Corte costituzionale
Sentenza 15 aprile 2025, n. 44
Presidente: Amoroso - Redattore: Pitruzzella
[...] nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del decreto-legge 25 luglio 2018, n. 91 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, nella legge 21 settembre 2018, n. 108, e dell'art. 13, comma 1-bis, del decreto-legge 18 ottobre 2023, n. 145 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, in favore degli enti territoriali, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 15 dicembre 2023, n. 191, promossi con ordinanze del 6, 7, 8, 13 e 23 febbraio 2024 dal Consiglio di Stato, sezione sesta, iscritte ai numeri da 79 a 97 del registro ordinanze 2024 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 21 e 22, prima serie speciale, dell'anno 2024.
Visti gli atti di costituzione dell'Associazione per la libertà e il pluralismo dell'informazione Radio TV (ALPI), Espansione srl e altri, Pirenei srl e Beacom srl, R.B.1. Teleboario Sb srl e altri, Retesole srl e altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 25 febbraio 2025 il Giudice relatore Giovanni Pitruzzella;
uditi gli avvocati Isabella Loiodice per ALPI, Massimo Romano per R.B.1. Teleboario Sb srl e altri, Fabrizio Magliaro per Retesole srl e altri, Patrizio Ivo D'Andrea e Tommaso Di Nitto per Espansione srl ed altri, e le avvocate dello Stato Maria Luisa Spina e Alessia Urbani Neri per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 25 febbraio 2025.
RITENUTO IN FATTO
1.- Con diciannove ordinanze di identico tenore, iscritte ai numeri da 79 a 97 del registro ordinanze 2024, il Consiglio di Stato, sezione sesta, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 21, 24, 41, 77, 103, 111, commi primo e secondo, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli artt. 6, 10 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del decreto-legge 25 luglio 2018, n. 91 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, nella legge 21 settembre 2018, n. 108, e dell'art. 13, comma 1-bis, del decreto-legge 18 ottobre 2023, n. 145 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, in favore degli enti territoriali, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 15 dicembre 2023, n. 191.
1.1.- Il rimettente premette, in punto di fatto, che:
- con separati atti di appello, alcune emittenti televisive locali a carattere commerciale hanno impugnato plurime sentenze del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (numeri 10826, 10827, 10828, 10829, 10830, 10831, 10832, 10833, 10834, 10835, 10838, 10844, 10845, 10846, 10847, 10848, 10849, 11241 e 11242 del 2022), recanti l'annullamento del decreto del Ministero delle imprese e del made in Italy 21 dicembre 2002, n. 0189185, con cui era stata approvata la graduatoria definitiva delle domande ammesse ai contributi per l'anno 2022, ai sensi dell'art. 5, commi 3 e 4, del decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146 (Regolamento concernente i criteri di riparto tra i soggetti beneficiari e le procedure di erogazione delle risorse del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione in favore delle emittenti televisive e radiofoniche locali);
- le sentenze impugnate - sul presupposto della non operatività dell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, «fuori dall' (e, quindi, successivamente all') annualità, 2019», e quindi della non operatività dello «scalino preferenziale, già annullato con forza di giudicato» ad opera della sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, 9 settembre 2022, n. 7880 - avevano imposto all'amministrazione «la rideterminazione, in favore dei concorrenti già graduati, dei contributi dovuti per l'anno 2022, con destinazione del 100% dello stanziamento annuale in favore della totalità di essi e conseguente liquidazione del contributo, a ciascuno di essi spettante, in proporzione del rispettivo punteggio per come riportato nella graduatoria approvata».
1.2.- In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che l'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, dispone quanto segue: «[a]ll'articolo 4, comma 2, ultimo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146, recante il regolamento, da intendersi qui integralmente riportato, concernente i criteri di riparto tra i soggetti beneficiari e le procedure di erogazione delle risorse del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione in favore delle emittenti televisive e radiofoniche locali (d'ora in avanti: Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione, o anche solo: Fondo), in attuazione degli obiettivi di pubblico interesse di cui all'articolo 1, comma 163, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, per l'assegnazione delle risorse del Fondo di cui all'articolo 1, comma 160, lettera b), della citata legge n. 208 del 2015, e successive modificazioni, destinate alle emittenti radiofoniche e televisive locali, al fine di estendere il regime transitorio anche all'anno 2019, dopo le parole: "alla data di presentazione della domanda" sono aggiunte le seguenti: ", mentre per le domande inerenti all'anno 2019 si prende in considerazione il numero medio di dipendenti occupati nell'esercizio precedente, fermo restando che il presente requisito dovrà essere posseduto anche all'atto della presentazione della domanda"».
Il menzionato art. 4-bis - prosegue il rimettente - ha quindi modificato l'art. 4, comma 2, ultimo periodo, del d.P.R. n. 146 del 2017, la cui formulazione attuale è la seguente: «[s]ono ammesse ad usufruire dei contributi le emittenti radiofoniche di cui alle lettere b) e c) dell'articolo 3 che abbiano un numero minimo di 2 dipendenti, [...] occupati con contratti a tempo indeterminato e a tempo determinato, [...] con almeno un giornalista. [...] Per il presente requisito si prende in considerazione il numero medio dei dipendenti occupati nei due esercizi precedenti, fermo restando che tale requisito deve essere posseduto alla data di presentazione della domanda, mentre per le domande inerenti all'anno 2019 si prende in considerazione il numero medio di dipendenti occupati nell'esercizio precedente, fermo restando che il presente requisito dovrà essere posseduto anche all'atto della presentazione della domanda. In via transitoria, per le domande relative agli anni dal 2016 al 2018 si prende in considerazione il numero dei dipendenti occupati alla data di presentazione della domanda».
Il regolamento in parola è stato adottato in attuazione dell'art. 1, comma 163, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», e disciplina i criteri di riparto e le procedure di erogazione delle risorse dell'esercizio finanziario 2016 presenti sull'apposito capitolo di bilancio del Ministero dello sviluppo economico e, per gli anni successivi, della quota delle risorse del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione, di cui all'art. 1 comma 160, lettera b), della medesima legge, da assegnarsi alle emittenti televisive e radiofoniche locali, «per la realizzazione di obiettivi di pubblico interesse, quali la promozione del pluralismo dell'informazione, il sostegno dell'occupazione nel settore, il miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti e l'incentivazione dell'uso di tecnologie innovative».
Il Consiglio di Stato prosegue osservando come, secondo le società appellanti e il Ministero delle imprese e del made in Italy, l'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, con l'inciso secondo cui il d.P.R. n. 146 del 2017 è «da intendersi qui integralmente riportato», avrebbe «legificato» tutte le previsioni del regolamento, compreso l'art. 6, comma 2, recante il cosiddetto scalino preferenziale, in forza del quale alle emittenti collocate nei primi cento posti della graduatoria spetta il novantacinque per cento delle risorse disponibili, mentre il restante cinque per cento è destinato a quelle classificate oltre la centesima posizione.
Sempre secondo le appellanti e il Ministero, tale tesi, disattesa del primo giudice, sarebbe stata confermata dalla norma di interpretazione autentica, intervenuta nelle more del giudizio, di cui all'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, ai sensi del quale, per lo stesso fine di cui al comma precedente (ossia quello «di assicurare continuità alle misure di sostegno agli investimenti produttivi delle micro, piccole e medie imprese»), l'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, «nella parte in cui riporta integralmente il decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146, si interpreta nel senso che il rinvio operato alle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146, ha inteso attribuire valore di legge a tutte le disposizioni ivi contenute a decorrere dalla sua entrata in vigore».
Osserva il rimettente che, «sia assegnando natura di disposizione di interpretazione autentica alla regola sopra indicata» - tesi questa che esso afferma di preferire - «sia assegnando alla stessa valenza innovativa ma con portata retroattiva [...], la regola trova, comunque, applicazione nei giudizi in corso», aventi ad oggetto la legittimità dei provvedimenti di riparto dei contributi per l'anno 2022, operato dall'amministrazione in attuazione dei criteri di cui al d.P.R. n. 146 del 2017, ivi compreso quello dello scalino preferenziale di cui al suo art. 6, comma 2.
Aggiunge il Consiglio di Stato che «l'applicazione della previsione al caso di specie comporterebbe l'accoglimento dei ricorsi in appello, stante l'intervenuta "legificazione" della disciplina regolamentare» e la conseguente impossibilità di annullare gli atti gravati.
Per converso, ove questa Corte dichiarasse l'illegittimità costituzionale delle disposizioni primarie censurate, «troverebbe "riespansione" il sindacato del Giudice amministrativo sulle previsioni regolamentari» e sui conseguenti «atti amministrativi impugnati, potendo, quindi, il Collegio respingere i ricorsi in appello [...] confermando l'annullamento degli atti applicativi disposto dalla sentenza di primo grado».
1.3.- In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che le entrambe le disposizioni censurate violino, in primo luogo, l'art. 77 Cost.
Sia l'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018 sia l'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023 sono stati inseriti in sede di conversione e difetterebbero di omogeneità rispetto ai contenuti originari dei rispettivi decreti-legge.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, la legge di conversione riveste «i caratteri di una fonte "funzionalizzata e specializzata"», volta alla stabilizzazione del decreto-legge nell'ordinamento, ragion per cui non potrebbe «"aprirsi" ad oggetti eterogenei» rispetto a quelli presenti nel decreto, ma potrebbe solo contenere disposizioni coerenti con quelle originarie dal punto di vista materiale o finalistico. La ratio di tale indirizzo interpretativo sarebbe quella di evitare che l'iter procedimentale semplificato, previsto dai regolamenti parlamentari per la conversione del decreto-legge, possa essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano quest'ultimo, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare.
La coerenza delle disposizioni aggiunte in sede di conversione rispetto alla disciplina originaria del decreto-legge andrebbe valutata sia dal punto di vista oggettivo-materiale, sia dal punto di vista funzionale-finalistico, il quale ultimo, in caso di decreti-legge a contenuto plurimo, cioè con contenuti eterogenei ab origine, andrebbe riguardato in relazione alla ratio dominante.
1.3.1.- Il citato art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018 - prosegue il rimettente - è stato inserito, in sede di conversione, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 108 del 2018.
Il d.l. n. 91 del 2018 è intitolato «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative» e, «conformemente alla natura dei decreti legge c.d. milleproroghe», le sue varie disposizioni sarebbero accomunate dalla finalità di prorogare termini di prossima scadenza in molteplici ed eterogenei settori dell'ordinamento. Tale finalità sarebbe esplicitata anche nel preambolo.
L'art. 4-bis, essendo volto a conferire alle disposizioni del d.P.R. n. 146 del 2017 valore e forza di legge (come chiarito con il successivo art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito), non sarebbe in linea con il contenuto e con le ricordate finalità del decreto-legge in cui è stato inserito.
Il citato d.P.R. reca il «Regolamento concernente i criteri di riparto e le procedure di erogazione, in favore delle emittenti televisive e radiofoniche locali, delle risorse del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione» (d'ora in avanti, anche solo: regolamento).
Non essendo l'art. 4-bis una previsione con cui si prorogano, in via d'urgenza, termini di prossima scadenza, ma una disposizione con cui si attribuisce al ricordato corpus normativo regolamentare il valore e la forza della legge, sarebbe evidente il difetto di omogeneità contenutistica e funzionale rispetto al decreto-legge.
Dal punto di vista dell'efficacia temporale, poi, la norma recata dall'art. 4-bis (nel significato ascrittole dalla successiva norma di interpretazione autentica) non avrebbe natura transitoria o temporanea, ma eleverebbe, in via stabile, al rango di legge tutte le previsioni prima contenute nella fonte secondaria.
Ancora, in base all'interpretazione offerta dallo stesso Consiglio di Stato con la citata sentenza n. 7880 del 2022, l'art. 4-bis non avrebbe natura retroattiva e quindi non si applicherebbe alle annualità antecedenti il 2019: la sua non immediata applicabilità ai procedimenti amministrativi in corso confermerebbe l'assenza di legame, oggettivo e teleologico, con il testo del decreto-legge volto a provvedere con urgenza su termini di prossima scadenza.
Quanto ai lavori parlamentari, andrebbe rilevato, in primo luogo, che l'art. 4-bis è stato inserito durante la prima lettura al Senato della Repubblica, mercé un emendamento presentato in Commissione affari costituzionali, in sede referente, e che, nel successivo esame parlamentare presso la Camera dei deputati, il Governo ha posto la questione di fiducia sull'approvazione dell'articolo unico del disegno di legge di conversione.
In secondo luogo, il dossier n. 48/4 del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati del 17 settembre del 2018, nel dare atto che l'art. 4-bis modifica l'ultimo periodo dell'art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 146 del 2017, evidenzia, «sul piano delle fonti del diritto», «che con una disposizione di rango legislativo viene modificata una fonte di rango secondario quale il regolamento governativo», ma non esamina specificamente l'inciso secondo cui il regolamento è «da intendersi qui integralmente riportato».
Secondo il giudice a quo, l'apposizione della questione di fiducia da parte del Governo e il mancato esame di tale ultimo inciso da parte del dossier redatto a supporto dell'attività legislativa rappresenterebbero «"tempi" e "modalità" dell'iter parlamentare» corroboranti il giudizio di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
1.3.2.- Quanto all'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2013, come convertito, andrebbe considerato che il medesimo decreto-legge è intitolato «Misure urgenti in materia economica e fiscale, in favore degli enti territoriali, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili», e che nel preambolo i suoi presupposti sono esplicitati come segue: «[r]itenuta la straordinaria necessità e urgenza di prevedere misure per esigenze finanziarie e fiscali indifferibili; [r]itenuta, in particolare, la straordinaria necessità e urgenza di adottare disposizioni in favore degli enti territoriali, in materia di pensioni e di rinnovo dei contratti pubblici, in materia di investimenti, istruzione e di sport, nonché in materia di tutela del lavoro e della sicurezza».
La norma recata dall'art. 13, comma 1-bis, non sembrerebbe riconducibile ad alcuna di tali finalità. Tanto emergerebbe anche dalla sedes materiae, ossia l'art. 13, rubricato «Investimenti produttivi delle micro, piccole e medie imprese».
Il comma 1 di tale articolo dispone il rifinanziamento delle misure di sostegno alle micro, piccole e medie imprese previste dall'art. 2 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, ossia di misure volte a sostenere l'acquisto, o l'acquisizione in leasing, di beni strumentali materiali - macchinari, impianti, beni strumentali d'impresa, attrezzature nuovi di fabbrica e hardware - o immateriali (software e tecnologie digitali) a uso produttivo.
Esso, cioè, si occuperebbe di materie e avrebbe finalità differenti da quelle proprie del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione. In altri termini, il finanziamento alle emittenti radio e televisive, nonostante il richiamo effettuato dall'art. 13, comma 1-bis, alle finalità esplicitate al comma precedente, non sarebbe volto a sostenere «investimenti produttivi» ma il pluralismo dell'informazione.
Quanto all'iter parlamentare di approvazione, andrebbe rilevato che, rispetto all'emendamento introduttivo del comma 1-bis, il Governo avrebbe evidenziato in Assemblea «profili di criticità, in quanto inciderebbe su contenziosi in atto ed è suscettibile di generarne ulteriori, atteso che attiene ad annualità di fondi già ripartiti».
Rileverebbe, ai fini della valutazione di non manifesta infondatezza, anche l'apposizione della questione di fiducia sul testo del disegno di legge approvato dal Senato della Repubblica, nel corso dell'esame della legge di conversione presso la Camera dei deputati.
1.4.- Con la seconda questione, il rimettente dubita della legittimità costituzionale «del combinato disposto» delle due disposizioni censurate per violazione dell'art. 3 Cost.
Deduce il Consiglio di Stato che il menzionato art. 4-bis, nel modificare l'art. 4, comma 2, del regolamento di cui al d.P.R. n. 146 del 2017, contestualmente, ha «inteso» il medesimo regolamento siccome «"integralmente riportato" nel corpo della legge».
Tale previsione porrebbe due ordini di problemi, strettamente connessi, che andrebbero "focalizzati", «trattandosi di alcune delle premesse» logico-giuridiche da cui muove il dubbio di legittimità costituzionale.
1.4.1.- Il «riferimento» sarebbe, in primo luogo, alla natura del rinvio operato dalla legge al regolamento e alla conseguente sua legificazione, «intesa come il recepimento delle norme di un regolamento in una fonte primaria».
Secondo la giurisprudenza costituzionale, tale «fenomeno di "legificazione"» sarebbe predicabile solo in ipotesi di rinvio recettizio, ove la norma primaria abbia inteso recepire o incorporare quella secondaria e non anche nei casi in cui la norma primaria si sia limitata ad un mero rinvio formale.
Sempre secondo la giurisprudenza costituzionale, un tale effetto non potrebbe essere riconosciuto a qualsiasi forma di rimando, ma sarebbe ravvisabile soltanto quando la volontà del legislatore di recepire mediante rinvio sia espressa oppure sia desumibile da elementi univoci e concludenti. Mentre il rinvio recettizio (o materiale) opererebbe una novazione della fonte che eleva la norma richiamata al rango primario, la funzione del rinvio formale non sarebbe quella di incorporare il contenuto della norma richiamata, bensì di indicare la fonte competente a regolare una determinata materia.
Nella medesima giurisprudenza si troverebbe l'affermazione che per aversi rinvio recettizio (o materiale) occorre che il richiamo «sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua».
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, il Consiglio di Stato (con la citata sentenza n. 7880 del 2022 e con le sentenze della medesima sezione 9 settembre 2022, n. 7878 e n. 7881) avrebbe escluso la natura materiale del rinvio al d.P.R. n. 146 del 2017 operato dall'art. 4-bis, che, «"pure contenendo elementi testuali che sembrano deporre per la natura ricettizia», non avrebbe prodotto, comunque, effetti retroattivi «e, quindi, non avrebbe inibito la possibilità di applicare la disciplina regolamentare alle annualità rilevanti in quei giudizi».
Le menzionate sentenze del Consiglio di Stato, dunque, pur incentrando «la propria attenzione» sul tema della natura retroattiva dell'intervento normativo, avrebbero escluso un effetto di incorporazione per il dirimente rilievo che il rinvio è stato effettuato all'intero regolamento e non anche «a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua».
Andrebbe considerato, in secondo luogo, che, con le medesime sentenze, è stato annullato l'art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 146 del 2017, recante il cosiddetto scalino preferenziale, e, in via derivata, i dipendenti atti amministrativi relativi alla procedura concessoria per l'anno 2016.
Il «punto di esiziale importanza» per la questione di legittimità costituzionale sarebbe, dunque, l'effetto caducatorio conseguente alle sentenze di annullamento, aventi ad oggetto un regolamento, e quindi un atto a contenuto normativo con portata generale e astratta, con conseguente «venir meno della base giuridica su cui reggono gli ulteriori atti applicativi».
1.4.2.- È in tale quadro che si inserirebbe l'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2013, come convertito, il quale avrebbe chiarito che l'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, nella parte in cui ha «riportato integralmente» il d.P.R. n. 146 del 2017, ha inteso attribuire valore di legge a tutte le sue disposizioni a decorrere dall'entrata in vigore del medesimo art. 4-bis.
Il citato art. 13, comma 1-bis, recherebbe una norma di interpretazione autentica, poiché, oltre a essere qualificata come tale dal legislatore, avrebbe espresso uno dei possibili significati già attribuibili alla norma interpretata: ciò si ricaverebbe dallo stesso contenzioso deciso con la sentenza del Consiglio di Stato n. 7880 del 2022, nel quale contenzioso alcune parti avevano dedotto l'avvenuta legificazione del regolamento, mentre altre, con tesi poi condivisa dal giudice adito, l'avevano esclusa.
Dalla natura interpretativa della disposizione discenderebbe la sua portata retroattiva. Essa emergerebbe anche dalla peculiare tecnica utilizzata dal legislatore, il quale, infatti, non ha riprodotto le prescrizioni normative contenute nel d.P.R. n. 146 del 2017, ma ha inteso dare un'interpretazione autentica all'art. 4-bis, nella parte in cui richiama il regolamento.
Dal carattere interpretativo del censurato art. 13, comma 1-bis, discenderebbe, poi, la "saldatura" della nuova regola con quella racchiusa nella norma interpretata, sì che le disposizioni in parola si sarebbero «congiunte, dando luogo ad un precetto unitario».
