Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 12 maggio 2017, n. 37932

Presidente: Vessichelli - Estensore: Settembre

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Pordenone, con sentenza confermata in appello, ha condannato C. Enzo per il reato di cui agli artt. 216, comma 1, 223, commi 1 e 2, l. fall., per avere, quale amministratore della Edil Europe s.r.l., dichiarata fallita il 14 maggio 2008, commesso più fatti di bancarotta. In particolare:

a) per avere, abusando del proprio ruolo di amministratore della Edil Europe s.r.l. e, contemporaneamente, della EFI Immobiliare s.r.l. (società avente quale oggetto sociale la progettazione e la vendita di immobili che la Edil Europe s.r.l. provvedeva a realizzare), cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società stipulando contratti di appalto sfavorevoli all'appaltatrice, nonché per aver omesso di agire per la riscossione del credito di Euro 35.056,78 relativo alla realizzazione di un intervento immobiliare effettuato in Tramonti di Sopra e del credito di Euro 334.000,00 per altro intervento denominato "Borgo Milani, lotto 2", entrambi maturati in capo alla EDIL Europe s.r.l. (art. 223, comma 2, n. 1, l. fall.). In relazione a tale capo la Corte d'appello ha disatteso la tesi difensiva (secondo cui l'inazione dell'amministratore sarebbe dipesa dal mancato completamento dei lavori; essa, comunque, non sarebbe all'origine del dissesto) ritenendo provato - sulla base delle dichiarazioni del curatore - l'effettività dei crediti e la relazione causale col dissesto;

b) per aver distratto a proprio favore, nell'anno antecedente al fallimento, la somma di Euro 30.128,01, imputandola al conto "restituzione finanziamenti" (art. 223, comma 1, in relazione all'art. 216 l. fall.). La Corte d'appello ha escluso che le erogazioni di denaro, effettuate dall'amministratore alla società in un'epoca di conclamato dissesto, avessero la natura di finanziamenti, dovendo equipararsi, invece, all'apporto di capitale di rischio e, come tali, non passibili di restituzione;

c) per aver distratto la somma di Euro 17.500 disponendone il pagamento a favore del figlio C. Vanni, tra marzo e ottobre 2007, a titolo di "compenso amministratore", non deliberato dall'assemblea della società (art. 223, comma 1, in relazione all'art. 216 l. fall.). La Corte d'appello ha messo l'accento - per escludere la liceità dell'attribuzione - sul fatto che C. Vanni non era amministratore della società e che non v'è prova di un rapporto lavorativo da questi instaurato con la società.

2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato dolendosi, per tutti i capi di condanna, dell'erronea applicazione della legge penale e di un difetto ed illogicità di motivazione.

2.1. Deduce, quanto al capo a), che l'inazione dell'amministratore per la riscossione del credito di Euro 35.056,78 non ha cagionato alcun danno alla società, perché il credito - seppur fosse stato esistente - non è andato disperso né per remissione né per prescrizione, ma è rimasto nel patrimonio della società creditrice. Non v'è prova, inoltre, che la società fosse in dissesto già nel 2002 (epoca di esecuzione dei lavori a Tramonti di Sopra); anzi, dalla relazione e dalle dichiarazioni del curatore si evince proprio che una tale situazione si determinò nel 2007, epoca in cui insorsero contrasti con la "Costruzioni Basso", che sospese i pagamenti a seguito di intervenute contestazioni. Insiste, infine, sulla tesi del mancato completamento dei lavori da parte dell'appaltatrice come causa dell'inazione dell'amministratore.

