in caso di dichiarazione di incompetenza, la trasmissione degli atti al giudice competente, anziché al pubblico ministero presso quest'ultimo, non essendo posto l'imputato in condizione di esercitare nell'udienza preliminare le facoltà connesse al proprio diritto di difesa (accesso al rito abbreviato davanti al giudice naturale) - ha affermato che la medesima esigenza non ricorre in caso di procedimento per i delitti di cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p., dato che in tale ipotesi la competenza territoriale nell'ambito del distretto acquista rilievo solo nella fase del dibattimento, mentre nelle fasi delle indagini e dell'udienza preliminare l'ufficio titolare dell'azione penale è unico per l'intero distretto e uno solo è il giudice territorialmente competente a celebrare l'udienza preliminare.

A fronte di una sentenza (Sez. 5, n. 18710 del 27 febbraio 2013, A., Rv. 256774) che ritiene la trasmissione degli atti al giudice competente per materia, anziché al pubblico ministero, illegittima soltanto ove il pubblico ministero e il giudice dell'udienza preliminare siano diversi da quelli che, rispettivamente, hanno esercitato l'azione penale e celebrato l'udienza preliminare, in altre sentenze (Sez. 5, n. 47097 del 15 luglio 2014, P., Rv. 261282; Sez. 1, n. 37037 del 20 settembre 2010, Apadula, Rv. 248954) è stata messa in discussione la sovrapponibilità di quanto affermato nella sentenza Corte cost. n. 104 del 2001 rispetto alla situazione che si determina in caso di incompetenza per materia disciplinata dall'art. 23 c.p.p., come inciso dalla sentenza Corte cost. n. 76 del 1993, che si rifletterebbe non solo sull'identificazione degli organi concretamente chiamati ad esercitare la giurisdizione, ma anche sulla sostanza stessa dell'azione penale, pregiudicata nella sua dimensione essenziale da una diversa ed errata destinazione del procedimento ad un giudice strutturalmente costituito in termini difformi da quello dinanzi al quale il giudizio venga erroneamente disposto. Sarebbe quindi necessaria la riproposizione dell'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero, a prescindere dall'identificazione di quest'ultimo, con conseguente svolgimento di una nuova udienza preliminare.

7. Il Primo Presidente, con decreto in data 5 dicembre 2016, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'udienza pubblica del 30 marzo 2017, poi anticipata al 23 marzo 2017 con decreto in data 23 gennaio 2017.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione controversa per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite può essere così riassunta:

"Se il tribunale, con la sentenza dichiarativa di incompetenza per materia per uno dei reati previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p., attribuiti alla competenza della corte di assise, debba trasmettere gli atti al giudice ritenuto competente per il giudizio ovvero al pubblico ministero presso quest'ultimo".

La soluzione della questione è indispensabile per la valutazione del primo motivo di ricorso, con il quale si contesta la legittimità della trasmissione degli atti da parte del Tribunale di Messina, dichiaratosi incompetente per materia, direttamente alla Corte di assise di Messina, giudice competente, e si deduce la nullità delle sentenze di primo grado e di appello per la mancata trasmissione degli atti al pubblico ministero.

2. Va premesso che gli artt. 23 e 24 c.p.p., che disciplinano rispettivamente l'incompetenza dichiarata nel dibattimento di primo grado e le decisioni del giudice di appello sulla competenza, sono stati oggetto di diverse sentenze della Corte costituzionale, che ne hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale nella parte in cui dispongono che, quando il giudice nel dibattimento di primo grado dichiari con sentenza la propria incompetenza (per materia o per territorio) ovvero quando il giudice di appello annulli la sentenza di primo grado per incompetenza (per materia o per territorio), venga disposta la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest'ultimo. La Corte costituzionale, nelle sentenze nn. 76 e 214 del 1993 (riguardanti la prima il caso dell'incompetenza per materia dichiarata dal giudice del dibattimento e la seconda quello dell'annullamento da parte del giudice di appello della sentenza impugnata per incompetenza per materia del giudice di primo grado) e nella sentenza n. 70 del 1996 (relativa al caso di incompetenza per territorio dichiarata dal giudice del dibattimento, previsto dall'art. 23, comma 1, c.p.p., con estensione ex art. 27 della l. n. 87 del 1953 della dichiarazione di illegittimità costituzionale a quello analogo di annullamento della sentenza di primo grado per incompetenza per territorio) ha ritenuto che la trasmissione degli atti, a seguito della declaratoria di incompetenza, al giudice competente privi l'imputato della possibilità di richiedere il giudizio abbreviato e di conseguirne i relativi vantaggi per effetto di un errore da altri commesso nell'individuazione del giudice competente, con conseguente lesione del diritto di difesa costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.).