Tale «operazione di retroattività», tuttavia, si andrebbe «ad infrangere» con l'intervenuto annullamento dell'art. 6, comma 2, del regolamento.
Il rinvio recettizio alla norma regolamentare sarebbe, cioè, «in realtà e in parte qua, privo del suo oggetto», costituito (anche) da una norma regolamentare (l'art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 146 del 2017), «che, proprio in quanto caducata [...] non avrebbe più potuto incorporarsi nella regola primaria».
Se è vero, infatti, che la legificazione comporta un effetto novativo della fonte, tale novazione presupporrebbe l'esistenza della regola novata, secondo un principio logico-giuridico immanente al fenomeno novativo.
Per questi motivi, dunque, il rimettente ritiene che il combinato disposto degli artt. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, e 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, sia contrario ai canoni di logicità e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
1.5.- Il Consiglio di Stato, con la terza questione, dubita della legittimità costituzionale delle disposizioni censurate in relazione agli artt. 3, 24, 103, 111, commi primo e secondo, e 113 Cost.
In primo luogo, l'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, non sarebbe «conforme ai limiti tracciati» dalla giurisprudenza costituzionale in relazione alle norme di interpretazione autentica o, comunque, alle norme «pur innovative ma con effetto retroattivo».
L'intervento autenticamente interpretativo, e quindi retroattivo, del legislatore sarebbe legittimo in caso di incertezza normativa o di anfibologie giurisprudenziali o per ristabilire un'interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore, a tutela della certezza del diritto e dell'eguaglianza dei cittadini, cioè di princìpi di preminente interesse costituzionale. Al legislatore sarebbe invece precluso intervenire, con norme aventi portata retroattiva, «per annullare gli effetti del giudicato».
L'art. 13, comma 1-bis, in quanto volto a determinare la reviviscenza del regolamento annullato, risulterebbe in contrasto con il giudicato formatosi sulle ricordate sentenze del Consiglio di Stato numeri 7878, 7880 e 7881 del 2022, che hanno annullato, con effetti ex tunc e con efficacia erga omnes e «pro futuro», l'art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 146 del 2017.
Il contrasto sussisterebbe anche ove si escluda la natura interpretativa dell'art. 13, comma 1-bis, in quanto esso avrebbe comunque portata retroattiva, essendosi espressamente previsto che «l'effetto di "legificazione"» si sia prodotto dall'entrata in vigore dell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito.
Di fronte a leggi aventi efficacia retroattiva lo scrutinio di legittimità costituzionale sarebbe particolarmente rigoroso, e ciò in ragione della centralità che assume il principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica, non solo nella materia penale, ma anche in altri settori dell'ordinamento.
L'art. 13, comma 1-bis, non supererebbe tale scrutinio, avendo il legislatore inciso su un giudicato di annullamento di un atto normativo secondario, «che, come tale, ha eliso [...] la possibilità di porre in essere ulteriori atti amministrativi (generali o singolari), e anche per annualità diverse da quelle oggetto delle pronunce del Consiglio di Stato, in quanto private della base legale di riferimento».
1.6.- Il Consiglio di Stato, con la quarta questione, dubita della legittimità costituzionale di entrambe le disposizioni censurate in riferimento agli artt. 3, 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, parametri, tutti, «relativi alla legittimità di interventi normativi che incidono su giudizi in corso».
Il rimettente richiama, sul punto, la sentenza n. 4 del 2024 di questa Corte, ove si afferma che «[i]l controllo di costituzionalità diviene ancor più stringente qualora l'intervento legislativo retroattivo incida su giudizi ancora in corso, specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo un'amministrazione pubblica. Infatti, tanto i princìpi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, quanto i princìpi concernenti l'effettività della tutela giurisdizionale e la parità delle parti in giudizio, impediscono al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio».
Sul punto, stante la «solida sinergia fra princìpi costituzionali interni e princìpi contenuti nella CEDU», avrebbe acquisito un ruolo sempre più decisivo la giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui assumono rilievo alcuni elementi sintomatici dell'uso distorto della funzione legislativa.
Tra questi sarebbero significativi, in particolare, il fatto che lo Stato o l'amministrazione pubblica siano parti di un processo già radicato e la circostanza che l'intervento legislativo si collochi a notevole distanza dall'entrata in vigore delle disposizioni oggetto di interpretazione autentica.
Siffatti indici ricorrerebbero nel caso di specie, ove si consideri che parte dei giudizi pendenti è un'amministrazione dello Stato e che la norma di interpretazione autentica è intervenuta cinque anni dopo quella interpretata.
Ancora, la disposizione interpretativa sarebbe intervenuta dopo la pubblicazione delle sentenze del TAR Lazio che avevano escluso la legificazione del regolamento e poco prima dell'udienza di discussione innanzi al giudice a quo, il quale, si era già espresso nello stesso senso con le citate sentenze del 2022. Essa, in tal modo, avrebbe inciso sulla possibilità, da parte del giudice amministrativo, di annullare atti emanati in violazione degli obiettivi di pubblico interesse di cui all'art. 1, comma 163, della legge n. 208 del 2015 e, in particolare, del pluralismo dell'informazione.
Ricorrerebbe, pertanto, l'ulteriore indice sintomatico dell'intenzione del legislatore di superare un orientamento giurisprudenziale, al fine specifico di incidere su giudizi ancora pendenti di cui è parte un'amministrazione pubblica.
1.7.- Da ultimo e in via subordinata, il giudice a quo solleva questione di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni, in riferimento agli artt. 2, 3, 21, 41 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 10 e 14 CEDU.
1.7.1.- Secondo il rimettente, la «disciplina preferenziale» prevista dall'art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 146 del 2017, incorporato nelle disposizioni censurate, contrasterebbe con il principio del pluralismo informativo desumibile dagli evocati parametri costituzionali e diretto ad impedire la formazione di posizioni dominanti, oltre che a favorire l'accesso al mercato dell'informazione del massimo numero possibile di voci diverse, in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti.
La giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo evidenziato la portata applicativa del principio del pluralismo informativo, costituente «una condizione preliminare» all'attuazione dei princìpi propri dello Stato democratico (si citano le sentenze di questa Corte n. 312 del 2003, n. 29 del 1996 e n. 348 del 1990).
Parimenti, la Corte EDU avrebbe osservato come i servizi audiovisivi e radiofonici svolgano un ruolo essenziale per la democrazia degli Stati membri: in un settore delicato come quello dei media audiovisivi, al dovere negativo di non ingerenza nell'esercizio delle frequenze e nella trasmissione dei programmi si aggiungerebbe, per lo Stato, «l'obbligo positivo di realizzare un quadro legislativo e amministrativo adeguato per garantire un pluralismo effettivo» (si cita la sentenza della Corte EDU, grande camera, sentenza 7 giugno 2012, Centro Europa 7 srl e Di Stefano contro Italia).
La necessità dell'effettiva garanzia del pluralismo sarebbe stata sempre enunciata dalla giurisprudenza costituzionale in relazione alla disciplina delle emittenti televisive, per consentire sia l'espressione delle varie componenti culturali della società sia la loro presenza sul mercato.
Tale ultimo profilo afferirebbe alla cosiddetta dimensione esterna del pluralismo dell'informazione, «implicante la garanzia del pluralismo dei media», contemplato anche nell'art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e imprescindibile in una società democratica e pluralista.
Anche questa Corte avrebbe indicato nel principio del pluralismo informativo «esterno» - diverso da quello interno, riferito alle regole che disciplinano il funzionamento della singola emittente - uno «degli imperativi ineludibili» in materia di emittenza televisiva.
Tale principio, in particolare, imporrebbe la presenza sul mercato di più emittenti, al fine di consentire la pluralità di voci concorrenti, essenziale per assicurare il pieno esercizio del diritto del cittadino all'informazione.
In presenza di un mercato locale, definito in ragione della collocazione della sede principale dell'impresa e della sfera territorialmente limitata dell'attività di emittenza, la pluralità di operatori non potrebbe che essere garantita nell'ambito di ciascuna delle aree geografiche interessate, occorrendo che in ognuna di esse vi sia una pluralità di voci.
1.7.2.- Alla luce di tali considerazioni, il rimettente dubita della legittimità costituzionale della «disciplina» in esame, «nella parte in cui introduce uno scalino preferenziale nell'ambito di una graduatoria nazionale predisposta senza correttivi riguardanti i mercati locali interessati».
I criteri selettivi previsti sarebbero idonei ad attribuire una maggiore chance di collocamento in graduatoria nelle prime cento posizioni agli operatori esercenti nelle regioni più popolate, «stante l'esistenza di una correlazione tra dato demografico regionale e dimensioni organizzative dell'emittente televisiva rilevanti ai fini selettivi».
Sarebbe lo stesso regolamento, infatti, nel disciplinare i requisiti di ammissione alla pubblica contribuzione, a «rapporta[re] il numero di dipendenti minimo richiesto "alla popolazione residente del territorio in cui avvengono le trasmissioni"» (si cita l'art. 4, comma 1, lettera a), prevedendo differenti scaglioni (quattordici dipendenti, di cui almeno quattro giornalisti, per le imprese operanti nelle regioni con più di cinque milioni di abitanti; undici dipendenti, di cui almeno tre giornalisti, per quelle operanti nelle regioni aventi tra un milione e cinquecentomila e cinque milioni di abitanti; otto dipendenti, di cui almeno due giornalisti, per quelle operanti nelle regioni aventi fino a un milione e cinquecentomila abitanti).
Il numero di dipendenti e giornalisti costituirebbe non solo un requisito di ammissione alla contribuzione, ma anche criterio selettivo nell'attribuzione dei punteggi per il riparto dello stanziamento annuale (art. 6, comma 1, lettere a e b, del d.P.R. n. 146 del 2017).
Ne conseguirebbe che le imprese operanti in contesti regionali più popolati, per i quali è riscontrabile, di regola, un maggiore numero di dipendenti e giornalisti impiegati nell'attività d'impresa, hanno maggiori possibilità di conseguire un più alto punteggio e, dunque, un migliore posizionamento in graduatoria.
Il rischio di una concentrazione dei punteggi più elevati in capo ai concorrenti operanti nelle regioni più popolate sarebbe confermato anche dalla previsione dell'ulteriore criterio selettivo riferito ai dati di ascolto.
Ciò posto, la disciplina positiva che prevede uno scalino preferenziale a vantaggio dei primi cento classificati, cui viene destinata la quasi totalità della contribuzione, senza prevedere accorgimenti volti ad impedire la concentrazione delle risorse pubbliche negli ambiti territoriali più popolati a discapito di altri, violerebbe il principio del pluralismo dell'informazione.
Ferma la ragionevolezza della scelta di una graduatoria unica nazionale in ragione della «semplificazione procedimentale» ad essa connessa, il legislatore avrebbe dovuto adottare accorgimenti idonei ad evitare una squilibrata distribuzione delle risorse in ambito locale, al fine di scongiurare il rischio che alcune aree territoriali siano sottorappresentate o perfino escluse dalla contribuzione pubblica. Non si tratterebbe di destinare la contribuzione a tutti i candidati in possesso dei requisiti di ammissione, ma di assicurare che in ogni ambito regionale vi sia un adeguato finanziamento pubblico in favore di un numero congruo di operatori.
1.7.3.- Sotto altro profilo, la «disciplina in contestazione» sarebbe idonea «a beneficiare un numero in ipotesi estremamente ristretto di operatori (in ipotesi, anche uno soltanto) esercenti» nel medesimo ambito territoriale, a fronte di «livelli di efficienza analoghi».
In particolare, sarebbe ben possibile che, «a cavallo della centesima posizione, si collochino plurimi operatori esercenti nel medesimo ambito territoriale, di cui uno soltanto (o, comunque, un numero estremamente ridotto) entro la centesima posizione, in tale modo ammesso a concorrere a valere sul 95% dello stanziamento annuale».
In tal caso, la previsione dello scalino preferenziale, in assenza di correttivi relativi all'ambito territoriale di operatività dei concorrenti, sarebbe idonea a produrre effetti distorsivi della concorrenza, determinando, in violazione dell'art. 41 Cost., «un (rilevante) diverso trattamento contributivo» di emittenti operanti nello stesso mercato e «caratterizzate da analoghi livelli di efficienza». Questa possibile incongruenza sarebbe stata posta in evidenza anche dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), con la segnalazione n. S3892 (recte: segnalazione AS1660 del 20 maggio 2020).
2.- In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, eccependo, in primo luogo, l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, in riferimento all'art. 77 Cost., e, nel merito, la non fondatezza di tutte le questioni.
2.1.- In punto di ammissibilità, l'interveniente osserva che l'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, ha fornito l'interpretazione autentica del citato art. 4-bis, «in tal modo andando a precisare il contenuto della sua previsione».
Come osservato da questa Corte con la sentenza n. 18 del 2023, «[l]a disposizione interpretativa si limita ad estrarre una delle possibili varianti di senso dal testo della disposizione interpretata e la norma, che risulta dalla saldatura tra le due disposizioni, assume tale significato sin dall'origine, dando luogo ad una retroattività che, nella logica del sintagma unitario, è solo apparente».
Sarebbe evidente che, in applicazione di tale principio - intervenuto l'art. 13, comma 1-bis, che ha interpretato il precedente art. 4-bis - «quest'ultimo si sia "saldato" con il primo, in tal modo venendo a perdere la sua autonomia».
Con riferimento all'art. 4-bis, dunque, la questione di legittimità costituzionale sarebbe priva di rilevanza, avendo ad oggetto una norma confluita nel successivo art. 13, comma 1-bis.
2.2.- Nel merito, la questione sollevata con riferimento all'art. 77 Cost. sarebbe non fondata.
2.2.1.- Il Consiglio di Stato muoverebbe, innanzitutto, da una lettura parziale dell'art. 4-bis: se, da un lato, l'emergenza che ha indotto il legislatore ad intervenire in via di urgenza è quella di provvedere alla «proroga e definizione dei termini di prossima scadenza», dall'altro, la finalità di tale intervento è quella di garantire la continuità, l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa e l'operatività di fondi a fini di sostegno agli investimenti.
Con l'art. 4-bis, come saldato nell'art. 13, comma 1-bis, il legislatore, proprio al fine di garantire la continuità nell'erogazione dei fondi in coerenza con l'applicazione dei criteri meritocratici introdotti dal d.P.R. n. 146 del 2017, avrebbe attribuito forza di legge ad una normazione secondaria, ed esteso, anche per l'annualità 2019, alle emittenti radiofoniche locali il requisito di ammissione inerente al numero dei dipendenti già occupati previsto per le emittenti televisive.
2.2.2.- L'art. 13, comma 1-bis, in tema di investimenti produttivi delle micro, piccole e medie imprese, nel principale intento di «dare continuità alle misure di sostegno», avrebbe interpretato autenticamente il predetto art. 4-bis, chiarendo la natura di normazione primaria del regolamento nello stesso «integralmente riportato», in coerenza con gli obiettivi della disciplina della contribuzione in favore delle emittenti radio e televisive, di cui all'art. 1, comma 163, della legge n. 208 del 2015, che non sarebbero limitati, come sostenuto dal giudice a quo, alla promozione del pluralismo dell'informazione, bensì estesi, anche ai sensi dell'art. 1, comma 1, della legge 26 ottobre 2016, n. 198 (Istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione e deleghe al Governo per la ridefinizione della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell'editoria e dell'emittenza radiofonica e televisiva locale, della disciplina di profili pensionistici dei giornalisti e della composizione e delle competenze del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti. Procedura per l'affidamento in concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale), al sostegno dell'occupazione, al miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti e all'incentivazione dell'uso delle tecnologie innovative.
La funzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione sarebbe quella di raccogliere risorse economiche per lo stimolo dello sviluppo dell'emittenza locale di qualità, garantendone l'adeguamento alla nuova tecnologia digitale nel rispetto del pluralismo dell'informazione.
Andrebbe poi considerato che la Corte dei conti, sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, nella deliberazione 28 dicembre 2015, n. 13, aveva evidenziato come la precedente disciplina dei contributi non prevedesse una loro finalizzazione, apparendo piuttosto funzionale al mero sostegno economico delle emittenti, e come ciò determinasse un elevato numero di contributi, «i quali finiscono per dar luogo ad un aiuto pubblico generico e indifferenziato che - sia pure all'esito di procedure selettive - è anche all'origine di una attribuzione "a pioggia" dei contributi stessi"», ossia di un fenomeno di «polverizzazione delle provvidenze, tale da mettere in luce l'incongruenza dello strumento finanziario utilizzato».
Pertanto, la norma interpretativa censurata sarebbe perfettamente in linea con l'oggetto e le finalità del decreto-legge in cui è stata inserita.
2.3.- Quanto alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost., il rimettente avrebbe escluso la legificazione ad opera dell'art. 4-bis, non potendosi ravvisare «un effetto di incorporazione per il dirimente rilievo che il rinvio è stato effettuato all'intero Regolamento e non anche "a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua"».
Secondo la giurisprudenza costituzionale, l'effetto di incorporazione si produrrebbe soltanto quando la volontà del legislatore di recepire mediante rinvio sia espressa oppure sia desumibile da elementi univoci e concludenti, operando altrimenti una presunzione di rinvio formale agli atti amministrativi.
Nel caso di specie, sarebbe indubbio che l'art. 4-bis abbia inteso recepire integralmente il contenuto normativo del regolamento, con l'effetto di trasformarlo in fonte primaria.
Il più volte citato art. 4-bis, infatti, non si sarebbe limitato ad indicare la fonte destinata a disciplinare la contribuzione delle emittenti radio e televisive, ossia il d.P.R. n. 146 del 2017, ma, in modo inequivoco, ne avrebbe richiamato l'intero contenuto «da intendersi qui integralmente riportato», così «inglobando» le disposizioni regolamentari all'interno della fonte legislativa.
Lo stesso Consiglio di Stato, con le sentenze numeri 7878 e 7880 del 2022, avrebbe ravvisato nell'art. 4-bis la presenza di «elementi testuali che sembrano deporre per la natura ricettizia del rinvio» al d.P.R. n. 146 del 2017.
L'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, avrebbe poi fugato ogni dubbio circa la natura del rinvio operato dall'art. 4-bis, precisando che esso, «nella parte in cui riporta integralmente» il d.P.R. n. 146 del 2017, «ha inteso attribuire valore di legge a tutte le disposizioni ivi contenute a decorrere dalla sua entrata in vigore».
La disciplina censurata nemmeno avrebbe violato il giudicato amministrativo, poiché la disposizione di interpretazione autentica di cui all'art. 13, comma 1-bis, avrebbe solo chiarito la portata della norma recata dal precedente art. 4-bis: la legificazione sarebbe stata operata con la legge di conversione del d.l. n. 91 del 2018, allorquando non era ancora intervenuto alcun giudicato, in quanto le decisioni del Consiglio di Stato richiamate dal rimettente sarebbero state pubblicate solo successivamente, in data 9 settembre 2022.
2.4.- Quanto alla prospettata violazione degli artt. 3, 24, 103, 111, commi primo e secondo, e 113 Cost., il Presidente del Consiglio dei ministri ribadisce, in primo luogo, che l'attribuzione della valenza primaria alle norme del regolamento è avvenuta con l'art. 4-bis, quindi antecedentemente alle pronunce del Consiglio di Stato.
Con quest'ultime, peraltro, il giudice amministrativo ha annullato ex tunc le sole graduatorie relative agli anni 2016 e 2017, affermando espressamente che il dato testuale dell'art. 4-bis sembra deporre per la natura recettizia del rinvio al regolamento.
Sulla stessa linea interpretativa si sarebbe posto il TAR Lazio, quarta sezione, con la sentenza 12 giugno 2023, n. 9966, sottolineando come i precedenti del Consiglio di Stato si riferissero a domande processuali proposte prima della legificazione delle norme regolamentari.
Tuttavia, nei successivi giudizi riferiti alle graduatorie per l'anno 2022, lo stesso TAR Lazio, con una serie di pronunce poi appellate innanzi al giudice a quo, aveva ribaltato tale orientamento, affermando che l'art. 4-bis non sarebbe operante al di fuori dell'annualità 2019, con la conseguenza che l'anno 2022 sarebbe stato regolato dalla fonte regolamentare («già colpita») e, in particolare, dal suo scalino preferenziale.