In relazione al credito di Euro 334.000, concernente l'intervento edilizio denominato "Borgo Milani", ripropone la tesi - sostenuta in sede di merito - che non v'è prova del credito della società fallita; anzi, v'è prova del contrario, in quanto l'appaltatrice aveva emesso la fattura n. 44 del 15 novembre 2007 "a saldo chiusura lavori", regolarmente registrata in una contabilità che - a detta del curatore - era stata "regolarmente tenuta". Non contesta che il contratto d'appalto prevedesse un corrispettivo di Euro 2.292.455, di cui solo 1.958.455,17 effettivamente pagati, ma ribadisce che ciò era avvenuto perché il valore delle opere effettivamente eseguite non superava la somma corrisposta, tant'è che lo stesso curatore ha poi transatto la lite insorta con la committenza. Deduce una illogicità di interpretazione delle dichiarazioni del curatore, al quale "non risultava" che fosse stata la Edil Europe a terminare i lavori; dichiarazione illogicamente interpretata come neutra dalla Corte di merito ("con ciò non intendeva dire che lo escludeva"). In ogni caso, rileva che l'art. 2634 prevede - e sanziona - il compimento di atti positivi di disposizione da parte dell'amministratore in conflitto d'interessi e non anche i comportamenti omissivi; infine, che la mancata fatturazione dell'importo non ha determinato alcun danno per la società, non avendo contribuito a determinare il dissesto, né ad estromettere il bene dal patrimonio della società (sottolinea che l'art. 2634 c.c. prevede un reato con evento di danno, per il quale si richiede la sussistenza di un nocumento patrimoniale intenzionalmente arrecato alla società).

2.2. Quanto al capo b), si duole, innanzitutto, di una indebita reformatio in peius, atteso che il fatto era stato qualificato dal Tribunale come bancarotta preferenziale ed è stato indebitamente ricondotto dalla Corte d'appello - a sorpresa - all'ipotesi della bancarotta distrattiva, come da imputazione. In ogni caso, lamenta che siano stati trascurati dal giudicante elementi che avrebbero provato la natura di finanziamenti - e non di versamenti in conto capitale - delle erogazioni effettuate dall'imputato, costituiti dalla modestia dei finanziamenti e dal fatto che erano corrispondenti all'importo di pagamenti che la Edil Europe doveva effettuare, a comprova del fatto che ebbero la funzione di sopperire ad una momentanea assenza di liquidità.

2.3. In ordine alle attribuzioni effettuate a favore di C. Vanni, per Euro 17.500, lamenta che siano stati trascurati gli apporti dichiarativi di vari testimoni - i quali avrebbero riferito che C. Vanni ebbe a lavorare nella società per circa un anno - e che sia stata fraintesa la tesi difensiva, imperniata sul fatto che quei pagamenti erano comunque dovuti, seppur a titolo diverso rispetto a quello riportato nelle scritture contabili (ove erano stati annotati come "compenso amministratore").

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato. Seguendo l'ordine delle questioni proposte dal ricorrente, si osserva quanto segue.

1. La bancarotta impropria di cui all'art. 223 della l. fall. richiede - allorché sia posta in essere col compimento di alcuno dei fatti previsti dal comma 2, n. 1, del medesimo articolo - che i detti "fatti" abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società. Le questioni che si pongono nella specie attengono, pertanto, alla efficacia causale (rispetto al dissesto) del reato previsto dall'art. 2634 c.c. e alla effettiva commissione, da parte di C. Enzo, del reato suddetto.

2. Per la sussistenza del reato di cui all'art. 2634 c.c. occorrono, stando al dettato normativo: a) la ricorrenza, in capo all'amministratore, di un interesse in conflitto con quello della società; b) la "deliberazione" di un "atto di disposizione" di beni sociali; c) un evento di danno patrimoniale intenzionalmente cagionato alla società amministrata; d) il fine specifico - in capo all'agente - di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio.

Nella specie, il ricorrente contesta che sussistessero, in capo alla società amministrata, i crediti dedotti in imputazione e che sia stato posto in essere un "atto di disposizione" degli stessi, idoneo a procurare danno alla società. Contesta, inoltre, che la condotta imputata a C. Enzo abbia causato il dissesto. È in relazione a tali deduzioni che va esaminato il ricorso, il quale si appalesa, per i motivi di seguito specificati, inidoneo a determinare l'annullamento della sentenza impugnata.