3. Con la sentenza n. 104 del 2001 la Corte costituzionale è stata investita della questione di legittimità costituzionale degli artt. 23, comma 1, e 24, comma 1, c.p.p., nella parte in cui, a seguito della sentenza n. 70 del 1996, impongono - anche nei procedimenti per i delitti previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. - al giudice che nel dibattimento di primo grado dichiari la propria incompetenza per territorio, ovvero al giudice di appello che annulli la sentenza di primo grado per incompetenza territoriale, di trasmettere gli atti al pubblico ministero presso il giudice competente, anziché direttamente a quest'ultimo. La questione è stata ritenuta non fondata in quanto l'esigenza di salvaguardare il diritto dell'imputato ad avvalersi del rito abbreviato dinanzi al giudice naturale non ricorre nei casi, come quelli dei giudizi a quibus, di procedimenti attratti alla sede distrettuale per quanto riguarda l'individuazione sia dell'ufficio del pubblico ministero incaricato delle indagini, sia del giudice dell'udienza preliminare competente ai sensi dell'art. 328, comma 1-bis, c.p.p., nei quali pertanto la competenza territoriale infradistrettuale acquista rilievo solo nella fase del dibattimento, mentre nelle fasi delle indagini e dell'udienza preliminare l'ufficio titolare dell'azione penale è unico per l'intero distretto e uno solo è il giudice territorialmente competente a celebrare l'udienza preliminare. La ratio decidendi della sentenza n. 70 del 1996 può quindi riferirsi ai procedimenti per i delitti di cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. «solo ove sia messa in discussione la stessa competenza distrettuale, cioè nell'ipotesi in cui venga ritenuto competente un giudice dell'udienza preliminare di altro distretto», mentre nei casi in cui l'imputato non è stato sottratto al proprio giudice naturale, in quanto il rinvio a giudizio è stato disposto da un giudice dell'udienza preliminare ritualmente investito della competenza, la declaratoria di incompetenza pronunciata dal giudice del dibattimento non comporta la trasmissione degli atti al pubblico ministero, anziché direttamente al giudice competente per il giudizio. La Corte conclude quindi che «l'ambito applicativo della sentenza n. 70 del 1996 è [...] chiaramente definito nello stesso dispositivo, ove è dichiarata l'illegittimità delle norme censurate nella parte in cui prevedono "la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest'ultimo", sul presupposto implicito di un pubblico ministero e di un giudice dell'udienza preliminare diversi da quelli che, rispettivamente, avevano esercitato l'azione penale e celebrato l'udienza».

3.1. Il contrasto giurisprudenziale segnalato dalla Sezione remittente riguarda quindi la questione già affrontata, con riferimento all'incompetenza per territorio, dalla sentenza della Corte cost. n. 104 del 2001 e, in particolare, la doverosità o meno della regressione del procedimento al pubblico ministero allorché sia stata dichiarata l'incompetenza per materia dal Tribunale per uno dei reati previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p.

La Sezione remittente segnala la sentenza della Quinta Sezione penale n. 18710 del 2013 in cui si afferma che la trasmissione degli atti al giudice competente per materia, anziché al pubblico ministero, è illegittima soltanto ove il pubblico ministero e il giudice dell'udienza preliminare siano diversi da quelli che, rispettivamente, avevano esercitato l'azione penale e celebrato l'udienza. Nella predetta sentenza si sostiene che, sebbene la sentenza n. 104 del 2001 si riferisca ad un caso di incompetenza per territorio, la situazione che si determina in caso di incompetenza per materia, disciplinata dall'art. 23 c.p.p., come modificato dalla sentenza n. 76 del 1993, sia assolutamente sovrapponibile, atteso che, anche in questo caso, l'ambito applicativo della dichiarazione di illegittimità è chiaramente definito nello stesso dispositivo, ove è dichiarata l'illegittimità della norma censurata, nella parte in cui prevede «la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest'ultimo», sul presupposto implicito di un pubblico ministero e di un giudice dell'udienza preliminare diversi da quelli che, rispettivamente, avevano esercitato l'azione penale e celebrato l'udienza.