È su tale incertezza giuridica che si sarebbe inserita la disposizione di interpretazione autentica di cui all'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, al fine di ristabilire un'interpretazione dell'art. 4-bis più aderente all'originaria volontà del legislatore.
2.5.- Non fondata sarebbe anche la dedotta censura di violazione degli artt. 3, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU.
L'intervento del legislatore sarebbe avvenuto «in funzione ermeneutica», al fine di risolvere il ricordato conflitto interpretativo giurisprudenziale: esso si sarebbe reso necessario per l'esigenza di garantire la certezza del diritto come valore fondante - e quasi «prerequisito» - del sistema di tutela dei diritti fondamentali, come sancito dall'art. 6 CEDU.
Sarebbe poi utile ribadire che il censurato art. 4-bis, non avendo natura retroattiva, non ha inciso sui giudizi in corso, ossia quelli relativi alle annualità 2016 e 2017, in seguito decisi dalle citate sentenze del Consiglio di Stato del 2022.
2.6.- Non fondata, infine, sarebbe anche l'ultima questione di legittimità costituzionale sollevata, in via subordinata, in riferimento agli artt. 2, 3, 21, 41 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 10 e 14 CEDU.
Il Presidente del Consiglio dei ministri deduce che i contributi in esame non sono finalizzati «alla sola tutela del pluralismo», ma anche al sostegno dell'occupazione nel settore, al miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti e all'incentivazione dell'uso di tecnologie innovative, come affermato tanto dall'art. 1, comma 163, della legge n. 208 del 2015, quanto dall'art. 1, comma 1, della legge n. 198 del 2016, che ha concretamente istituito il Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione.
Andrebbe altresì rammentato che la complessiva riforma del settore è intervenuta a seguito della citata deliberazione della Corte dei conti n. 13 del 2015 e, proprio per evitare il fenomeno dei contributi "a pioggia" ivi stigmatizzato, avrebbe previsto regole diverse per l'assegnazione dei benefici economici, «tarandosi l'entità del contributo da erogare su criteri che puntano a sostenere l'occupazione, l'innovazione tecnologica, la qualità dei programmi e dell'informazione, anche sulla base dei dati di ascolto».
Essa, poi, non determinerebbe ingiustificate disparità di trattamento e non inciderebbe sul pluralismo informativo, dal momento che le procedure di selezione sono aperte a tutte le emittenti, ed essendo la posizione occupata in graduatoria riflesso della loro capacità imprenditoriale di realizzare le finalità indicate dal legislatore.
Ne sarebbe un esempio l'emittente Videolina, che, pur essendo una emittente locale di modeste dimensioni operante nella poco popolosa Regione Sardegna, si è collocata al secondo posto della graduatoria relativa all'anno 2019. Ulteriore riprova sarebbe data dal fatto che altre emittenti operanti in «piccole regioni» si sono collocate nelle prime cento posizioni.
Lo scalino preferenziale, oltre a rispettare il principio del pluralismo informativo, consentirebbe il riparto delle risorse tra i diversi operatori su base meritocratica, scoraggiando la mera occupazione di spazio frequenziale, priva di offerta di qualità.
3.- Nei giudizi iscritti ai numeri 79 e 96 reg. ord. 2024 si sono costituite, rispettivamente, le parti appellate nei giudizi a quibus Pirenei srl e Beacom srl.
Nei giudizi iscritti ai numeri 80, 81, 82, 88, 89, 90, 93 e 97 reg. ord. 2024, si sono costituite, rispettivamente, le parti appellate nei giudizi a quibus R.B.1 Teleboario SB srl e altri, Accademia di professioni e cultura europea srl, Esperia TV srl, Mediasix srl, Teleregione srl, Canale 7 srl, TV1 srl e Delta Tv srl.
Nei giudizi iscritti ai numeri 83, 84, 85, 87, 92 e 95 reg. ord. 2024 si sono costituite, rispettivamente, le parti appellate nei giudizi a quibus Multi media coop. soc. coop. a rl, Telenord srl, REI srl, Gruppo Air srl e Media e servizi communication srls.
Tutte le menzionate parti hanno sviluppato argomentazioni analoghe a quelle svolte dal Consiglio di Stato e instato per la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate.
4.- In tutti i giudizi si sono costituite le parti appellanti nei giudizi a quibus Espansione srl, Editrice TNV spa, Retesette spa, Rete 7 srl, RTV 38 spa, Telelombardia srl, Teleradio diffusione Bassano srl, Canale 9 srl e Videolina spa, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.
4.1.- Premettono le parti da ultimo menzionate che il d.P.R. n. 146 del 2017, emanato in attuazione dell'art. 1, comma 163, della legge n. 208 del 2015, rappresenta il punto di arrivo del processo di riforma della disciplina del sostegno alle emittenti radiofoniche e televisive in ambito locale, in precedenza caratterizzata dalla distribuzione di un contributo statale a fondo perduto stanziato annualmente ai sensi dell'art. 45, commi 3 e 4, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo).
La nuova normativa supererebbe la precedente logica della «ripartizione "a pioggia" dei contributi su base regionale», censurata dalla Corte dei conti, prevedendo una graduatoria unica nazionale, con l'eliminazione delle procedure che prevedevano l'istruttoria da parte dei Comitati regionali per le comunicazioni (Co.Re.Com), la redazione e approvazione di graduatorie su base regionale e un successivo decreto ministeriale di riparto delle risorse tra le regioni (come chiarito nel parere interlocutorio del Consiglio di Stato, sezione consultiva per gli atti normativi, 26 maggio 2017, n. 1228, reso sullo schema di regolamento).
In particolare, il citato d.P.R. - proseguono le parti - ha stabilito criteri più selettivi e aderenti all'obiettivo di migliorare la qualità dei programmi radio-televisivi, scoraggiando la mera occupazione di «spazio "frequenziale"», priva di offerta di qualità e soddisfacendo diversi interessi di carattere generale, ossia quelli del pluralismo dell'informazione, dello sviluppo dell'occupazione nel settore e della qualità del servizio offerto agli utenti, anche mediante l'utilizzo di tecnologie innovative. Più nel dettaglio, l'art. 6 indica, quali criteri, accanto al numero medio dei dipendenti e dei giornalisti effettivamente applicati all'attività di fornitore di servizi media audiovisivi (comma 1, lettere a e b), i costi sostenuti per spese in tecnologie innovative (lettera e), e, con riferimento alle emittenti televisive, la media ponderata dell'indice di ascolto medio giornaliero basato sui dati del biennio precedente, nonché il numero dei contatti netti giornalieri mediati sui dati del biennio precedente rilevati dall'Auditel (comma 1, lettera c). Al fine, poi, di migliorare i livelli qualitativi dei contenuti dell'informazione forniti, l'art. 6, comma 2, introduce il contestato scalino preferenziale. Il regolamento, ancora, prevede l'attribuzione a ciascuno di tali criteri «di uno specifico "peso" e di uno specifico punteggio», riportati nelle Tabelle 1 e 2 allegate, dando prevalenza a quello relativo al numero medio dei dipendenti e dei giornalisti.
L'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito - nell'estendere, per l'anno 2019, alle emittenti radiofoniche locali il regime transitorio relativo al requisito di ammissione inerente al numero di dipendenti occupati già previsto in favore delle emittenti televisive locali dall'art. 4, comma 1, lettera a), del d.P.R. n. 146 del 2017 - avrebbe recepito integralmente tale d.P.R., «le cui norme hanno così conseguito pro futuro il medesimo valore e la medesima forza delle norme di legge», a decorrere dalla data di entrata in vigore del predetto d.l. n. 91 del 2018, come convertito. Tanto sarebbe poi stato chiarito, «in modo definitivo e incontrovertibile», dall'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito.
4.2.- Le parti proseguono osservando che i giudizi a quibus scaturiscono dall'impugnazione di alcune sentenze del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio che avevano accolto parzialmente i ricorsi proposti da emittenti televisive locali collocatesi dopo i primi cento posti della graduatoria per l'anno 2022, che ne lamentavano l'illegittimità nella parte in cui l'amministrazione aveva applicato la disciplina dello scalino preferenziale.
Con tali sentenze, il TAR Lazio aveva condannato l'amministrazione alla «rideterminazione, in favore dei concorrenti già graduati, dei contributi dovuti per l'anno 2022, con destinazione del 100% dello stanziamento annuale in favore della totalità di essi e conseguente liquidazione del contributo, a ciascuno di essi spettante, in proporzione del rispettivo punteggio per come riportato nella graduatoria approvata».
4.3.- La decisione del giudice di primo grado si sarebbe basata sull'erroneo assunto di fondo che l'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, non trovi applicazione «fuori dall' (e, quindi, successivamente all') annualità 2019"» e, dunque, che le norme del regolamento non avessero assunto valore di legge a far data dal 2018.
Le ordinanze di rimessione, dal canto loro, muoverebbero dal seguente «duplice equivoco di fondo»: i) la disciplina dei criteri di riparto dei contributi a sostegno delle emittenti radiofoniche e televisive in ambito locale contenuta nel d.P.R. n. 146 del 2017 determinerebbe un vulnus al principio del pluralismo informativo; ii) il menzionato art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, «avrebbe "legificato"» il regolamento.
Andrebbe rammentato che la nuova disciplina muove dall'esigenza di superare la precedente, oggetto di censura da parte della Corte dei conti. Lo stesso art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, nel recepire integralmente le previsioni del d.P.R. n. 146 del 2017, avrebbe ribadito che esso è stato adottato «in attuazione degli obiettivi di pubblico interesse» di cui all'art. 1, comma 163, della legge n. 208 del 2015.
Nella stessa direzione andrebbero i lavori preparatori, posto che, in occasione della prima lettura al Senato della Repubblica (nella seduta n. 31 del 3 agosto 2018), si era sottolineata l'importanza della disposizione, volta a «evitare un rischio di blocco di fondi per le emittenti locali», nonché la rispondenza delle iniziative assunte nella precedente legislatura all'intento di procedere ad una «riqualificazione del settore dell'emittenza radiotelevisiva locale», «attraverso l'introduzione di alcuni parametri meritocratici», sì da consentire l'attribuzione dei contributi «sulla base dell'effettivo servizio di qualità svolto da molte emittenti».
Conclusivamente, l'intenzione del d.P.R. n. 146 del 2017 e dell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, che quel d.P.R. ha integralmente recepito, sarebbe stata quella di superare le criticità emerse dall'applicazione della precedente disciplina. In particolare, la previsione dello scalino preferenziale troverebbe la sua logica spiegazione proprio in detta ratio, premiando maggiormente le imprese più competitive e innovative e lasciando comunque una quota di risorse alle imprese che lo sono meno, in piena conformità al principio del pluralismo informativo.
4.4.- Ciò posto, secondo le parti, occorrerebbe chiarire la forza e il valore giuridico assunti dalle norme del regolamento successivamente all'entrata in vigore del d.l. n. 91 del 2018.
L'affermazione, operata dal rimettente, di un'avvenuta legificazione del regolamento sarebbe «viziata da una significativa imprecisione concettuale e dommatica, poiché parlare di "legificazione" degli atti amministrativi di che trattasi è improprio».
La legificazione non potrebbe mai investire l'atto, ma concernere solo la norma, nel senso che, mentre è «giuridicamente impraticabile» l'attribuzione di rango legislativo a un regolamento, sarebbe invece «giuridicamente ammissibile e legittimo l'assorbimento ovvero il recepimento delle norme di un regolamento in una fonte primaria, con la conseguenza che quelle norme (non la loro originaria fonte!) ottengono il trattamento giuridico delle norme di fonte primaria».
Tanto sarebbe accaduto nel caso di specie, avendo il più volte citato art. 4-bis conferito il medesimo valore e la medesima forza delle norme di legge alle disposizioni del regolamento. Che tale sia stata la volontà del legislatore emergerebbe sia dal dato testuale che dai lavori preparatori.
Quanto al dato testuale, la disposizione conterrebbe l'inciso a tenore del quale il d.P.R. n. 146 del 2017 è «da intendersi qui integralmente riportato»: si tratterebbe di una formula originale non rintracciabile in altre fonti primarie, la cui peculiarità meriterebbe, dunque, «la massima attenzione».
Due, in particolare, sarebbero gli elementi testuali significativi.
Il primo sarebbe l'uso dell'avverbio «integralmente», dal che si ricaverebbe, in maniera inequivoca, che ciò che viene «riportato» è l'intero contenuto normativo del regolamento.
Il secondo sarebbe l'uso del participio «riportato», che, altrettanto inequivocabilmente, non potrebbe considerarsi equivalente a «richiamato» o «recepito»: «"[q]ui [...] riportato", infatti, significa che "qui" (cioè nel d.l. n. 91 del 2018) le prescrizioni normative del Regolamento trovano ormai la loro sede anche formale, nel senso che detto participio ("riportato") sta in luogo della trascrizione letterale di quelle prescrizioni».
Andrebbe poi evidenziato che, solo successivamente al conferimento della forza di legge alle norme del regolamento, il Consiglio di Stato, con le menzionate sentenze numeri 7878, 7880 e 7881 del 2022, ha dichiarato l'illegittimità dello scalino preferenziale in relazione all'assegnazione dei contributi dovuti per gli anni 2016 e 2017.
Un incontrovertibile riscontro a tale ricostruzione si troverebbe, infine, nell'art. 13, comma 1- bis, del d.l. n. 145 del 2023, inserito in sede di conversione, a mente del quale l'inciso «da intendersi qui integralmente riportato» (non "legificato") ha conferito a tutte le disposizioni del regolamento il valore e la forza delle norme di legge a far data dal giorno successivo alla sua pubblicazione.
4.5.- Nel merito, certamente non fondata sarebbe, in primo luogo, la censura di violazione dell'art. 77 Cost., poiché entrambe le disposizioni oggetto del dubbio di costituzionalità sarebbero omogenee rispetto al contenuto dei rispettivi decreti-legge.
Deducono le parti che, secondo la giurisprudenza costituzionale, l'omogeneità di un decreto-legge deve essere apprezzata in prospettiva teleologica; la legge di conversione ben può inserire nuove disposizioni nel corpo del decreto-legge; tali disposizioni, tuttavia, devono essere omogenee alla ratio dominante del decreto-legge oggetto di conversione; la disomogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione vìola l'art. 77 Cost. solo in quei casi estremi in cui sussista un'evidente o manifesta mancanza di ogni nesso d'interrelazione.
Sia l'art. 4-bis che l'art. 13, comma 1-bis, rispetterebbero la ratio dominante dei decreti-legge nei quali si inseriscono.
Quanto al primo, la ratio del d.l. n. 91 del 2018, espressa nel suo preambolo, sarebbe quella «di provvedere alla proroga e definizione di termini di prossima scadenza al fine di garantire la continuità, l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa e l'operatività di fondi a fini di sostegno agli investimenti».
L'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, nel recepire integralmente il contenuto normativo del regolamento, prevede in favore delle emittenti radiofoniche locali, per l'anno 2019, data l'imminente scadenza del termine per presentare le domande di ammissione ai contributi, l'estensione del regime transitorio relativo al requisito di ammissione inerente al numero di dipendenti occupati già previsto, per quello stesso anno, per le emittenti televisive locali dall'art. 4, comma 1, lettera a), del regolamento.
Di qui la sua conformità alla ratio del d.l. n. 91 del 2018: la disposizione censurata infatti, nel recepire integralmente il contenuto normativo del regolamento, provvede a prorogare un termine di prossima scadenza al fine di garantire l'operatività del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione.
La ratio del d.l. n. 145 del 2023, espressa nel suo preambolo, sarebbe, invece, quella «di prevedere misure per esigenze finanziarie e fiscali indifferibili», nonché «di adottare disposizioni in favore degli enti territoriali, in materia di pensioni e di rinnovo dei contratti pubblici, in materia di investimenti, istruzione e di sport, nonché in materia di tutela del lavoro e della sicurezza».
La ratio dell'art. 13, comma 1-bis, sarebbe conforme a quella del relativo decreto-legge, poiché la disposizione in parola, assicurando stabilità alle misure di sostegno economico già erogate dall'amministrazione in favore delle emittenti radiofoniche e televisive locali, tutela non solo gli investimenti da esse già effettuati, ma la loro stessa sopravvivenza.
Né alcun rilievo potrebbe avere l'apposizione della fiducia da parte del Governo su entrambi i disegni di legge di conversione, attesa la piena legittimità di tale strumento ripetutamente affermata dalla giurisprudenza costituzionale.
4.6.- Non fondata sarebbe anche la censura di violazione degli artt. 3, 24, 103, 111, primo e secondo comma, e 113 Cost.
Il rimettente assume la contrarietà delle disposizioni censurate ai parametri evocati, muovendo dalla premessa che l'avvenuto conferimento del valore e della forza di legge alle norme del regolamento si porrebbe in contrasto con le menzionate sentenze del Consiglio di Stato numeri 7878, 7880 e 7881 del 2022, recanti l'annullamento dell'art. 6, comma 2, del regolamento medesimo.
Tale presupposto, tuttavia, sarebbe errato.
Come già rilevato, infatti, l'attribuzione della forza di legge alle norme regolamentari decorrerebbe dall'entrata in vigore del d.l. n. 91 del 2018 e rileverebbe, pertanto, per l'anno 2018 e le annualità successive. Prima di allora, le norme del regolamento avevano forza e valore meramente secondari e, dunque, potevano essere oggetto di annullamento da parte del giudice amministrativo. Le citate sentenze del Consiglio di Stato sono intervenute solo nel 2022 e si sono pronunciate unicamente su contributi dovuti per gli anni 2016 e 2017.
Sarebbe allora evidente che non vi è stata alcuna violazione del giudicato amministrativo, formatosi successivamente all'avvenuto conferimento della forza di legge alle norme regolamentari ed avente efficacia limitatamente alle graduatorie relative agli anni 2016 e 2017.
Tanto emergerebbe, peraltro, dall'attenta lettura delle medesime sentenze. Lo stesso Consiglio di Stato, infatti, si sarebbe interrogato sulla conformità dell'accertamento dell'illegittimità dell'art. 6, comma 2, del regolamento al già avvenuto conferimento del valore e della forza di legge alle sue disposizioni, affermando che: a) l'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, «pure contenendo elementi testuali che sembrano deporre per la natura ricettizia del rinvio al D.P.R. n. 146 del 2017, non pare abbia prodotto effetti retroattivi»; b) «il legislatore [...] ha espressamente previsto che il relativo regolamento dovesse "intendersi qui integralmente riportato", in tale modo sembrando operare un recepimento della relativa disciplina secondaria»; c) tale recepimento è stato operato, tuttavia, al fine di estendere il regime transitorio all'anno 2019, «e dunque, pro futuro, in relazione alla disciplina da applicare per la successiva annualità 2019»; d) di conseguenza, «rilevando nell'odierno giudizio le annualità 2016 e 2017 e risultando le stesse ancora soggette alla disciplina regolamentare - che pure ove legificata, lo sarebbe stato solo pro futuro - non avrebbe potuto dichiararsi l'improcedibilità del ricorso di prime cure».
Peraltro, anche laddove si ravvisasse un contrasto fra il suddetto giudicato e il conferimento della forza di legge alle norme del regolamento, continuerebbe a non sussistere la dedotta violazione dei parametri evocati: il legislatore è intervenuto ad attribuire forza di legge alle norme del regolamento nel 2018 e, dunque, non solo prima della formazione del giudicato sull'illegittimità dell'art. 6, comma 2, del regolamento, ma anche ben prima delle stesse sentenze del Consiglio di Stato.
Ad essere viziate sarebbero semmai quest'ultime, avendo dichiarato l'illegittimità di una norma regolamentare cui era già stata conferita forza primaria, «non potendosi richiedere al legislatore di non porsi in contrasto con un giudicato che ancora non s'era formato».
4.7.- Parimenti non fondata sarebbe la dedotta censura di violazione degli art. 3, 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, per avere le disposizioni censurate indebitamente inciso sui giudizi in corso.
L'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, non avrebbe affatto inciso sui giudizi avverso le graduatorie relative agli anni 2016 e 2017, pendenti al momento della sua adozione, spiegando efficacia unicamente pro futuro.