3. La "deliberazione" di un atto di disposizione di beni sociali è stata, infatti, correttamente individuata nella rinuncia al credito di Euro 334.000 maturato in relazione al cantiere di Borgo Milani-lotto 2, trattandosi di un atto implicante la dismissione, senza apprezzabile ragione, di una posta attiva di consistente valore. Al riguardo va rilevato che, secondo la pacifica giurisprudenza della Cassazione civile, la remissione del debito (o la rinuncia al credito) non richiede una forma solenne, in difetto di un'espressa previsione normativa, e può quindi essere desunta anche da una manifestazione tacita di volontà o da un comportamento concludente, purché siano tali da manifestare in modo univoco la volontà abdicativa del creditore, in quanto risultino da circostanze logicamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito (Cass. civ. n. 11749 del 18 maggio 2006, Rv. 589401-01; Sez. 3, n. 4 del 6 gennaio 1982). E non v'è dubbio che il rilascio di fattura "a saldo chiusura lavori", trasmessa al debitore e annotata nella contabilità del creditore, implichi una rinuncia alla pretesa creditoria e concreti, quindi, la "deliberazione di un atto di disposizione" rilevante per la sussistenza del reato di cui all'art. 2634 c.c. Non sono fondate, quindi, le critiche del ricorrente a questa parte della sentenza, giacché la Corte d'appello non ha sanzionato una "omissione", ma una condotta positiva sfociata in una "deliberazione" societaria.

4. Ad analoga conclusione deve pervenirsi per l'inazione serbata dall'amministratore intorno al credito di Euro 35.056,78 maturato dalla fallita per la realizzazione dell'intervento immobiliare effettuato in Tramonti di Sopra, anche se per motivi diversi da quelli sopra esposti. Non v'è dubbio che la fattispecie di cui all'art. 2634 c.c. sia stata concepita come "resto d'azione con evento di danno" (così la Relazione governativa di accompagnamento al d.lgs. n. 11 aprile 2002, n. 61, che ha riformato l'art. 2634 c.c.) e che la condotta consista - come già detto - nel compiere o concorrere a deliberare "atti di disposizione" di beni sociali. In via di principio, pertanto, le condotte omissive non rientrano nel fuoco della norma incriminatrice. Ciò non toglie, però, che le omissioni possano, in particolari situazioni, assumere la medesima valenza delle "azioni", determinando - in sinergia con l'azione di terzi o con l'evoluzione di situazioni sfavorevoli all'impresa, non contrastate dall'amministratore - la compromissione dell'interesse protetto dalla norma (l'integrità del patrimonio sociale). In casi siffatti la condotta omissiva dell'amministratore assume i medesimi connotati della condotta commissiva, perché si avvale dell'azione di terzi o di forze estranee all'impresa per raggiungere il medesimo risultato antigiuridico contemplato dalla norma. Non v'è ragione, pertanto, di trattare l'inazione dell'amministratore - quando sia inequivocabilmente espressione, rispetto ai diritti della società amministrata, di una volontà abdicatrice - quale "omissione", invece che come condotta positivamente volta a compiere l'azione vietata dall'ordinamento dell'impresa.

È quanto deve dirsi nella specie, in quanto l'inerzia serbata da C. per ben sei anni, accompagnata dal deterioramento, a lui noto, della situazione economica e finanziaria della EFI Immobiliare s.r.l. (debitrice della Edil Europe s.r.l.) ha determinato la perdita effettiva del credito vantato dalla società fallita.