Nello stesso senso si era già pronunciata altra sezione (Sez. 6, n. 45319 del 10 novembre 2011, Di Matteo, non mass.) rilevandosi che, allorché il giudice del dibattimento rileva la propria incompetenza territoriale indicando come competente un giudice appartenente al medesimo distretto in relazione ai delitti previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p., non sussiste la necessità della regressione del procedimento e di nuova celebrazione di udienza preliminare, avendo le parti già potuto liberamente esercitare i propri diritti in quella precedente, legittimamente svoltasi dinanzi al giudice naturale, e palesandosi la ripetizione dell'udienza preliminare come adempimento in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.

3.2. Una diversa linea interpretativa è stata invece prospettata nella sentenza della Quinta Sezione n. 47097 del 2014, in cui si afferma, in consapevole contrasto con la sentenza Sez. 5 n. 18710 del 2013, che gli effetti della dichiarazione di incompetenza per materia, conformemente a quanto affermato nella sentenza della Corte cost. n. 76 del 1993, trascendono l'aspetto meramente pratico dell'identità, o meno, dell'ufficio del pubblico ministero nella prospettiva di individuazione del giudice competente, afferendo non solo all'identificazione degli organi concretamente chiamati ad esercitare la giurisdizione, ma anche alla sostanza stessa dell'azione penale. La violazione delle regole sulla competenza sottrarrebbe infatti il processo ad un giudice strutturalmente costituito in termini difformi da quello dinanzi al quale il giudizio venga erroneamente disposto, considerata la composizione del collegio della corte di assise. Coerentemente la Corte ha concluso che «la violazione in questione rende necessaria la riproposizione dell'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero, a prescindere dall'identificazione di quest'ultimo, perché detta azione possa esitare in un giudizio correttamente instaurato dinanzi al giudice competente».

Analoga posizione era stata assunta dalla Corte in altre sentenze della stessa Sezione (Sez. 5, n. 21587 del 17 marzo 2009, Audino, Rv. 243890) e, in un caso inverso a quello in esame (era stata la corte di assise a dichiararsi incompetente per materia), di altra Sezione (Sez. 1, n. 37037 del 20 settembre 2010, Apadula, Rv. 248954). Si è affermato che la dichiarazione di incompetenza per materia della corte di assise, con riguardo a imputazioni per reati di competenza del tribunale compreso nel medesimo distretto giudiziario, e rientranti nella previsione di cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p., impone la regressione del procedimento con trasmissione degli atti al pubblico ministero per la riproposizione della richiesta di rinvio a giudizio e lo svolgimento di una nuova udienza preliminare, nulla rilevando che tali adempimenti siano stati già compiuti dallo stesso pubblico ministero e dallo stesso giudice "distrettuale".

4. Le Sezioni unite ritengono che la sentenza n. 104 del 2001 della Corte costituzionale indichi con chiarezza la portata delle precedenti sentenze dichiarative della illegittimità costituzionale degli artt. 23 e 24 c.p.p., riguardanti sia l'incompetenza per materia (sentenze nn. 76 e 214 del 1993) che l'incompetenza per territorio (sentenza n. 70 del 1996) dichiarate dal giudice dibattimentale (o causa di annullamento della sentenza di primo grado), con riferimento al particolare caso dei procedimenti per reati previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p.

Nella motivazione della predetta sentenza si delimita specificamente l'ambito applicativo della sentenza n. 70 del 1996, e solo di quella, perché oggetto della questione di legittimità costituzionale dedotta era un caso di dichiarazione di incompetenza per territorio. Si afferma che nei procedimenti per reati previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p., quando le funzioni di pubblico ministero e di giudice per le indagini preliminari sono state esercitate rispettivamente dall'ufficio del pubblico ministero e dal giudice del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, l'imputato non è sottratto al proprio giudice naturale in caso di diretta trasmissione degli atti al giudice competente; che la competenza territoriale infradistrettuale acquista rilievo solo nella fase del dibattimento; che dal tenore dello stesso dispositivo della sentenza n. 70 del 1996 si evince che ove è dichiarata l'illegittimità delle norme censurate, nella parte in cui prevedono «la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest'ultimo», si fa riferimento al caso di un pubblico ministero e di un giudice dell'udienza preliminare diversi da quelli che, rispettivamente, avevano esercitato l'azione penale e celebrato l'udienza.