Quanto all'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, esso - proseguono le parti - reca una norma di interpretazione autentica, dettata a distanza di soli cinque anni dall'entrata in vigore della norma interpretata. In quanto interpretativa, essa è retroattiva e dunque incide sui giudizi in corso. Tale incidenza, tuttavia, sarebbe legittima, poiché il legislatore avrebbe attribuito all'art. 4-bis un significato già estraibile dal testo originario della norma interpretata.
Evidente, poi, sarebbe la sussistenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo. Infatti, al momento dell'adozione dell'art. 13, comma 1-bis, il TAR Lazio, nelle sentenze impugnate nei giudizi a quibus, aveva espressamente escluso che l'art. 4-bis avesse conferito forza di legge alle norme del regolamento; al contrario, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 7880 del 2022, aveva affermato la loro legificazione pro futuro ad opera del medesimo art. 4-bis.
Pienamente sussistenti, poi, sarebbero i motivi imperativi di interesse generale atti a giustificare l'intervento legislativo, data la necessità non solo di tutelare il principio di certezza del diritto, ma altresì di assicurare - come chiarito nella stessa norma di interpretazione autentica - continuità alle misure di sostegno in favore delle emittenti locali più meritevoli.
Non rileverebbe, invece, che parte dei giudizi pendenti dinanzi al giudice rimettente sia un'amministrazione statale, poiché essa è parte «in posizione neutrale, difensiva unicamente della corretta interpretazione della norma». Non si tratterebbe, infatti, di giudizi che comportano maggiori esborsi per lo Stato: le somme erogate rimangono invariate, «ciò che muta è la mera allocazione delle stesse».
4.8.- Non fondata, infine, sarebbe anche l'ultima questione di legittimità costituzionale, sollevata, in via subordinata, in riferimento agli artt. 2, 3, 21 41 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 10 e 14 CEDU.
Nella disciplina dei criteri di riparto e delle procedure di erogazione delle risorse del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione verrebbero in rilievo più interessi costituzionalmente rilevanti, che troverebbero un ragionevole bilanciamento nell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito.
Il meccanismo dello scalino preferenziale non solo non vulnererebbe il principio del pluralismo, ma sarebbe idoneo a soddisfare in pieno le sue esigenze, rimediando «ai vizi di un precedente sistema che il remittente, invece, vorrebbe inopinatamente reintrodurre».
La ratio ispiratrice di tutto il regolamento e, in particolare, del suo art. 6, comma 2, sarebbe quella di premiare le imprese più competitive e innovative (le prime cento), lasciando comunque una quota di risorse alle imprese che lo sono meno. Tale scelta sarebbe del tutto ragionevole e in linea con l'idea di porre al centro del sistema gli obiettivi del sostegno dell'occupazione nel settore, del miglioramento dell'offerta e dell'incentivazione delle tecnologie, superando il criterio dei contributi "a pioggia", stigmatizzato anche dalla Corte dei conti.
Il rimettente, per contro, vorrebbe «assicurare che, in ogni ambito regionale, vi sia un adeguato finanziamento pubblico in favore di un numero congruo di operatori»: vorrebbe, cioè, imporre un criterio di distribuzione della contribuzione pubblica «del tutto arbitrario».
Ancora, anche a volere seguire l'errato ragionamento dell'ordinanza di rimessione, il giudice a quo ometterebbe di considerare l'esistenza delle emittenti televisive «comunitarie», anch'esse presenti su tutto il territorio nazionale e destinatarie, ai sensi degli artt. 2 e 7 del regolamento, della contribuzione pubblica senza l'applicazione dello scalino. Ove, invece, il rimettente avesse considerato anche tali emittenti, avrebbe registrato l'auspicato «numero congruo di operatori, necessario per garantire [un] concorso di voci». Conteggiando anche quelle comunitarie, risulterebbe, infatti, che nel 2023 non si sono mai finanziate meno di tre emittenti per ciascuna regione.
Che si tratti, infine, di una scelta ragionevole «e non distonica, nemmeno in astratto», con il principio del pluralismo informativo sarebbe dimostrato, d'altro canto, dagli «effetti concreti» che essa ha prodotto e che si evincono dall'esame delle graduatorie pubblicate negli anni sul sito del Ministero. Da tale esame emergerebbe una distribuzione uniforme sul territorio nazionale dei contributi concessi alle prime cento emittenti, incentivate in ragione della loro maggiore competitività e innovatività, nonché una «sovrarappresentazione» proprio di quelle regioni che l'ordinanza di rimessione temeva restassero «sottorappresentate o perfino escluse dalla contribuzione pubblica». Basterebbe considerare, infatti, che nel 2023 nella Regione Umbria è stata finanziata un'emittente televisiva ogni 40.685 abitanti, mentre nella più popolosa Regione Lombardia è stata finanziata un'emittente televisiva ogni 477.168 abitanti.
La presenza dello scalino preferenziale, poi, non avrebbe creato un blocco allo sviluppo delle emittenti non premiate. Al contrario, «dall'esame dell'impatto dell'applicazione della disciplina contenuta nel regolamento nelle graduatorie dal 2016 al 2023» emergerebbe, con riferimento alle emittenti televisive collocate oltre la centesima posizione, un costante aumento dell'occupazione e un incremento esponenziale degli ascolti, «proprio perché esse si sono impegnate a migliorare qualitativamente aspirando a ottenere il contributo pubblico».
Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che alcune delle emittenti che hanno impugnato le graduatorie relative ad anni precedenti al 2022 hanno migliorato il loro posizionamento, fino a classificarsi nei primi cento posti di quella relativa a tale ultimo anno.
5.- Nei giudizi iscritti ai numeri 79, 83, 84, 85, 87, 92 e 96 reg. ord. 2024 si è costituita l'Associazione per la libertà e il pluralismo dell'informazione Radio TV (ALPI), parte appellante nei giudizi a quibus, eccependo l'inammissibilità delle questioni e, nel merito, la loro non fondatezza.
5.1.- Le «prime tre questioni» sarebbero inammissibili sotto diversi, comuni profili.
L'ordinanza di rimessione sarebbe, in primo luogo, affetta da intrinseca contraddittorietà.
Secondo il rimettente, l'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, potrebbe avere natura interpretativa dell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, oppure valenza innovativa.
Pur esprimendo una preferenza per la tesi interpretativa, il Consiglio di Stato afferma che la scelta tra le due alternative non cambierebbe l'esito, poiché in ogni caso la disposizione sarebbe retroattiva. Questa affermazione, però sarebbe erronea, poiché «ognuna delle due opzioni ha conseguenze giuridiche differenti».
Ancora, il giudice a quo affermerebbe, in maniera perplessa e contraddittoria, da un lato, che l'art. 4-bis non ha operato un legificazione delle norme regolamentari; dall'altro, che l'art. 13, comma 1-bis, contiene una norma di interpretazione autentica, attraverso la quale si è prodotto l'effetto dichiarativo della legificazione realizzata dall'art. 4-bis.
L'opzione per una delle due soluzioni, in realtà, non sarebbe indifferente, poiché «diversi sono gli effetti giuridici [...] di una "legificazione" avvenuta nel 2018 o nel 2023 rispetto al profilo di rilevanza delle questioni sollevate, rispetto alle eventuali interferenze nei giudizi in corso, rispetto alla cosa giudicata, rispetto alla valutazione delle disposizioni dubitate di costituzionalità alla luce dei parametri costituzionali richiamati dal giudice a quo».
L'intrinseca contraddittorietà dell'ordinanza di rimessione minerebbe irrimediabilmente l'iter logico argomentativo posto a fondamento della valutazione di non manifesta infondatezza delle questioni, donde la loro inammissibilità.
Le questioni sarebbero inammissibili anche perché la rappresentazione di più opzioni ermeneutiche, peraltro contraddittorie e perplesse, imporrebbe a questa Corte una scelta che non le spetta, non svolgendo essa «funzioni di avallo interpretativo o vicarie a livello ermeneutico».
5.2.- La questione di legittimità costituzionale con cui il rimettente lamenta la violazione dell'art. 77 Cost. sarebbe, in primo luogo, inammissibile in relazione ad entrambe le disposizioni censurate.
5.2.1.- In relazione all'art. 4-bis, l'ordinanza sarebbe affetta da una errata ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
Il rimettente, infatti, non si sarebbe avveduto di due elementi normativi centrali: il titolo del decreto-legge n. 91 del 2018 e la natura regolamentare della disposizione contenente il termine di scadenza da prorogare.
La mancata considerazione dei due cennati elementi e della «loro interconnessione» renderebbe la questione inammissibile anche per via dell'omesso tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme.
Ciò premesso, ALPI, ai fini dell'esame del merito della questione che ruota attorno al dedotto difetto di omogeneità, osserva che il d.l. n. 91 del 2018 è intitolato «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative» e il suo preambolo recita: «[r]itenuta la straordinaria necessità ed urgenza di provvedere alla proroga e definizione di termini di prossima scadenza al fine di garantire la continuità, l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa e l'operatività di fondi a fini di sostegno agli investimenti, nonché di provvedere alla proroga di termini per il completamento delle operazioni di trasformazioni societarie e di conclusione degli accordi di gruppo previste dalla normativa in materia di banche popolari e di banche di credito cooperativo».
Con l'art. 4-bis, il legislatore, in sede di conversione, avrebbe individuato «un termine di prossima scadenza che, tuttavia, non è previsto da una disposizione legislativa ma da una disposizione regolamentare» (l'art. 4, comma 2, ultimo periodo, del d.P.R. n. 146 del 2017). Il citato art. 4 del regolamento - prosegue ALPI - disciplina i requisiti di ammissione ai contributi per le emittenti radiofoniche e televisive locali, prevedendo un regime transitorio dal 2016 al 2018, «normando anche per il 2019 e dal 2020 in poi». Per le emittenti radiofoniche, in particolare, «per un evidente errore, vi è una manifesta discrasia del regime transitorio per il 2019 e per gli anni dal 2020; il termine in scadenza è a fine 2018 per il loro regime transitorio».
Come emergerebbe dai lavori preparatori, «[e]videnti contrasti e blocchi a livello burocratico» avrebbero quindi reso necessaria ed urgente l'elevazione della norma regolamentare di cui all'art. 4 del d.P.R. n. 146 del 2017, «contenente un termine in scadenza a fine 2018, a rango di norma primaria per poterla prorogare». A quel punto sarebbe risultato non solo «più che ragionevole e coerente, ma addirittura necessario, elevare le restanti norme regolamentari a rango di norme primarie onde evitare un ibrido, in realtà una chimera. Un corpo normativo deformato».
Inoltre, dagli stessi lavori preparatori emergerebbe la forte esigenza di dare alla disciplina considerata una stabilità normativa di rango primario, «a seguito di un contesto burocratico ministeriale registrato come ostativo e/o inidoneo». Al riguardo, in Commissione affari costituzionali del Senato della Repubblica, si sarebbe, infatti, chiarito che l'emendamento proposto «riguarda la possibilità di poter finalmente sbloccare i fondi per le emittenti televisive locali, vicine al territorio, che nel corso degli anni hanno avuto delle difficoltà», aggiungendo che «queste risorse esistono» e che «[s]i tratta solo di inserire questa proroga per far sì che non ci siano problemi nell'erogazione, alla luce anche di tante questioni burocratiche».
Dalle considerazioni svolte risulterebbe evidente che la legificazione operata in sede di conversione del d.l. n. 91 del 2018 avrebbe «una omogeneità con l'originaria versione» del decreto-legge sotto plurimi profili.
Sarebbe omogenea rispetto al contenuto, che consiste nella proroga di termini in scadenza; nonché alla finalità di assicurare «l'operatività di fondi a fini di sostegno agli investimenti», tra i quali rientrerebbe, a pieno titolo, il Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione.
5.2.2.- In relazione alla seconda disposizione censurata, ALPI osserva che essa si inserisce nel d.l. n. 145 del 2023, il cui titolo è «Misure urgenti in materia economica e fiscale, in favore degli enti territoriali, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili», e il cui preambolo menziona l'urgenza, tra le altre, di adottare disposizioni «in materia di investimenti».
L'art. 13, sotto la rubrica «Investimenti produttivi delle micro, piccole e medie imprese», prevede, in particolare, al comma 1, il rifinanziamento delle misure di sostegno, appunto, all'investimento delle micro, piccole e medie imprese.
Il rimettente avrebbe escluso l'omogeneità tra il comma 1-bis, inserito in sede di conversione, e il decreto-legge, con la tanto «semplicistica quanto erronea affermazione» che le risorse destinate alle emittenti locali non sono volte a sostenere «investimenti produttivi», essendo diverse le finalità del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione, «primariamente rivolte a sostenere il pluralismo dell'informazione» medesima.
Siffatta affermazione sarebbe «apodittica», perché «carente di un adeguato approfondimento e correlata adeguata motivazione e comunque non preceduta dal doveroso tentativo di reperire una norma costituzionalmente conforme».
Ove il rimettente avesse "approfondito" la questione, si sarebbe reso conto, invero, che «vi è un chiaro fil rouge» fra le finalità del Fondo di cui al d.P.R. n. 146 del 2017 e quelle di cui al d.l. n. 145 del 2023.
Il d.P.R. in questione è stato adottato in attuazione dell'art. 1, comma 163, della legge n. 208 del 2015, secondo cui le risorse del Fondo vanno ripartite per la realizzazione di obiettivi di pubblico interesse, quali la promozione del pluralismo dell'informazione, il sostegno dell'occupazione nel settore, il miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti e l'incentivazione dell'uso di tecnologie innovative.
Si tratterebbe di contributi erogati per investimenti produttivi di servizi televisivi e radiofonici, volti a finanziare, tra l'altro, l'aumento dei dipendenti, la formazione del personale, l'acquisto di macchinari e di software.
Anche nel caso dell'art. 13, comma 1-bis, dunque, plurimi sarebbero gli indicatori dell'omogeneità «del testo originario e del testo definito in sede di conversione».
5.3.- La questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di ragionevolezza sarebbe parimenti inammissibile, prima che non fondata.
Secondo il giudice a quo, l'art. 4-bis non avrebbe legificato le norme di cui al d.P.R. n. 146 del 2017 e tanto sarebbe stato affermato nella sentenza del medesimo Consiglio di Stato n. 7880 del 2022, passata in giudicato e relativa (al pari della sentenza n. 7881 del 2022) ai contributi per le annualità 2016 e 2017.
In tali sentenze, tuttavia, non solo la legificazione non sarebbe stata esclusa, ma, al contrario, si sarebbero «ritenuti esistenti elementi a sostegno della stessa». Esse, nel valutare l'annullabilità delle norme regolamentari e degli atti amministrativi esecutivi limitatamente alle annualità pregresse, si sarebbero correttamente limitate ad escludere la portata retroattiva della legificazione realizzata dal d.l. n. 91 del 2018, come convertito.
Sarebbe questo il «primo erroneo presupposto normativo» da cui ha tratto origine la seconda questione di legittimità costituzionale.
Un secondo «erroneo presupposto normativo» risiederebbe nell'avere il rimettente ritenuto che l'art. 4-bis abbia operato un rinvio non recettizio, con esclusione della legificazione.
La giurisprudenza costituzionale richiamata dal rimettente a supporto di tale conclusione, tuttavia, affermerebbe solo che «il rinvio è formale quando si fa espresso richiamo alla fonte perché si vuole individuare l'atto di produzione della disciplina». Sarebbe evidente, per contro, che il rinvio operato dall'art. 4-bis è alle norme e non alla fonte: che poi «un rinvio faccia richiamo a uno, a tre o a venti norme è un elemento di natura prettamente quantitativ[a] che non incide sulla qualità del rinvio» e non esclude, quindi, la sua natura recettizia.
Ancora erronea sarebbe l'affermazione che sia stato il successivo art. 13, comma 1-bis, agendo retroattivamente quale disposizione di interpretazione autentica, a legificare (in violazione dell'art. 3 Cost.) il regolamento. L'art. 13, comma 1-bis, ha per contro affermato che la legificazione delle norme regolamentari «è venuta ad esistenza dalla data di entrata in vigore» del d.l. n. 91 del 2018. Prima di tale data, le norme del d.P.R. n. 146 del 2017 sarebbero state norme regolamentari, in quanto tali annullabili dal giudice amministrativo.
Il «terzo erroneo presupposto normativo», dunque, risiederebbe nell'avere il giudice a quo ritenuto che le norme del regolamento fossero state annullate dal giudice amministrativo e, in quanto tali, non avrebbero potuto essere oggetto di elevazione a fonte primaria da parte dell'art. 13, comma 1-bis.
Tali argomenti dimostrerebbero l'inammissibilità della questione, ovvero, in via subordinata, la sua non fondatezza.
5.4.- Inammissibile e, in subordine, non fondata sarebbe anche la questione sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 103, 111, commi primo e secondo, e 113 Cost.
Tale questione, infatti, poggerebbe sugli stessi «presupposti normativi erronei» della questione precedente e, per tale ragione, non potrebbe che condividerne gli esiti.
5.5.- Parimenti inammissibile e, in subordine, non fondata, sarebbe la quarta questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 3, 111, commi primo e secondo, e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU.
Il rimettente parte dall'assunto che l'art. 13, comma 1-bis, sia intervenuto dopo la pubblicazione delle sentenze di primo grado che avrebbero escluso la legificazione e nel corso del giudizio davanti al Consiglio di Stato, il quale già si sarebbe espresso nel medesimo senso.
In realtà, il TAR Lazio non avrebbe escluso la legificazione: essa, per contro, sarebbe stata riconosciuta, ma limitatamente all'anno 2019. Neanche il Consiglio di Stato avrebbe escluso la legificazione, essendosi le sentenze del 2022 più volte citate limitate ad affermare che non avesse effetto retroattivo.
Le «erronee ricostruzioni e qualificazione dei presupposti fattuali della questione di legittimità costituzionale» renderebbero la stessa inammissibile.
In via subordinata, essa, partendo da una «corretta ricostruzione e qualificazione dei presupposti fattuali della vicenda», sarebbe non fondata.
Proprio in ragione delle sentenze del TAR Lazio, che hanno affermato la sussistenza di una legificazione a tempo (per il solo anno 2019), il legislatore sarebbe dovuto intervenire con la disposizione di interpretazione autentica.
Inoltre, «l'infelice costruzione» e la «formulazione pedestre» dell'art. 4-bis avrebbe «dato adito alle più svariate e contrastanti interpretazioni dello stesso integrando un primo elemento giustificativo della norma di interpretazione autentica».
Con quest'ultima, il legislatore non avrebbe inciso sul «contenuto materiale» dell'art. 4-bis, ma avrebbe solo chiarito gli effetti nel tempo di tale contenuto di legificazione, «effetti voluti chiaramente dall'entrata in vigore del decreto-legge in poi come emerge dai lavori preparatori».
Inoltre, il legislatore non avrebbe inteso tutelare, come erroneamente sostenuto dal giudice a quo, esigenze finanziarie, «ma il cardine di qualsiasi ordinamento democratico e cioè il principio del pluralismo informativo nella sua effettività». Quest'ultima, infatti, dipenderebbe dalla qualità e dalla serietà delle emittenti, garantite dalla riforma, di cui il d.P.R. n. 146 del 2017 sarebbe un importante tassello.
5.6.- Inammissibile e, in subordine, non fondata sarebbe anche l'ultima questione, con cui il rimettente ha prospettato, in via gradata, l'illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate per violazione dei princìpi del pluralismo informativo e della concorrenza.
La motivazione sulla non manifesta infondatezza del rimettente sarebbe «falsata ed inadeguata».
La riforma operata in materia di contributi alle emittenti radio-televisive avrebbe «destrutturato l'ancien régime [...] più legato a dinamiche e mentalità clientelari con la distribuzione a pioggia degli stessi», ossia secondo un tipico «sistema della forma di [S]tato assistenziale».
Secondo ALPI, le emittenti televisive che hanno accesso alla maggior parte dei contributi sono quelle «meritevoli», «[n]el numero amplissimo di cento»: l'affermazione che lo scalino preferenziale crei posizioni dominanti e non favorisca l'accesso del massimo numero possibile di voci diverse sarebbe, dunque, manifestamente erronea e apodittica, restituendo un quadro del settore riformato per nulla veritiero e «inficiando la corretta valutazione della questione di costituzionalità».
Andrebbe considerato, al riguardo, che le cento emittenti meritevoli non ricevono tutti i contributi e che una parte viene suddivisa tra le altre.