5. Né maggior fondamento hanno le critiche del ricorrente alla parte della motivazione concernente la prova del credito, desunta - nella specie - dalle dichiarazioni del curatore e dagli accertamenti "cartolari" da questi effettuati (dalla documentazione societaria - "regolarmente tenuta" - risulta, a quanto appreso dal curatore, che i lavori - di entrambi i cantieri - sono stati completati e che i contratti hanno avuto regolare esecuzione da parte dell'appaltatrice, con conseguente maturazione del diritto alla corresponsione della somma stabilita), trattandosi di critiche effettivamente inidonee a inficiare l'iter argomentativo del giudicante. Escluso che questa Corte possa seguire il ricorrente nella lettura delle dichiarazioni del curatore (atteso che si darebbe corso, per detta via, al terzo grado di merito), correttamente la Corte d'appello ha escluso che fosse dirimente, per escludere il credito, il rilascio, da parte di C., di una fattura "a saldo", visto che proprio il rilascio di tale fattura costituisce l'addebito mosso al ricorrente, e altrettanto correttamente ha attribuito rilievo agli accertamenti effettuati dal curatore sulla contabilità e sulla documentazione della Edil Europe s.r.l., che certifica l'avvenuto completamento dei lavori, trattandosi di contabilità "regolarmente tenuta" (come confermato dal ricorrente), che assume rilievo nel rapporto tra imprese. Peraltro, alla conclusione esposta in sentenza la Corte di merito è pervenuta anche sulla base di altri elementi, costituiti dal fatto che il completamento dei lavori è stato genericamente contestato dal committente nella causa civile e in maniera solo assertiva nel procedimento penale, senza l'indicazione dei lavori non effettuati, senza il richiamo di alcuna atto di contestazione (a suo tempo elevata) e senza nemmeno l'indicazione del diverso soggetto che avrebbe provveduto al completamento dell'opera dedotta in contratto. Non si è di fronte, quindi, ad una inversione dell'onere della prova, come lamentato dal ricorrente, ma alla valorizzazione di elementi - peraltro univocamente convergenti - nel senso conforme alla loro significazione, sicché vanno esclusi sia la violazione dei principi che attengono alla distribuzione dell'onus probandi, sia il dedotto vizio motivazionale.

6. Il danno è costituito - secondo il giudicante - dalla rinuncia ad una posta attiva di significativo ammontare, che ha contribuito a determinare il dissesto della società. Non v'è dubbio, al riguardo, che per l'integrazione del reato di cui all'art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. (c.d. bancarotta societaria) debba sussistere un rapporto di causalità tra la commissione di uno dei reati ivi previsti e il dissesto della società, costituente l'evento del reato: vale a dire, una situazione di effettivo squilibrio tra le attività e le passività societarie.

Per intendere rettamente la detta condizione normativa va chiarito che il dissesto di cui tener conto ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. è quello accertato in sede fallimentare, giacché, come è stato rilevato, il fenomeno del dissesto non si esprime istantaneamente, ma con progressione e durata nel tempo (tanto da esser suscettibile di misurazione), sicché hanno incidenza su di esso tutti gli atti compiuti fino al fallimento (Cass., sez. 5, n. 16259 del 4 marzo 2010). A tale conclusione porta, del resto, anche l'esplicito riferimento alle persone che abbiano "concorso", con i propri atti, a cagionare il dissesto: espressione che rimanda, nemmeno implicitamente, alla previsione dell'art. 41 c.p., per il quale rilevano, sotto il profilo causale, anche le cause preesistenti, simultanee e sopravvenute, salvo che siano state da sole sufficienti a determinare l'evento. Dal che deriva che la bancarotta societaria sussiste anche allorquando il reato societario abbia solo mutato le caratteristiche dimensionali del dissesto, portandolo ad un livello che, altrimenti, non avrebbe raggiunto.

Alla luce di tanto non merita censura la sentenza impugnata, la quale, mettendo in evidenza che i crediti rinunciati espressamente o implicitamente hanno rappresentato "ben un quarto del deficit fallimentare", ha espresso un giudizio basato su un dato incontrovertibile, da cui promana una evidente capacità dimostrativa.