4.1. Il caso in cui il tribunale si dichiari incompetente per materia in procedimenti per reati previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. e la corte di assise competente sia compresa nell'ambito del medesimo distretto non presenta sostanziali differenze, rispetto a quello oggetto della sentenza della Corte cost. n. 104 del 2001, non solo per la medesima formulazione del dispositivo delle sentenze nn. 76 e 214 del 1993 rispetto a quello della sentenza n. 70 del 1996. Il diritto di difesa dell'imputato non sarebbe infatti in alcun modo violato se nella fase delle indagini preliminari le funzioni di pubblico ministero siano state svolte dal pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (art. 51, comma 3-bis, ultima parte, c.p.p.) e il giudice che ha celebrato l'udienza preliminare sia stato un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (art. 328, comma 1-bis, c.p.p.). In tal caso la regressione al pubblico ministero comporterebbe solo per l'imputato, già messo in condizione di richiedere il giudizio abbreviato dinanzi al giudice funzionalmente competente, la ripetizione dell'udienza preliminare ritualmente svoltasi dinanzi al giudice naturale, in ordine alle medesime imputazioni e di fronte allo stesso giudice, peraltro con un irragionevole allungamento della durata del procedimento. Né, d'altro canto, l'irretrattabilità dell'azione penale stabilita dall'art. 50, comma 3, c.p.p. («L'esercizio dell'azione penale può essere sospeso o interrotto soltanto nei casi previsti dalla legge»), che costituisce la logica conseguenza del principio dell'obbligatorietà dell'esercizio da parte del pubblico ministero dell'azione penale (art. 112 Cost.), lascerebbe spazio, in caso di restituzione degli atti da parte del giudice dichiaratosi incompetente per materia in relazione ad uno dei reati previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p., a diverse prospettive. Si è infatti escluso, in via generale, che il pubblico ministero possa in caso di regressione richiedere l'archiviazione (Sez. 2, n. 1787 del 10 marzo 1998, Corbelli; Sez. 6, n. 20512 del 11 marzo 2003, Chiesa, Rv. 225531) e si è affermato che può solo ipotizzarsi, senza incidere sul principio di irretrattabilità, la legittimità dell'esercizio dell'azione penale con modalità diverse da quelle utilizzate precedentemente (Sez. 1, n. 24617 del 10 aprile 2001, De Siena, Rv. 219949; Sez. 5, n. 42483 del 12 luglio 2012, Di Martino, Rv. 253762).

4.2. Per tutte le ragioni sopra indicate il primo motivo di ricorso deve ritenersi infondato, avendo il Tribunale di Messina dichiarato la propria incompetenza per materia disponendo la trasmissione degli atti al giudice competente individuato nella Corte di assise di Messina sul presupposto che il pubblico ministero e il giudice dell'udienza preliminare sarebbero stati, in caso di regressione, gli stessi che avevano già rispettivamente esercitato l'azione penale e celebrato l'udienza preliminare.

Va pertanto affermato il seguente principio di diritto:

"Il tribunale, con la sentenza dichiarativa di incompetenza per materia per uno dei reati previsti dall'art. 51, comma 3-bis, c.p.p., attribuiti alla competenza della corte di assise, deve trasmettere gli atti direttamente alla corte di assise per il giudizio, sempreché non sia stata dichiarata la competenza del giudice di altro distretto e le funzioni di pubblico ministero e giudice dell'udienza preliminare siano state svolte rispettivamente dal pubblico ministero e dal giudice competenti funzionalmente ai sensi degli artt. 51, comma 3-bis, ultimo periodo, e 328, comma 1-bis, c.p.p.".

5. Il secondo motivo è manifestamente infondato.

Il mancato espletamento della perizia sulla capacità a testimoniare e sull'attendibilità del minore [omissis], esaminato nelle forme dell'incidente probatorio, non è stato oggetto di specifica doglianza in sede di appello, né risulta comunque che la richiesta di perizia formulata all'udienza preliminare dal difensore dell'imputato [omissis] (cui si era associato il difensore degli altri due imputati) sia stata riproposta dinanzi al giudice di primo grado.

La giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non possa costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., non potendo la perizia farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove il citato art. 606, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, c.p.p., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività. Il diniego della perizia, in quanto giudizio di fatto, è pertanto insindacabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata motivazione (tra le più recenti, Sez. 2, n. 52517 del 3 novembre 2016, Russo, Rv. 268815; Sez. 4, n. 7444 del 17 gennaio 2013, Sciarra, Rv. 225152; Sez. 6, n. 43526 del 3 ottobre 2012, Ritorto, Rv. 253707).