Inoltre, la riforma riguarda le emittenti televisive e radiofoniche commerciali e comunitarie e per tutti questi numerosi soggetti vi sarebbero differenti regole percentuali di distribuzione dei contributi. La tesi della ridotta presenza di voci diverse nel mercato locale sarebbe quindi smentita dalla stessa struttura normativa della riforma.
Per l'erroneità del «presupposto normativo» e la «motivazione falsata e inadeguata», la questione sarebbe inammissibile.
Altro profilo «di grave» inammissibilità risiederebbe nella circostanza che l'intera materia «dei contributi non ha alcun contenuto che debba essere costruito in un solo modo costituzionalmente obbligato».
In subordine, la questione sarebbe non fondata.
I risultati della riforma dimostrerebbero che non corrisponde a verità la presunta penalizzazione delle regioni meno popolose e della cosiddetta «"località"», poiché «il criterio degli ascolti è adeguatamente ponderato con gli altri criteri ed è dimostrato che, nelle [r]egioni più popolose, il maggior numero di emittenti locali determini una sterilizzazione del dato relativo alla popolazione di riferimento».
Né esisterebbe un obbligo costituzionale di «regionalizzazione territorialmente piena e assoluta». L'introduzione di un simile obbligo sarebbe in contrasto, esso sì, con il principio di concorrenza e con quello del merito.
Il nuovo sistema di contribuzione sarebbe, in definitiva, pienamente coerente con quella «rivoluzione copernicana che prevede una valorizzazione della qualità e che, nel farlo, non determina alcuna discriminazione, ma incentiva la competizione [...] proprio in ossequio al principio della concorrenza».
6.- Con memorie di identico tenore depositate in ciascun giudizio il 3 febbraio 2025, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito la propria posizione difensiva, replicando a quelle avversarie.
7.- In pari data, hanno depositato memoria le parti Espansione srl, Editrice TNV spa, Retesette spa, Rete 7 srl, RTV 38 spa, Telelombardia srl, Teleradio diffusione Bassano srl, Canale 9 srl e Videolina spa, anch'esse ribadendo la propria posizione difensiva e replicando a quelle avversarie.
Le menzionate parti, inoltre, hanno eccepito l'inammissibilità per difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito: avendo l'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, già attribuito alle norme regolamentari il valore e la forza di legge, della disposizione interpretativa il giudice a quo non sarebbe chiamato a fare applicazione e la sua caducazione non produrrebbe alcun effetto concreto nel giudizio principale.
8.- In data 4 febbraio 2025, hanno depositato memoria anche le parti Retesole srl, Multi media coop. soc. coop. a rl, Telenord srl, REI srl, Gruppo Air srl e Media e servizi communication srls, anch'esse ribadendo la propria posizione difensiva e replicando a quelle avversarie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Con le ordinanze indicate in epigrafe, il Consiglio di Stato, sezione sesta, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 21, 24, 41, 77, 103, 111, commi primo e secondo, 113 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6, 10 e 14 CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, e dell'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito.
Le disposizioni censurate, inserite in sede di conversione dei rispettivi decreti-legge, ineriscono alla disciplina dei contributi pubblici in favore delle emittenti televisive e radiofoniche locali.
L'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, «al fine di estendere il regime transitorio», ha modificato l'art. 4, comma 2, ultimo periodo, del d.P.R. n. 146 del 2017, relativo ai criteri di ammissione alla contribuzione delle emittenti radiofoniche locali, prevedendo che il numero dei dipendenti per l'anno 2019 dovesse essere riguardato facendo riferimento a quelli occupati nell'anno precedente (così omologando il menzionato regime transitorio a quello previsto per le emittenti televisive locali dall'art. 4, comma 1, del medesimo d.P.R.).
Nell'apportare tale modifica, l'art. 4-bis ha precisato che il d.P.R. n. 146 del 2017 deve «intendersi qui integralmente riportato».
L'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, dal canto suo, dispone che il cennato art. 4-bis, «nella parte in cui riporta integralmente il decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146, si interpreta nel senso che il rinvio operato alle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146, ha inteso attribuire valore di legge a tutte le disposizioni ivi contenute a decorrere dalla sua entrata in vigore».
2.- Con le ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, il Consiglio di Stato, solleva, con riferimento a entrambe le disposizioni, cinque questioni di legittimità costituzionale.
Con la prima, lamenta la violazione dell'art. 77 Cost. per difetto di omogeneità delle disposizioni, inserite in sede di conversione, avuto riguardo ai contenuti originari dei rispettivi decreti-legge.
Le successive tre ruotano attorno alla legificazione delle disposizioni regolamentari di cui al d.P.R. n. 146 del 2017 e, in particolare, del suo art. 6, comma 2, che disciplina, per le sole emittenti televisive commerciali locali, il cosiddetto scalino preferenziale, in virtù del quale «[a]lle prime cento emittenti è destinato il 95 per cento delle risorse disponibili. Alle emittenti che si collocano dal centunesimo posto in poi è destinato il 5 per cento delle medesime risorse [...], fermo restando che l'emittente collocatasi al centunesimo posto non può ottenere un contributo complessivo di importo più elevato di quella che si colloca al centesimo. Eventuali residui sono riassegnati alle prime cento emittenti in graduatoria, in misura proporzionale ai punteggi individuali relativamente alle tre aree indicate nella tabella 1».
Con l'ultima, prospettata in via subordinata al rigetto delle precedenti, il rimettente lamenta la violazione, per effetto del medesimo scalino preferenziale, dei princìpi del pluralismo informativo e della concorrenza.
3.- Le ordinanze hanno ad oggetto le medesime disposizioni e pongono questioni identiche, sicché va disposta la riunione dei giudizi per una loro trattazione congiunta.
4.- Il giudice a quo è investito dell'impugnazione di plurime sentenze del TAR Lazio che, adito dalle emittenti televisive collocatesi oltre la centesima posizione, ha annullato le graduatorie delle domande ammesse a contributo per l'anno 2022, stilate facendo applicazione dello scalino preferenziale. Tanto sull'assunto di fondo che il Consiglio di Stato, con le sentenze numeri 7878, 7880 e 7881 del 2022, passate in giudicato, avrebbe annullato non solo le graduatorie allora impugnate relative agli anni 2016 e 2017, ma anche la menzionata disposizione regolamentare di cui all'art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 146 del 2017, perché in contrasto con i princìpi del pluralismo informativo e della concorrenza, ordinando all'Amministrazione di provvedere al riparto tra tutti i soggetti collocati in graduatoria in proporzione ai punteggi riportati.
Il primo giudice ha affermato l'irrilevanza dell'art. 4-bis e della legificazione della norma recante lo scalino preferenziale da esso disposta, perché destinata ad operare esclusivamente per l'anno 2019.
Le emittenti controinteressate (collocatesi entro la centesima posizione) e l'Amministrazione hanno proposto appello, ribadendo la tesi della legittimità della graduatoria, perché lo scalino preferenziale poggerebbe non già sulla disposizione regolamentare annullata dal Consiglio di Stato nel 2022, ma sull'art. 4-bis, che avrebbe dato stabilmente valore legislativo a tale scalino.
Il rimettente dà atto che, nelle more del giudizio, è intervenuto l'art. 13, comma 1-bis, che ha interpretato autenticamente l'art. 4-bis, avvalorando la tesi della legificazione della disciplina regolamentare sin dall'entrata in vigore del medesimo art. 4-bis.
In punto di rilevanza, il Consiglio di Stato afferma, dunque, che l'applicazione delle due norme, quella interpretata e quella interpretativa, comporterebbe l'accoglimento dell'appello, «stante l'intervenuta "legificazione" della disciplina regolamentare» e la conseguente impossibilità di annullare gli atti gravati. Per converso, ove questa Corte dichiarasse l'illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, «troverebbe "riespansione" il sindacato del Giudice amministrativo sulle previsioni regolamentari» e sui conseguenti «atti amministrativi impugnati, potendo, quindi, il Collegio respingere i ricorsi in appello [...] confermando l'annullamento degli atti applicativi disposto dalla sentenza di primo grado».
5.- Prima di esaminare tanto le eccezioni di inammissibilità sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri e da alcune delle parti costituite quanto il merito delle questioni, è necessario brevemente ricostruire il quadro normativo di riferimento in cui si inscrivono le disposizioni censurate (infra, punti 5.1 e seguenti), illustrare il contenzioso giurisdizionale sviluppatosi in materia (infra, punto 6), per poi sciogliere alcuni nodi interpretativi strettamente connessi (infra, punto 7).
5.1.- Prima del d.P.R. n. 146 del 2017, il sistema della contribuzione statale alle emittenti radiofoniche e televisive locali era caratterizzato da una distribuzione a fondo perduto stanziata annualmente ai sensi dell'art. 45, commi 3 e 4, della legge n. 448 del 1998 e regolata, da ultimo, dal decreto del Ministro delle comunicazioni, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, 5 novembre 2004, n. 292 (Regolamento recante nuove norme per la concessione alle emittenti televisive locali dei benefici previsti dall'articolo 45, comma 3, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e successive modifiche e integrazioni).
Nell'assetto configurato dal citato d.m. n. 292 del 2004 vi erano graduatorie regionali (art. 1, comma 4), predisposte dai Comitati regionali per le comunicazioni (art. 5); il riparto avveniva per un quinto in parti uguali e per quattro quinti in base alla posizione nella graduatoria regionale (art. 1, comma 5); a beneficiare del contributo erano solo le emittenti collocate ai primi posti, nel limite del trentasette per cento dei graduati (art. 5, comma 3); i parametri per il conferimento dei contributi erano il fatturato realizzato nel triennio precedente e il numero di dipendenti (giornalisti e non) dell'emittente richiedente (art. 4).
Tale meccanismo di contribuzione era stato censurato dalla Corte dei conti, con la citata deliberazione n. 13 del 2015, perché sprovvisto di una «finalizzazione», «funzionale al mero sostegno economico alla gestione delle emittenti», foriero di una «polverizzazione delle provvidenze», nonché «obsolet[o] [...] rispetto al rapido cambiamento che ha subito il settore delle comunicazioni, grazie all'avvento del segnale televisivo in digitale terrestre», e alla «diffusione via cavo o via internet (streaming), sempre più estesa».
Sempre secondo la Corte dei conti, la «carente finalizzazione» determinava «il fenomeno di un elevato numero di contributi, i quali finiscono per dar luogo ad un aiuto pubblico generico e indifferenziato che - sia pure all'esito di procedure selettive - è anche all'origine di una attribuzione "a pioggia" dei contributi stessi».
5.2.- Il legislatore è intervenuto con l'art. 1, comma 160, lettera b), della legge n. 208 del 2015, prevedendo il finanziamento annuo di un Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione (istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze), nel quale «confluiscono altresì le risorse iscritte nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico relative ai contributi in favore delle emittenti radiofoniche e televisive in ambito locale» (comma 162).
Il successivo comma 163 ha demandato a un regolamento da adottarsi su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, la determinazione dei criteri di riparto tra i soggetti beneficiari e delle procedure di erogazione delle risorse del Fondo in questione, «da assegnare in favore delle emittenti radiofoniche e televisive locali per la realizzazione di obiettivi di pubblico interesse, quali la promozione del pluralismo dell'informazione, il sostegno dell'occupazione nel settore, il miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti e l'incentivazione dell'uso di tecnologie innovative».
L'art. 1, comma 1, della legge n. 198 del 2016 ha, quindi, istituito il «Fondo unico per il pluralismo e l'innovazione digitale dell'informazione e dell'editoria», nel quale «confluiscono» «le risorse statali destinate all'emittenza radiofonica e televisiva in ambito locale» (lettera b), al dichiarato «fine di assicurare la piena attuazione dei princìpi di cui all'articolo 21 della Costituzione, in materia di diritti, libertà, indipendenza e pluralismo dell'informazione, nonché di incentivare l'innovazione dell'offerta informativa e dei processi di distribuzione e di vendita, la capacità delle imprese del settore di investire e di acquisire posizioni di mercato sostenibili nel tempo, nonché lo sviluppo di nuove imprese editrici anche nel campo dell'informazione digitale».
5.3.- Il nuovo sistema è stato portato a compimento con il d.P.R. n. 146 del 2017, che ammette a contribuzione le emittenti radiofoniche e televisive locali, commerciali e «comunitarie» (artt. 1 e 3, comma 1, lettera d).
Il d.P.R. si compone di 11 articoli e 2 Tabelle allegate e, per quanto qui rileva, disciplina i criteri di ripartizione del Fondo (art. 2), i soggetti beneficiari (art. 3), i requisiti di ammissione (art. 4), i criteri di valutazione delle domande e la procedura di erogazione dei contributi (articoli da 5 a 7).
Il regolamento in esame, con riferimento alle emittenti televisive commerciali: a) prevede che il Ministero dello sviluppo economico assegni annualmente ad esse l'ottanta per cento delle risorse del Fondo (art. 2, comma 1, lettera a); b) indica quali requisiti di ammissione (art. 4) un determinato numero di giornalisti e dipendenti, crescente in maniera direttamente proporzionale alla popolazione della regione ove esse operano (da calcolarsi in modo diverso a seconda che le domande si riferiscano al regime transitorio di cui agli anni dal 2016 al 2019 ovvero agli anni dal 2020 in poi), nonché l'impegno a non trasmettere programmi di televendita nella fascia oraria 7-24 in quantità superiore ai limiti ivi espressamente indicati, l'adesione a una serie di codici di autoregolamentazione (in materia di televendite, sulla tutela dei minori in TV e delle trasmissioni di commento degli avvenimenti sportivi) e, a partire dalla domanda relativa all'anno 2019, la trasmissione, nell'anno solare precedente, di almeno due edizioni giornaliere di telegiornali con valenza locale nella fascia oraria 7-23; c) regola la procedura per la pubblicazione della graduatoria nazionale (art. 5), provvisoria e definitiva, dei soggetti ammessi al contributo, con «l'indicazione degli importi dei contributi spettanti»; d) detta i «[c]riteri di valutazione delle domande ai fini del calcolo dei contributi» (art. 6), individuandoli nel numero dei giornalisti e dei dipendenti impiegati (comma 1, lettere a e b), nei costi sostenuti nell'anno precedente per spese in tecnologie innovative (lettera e) e nella «media ponderata dell'indice di ascolto medio giornaliero basato sui dati [Auditel] del biennio precedente e del numero dei contatti netti giornalieri mediati sui dati del biennio precedente» (lettera c); e) prevede dei criteri di maggiorazione del punteggio (art. 6, commi 3 e 4), in caso di incremento del numero complessivo dei giornalisti e dei dipendenti di almeno una unità rispetto all'anno precedente, e (relativamente ai soli anni 2016, 2017 e 2018) «per le emittenti che negli ultimi tre anni abbiano effettuato acquisizioni, tramite fusioni o incorporazioni di società o rami d'azienda titolari di autorizzazioni per i servizi media audiovisivi a livello locale e che negli ultimi cinque anni hanno usufruito di almeno due annualità di contributi», nonché per le emittenti operanti esclusivamente nelle Regioni Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e nelle Regioni autonome Sardegna e siciliana, in quanto rientranti «nell'obiettivo convergenza nell'ambito delle politiche di coesione dell'Unione europea».
Sempre per le sole emittenti televisive commerciali, l'art. 6, al comma 2, prevede il descritto scalino preferenziale e, al comma 5, rimanda, per la concreta determinazione del «punteggio numerico», «ai criteri applicativi e ai punteggi indicati» nelle Tabelle allegate.
La Tabella 1, nella determinazione del punteggio, attribuisce peso preponderante al criterio dei giornalisti e dei dipendenti impiegati. Per gli anni 2016 e 2017, il criterio in questione pesa per l'ottanta per cento, contro il diciassette per cento del criterio dei dati Auditel e il tre per cento di quello dei costi sostenuti per spese innovative; per gli anni successivi, e dunque a regime, le percentuali in questione sono fissate, rispettivamente, al sessantasette, trenta e tre per cento.
Il Consiglio di Stato, con il citato parere interlocutorio sullo schema di regolamento 26 maggio 2017, n. 1228, ha osservato che esso intende «superare le criticità emerse dall'attuazione della disciplina previgente, che prevedeva graduatorie su base regionale e non differenziava l'attribuzione dei contributi in base a criteri di merito, determinando una eccessiva parcellizzazione "a pioggia" del beneficio economico».
Nel citato parere si legge, altresì, che il regolamento in esame è «finalizzato a premiare selettivamente, sulla base di criteri di efficienza e di seria organizzazione d'impresa, i soggetti che investono nell'attività editoriale di qualità, anche mediante l'impiego di dipendenti e giornalisti e l'utilizzo di tecnologie innovative, ed a scoraggiare invece la mera occupazione di spazio frequenziale».
6.- Così tratteggiato il quadro normativo, nel quale si collocano le disposizioni oggetto delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, può passarsi alla concisa illustrazione del contenzioso che si è sviluppato attorno al d.P.R. n. 146 del 2017 e, in particolare, ai criteri di valutazione delle domande di ammissione alla contribuzione delle emittenti radiotelevisive, allo scalino preferenziale e alla sua legificazione.
6.1.- Nel 2020 il TAR Lazio è stato adito da alcune imprese collocatesi oltre la centesima posizione nelle graduatorie relative agli anni 2016 e 2017, impugnate unitamente all'atto presupposto, ossia al d.P.R. n. 146 del 2017.
Nel giudizio conclusosi con la sentenza, sezione terza, 30 marzo 2020, n. 2814, oggetto di censura erano, in particolare, la redazione di una graduatoria nazionale e i criteri relativi al numero di dipendenti e ai dati di ascolto, che sarebbero stati irragionevolmente incentrati su parametri «assoluti», senza la previsione di alcun meccanismo "correttivo" volto a rapportarli proporzionalmente alla popolazione e alle dimensioni geografiche ed economiche delle singole regioni italiane», ossia senza prevedere «un algoritmo di riequilibrio inversamente proporzionale». Tale assetto avrebbe favorito le regioni più popolose.
Il TAR Lazio, con la sentenza citata, ha in primo luogo disatteso l'eccezione di improcedibilità del ricorso per effetto dell'asserita legificazione delle norme regolamentari di cui al d.P.R. n. 146 del 2017 ad opera dell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, affermando di non avere la necessità di stabilire se tale legificazione vi fosse stata, dal momento che la disposizione in parola si riferiva solo al periodo transitorio (all'anno 2019) e non incideva, pertanto, retroattivamente, sulle graduatorie oggetto di impugnazione, relative ad annualità anteriori.
Nel merito, il giudice amministrativo ha respinto il ricorso, affermando la legittimità dei criteri regolamentari «diretti ad incrementare la qualità del servizio (attribuendo peso preponderante alla componente giornalisti e quindi all'informazione nella erogazione del servizio; ponendo altresì in primo piano i dati di ascolto, a testimonianza dell'interesse suscitato dalle trasmissioni presso gli utenti, e l'innovazione tecnologica), in luogo dei precedenti criteri idonei a distribuire, come in passato, premi "a pioggia"».
6.2.- Considerazioni sostanzialmente analoghe il medesimo TAR ha svolto nei giudizi conclusisi con le sentenze, sezione terza, 9 dicembre 2020, n. 13213 e n. 13215.
In relazione al dedotto difetto di ragionevolezza dello scalino preferenziale, il giudice amministrativo ha osservato che «il regolamento stabilisce un criterio di riparto delle risorse proporzionale che mira a premiare in misura maggiore le imprese maggiormente competitive e innovative, dotate di una più solida struttura organizzativa (le prime cento), lasciando comunque una quota delle risorse [...] alle imprese meno competitive».
6.3.- Tali pronunce sono state appellate innanzi al Consiglio di Stato, che su di esse si è pronunciato, rispettivamente, con le sentenze, sezione sesta, 9 settembre 2022, numeri 7880, 7878 e 7881.
In relazione alla dedotta legificazione della disciplina regolamentare, il Consiglio di Stato ha affermato di non potersi pronunciare «sul capo decisorio con cui il TAR l'ha esclusa in relazione alle annualità controverse», stante la sua mancata impugnazione e il conseguente passaggio in giudicato.