7. Anche il motivo di ricorso relativo al capo c) (indebito rimborso di "finanziamenti") è infondato.

Va premesso che nella specie non vi è stata alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, dal momento che C. è stato ritenuto responsabile proprio della condotta che gli era stata contestata dal Pubblico Ministero, a nulla rilevando che il Tribunale avesse, medio tempore, riqualificato il fatto in termini di bancarotta preferenziale. La violazione dell'art. 521 c.p.p. ricorre, infatti, allorché l'imputato venga ritenuto responsabile di un "fatto" diverso da quello contestato dall'organo a ciò deputato, e non già allorché il fatto subisca diverse qualificazioni nel corso del processo, dal momento che il potere di qualificazione appartiene a ciascun giudice in cui si articola il procedimento rivolto alla risoluzione della re-iudicanda. D'altra parte, la ratio dell'art. 521 c.p.p. è quella di consentire all'imputato la difesa su ogni elemento dell'accusa e tale possibilità non è intaccata dalla mutazione della qualificazione giuridica del fatto ad opera del giudicante, la quale consiste nell'espressione di un giudizio che lascia immutata la "realtà" dell'accusa.

Nel merito la doglianza va disattesa per le ragioni chiaramente espresse dal giudice di primo grado, a cui quello d'appello ha fatto espresso rimando, oltre ad argomentare sulla base dell'art. 2467 c.c. (che disciplina la sorte dei "finanziamenti" effettuati dal socio in una situazione di "eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento"). La prima sentenza ha, infatti, esposto - in maniera giuridicamente ineccepibile e in stretta aderenza alla giurisprudenza delle sezioni civili di questa Corte (ex multis, Cass. civ., n. 25585 del 3 dicembre 2014) - i principi valevoli in materia, così sintetizzati: a) per stabilire la natura dei conferimenti effettuati dal socio a favore della società occorre guardare alla volontà negoziale delle parti (socio conferente e società); b) l'onere della prova che si tratti di versamenti operati a titolo di mutuo grava sul socio medesimo; c) nessun rilievo decisivo va attribuito alla denominazione dell'erogazione contenute nelle scritture contabili. Ed è sulla base di tali criteri che è stata esclusa - logicamente - la natura di finanziamenti delle erogazioni effettuate dal socio, in considerazione dell'irrilevanza delle appostazioni effettuate dall'amministratore (che era anche il soggetto interessato ad attribuire ai versamenti la natura di finanziamenti), della mancanza di prova o indizi circa la natura dei versamenti (mancanza che, per quanto si è detto, ridonda in danno dell'imputato) e, soprattutto, del fatto che il versamento nelle casse sociali avvenne in un momento di difficoltà crescente della società, talché deve presumersi effettuato per ristabilire l'equilibrio economico della società e non già quello finanziario. Le doglianze mosse sul punto alla sentenza impugnata vanno, quindi, disattese, giacché il percorso argomentativo seguito dal giudicante muove da premesse giuridiche corrette e lo sviluppo della motivazione risulta adeguato e non può certamente qualificarsi mancante o illogico.

8. Manifestamente infondato è l'ultimo motivo di ricorso, concernente la distrazione della somma di Euro 17.500, indebitamente attribuita al figlio C. Vanni. La sentenza impugnata ha chiaramente esposto che non esistono (e non sono state offerte) prove a dimostrazione delle asserite prestazioni lavorative di C. Vanni, in quanto le deposizioni richiamate dal ricorrente sono state generiche, sia in ordine alle specifiche attività che ai periodi di effettuazione delle prestazioni, sicché, in mancanza di prove di diverso tenore, le somme corrisposte al figlio dell'amministratore - per l'ammontare, per niente modesto di Euro 17.500 in pochi mesi - devono ritenersi distratte. A nulla vale, pertanto, insistere su un diverso contenuto della prova dichiarativa, che questa Corte non conosce e non può esplorare, stanti i limiti del giudizio di legittimità.

9. In conclusione, il ricorso, proposto per motivi in parte infondati e in parte inammissibili, va rigettato, per le ragioni sin qui esposte; ai sensi dell'art. 592 c.p.p., comma 1, e art. 616 c.p.p. il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 28 luglio 2017.