In tema di violenza sessuale nei confronti di minori, in caso di richiesta di incidente probatorio avente ad oggetto l'esame testimoniale, il giudice per le indagini preliminari può disporre anche ex officio lo svolgimento di accertamenti peritali aventi ad oggetto la capacità a testimoniare del soggetto esaminando ai sensi dell'art. 196 c.p.p. (Sez. 3, n. 14820 del 7 dicembre 2016, V., Rv. 269651). Nel caso in esame tale potere non è stato esercitato dal giudice, che non risulta essere stato sollecitato in tal senso nemmeno dalle parti, mentre è stato esaminato in dibattimento il consulente del pubblico ministero la cui relazione è stata acquisita con l'accordo delle parti. Il mancato espletamento della perizia in ordine alla capacità a testimoniare del minore vittima di violenza sessuale non determina, tuttavia, l'inattendibilità della testimonianza della persona offesa, poiché tale accertamento non costituisce un presupposto indispensabile per la valutazione di attendibilità, ove non emergano elementi patologici che possano far dubitare della predetta capacità (Sez. 3, n. 25800 del 1° luglio 2015, C., Rv. 267323).

Nella motivazione della sentenza impugnata i giudici di merito hanno compiuto una valutazione approfondita sull'attendibilità del minore [omissis], al cui esame nel corso dell'incidente probatorio si è proceduto in forma protetta ex art. 398, comma 5-bis, c.p.p., richiamandosi non solo le dichiarazioni rese in dibattimento dal consulente tecnico del pubblico ministero quanto alla capacità del bambino di riferire in maniera attendibile i fatti accadutigli e all'assenza di fattori di condizionamento o di propensione all'ideazione fantastica, ma anche i numerosi riscontri obiettivi su quanto riferito dal minore circa gli abusi e le vessazioni compiute dai nonni materni ai danni suoi e della sorella.

In presenza di una motivazione esauriente e priva di fratture logiche da parte del giudice di merito sulla capacità a testimoniare del minore [omissis] e sulla sua attendibilità, sono precluse in sede di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti sulla base di rilievi difensivi privi di consistenza.

6. Il terzo motivo è del tutto generico.

Le censure sono infatti formulate in modo stereotipato, senza riferimenti alla fattispecie concreta e senza alcun collegamento con i passaggi della motivazione della sentenza impugnata, risolvendosi in una serie di doglianze prive di contenuto specifico che non consentono il controllo di legittimità. Altrettanto generiche erano le deduzioni difensive contenute nel primo motivo di appello in cui la difesa dei ricorrenti si era limitata a contestare l'attendibilità del minore [omissis] e la conseguente affermazione di responsabilità degli imputati, senza tuttavia far specifico riferimento al delitto di riduzione in schiavitù o servitù. Pretestuose, pertanto, si palesano le doglianze circa la carenza di motivazione sulla ritenuta sussistenza degli estremi del reato ascritto al capo B, in ordine al quale eloquente era la motivazione della sentenza di primo grado (ff. 15-16) che metteva in evidenza tutti gli elementi da cui era stato tratto il convincimento di uno stato di soggezione continuativa messo in atto dai ricorrenti nei confronti dei nipoti.

7. Il quarto motivo attiene a censure di merito in ordine al trattamento sanzionatorio. Nella sentenza impugnata l'entità della pena determinata in primo grado è stata confermata, avendo la Corte di assise di appello fatto riferimento all'estrema gravità dei fatti «commessi non solo su due nipoti in tenerissima età, ma soprattutto su due bambini orfani della madre (peraltro figlia degli imputati, il che rende ancora più odioso il fatto) e perciò ancora più indifesi». Il giudice di appello non ha mancato di rilevare, per giustificare la severità della pena, «i gravissimi e irreversibili danni arrecati soprattutto alla piccola [...], la cui vita sembra essere irrimediabilmente segnata oltre che dai numerosi tentativi di suicidio, anche dal profondo disagio psichico». Si tratta di una motivazione esauriente, essendo sufficiente che siano indicati nella sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva valutazione di tutti criteri di cui all'art. 133 c.p.

Quanto alla mancanza di motivazione in ordine al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, va rimarcato che esse neppure erano state chieste con l'atto di appello, in cui i ricorrenti si erano limitati a sollecitare «il minimo della pena ed i benefici di legge nella sua massima estensione».

8. I ricorsi vanno pertanto rigettati e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali nonché, in solido, in favore della parte civile avv. [omissis], nella qualità di tutore dei minori persone offese, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 4.500, oltre accessori di legge, di cui si dispone il pagamento in favore dello Stato ai sensi dell'art. 110, comma 3, d.P.R. n. 115 del 2002.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione in solido in favore della parte civile avv. [omissis], nella qualità di tutore dei minori persone offese, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 4.500,00, oltre accessori di legge, disponendone il pagamento in favore dello Stato.

Depositata il 31 agosto 2017.