Nella sentenza n. 7880 del 2022, il giudice di appello ha anche affermato, incidentalmente, che l'art. 4-bis, «pure contenendo elementi testuali che sembrano deporre per la natura ricettizia del rinvio al DPR n. 146/2017, non pare abbia prodotto effetti retroattivi, in tale maniera non inibendo la possibilità di applicare la disciplina regolamentare alle annualità rilevanti» in quel giudizio, ossia gli anni 2016 e 2017. In altri termini, essendo state impugnate le graduatorie relative a tali annualità e risultando le stesse «ancora soggette alla disciplina regolamentare - che pure ove legificata, lo sarebbe stato solo pro futuro - non avrebbe potuto dichiararsi l'improcedibilità» dei ricorsi di primo grado.
Nel merito, il Consiglio di Stato, in riforma delle decisioni appellate, ha annullato le graduatorie impugnate per illegittimità derivata dal presupposto art. 6, comma 2, del regolamento, recante lo scalino preferenziale, ritenuto in contrasto con i princìpi del pluralismo informativo e della concorrenza per le ragioni integralmente riprese dalle odierne ordinanze di rimessione e illustrate in fatto.
Il giudice amministrativo ha quindi ordinato all'amministrazione di rideterminare i contributi in favore delle emittenti ammesse in proporzione del punteggio riportato in graduatoria, ovvero, in alternativa, «stante l'inesauribilità del potere normativo, di procedere al suo riesercizio nell'osservanza dei criteri conformativi discendenti dalla presente sentenza (funzionali a garantire il pluralismo informativo in ogni ambito regionale e ad evitare distorsioni concorrenziali)».
6.4.- Con la successiva sentenza, quarta sezione, n. 9966 del 2023, il TAR Lazio, investito dell'impugnazione della graduatoria nazionale relativa all'anno 2018, ha respinto il ricorso, attesa la legificazione delle norme regolamentari operata dall'art. 4-bis, affermando l'irrilevanza della sentenza del Consiglio di Stato n. 7880 del 2022, perché riferita ad una domanda processuale proposta prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 91 del 2018 e della sua legge di conversione, «sarebbe a dire delle disposizioni che hanno legificato il DPR 146/2017».
6.5.- Con plurime sentenze di identico tenore adottate nel 2022 e impugnate innanzi all'odierno rimettente, il TAR Lazio ha invece annullato la graduatoria delle emittenti televisive commerciali relativa all'anno 2022.
In tali pronunce, il giudice amministrativo ha escluso che la legificazione operi non solo per gli anni antecedenti alla sua entrata in vigore, ma anche «fuori dall' (e, quindi, successivamente all') annualità 2019».
Una volta esclusa la legificazione, il TAR ha annullato la graduatoria impugnata, perché basata sulla disposizione di cui all'art. 6, comma 2, del regolamento, già annullato dal giudice amministrativo con le citate sentenze del 2022.
7.- Ciò premesso, può passarsi ad affrontare alcuni nodi interpretativi strettamente interconnessi, pure in parte esaminati dal rimettente e ampiamente discussi dalle parti del presente giudizio, il cui scioglimento è logicamente pregiudiziale all'esame sia delle eccezioni di inammissibilità sia del merito delle questioni sollevate.
7.1.- Si tratta di verificare, in primo luogo, se l'art. 4-bis, con il richiamo al d.P.R. n. 146 del 2017, abbia operato o meno una legificazione delle norme regolamentari da esso recate.
Questa Corte ha avuto modo di chiarire che, «mentre il rinvio recettizio opera una novazione della fonte che eleva la norma richiamata al rango primario, la funzione del rinvio non recettizio non è quella di incorporare il contenuto della norma richiamata, bensì di indicare la fonte competente a regolare una determinata materia» (sentenza n. 250 del 2014). Il rinvio è recettizio solo quando «sia espressamente voluto dal legislatore o sia desumibile da elementi univoci e concludenti (sentenze n. 258 del 2014 e n. 80 del 2013)» (sentenza n. 93 del 2019), operando altrimenti una presunzione della sua natura formale.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, dunque, vi è novazione della fonte quando è chiara la volontà del legislatore di «incorporare» (sentenza n. 85 del 2013) la norma regolamentare richiamata.
Nel caso di specie, dirimente è il dato testuale: il legislatore non si è limitato a indicare il d.P.R. n. 146 del 2017 come fonte competente a regolare la materia, ma ha utilizzato la tanto peculiare quanto pregnante locuzione «da intendersi qui integralmente riportato».
La lettera della legge esprime, cioè, in maniera inequivoca, la volontà di "riportare" nel d.l. n. 91 del 2018 («qui») le prescrizioni regolamentari, ossia di incorporare le stesse nella fonte primaria, facendo ad esse assumere il valore e la forza di legge.
Tale interpretazione della volontà legislativa risponde ad una basilare esigenza di linearità delle fonti e di coerenza dell'ordinamento.
L'art. 4-bis ha infatti modificato una specifica norma del regolamento (l'art. 4, comma 2, ultimo periodo, del d.P.R. n. 146 del 2017), tramite l'aggiunta di alcune parole («mentre per le domande inerenti all'anno 2019 si prende in considerazione il numero medio di dipendenti occupati nell'esercizio precedente, fermo restando che il presente requisito dovrà essere posseduto anche all'atto della presentazione della domanda»).
Il legislatore è quindi intervenuto, con una fonte primaria, su una fonte secondaria e, ove le disposizioni contenute nella fonte secondaria non fossero state elevate al rango legislativo, l'interprete si sarebbe trovato al cospetto di un "ircocervo giuridico", ossia di un testo regolamentare recante, all'interno di una sua disposizione, un "frammento" normativo primario.
Non conduce ad una diversa conclusione il rilievo operato dal rimettente in base al quale, secondo la giurisprudenza costituzionale, «perché sia possibile configurare un rinvio recettizio (superando la presunzione favorevole al rinvio formale), occorre che il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua» (sentenza n. 311 del 1993; nello stesso senso, sentenza n. 250 del 2014).
Il rinvio integrale a uno specifico regolamento è, infatti, un rinvio a tutte, nessuna esclusa, le norme in esso contenute: è, cioè, un «rinvio a norme determinate ed esattamente individuate» (ancora, sentenza n. 240 del 2014).
Esso, dunque, non può considerarsi un rinvio formale per la sola ragione che si rivolge a plurime disposizioni. Questa Corte, del resto, si è già espressa per la natura recettizia di un rinvio operato a un intero regolamento (sentenza n. 507 del 1988).
7.2.- Appurata l'avvenuta novazione della fonte regolamentare, va verificata la portata dei suoi effetti temporali.
La circostanza che l'art. 4-bis abbia modificato il regime transitorio dei criteri di ammissione a contribuzione delle emittenti radiofoniche incidendo sul solo anno 2019 ha ingenerato il dubbio, nella giurisprudenza amministrativa, che anche l'assunzione del valore e della forza di legge da parte delle norme recate dal d.P.R. n. 146 del 2017 sia stata voluta dal legislatore per il solo anno in questione e non a regime.
Come illustrato al punto 6, nel senso della limitazione all'anno 2019 si era espresso il TAR Lazio nelle sentenze impugnate di fronte al giudice a quo. Nel senso della legificazione tout court si era espresso, invece, il medesimo TAR Lazio nella sentenza n. 9966 del 2023.
La stessa sentenza del Consiglio di Stato n. 7880 del 2022, nell'affrontare l'argomento in un lungo ed articolato obiter dictum, contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, ravvisa una «legificazione pro futuro» (quindi priva di effetti retroattivi), oscillando, però, tra la sua delimitazione all'anno 2019 e la sua configurazione come disciplina stabile.
Quest'ultima opzione ermeneutica è preferibile, in primo luogo, perché il rinvio al d.P.R. n. 146 del 2017 è contenuto in un inciso distante dalla parte della disposizione che opera la modifica del regime transitorio relativo al ricordato criterio di ammissione e non connotato dalla stessa sua perimetrazione temporale.
In secondo luogo, perché il conferimento del valore e della forza di legge alle norme regolamentari, per quanto occasionato dalla cennata modifica del regime transitorio dei criteri di ammissione relativi alle emittenti radiofoniche locali, risponde anche alla volontà del legislatore, chiaramente desumibile dai lavori preparatori, di "sbloccare" i fondi per quelle televisive, facendo assurgere al livello legislativo i «criteri meritocratici» posti dalla fonte regolamentare per la concessione dei contributi (così, nella seduta del Senato della Repubblica del 3 agosto 2018).
Da ultimo, poiché più rispondente alla ricordata basilare esigenza di linearità delle fonti e di coerenza dell'ordinamento, che impone di guardare con sfavore ad un'opzione ermeneutica che assegni al medesimo precetto una forza ed un valore più volte cangianti nel tempo.
7.3.- Altro punto che merita un approfondimento preliminare è quello dell'esatta individuazione della portata del giudicato formatosi sulle citate sentenze del Consiglio di Stato, numeri 7878, 7880 e 7881 del 2022.
Quest'ultime, come illustrato al punto che precede, hanno annullato non solo le graduatorie relative agli anni 2016 e 2017, ma anche la presupposta norma regolamentare recante lo scalino preferenziale, ritenute illegittime per violazione dei princìpi del pluralismo informativo e della concorrenza.
Come affermato dal rimettente, l'annullamento in via giurisdizionale di una norma regolamentare la elimina ex tunc dal mondo giuridico (senza incidere sulle situazioni giuridiche già consolidate), con la conseguenza che quella regola cessa di esistere e per ciò solo non può disciplinare (neanche) le fattispecie future.
Nel caso oggetto delle citate sentenze passate in giudicato, tuttavia, già il giudice di primo grado aveva ritenuto irrilevante la possibile legificazione operata dall'art. 4-bis, stante la sua portata non retroattiva e quindi la sua non applicabilità alle graduatorie relative agli anni 2016 e 2017 allora in contestazione.
Su tale punto, il medesimo Consiglio di Stato ha ritenuto essersi formato il giudicato interno ed ha quindi orientato il suo esame esclusivamente verso la norma regolamentare per come in vita sino all'entrata in vigore dell'art. 4-bis; né diversamente avrebbe potuto fare il giudice amministrativo, poiché, là dove una norma primaria incorpori una secondaria, tanto la prima (perché di rango legislativo) quanto la seconda (perché ormai trasfusa nella prima) fuoriescono dallo spettro del suo potere di annullamento.
In altri termini, il giudicato in questione non può che coprire l'illegittimità della norma regolamentare sino alla sua avvenuta legificazione ad opera dell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito.
7.4.- Ancora preliminare è la verifica della natura interpretativa o meno della norma recata dall'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito.
7.4.1.- Sin dalla sentenza n. 118 del 1957, questa Corte ha affermato che il legislatore ha la facoltà di adottare disposizioni di interpretazione autentica, «le quali si saldano con le disposizioni interpretate, così esprimendo un unico precetto normativo fin dall'origine» (sentenza n. 169 del 2024; nel medesimo senso, sentenze n. 104 e n. 61 del 2022, n. 133 del 2020, n. 167 e n. 15 del 2018, n. 525 del 2000).
La disposizione di interpretazione autentica è quella che, «qualificata formalmente tale dallo stesso legislatore, esprime, anche nella sostanza, un significato appartenente a quelli riconducibili alla previsione interpretata secondo gli ordinari criteri dell'interpretazione della legge» (sentenza n. 4 del 2024; nello stesso senso, tra le tante, sentenze n. 184 e n. 70 del 2024, n. 18 del 2023 e n. 133 del 2020).
Le disposizioni realmente interpretative, cioè, si limitano ad estrarre una delle possibili varianti di senso dal testo della disposizione interpretata e la norma, che risulta dalla saldatura tra le due disposizioni, assume tale significato sin dall'origine, dando luogo ad una retroattività che, nella logica del sintagma unitario, è solo apparente (tra le tante, sentenze n. 18 del 2023 e n. 104 del 2022).
7.4.2.- L'art. 13, comma 1-bis, dichiaratamente «interpreta» il rinvio operato all'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, nel senso che «esso ha inteso attribuire valore di legge» a tutte le disposizioni contenute nel d.P.R. n. 146 del 2017, «a decorrere dalla sua entrata in vigore».
Va subito puntualizzato che l'espressione «a decorrere dalla sua entrata in vigore» viene condivisibilmente interpretata dallo stesso rimettente e da tutte le parti come riferita all'entrata in vigore dello stesso art. 4-bis e non al regolamento oggetto del rinvio.
Ciò precisato, con la disposizione in esame, il legislatore ha inteso prendere posizione sul richiamo operato dall'art. 4-bis al d.P.R. n. 146 del 2017, affermando che per il suo tramite le norme in quest'ultimo contenute hanno assunto il valore e la forza di legge. Soprattutto, tale assunzione è predicata tout court e non con riferimento alla sola annualità 2019.
Si è in presenza di una plausibile opzione interpretativa, che individua una delle (quanto meno) possibili varianti di senso della norma interpretata (ex multis, sentenze n. 184 e n. 4 del 2024, n. 18 del 2023, n. 133 del 2020, n. 167 e n. 15 del 2018), peraltro già fatta propria espressamente dal TAR Lazio, con la citata sentenza n. 9966 del 2023.
Ne consegue che l'art. 13, comma 1-bis, reca una norma genuinamente interpretativa.
8.- Ciò premesso, può passarsi, in primo luogo, all'esame delle eccezioni di inammissibilità per difetto di rilevanza sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri (sia pure con riferimento alla sola dedotta violazione dell'art. 77 Cost.) nella sua memoria di costituzione e dalle parti Espansione srl ed altri nella memoria depositata in vista dell'udienza di discussione.
Le restanti eccezioni di inammissibilità sollevate da ALPI verranno invece esaminate nel prosieguo, in relazione alle singole questioni cui sono specificamente rivolte.
8.1.- L'Avvocatura generale dello Stato afferma che, alla luce della ricordata giurisprudenza costituzionale in materia di norme interpretative, intervenuto l'art. 13, comma 1-bis, che ha interpretato il precedente art. 4-bis, quest'ultimo si sarebbe «"saldato" con il primo, in tal modo venendo a perdere la sua autonomia», dal che l'irrilevanza della relativa questione di legittimità costituzionale (sollevata in riferimento all'art. 77 Cost.).
Per converso, secondo le parti citate, ad essere irrilevanti sarebbero le questioni aventi ad oggetto l'art. 13, comma 1-bis: avendo l'art. 4-bis già attribuito alle norme regolamentari il valore e la forza di legge, della disposizione interpretativa il giudice a quo non sarebbe chiamato a fare applicazione e la sua caducazione non produrrebbe alcun effetto concreto nel giudizio principale.
8.2.- Entrambe le eccezioni non sono fondate.
La saldatura tra la norma di interpretazione autentica e quella interpretata non implica l'assorbimento dell'una nell'altra, ma il loro operare congiunto, sì che di entrambe il giudice a quo deve fare applicazione, quanto meno nel suo percorso interpretativo, per decidere sulla legittimità degli atti impugnati che fanno applicazione dello scalino preferenziale.
Né, come è noto, importa, ai fini della rilevanza, l'utilità concreta che le parti possono ritrarre dalla eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale (tra le tante, sentenze n. 59 del 2021, n. 254 del 2020, n. 174 del 2019 e n. 20 del 2018).
9.- Con la prima questione, il rimettente lamenta la violazione dell'art. 77 Cost. per difetto di omogeneità di entrambe le disposizioni censurate con il testo originario dei rispettivi decreti-legge.
9.1.- ALPI ha eccepito l'inammissibilità delle prime tre questioni perché l'ordinanza di rimessione, in punto di qualificazione della norma come interpretativa ovvero innovativa con efficacia retroattiva e in punto di avvenuta legificazione, sarebbe perplessa e contraddittoria, non autosufficiente e volta ad ottenere un avallo interpretativo.
L'eccezione, in realtà, non ha ad oggetto (anche) la censura di violazione dell'art. 77 Cost., perché nello sviluppo di tale censura i temi indicati dalla parte sono toccati marginalmente dal rimettente, mentre sono affrontati ex professo nelle questioni dalla seconda alla quarta. L'eccezione in parola verrà, pertanto, esaminata nel prosieguo, in relazione a tali questioni cui effettivamente si riferisce.
9.2.- ALPI ha poi eccepito l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis per violazione dell'art. 77 Cost., perché il rimettente, nel valutare l'omogeneità della norma inserita in sede di conversione, non avrebbe preso nella debita considerazione il titolo del decreto-legge e la natura regolamentare della disposizione su cui l'art. 4-bis ha inciso, così incorrendo in una mancata ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
L'eccezione non è fondata, perché il rimettente, come illustrato in fatto, ha preso in considerazione entrambi tali elementi.
9.3.- ALPI ha infine eccepito l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1-bis, sollevata in riferimento all'art. 77 Cost., stante l'apoditticità, sul punto, dell'ordinanza di rimessione e la carenza «di un adeguato approfondimento e correlata adeguata motivazione».
Anche tale eccezione non è fondata, essendosi il rimettente interrogato sulla omogeneità della norma inserita in sede di conversione rispetto al decreto-legge, prendendo in considerazione tutti gli aspetti indicati dalla giurisprudenza costituzionale, per come illustrato in fatto.
9.4.- Nel merito, non è fondata la censura di violazione dell'art. 77 Cost. da parte dell'art. 4-bis.
9.4.1.- Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «gli emendamenti alla legge di conversione del decreto-legge devono riguardare lo stesso oggetto di quest'ultimo, a pena di illegittimità costituzionale (da ultimo, sentenze n. 215 e n. 113 del 2023). In questo modo si realizza un concorso di fonti, la prima governativa e la seconda parlamentare, nella disciplina del medesimo oggetto» (sentenza n. 146 del 2024).
La legge di conversione, infatti, «riveste i caratteri di una fonte "funzionalizzata e specializzata", volta alla stabilizzazione del decreto-legge, con la conseguenza che non può aprirsi ad oggetti eterogenei rispetto a quelli in esso presenti, ma può solo contenere disposizioni coerenti con quelle originarie dal punto di vista materiale o finalistico (da ultimo, sentenze n. 113 e n. 6 del 2023, n. 245 del 2022, n. 210 del 2021 e n. 226 del 2019), "essenzialmente per evitare che il relativo iter procedimentale semplificato, previsto dai regolamenti parlamentari, possa essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano il decreto-legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare" (sentenze n. 245 del 2022, n. 210 del 2021, n. 226 del 2019: nello stesso senso, sentenze n. 145 del 2015, n. 251 e n. 32 del 2014)» (sentenza n. 215 del 2023).
Quanto ai «provvedimenti governativi a contenuto ab origine plurimo [...], la continuità tra legge di conversione e decreto-legge non può che essere misurata muovendo dalla verifica della coerenza tra le disposizioni inserite in sede di conversione e quelle originariamente adottate in via di straordinaria necessità e urgenza (da ultimo, sentenza n. 6 del 2023), avendo riguardo al collegamento con "uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge, ovvero alla sua ratio dominante" (sentenza n. 245 del 2022). Tale continuità viene meno quando le disposizioni aggiunte siano totalmente estranee o addirittura "intruse" rispetto a quei contenuti e a quegli obiettivi, giacché "[s]olo la palese 'estraneità delle norme impugnate rispetto all'oggetto e alle finalità del decreto-legge' (sentenza n. 22 del 2012) o la 'evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell'originario decreto-legge' (sentenza n. 154 del 2015) possono inficiare di per sé la legittimità costituzionale della norma introdotta con la legge di conversione" (sentenza n. 181 del 2019, nonché, nello stesso senso, sentenze n. 247 e n. 226 del 2019)» (sentenza n. 113 del 2023).
Con specifico riferimento ai decreti "milleproroghe" (che sono una species dei decreti-legge a contenuto ab origine plurimo), si è più volte affermato che si tratta di una «tipologia di decreto-legge connotato dalla "ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal Governo e dal Parlamento, o di incidere su situazioni esistenti - pur attinenti ad oggetti e materie diversi - che richiedono interventi regolatori di natura temporale" (sentenza n. 22 del 2012)» (sentenza n. 245 del 2022; in termini, sentenza n. 154 del 2015).
Rispetto a tali decreti solo l'inserimento, in sede di conversione, di una norma «del tutto estranea» alla ratio e alla finalità unitaria «determina la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei (sentenza n. 22 del 2012)» (sentenza n. 154 del 2015).
9.4.2.- Il d.l. n. 91 del 2018, intitolato «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative», è appunto un decreto "mille-proroghe", adottato in ragione della «straordinaria necessità ed urgenza di provvedere alla proroga e definizione di termini di prossima scadenza al fine di garantire la continuità, l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa e l'operatività di fondi a fini di sostegno agli investimenti, nonché di provvedere alla proroga di termini per il completamento delle operazioni di trasformazioni societarie e di conclusione degli accordi di gruppo previste dalla normativa in materia di banche popolari e di banche di credito cooperativo».
La disposizione censurata, inserita in sede di conversione, è rubricata «Proroga di termini in materia di emittenti radiotelevisive locali». Essa, come già chiarito, ha due connessi contenuti precettivi: a) modifica, quanto alle sole emittenti radiofoniche, il regime transitorio relativo al requisito di ammissione alla contribuzione dato dal numero dei dipendenti di cui all'art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 146 del 2017, previsto per gli anni 2016-2018, estendendolo all'anno 2019; b) "riporta" al suo interno il contenuto dell'intero d.P.R. n. 146 del 2017, ossia nova la citata fonte regolamentare.
Ciò posto, la proroga di un termine e l'estensione di un regime transitorio hanno la comune finalità di spostare nel tempo un determinato assetto regolatorio, sì che la finalità dell'emendamento non può dirsi disomogenea rispetto alla ratio dominante del decreto-legge in questione, adottato, peraltro, in ragione dell'urgenza non solo di «provvedere alla proroga», ma anche alla «definizione di termini di prossima scadenza».
Ricorre anche la finalizzazione della modifica temporale alla garanzia della «operatività di fondi a fini di sostegno agli investimenti».
La disposizione censurata, infatti, modifica uno dei criteri di ammissione alla contribuzione pubblica in favore delle emittenti radiofoniche finalizzata non solo alla tutela del pluralismo dell'informazione, ma anche «al sostegno dell'occupazione nel settore», al «miglioramento dei livelli qualitativi dei contenuti forniti» e «[al]l'incentivazione dell'uso di tecnologie innovative» (art. 1, comma 160, della legge n. 208 del 2015), ovvero ad «incentivare l'innovazione dell'offerta informativa e dei processi di distribuzione e di vendita, la capacità delle imprese del settore di investire e di acquisire posizioni di mercato sostenibili nel tempo, nonché lo sviluppo di nuove imprese editrici anche nel campo dell'informazione digitale» (art. 1, comma 1, della legge n. 198 del 2016).
La contestuale novazione dell'intera fonte regolamentare - operata in ragione della ricordata esigenza di linearità delle fonti e di coerenza dell'ordinamento - non rende, nel peculiare caso di specie, «totalmente estrane[a]» o «addirittura "intrus[a]"» (sentenza n. 113 del 2023; nello stesso senso, sentenza n. 22 del 2012) la disposizione inserita in sede di conversione e non è pertanto in grado di recidere siffatta omogeneità.
Tale novazione, infatti, attribuendo ai criteri di riparto del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione il valore e la forza proprie della fonte primaria, partecipa della ricordata finalizzazione delle misure previste dal decreto-legge alla garanzia «dell'operatività dei fondi a sostegno dell'investimento».
9.5.- Non fondata è anche la censura di violazione dell'art. 77 Cost. rivolta all'art. 13, comma 1-bis.
9.5.1.- Il titolo del d.l. n. 145 del 2023 è il seguente: «Misure urgenti in materia economica e fiscale, in favore degli enti territoriali, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili». Il suo preambolo così recita: «[r]itenuta la straordinaria necessità e urgenza di prevedere misure per esigenze finanziarie e fiscali indifferibili; [r]itenuta, in particolare, la straordinaria necessità e urgenza di adottare disposizioni in favore degli enti territoriali, in materia di pensioni e di rinnovo dei contratti pubblici, in materia di investimenti, istruzione e di sport, nonché in materia di tutela del lavoro e della sicurezza».
Il Capo III, composto dagli articoli da 10-ter a 16, reca norme in materia di investimenti e in materia di sport (come rilevato dal dossier del Servizio studi della Camera dei deputati 11 settembre 2023, n. 75).
La disposizione censurata è stata inserita, in sede di conversione, nel corpo dell'art. 13, rubricato «Investimenti produttivi delle micro, piccole e medie imprese».
Il comma 1 di tale articolo prevede che, «[a]l fine di assicurare continuità alle misure di sostegno agli investimenti produttivi delle micro, piccole e medie imprese attuati ai sensi dell'articolo 2 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, è autorizzata la spesa di 50 milioni di euro per l'anno 2023. Agli oneri di cui al primo periodo si provvede ai sensi dell'articolo 23». Esso, cioè, come affermato dal rimettente, dispone il rifinanziamento di misure volte a sostenere l'acquisto, o l'acquisizione in leasing, di beni strumentali materiali - macchinari, impianti, beni strumentali d'impresa, attrezzature nuovi di fabbrica e hardware - o immateriali (software e tecnologie digitali) a uso produttivo.
Il comma 1-bis, dal canto suo, così recita: «[p]er lo stesso fine, l'articolo 4-bis del decreto-legge 25 luglio 2018, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 settembre 2018, n. 108, nella parte in cui riporta integralmente il decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146, si interpreta nel senso che il rinvio operato alle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 23 agosto 2017, n. 146, ha inteso attribuire valore di legge a tutte le disposizioni ivi contenute a decorrere dalla sua entrata in vigore».
9.5.2.- La disposizione censurata, come già chiarito, interpreta autenticamente l'inciso di cui all'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, avvalorando la sua qualificazione come norma che ha disposto la novazione della fonte regolamentare che disciplina(va) i contributi erogati dal Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione alle emittenti televisive e radiofoniche locali.
L'art. 13, comma 1-bis, dunque, prende posizione sulla natura primaria della fonte che regola un sistema di contribuzione pubblica sulla base di criteri volti a favorire la qualità dell'informazione e la capacità delle imprese del settore di investire anche in nuove tecnologie e di acquisire posizioni di mercato sostenibili nel tempo.
Alla luce di tali considerazioni - e fermo lo scrutinio che verrà condotto nel prosieguo sulla legittimità costituzionale di tale disposizione in relazione al principio di ragionevolezza e all'interferenza con il giudicato e con i giudizi in corso - essa non può considerarsi del tutto estranea rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto-legge (sentenza n. 146 del 2024) e, in particolare, dallo stesso art. 13, comma 1, che rifinanzia misure volte a sostenere gli investimenti delle micro, piccole e medie imprese.
10.- Con la seconda questione, il rimettente lamenta la violazione dei princìpi di ragionevolezza e logicità di cui all'art. 3 Cost., per avere il legislatore, con il combinato disposto degli artt. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, e 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, legificato una norma regolamentare (l'art. 6, comma 2) non più esistente, perché già annullata in via giurisdizionale.
Con la terza questione, il rimettente lamenta che entrambe le disposizioni censurate violino gli artt. 3, 24, 103, 111, commi primo e secondo, e 113 Cost., perché l'intervento retroattivo di legificazione sarebbe in contrasto con il ricordato giudicato formatosi sulle sentenze del Consiglio di Stato numeri 7878, 7880 e 7881 del 2022, che hanno annullato, con effetti ex tunc e con efficacia erga omnes e pro futuro, il citato art. 6, comma 2, del regolamento.
Le questioni possono essere esaminate congiuntamente, perché poggiano sul medesimo assunto di fondo, ossia l'intervenuta legificazione di una norma regolamentare già annullata dal giudice amministrativo.
A mutare, infatti, sono solo i parametri evocati, poiché il descritto intervento legislativo sarebbe al contempo affetto da irragionevolezza e interferente con l'esercizio della funzione giurisdizionale consacratasi nel giudicato.
10.1.- Come già ricordato al punto 9.2, ALPI ha eccepito l'inammissibilità delle prime tre questioni (in realtà, delle questioni dalla seconda alla quarta), perché l'ordinanza di rimessione, in punto di qualificazione della norma interpretativa e di legificazione, sarebbe perplessa e contraddittoria, non autosufficiente e volta a ottenere un avallo interpretativo.
L'eccezione non è fondata.
Quanto all'art. 13, comma 1-bis, l'ordinanza esprime una preferenza per la sua natura realmente interpretativa, ma poi, in linea con la giurisprudenza costituzionale, afferma comunque la necessità di esaminarne l'incidenza sui giudizi in corso, al pari delle norme innovative con efficacia retroattiva, il che esclude la lamentata perplessità.
Quanto alla legificazione, è vero che il rimettente attribuisce alle sentenze del 2022 un significato non corrispondente a quello da esse realmente espresso (quelle sentenze non hanno escluso la legificazione, ma sostenuto la sua irrilevanza nel caso di specie, attesa la sua irretroattività, e si sono, anzi, spinte a ritenerla sussistente per il futuro).
Ciò, tuttavia, non pregiudica la tenuta complessiva della trama argomentativa del rimettente che, dunque, resta sufficientemente lineare.
10.2.- ALPI ha poi eccepito l'inammissibilità della seconda e della terza questione, perché il rimettente muoverebbe da un triplice erroneo «presupposto normativo»: a) che le sentenze del Consiglio di Stato del 2022 abbiano escluso la legificazione; b) che l'art. 4-bis non abbia operato un rinvio recettizio; c) che il regolamento sia stato annullato dal giudice amministrativo.
L'eccezione non è fondata perché, al di là della sua impropria qualificazione, non attiene all'ammissibilità, ma alla correttezza degli argomenti spesi dal rimettente e, quindi, al merito delle questioni.
10.3.- Le suddette questioni non sono fondate.
Come illustrato ai punti da 7.1 a 7.3, infatti, la novazione della fonte è avvenuta non già ad opera dell'art. 13, comma 1-bis, del d.l. n. 145 del 2023, come convertito, ma dell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, il che vuol dire che, al momento della novazione della fonte, la norma regolamentare non era stata ancora annullata, e che il successivo giudicato formatosi sulle sentenze del Consiglio di Stato del 2022 ha riguardato esclusivamente l'illegittimità della norma regolamentare sino alla sua avvenuta legificazione.
11.- Con la quarta questione, il rimettente lamenta la violazione, ad opera di entrambe le disposizioni censurate, degli artt. 3, 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, poiché il legislatore, con l'art. 13, comma 1-bis, è intervenuto per interpretare l'art. 4-bis oltre cinque anni dopo la sua entrata in vigore, al fine di condizionare i giudizi in corso, dei quali è parte un'amministrazione pubblica, così incidendo sulla stessa possibilità per il giudice amministrativo di annullare gli atti impugnati.
La norma interpretativa, in particolare, sarebbe intervenuta dopo la pubblicazione delle sentenze di primo grado che avevano escluso la legificazione delle norme regolamentari e poco prima dell'udienza di discussione innanzi al giudice a quo, il quale, parimenti, si sarebbe già espresso nello stesso senso con le sentenze del 2022.
11.1.- ALPI ha eccepito l'inammissibilità della questione, per l'erroneità «delle ricostruzioni e qualificazioni dei presupposti fattuali».
Contrariamente a quanto assunto dal Consiglio di Stato, il giudice di primo grado non avrebbe escluso la legificazione: essa, per contro, sarebbe stata riconosciuta, ma limitatamente all'anno 2019. Neanche le più volte citate precedenti sentenze del Consiglio di Stato del 2022 avrebbero escluso la legificazione, essendosi limitate ad affermare che non avesse efficacia retroattiva.
L'eccezione non è fondata.
È vero che il rimettente parte da tali assunti erronei, ma anche in questo caso si tratta di argomenti che non attengono all'ammissibilità ma al merito della questione, inerendo alla sussistenza o meno di un contrasto giurisprudenziale e quindi a uno degli indici dell'interferenza dell'intervento interpretativo con l'attività giurisdizionale.
11.2.- Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis non è fondata.
Come dedotto dal rimettente e da tutte le parti del giudizio costituzionale (e come è pacifico nella giurisprudenza amministrativa ricordata al punto 6), l'art. 4-bis non ha natura retroattiva e quindi non ha condizionato i giudizi pendenti alla sua entrata in vigore, relativi alle precedenti graduatorie per gli anni 2016 e 2017, che, infatti, sono stati definiti alla luce del quadro regolamentare dettato dal d.P.R. n. 146 del 2017.
11.3.- Parimenti non fondata è la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 1-bis.
11.3.1.- Si è già chiarito (al punto 7.4) che, secondo la giurisprudenza costituzionale, al legislatore è consentito adottare norme di interpretazione autentica, trattandosi di «un istituto comunemente ammesso da altri ordinamenti statali, che posseggono i caratteri di Stato di diritto e di Stato democratico» (sentenza n. 118 del 1957).
È vero che, trattandosi di disposizioni destinate ad operare con la stessa decorrenza temporale di quelle interpretate, anche esse devono rispettare alcuni limiti generali connessi alla loro natura.
Tali limiti attengono «alla salvaguardia di principi costituzionali tra i quali sono ricompresi "il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario" (sentenza n. 170 del 2013, nonché sentenze n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010)» (sentenza n. 73 del 2017).
Ciò non toglie, tuttavia, che «l'individuazione della natura interpretativa della norma non può ritenersi in sé indifferente nel bilanciamento di valori sotteso al giudizio di costituzionalità» (ancora, sentenza n. 73 del 2017).
A tale stregua, «[s]e, ad esempio, i valori costituzionali in gioco sono quelli dell'affidamento dei consociati e della certezza dei rapporti giuridici, è di tutta evidenza che l'esegesi imposta dal legislatore, assegnando alle disposizioni interpretate un significato in esse già contenuto, riconoscibile come una delle loro possibili varianti di senso, influisce sul positivo apprezzamento sia della sua ragionevolezza» sia della eventuale configurabilità di una lesione dell'affidamento dei destinatari (ancora, sentenza n. 73 del 2017; negli stessi termini, tra le altre, sentenze n. 108 del 2019, n. 156 del 2014 e n. 170 del 2008).
Parimenti, ove il valore in gioco sia quello della non interferenza con l'esercizio del potere giurisdizionale - fermo il necessario rispetto del giudicato (sentenze n. 209 del 2010, n. 525 e n. 374 del 2000, n. 15 del 1995) - deve ritenersi consentito al legislatore, in presenza di interpretazioni contrastanti e quindi in assenza di un quadro giurisprudenziale consolidato (sentenze n. 4 del 2024, n. 104 del 2022, n. 150 e n. 127 del 2015, n. 156 del 2014 e n. 170 del 2008), di intervenire «per correggere una imperfezione del dato normativo» (sentenza n. 184 del 2024) o «ristabilire un'interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» (sentenze n. 308 e n. 103 del 2013, n. 78 del 2012, n. 1 del 2011 e n. 311 del 2009), specialmente ove l'interpretazione imposta presenti un grado di maggiore plausibilità rispetto alle altre.
Ciò sempre che l'intervento legislativo, anche alla luce della tempistica e del metodo seguiti (sentenza n. 4 del 2024), non si dimostri in realtà abusivo, perché preordinato a violare il principio della parità delle parti, in particolare ove una di esse sia un'amministrazione pubblica (sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 46 del 2021 e n. 174 del 2019).
11.3.2.- Relativamente al sindacato di costituzionalità delle leggi incidenti su giudizi in corso, questa Corte ha poi più volte sottolineato il rilievo assunto dalla giurisprudenza della Corte EDU e la «costruzione di una "solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU", che consente di leggere in stretto coordinamento i parametri interni con quelli convenzionali» (sentenze n. 77 e n. 4 del 2024, e n. 145 del 2022), al fine di massimizzarne l'espansione in un rapporto di integrazione reciproca.
La ricordata giurisprudenza costituzionale è infatti in linea con quella della Corte EDU, la quale ha ripetutamente riconosciuto che, «benché non sia precluso al legislatore di disciplinare, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi in vigore, il principio dello Stato di diritto e la nozione di equo processo sanciti dall'articolo 6 precludono, salvo che per motivi imperativi di interesse pubblico, l'ingerenza del legislatore nell'amministrazione della giustizia finalizzata a influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia» (Corte EDU, prima sezione, sentenza 30 gennaio 2020, Cicero e altri contro Italia, paragrafo 29).
Quanto ai motivi di interesse generale, la Corte EDU esclude che le sole ragioni finanziarie possano essere, in principio, sufficienti a giustificare un intervento legislativo incidente sui giudizi in corso (tra le tante, Corte EDU, quinta sezione, 9 gennaio 2025, Zafferani e altri contro San Marino, paragrafo 47; grande camera, 3 novembre 2022, Vegotex International S.A. contro Belgio, paragrafo 103, Corte EDU, prima sezione, sentenza 30 gennaio 2020, Cicero e altri contro Italia, paragrafo 29).
La medesima Corte ammette, invece, che, «in circostanze eccezionali, una legislazione retrospettiva può essere giustificata, soprattutto al fine di interpretare o chiarire una disposizione legislativa precedente (si veda, ad esempio, Hôpital local Saint Pierre d'Oléron e altri c. Francia, n. 18096/12 e altri 20, 8 novembre 2018), per colmare un vuoto normativo (si veda, ad esempio, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint-Pie X e Blanche de Castille e altri c. Francia, nn. 42219/98 e 54563/00, 27 maggio 2004), o per controbilanciare gli effetti di un nuovo indirizzo giurisprudenziale (si veda, ad esempio, il "caso Building Societies", sopra citato, in cui la Corte ha giustificato l'emanazione di una normativa con effetto retroattivo volta a limitare gli effetti di una sentenza della House of Lords che aveva evidenziato un difetto normativo, alla quale il legislatore ha cercato di porre rimedio)» (Corte EDU, grande camera, 3 novembre 2022, Vegotex International S.A. contro Belgio, paragrafi 101 e seguenti).
A tali fini, nella sentenza da ultimo citata, la Corte EDU ha ribadito la necessità di valutare il carattere imperativo delle menzionate ragioni di interesse generale «nel loro complesso e alla luce dei seguenti elementi: se l'indirizzo giurisprudenziale ribaltato dall'intervento legislativo censurato fosse o meno consolidato», «le modalità e i tempi di attuazione della normativa», «la prevedibilità dell'intervento del legislatore», «la portata della normativa e i suoi effetti» (paragrafo 108).
Nel valutare il grado di consolidamento o meno dell'indirizzo giurisprudenziale e il correlato grado di affidamento delle parti in causa, la Corte EDU ha anche preso in considerazione la costante prassi amministrativa antecedente l'intervento legislativo (paragrafi 112 e 117).
11.3.3.- Nel caso di specie, la disposizione censurata reca, come detto, una norma autenticamente interpretativa, perché impone all'interprete un senso della disposizione, ossia il senso di una legificazione a regime ad opera dell'art. 4-bis, che appare certamente possibile, ed anzi il più plausibile.
La disposizione interpretativa, dunque, è volta a superare un'ambiguità del dato normativo e individuare un significato più aderente alla originaria volontà del legislatore (sentenza n. 184 del 2024 e sentenze della Corte EDU ivi citate).
Essa, poi, interviene in un contesto nel quale, da un lato, la prassi amministrativa è sempre stata costante nel ritenere che la disposizione censurata avesse il senso poi chiarito dal legislatore con la norma di interpretazione autentica; e, dall'altro, non vi era un orientamento giurisprudenziale consolidato, ed anzi sussistevano marcati contrasti interpretativi nella giurisprudenza del giudice amministrativo.
Vale qui la pena di ricordare, infatti, che per la limitazione della legificazione all'anno 2019 si era espresso il TAR Lazio nelle sentenze impugnate di fronte al giudice a quo; nel senso contrario della legificazione a regime si era espresso il medesimo TAR Lazio nella sentenza n. 9966 del 2023, e la stessa sentenza del Consiglio di Stato n. 7880 del 2022, sia pure affrontando l'argomento in un obiter dictum, sembra oscillare tra una legificazione limitata al solo anno 2019 e una legificazione pro futuro tout court.
Il riferito dubbio interpretativo e la presenza di un quadro giurisprudenziale non definito in ordine all'avvenuta legificazione delle norme regolamentari escludono, dunque, la sussistenza di un affidamento qualificato delle parti sull'interpretazione contraria a quella prescelta dalla norma interpretativa.
Non assume poi un rilievo significativo la circostanza che parte in causa dei giudizi a quibus sia un'amministrazione pubblica, poiché quest'ultima assume una posizione "neutrale" rispetto alla controversia, non derivandole alcun vantaggio economico dall'accoglimento di una tesi piuttosto che dell'altra. I fondi stanziati per la contribuzione pubblica alle emittenti radiotelevisive e locali restano, infatti, i medesimi: muta solo il criterio di ripartizione tra i beneficiari.
Né, infine, assume un rilievo pregnante la circostanza che la disposizione interpretativa sia intervenuta a circa cinque anni di distanza dalla norma interpretata, in primo luogo, perché tale indice sintomatico del distorto uso della funzione legislativa appare secondario rispetto a quello della presenza o meno di un quadro giurisprudenziale consolidato (sentenza n. 4 del 2024). In secondo luogo, perché questa Corte ha ritenuto non irragionevoli interventi legislativi interpretativi verificatisi a distanza temporale anche significativamente maggiore (ad esempio, circa dieci anni nella sentenza n. 184 del 2024).
12.- Con l'ultima questione, sollevata in via subordinata per il caso di rigetto delle precedenti, il Consiglio di Stato lamenta la violazione degli artt. 2, 3, 21, 41 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 10 e 14 CEDU, perché le disposizioni censurate, nella parte in cui conferiscono valore e forza di legge all'art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 146 del 2017, violerebbero i princìpi del pluralismo dell'informazione e della concorrenza.
Secondo il rimettente, i criteri previsti dal d.P.R. n. 146 del 2017 sarebbero idonei ad attribuire una maggiore chance di collocamento in graduatoria nelle prime cento posizioni agli operatori esercenti nelle regioni più popolate, «stante l'esistenza di una correlazione tra dato demografico regionale e dimensioni organizzative dell'emittente televisiva rilevanti ai fini selettivi».
Più in particolare, sarebbe il regolamento, nel disciplinare i requisiti di ammissione alla pubblica contribuzione, a «rapporta[re] il numero di dipendenti minimo richiesto "alla popolazione residente del territorio in cui avvengono le trasmissioni"» (si cita l'art. 4, comma 1, lettera a), prevedendo differenti scaglioni a seconda che il territorio nell'ambito di ciascuna regione per cui è presentata la domanda abbia più di cinque milioni di abitanti (quattordici dipendenti, di cui almeno quattro giornalisti), tra un milione e cinquecentomila e cinque milioni di abitanti (undici dipendenti, di cui almeno tre giornalisti), ovvero fino a un milione e cinquecentomila abitanti (otto dipendenti, di cui almeno due giornalisti).
Il numero di giornalisti e dipendenti, poi, costituirebbe non solo un requisito di ammissione alla contribuzione, ma anche criterio selettivo nell'attribuzione dei punteggi per il riparto dello stanziamento annuale (art. 6, comma 1, lettere a e b).
Ne conseguirebbe che le imprese operanti in regioni più popolate - per le quali è riscontrabile, di regola, un maggiore numero di giornalisti e dipendenti impiegati nell'attività d'impresa (proprio perché, per essere ammessi a contribuzione, è necessario averne un maggior numero) - hanno maggiori possibilità di conseguire un punteggio più alto e, dunque, un migliore posizionamento in graduatoria.
Il rischio di una concentrazione dei punteggi più elevati in capo ai concorrenti operanti nelle regioni più popolate sarebbe confermato anche dall'ulteriore criterio selettivo riferito ai dati di ascolto (l'assunto implicito è che le televisioni con sede in regioni più popolose hanno un bacino di utenza maggiore).
Ciò posto, la disciplina positiva che prevede uno scalino preferenziale a vantaggio dei primi cento classificati, cui viene destinata la quasi totalità della contribuzione, senza prevedere accorgimenti volti ad impedire la concentrazione delle risorse pubbliche negli ambiti territoriali più popolati a discapito degli altri, violerebbe il principio del pluralismo dell'informazione.
Ferma la ragionevolezza della scelta di una graduatoria unica nazionale in ragione della «semplificazione procedimentale» ad essa connessa, il legislatore, per rispettare il principio del pluralismo informativo, avrebbe dovuto adottare accorgimenti idonei ad evitare una squilibrata distribuzione delle risorse in ambito locale, con il rischio che alcune aree territoriali siano sottorappresentate o perfino escluse dalla contribuzione pubblica. Si tratterebbe, cioè, di assicurare che in ogni ambito regionale vi sia un adeguato finanziamento pubblico in favore di un numero congruo di operatori.
12.1.- ALPI ha eccepito l'inammissibilità della questione, in primo luogo perché basata su una motivazione «falsata e inadeguata» e, in particolare, sull'errato «presupposto normativo» della «tesi» della ridotta presenza di voci diverse nei mercati locali.
L'eccezione non è fondata.
Ancora una volta, la verifica della correttezza dell'assunto da cui muove il rimettente, ossia il rischio che le disposizioni censurate diano luogo ad una presenza ridotta di operatori dell'informazione nei mercati locali, attiene al merito della questione.
12.2.- ALPI ha poi eccepito l'inammissibilità per assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata nella configurazione della disciplina dei contributi.
L'eccezione non è fondata, dal momento che il rimettente ha chiesto a questa Corte non una pronuncia additiva, per la quale si pone il tema delle rime obbligate o anche solo adeguate, ma caducatoria.
12.3.- Nel merito, la questione non è fondata con riferimento alla dedotta violazione del principio del pluralismo informativo.
12.3.1.- Come diffusamente messo in luce dal rimettente, questa Corte ha ricondotto il pluralismo dell'informazione all'art. 21 Cost. e allo stesso carattere democratico della Repubblica.
Ciò in quanto «[l]'informazione, nei suoi risvolti attivi e passivi (libertà di informare e diritto ad essere informati) esprime [...] una condizione preliminare (o, se vogliamo, un presupposto insopprimibile) per l'attuazione ad ogni livello, centrale o locale, della forma propria dello Stato democratico» (sentenza n. 348 del 1990).
Si è così più volte rimarcato «il valore centrale del pluralismo in un ordinamento democratico» (sentenza n. 826 del 1988), sottolineando come esso richieda di essere realizzato con particolare intensità nei settori della stampa e - soprattutto - della radiotelevisione (sentenza n. 348 del 1990).
Dalla giurisprudenza costituzionale emerge, poi, la distinzione tra pluralismo interno ed esterno.
Il primo indica l'«apertura» del singolo mezzo d'informazione - sia esso pubblico o privato - «alle varie voci presenti nella società», il secondo, invece, l'esistenza nel mercato dell'informazione di «una pluralità di voci concorrenti» (sentenza n. 420 del 1994).
Il pluralismo esterno, in particolare, nel settore radiotelevisivo, richiede la «possibilità di ingresso, nell'ambito dell'emittenza pubblica e di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici, con la concreta possibilità nell'emittenza privata - perché il pluralismo esterno sia effettivo e non meramente fittizio - che i soggetti portatori di opinioni diverse possano esprimersi senza il pericolo di essere emarginati a causa dei processi di concentrazione delle risorse tecniche ed economiche nelle mani di uno o di pochi e senza essere menomati nella loro autonomia» (sentenza n. 826 del 1988).
Del pluralismo dell'informazione nello specifico ambito locale questa Corte si è occupata nelle sentenze n. 226 del 1974 e n. 202 del 1976 (richiamate dalla sentenza n. 148 del 1981).
Con la citata sentenza n. 202 del 1976, si è aperto, per la prima volta, il mercato dell'informazione locale alle emittenti televisive private, essendosi ritenuto non giustificato, in tale settore, l'allora vigente monopolio pubblico della RAI. Ciò perché «esiste [...] per le trasmissioni su scala locale via etere una disponibilità sufficiente a consentire la libertà di iniziativa privata senza pericolo di monopoli od oligopoli privati, dato anche il costo non rilevante degli impianti», e quindi «viene meno l'unico motivo che [...] possa giustificare quella grave compressione del fondamentale principio di libertà, sancito dalla norma a riferimento, che anche un monopolio di Stato necessariamente comporta».
Da ultimo, nella sentenza n. 826 del 1988, citata dal rimettente, questa Corte, occupandosi dello specifico «fenomeno delle interconnessioni fra stazioni locali emittenti, effettuate in modo tale da estendere la diffusione a tutto il territorio nazionale», ha affermato che «lo sviluppo di un sistema informativo in grado di dar viva voce alle specifiche realtà locali rientra nell'imprescindibile compito di dare espressione a quelle istituzioni che rappresentano il tessuto connettivo del Paese: il che richiede, come ineluttabile conseguenza, che sia assicurata l'effettiva autonomia di tali emittenti, anche attraverso un'adeguata disponibilità di frequenze e di risorse pubblicitarie».
12.3.2.- La tutela del pluralismo esterno, dunque, sicuramente richiede, come la Corte ha avuto modo di affermare in passato, la creazione di condizioni di libero accesso al mercato, oltre che una regolamentazione atta ad evitare il fenomeno delle concentrazioni (sentenze n. 226 del 1974 e n. 202 del 1976, con riferimento al mercato locale, e sentenze n. 155 del 2002 e n. 112 del 1993, con riferimento al mercato nazionale).
Tali condizioni sussistono oggi, in relazione al mercato locale che qui viene in rilievo.
L'attuale sistema dell'informazione locale è caratterizzato, infatti, a differenza del passato, non da penuria di emittenti televisive, ma, al contrario, da una loro abbondanza, dovuta non solo alla non particolare onerosità degli investimenti per la loro attivazione (sentenze n. 226 del 1974, n. 202 del 1976 e n. 826 del 1998), ma anche e soprattutto alla moltitudine dei canali garantita dalla tecnologia digitale.
Tale abbondanza riguarda tutte le regioni italiane, anche quelle meno popolose.
Secondo quanto riportato dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) nella Indagine conoscitiva sull'informazione locale, redatta nel novembre del 2018, guardando proprio a quest'ultime, in Umbria erano attive ventotto TV locali (di cui sei aventi sede nella Regione), in Basilicata trentaquattro (di cui cinque aventi sede nella Regione), in Molise venticinque (di cui sei aventi sede nella Regione) e in Valle d'Aosta quindici (di cui una avente sede nella Regione).
Non va dimenticato, poi, che il pluralismo informativo è presidiato anche dalla presenza della RAI Radiotelevisione italiana spa, titolare del servizio pubblico e tenuta, in quanto tale, a garantire non solo la pluralità dell'informazione e il libero accesso alle diverse voci ed opinioni presenti nelle realtà locali (cosiddetto pluralismo interno), ma anche la completezza e l'imparzialità dell'informazione e la valorizzazione delle identità locali e delle minoranze linguistiche, secondo quanto previsto dagli artt. 6, 59 e 60 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 208, recante «Attuazione della direttiva (UE) 2018/1808 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 novembre 2018, recante modifica della direttiva 2010/13/UE, relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri, concernente il testo unico per la fornitura di servizi di media audiovisivi in considerazione dell'evoluzione delle realtà del mercato». Né va dimenticato che «il servizio pubblico radiotelevisivo, attraverso il TGR, risulta la più importante fonte di informazione locale in ben 14 regioni italiane» (così, la menzionata Indagine conoscitiva).
12.3.3.- Più in generale, l'"ecosistema" dell'informazione è radicalmente mutato, risultando ora caratterizzato, a qualsiasi livello (locale, nazionale e globale), sia dall'eliminazione delle barriere di ordine tecnico alla moltiplicazione dei produttori e distributori di informazione sia dalla diminuzione dei costi economici inerenti a tali attività.
Soprattutto, per l'intero ecosistema vale il rilievo che la quantità di informazioni e di differenti punti di vista disponibili si è accresciuta enormemente grazie ad internet, che ha assunto un ruolo centrale, come analiticamente illustrato nel diciannovesimo Rapporto sulla comunicazione («Il vero e il falso») del Centro studi investimenti sociali (CENSIS), dell'11 marzo 2024.
È noto che la rete, in primo luogo, ha permesso la decentralizzazione della produzione di informazioni, per cui qualsiasi utente può immettere in essa notizie e diffonderle. In secondo luogo, ha favorito la moltiplicazione, specie in ambito locale, dei siti di informazione, che per operare non devono sopportare i costi che nell'era analogica erano legati alla creazione di un'emittente televisiva o radiofonica o alla stampa di un giornale. In terzo luogo, ha accresciuto la diffusione dei contenuti prodotti dai media tradizionali, che spesso sono facilmente reperibili nella stessa rete, perché presenti nella lista dei risultati offerti dai motori di ricerca al singolo utente e diffusi tramite i social media (dove possono essere agevolmente amplificati grazie ai noti meccanismi dei contatti, delle condivisioni e dei like). Infine, non va sottovalutato che la maggior parte delle persone si informa proprio attraverso la rete, così riducendosi il peso che hanno i media tradizionali nella formazione dell'opinione pubblica.
12.3.4.- Le trasformazioni sinteticamente richiamate plasmano l'attuale significato del pluralismo dell'informazione, a qualsiasi livello, e, conseguentemente, la declinazione delle concrete modalità della sua tutela, che sono sempre state, nella giurisprudenza di questa Corte, raccordate allo specifico contesto in cui l'informazione si situava.
La ricordata ricchezza di informazioni e di punti di vista alternativi, anche di quelli particolarmente eterodossi rispetto alle idee maggioritarie e critici nei confronti dell'establishment, cui ha accesso l'utente, grazie a internet, si accompagna a una crisi di qualità dell'informazione. È noto, infatti, che, soprattutto in assenza dei controlli editoriali che caratterizzano l'operato dei media tradizionali, sulla rete si diffondono informazioni false, discorsi d'odio, affermazioni non verificate e opinioni polarizzate.
In definitiva, l'attuale sfida dell'informazione non riguarda tanto la ulteriore moltiplicazione delle già numerose voci che si fanno sentire nella sfera pubblica, quanto la salvaguardia della qualità dell'informazione medesima.
Tale esigenza appare tanto più pregnante ove si consideri che il pluralismo dell'informazione - tutelato dall'art. 21 Cost., dall'art. 11 CDFUE e dall'art. 10 CEDU - va riguardato non solo nella prospettiva del diritto di informare, ma anche in quella del diritto di ricevere l'informazione, ossia nella prospettiva dei cittadini che devono essere posti nella condizione di accedere a diversi punti di vista, per formarsi un'opinione con cui potere, tra l'altro, esercitare consapevolmente i diritti di partecipazione politica.
Affinché sia tutelato questo diritto, in un ambiente in cui sono prodotte e distribuite quantità enormi di informazioni, che espongono il cittadino a un vero e proprio sovraccarico mediatico, occorre tutelare e promuovere la qualità della comunicazione.
Quest'ultima, anche e soprattutto nei media tradizionali, di cui in questa sede si discute, può essere assicurata dando risalto alla funzione dei giornalisti operanti entro strutture dotate di una consistenza organizzativa e tecnologica tale da permettere il vaglio critico delle notizie, le inchieste e le analisi.
12.3.5.- Il contestato meccanismo dello scalino preferenziale si iscrive in (e partecipa di) una complessiva logica, sottesa all'intero corpo regolamentare divenuto fonte primaria in forza delle disposizioni censurate, che non irragionevolmente è volta a tutelare il nuovo volto del pluralismo dell'informazione.
Il sistema che il legislatore ha fatto proprio, incorporandolo nell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, infatti: a) nell'individuare quali requisiti di ammissione l'assunzione di un determinato numero di giornalisti e dipendenti, l'adesione a codici di autoregolamentazione e l'edizione di un determinato numero di telegiornali, seleziona tra le molteplici emittenti presenti sul mercato quelle che si impegnano nella qualità dell'informazione e nell'occupazione del settore; b) tiene conto, ai fini dell'ammissione, dell'esigenza di agevolare le emittenti operanti nelle regioni meno popolose, prevedendo un criterio proporzionale, per scaglioni, alla popolazione regionale; c) nel fare leva, ai fini dell'attribuzione del punteggio, principalmente sul dato dei giornalisti e dei dipendenti impiegati, individua un criterio che è volto a premiare le imprese che utilizzano professionalità al servizio della qualità e sono in grado di garantire occupazione; d) sempre ai fini del punteggio, nel dare risalto, in via secondaria, ai dati Auditel, è volto a premiare quelle imprese che sono più performanti ed economicamente stabili, e quindi hanno maggiore capacità di permanere sul mercato dell'informazione; e) ancora ai medesimi fini, nel prendere in considerazione, in misura minoritaria, le spese sostenute per costi innovativi, individua un criterio che è destinato a premiare il miglioramento del servizio reso e quindi, ancora una volta, la qualità dell'informazione; f) nel prevedere lo scalino preferenziale, punta a concentrare le risorse pubbliche in capo ai soggetti che rispondono ai sopra cennati requisiti, così evitando il fenomeno della contribuzione "a pioggia" agganciato alla mera occupazione degli spazi frequenziali, in passato censurato dalla più volte citata deliberazione della Corte dei conti n. 13 del 2015.
Tale sistema - del quale lo scalino preferenziale è una componente non irragionevole - mira, dunque, a superare la logica del mero sostentamento economico delle numerose emittenti televisive locali e punta, piuttosto, al miglioramento della qualità dell'informazione e all'incentivazione dell'uso di tecnologie innovative, oltre che al sostegno dell'occupazione delle imprese economicamente stabili e capaci di affrontare il mercato, in piena coerenza con gli obiettivi individuati dallo stesso legislatore al momento dell'istituzione del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione (art. 1, comma 163, della legge n. 208 del 2015 e art. 1, comma 1, della legge n. 198 del 2016).
12.3.6.- La scelta del legislatore appare peraltro compatibile con la giurisprudenza costituzionale che, nell'ambito della tutela del pluralismo informativo, si è occupata di aspetti limitrofi a quello oggetto dell'odierno scrutinio.
Nella sentenza n. 206 del 2019 questa Corte, occupandosi del pluralismo informativo in relazione ai contributi all'editoria, ha, in primo luogo, ricordato come il principio in questione sia stato affermato nel settore televisivo in un contesto di ristrettezza delle frequenze disponibili, al fine di consentire l'accesso alle medesime anche a soggetti privati.
In secondo luogo, la citata sentenza ha affermato che «[i]l rilievo costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero non comporta [...] che esista in via generale un diritto soggettivo delle imprese editrici a misure di sostegno dell'editoria».
Si è infine aggiunto che, nel quadro attuale, «i presìdi offerti dall'ordinamento a tutela del pluralismo informativo e del mercato risultano idonei ad assicurare tale valore, cosicché la garanzia del pur fondamentale diritto in questione non impone l'intervento finanziario dello Stato».
Conclusioni diverse non possono essere tratte dalle sentenze n. 168 del 2008 e n. 151 del 2005 - peraltro maturate in un assetto certamente diverso del sistema dell'informazione (era il momento iniziale del passaggio dall'analogico al digitale e internet era solo agli inizi della sua diffusione) - perché in tali occasioni questa Corte si è limitata ad affermare la riconducibilità all'interesse dello Stato all'attuazione del pluralismo informativo della contribuzione in favore degli utenti che avessero acquistato o noleggiato apparecchi idonei alla ricezione «dei segnali televisivi in tecnica digitale terrestre» (sentenza n. 151 del 2005), e dell'istituzione di un fondo volto a «finanzia[re] interventi concernenti l'acquisto di apparecchi televisivi dotati di decoder in vista del passaggio alla trasmissione con tecnica "digitale terrestre"» (sentenza n. 168 del 2008).
Dalle pronunzie citate, infatti, può trarsi la conclusione che il legislatore ha la facoltà di stanziare fondi in favore degli utenti per l'acquisto di strumenti tecnici destinati a favorire il pluralismo informativo, ma non che abbia l'obbligo di adottare misure di sostegno in favore delle emittenti televisive sganciate da criteri volti a favorire la qualità dell'informazione.
12.4.- Non fondata è anche la questione con riferimento alla dedotta violazione del principio della concorrenza.
12.4.1.- Il Consiglio di Stato, prendendo spunto da una segnalazione dell'AGCM, lamenta «l'idoneità della disciplina in contestazione a beneficiare un numero in ipotesi estremamente ristretto di operatori (in ipotesi, anche uno soltanto) esercenti [n]el medesimo ambito territoriale, a fronte di livelli di efficienza analoghi». In particolare, sarebbe ben possibile che, «a cavallo della centesima posizione, si collochino plurimi operatori esercenti nel medesimo ambito territoriale, di cui uno soltanto (o, comunque, un numero estremamente ridotto) entro la centesima posizione, in tale modo ammesso a concorrere a valere sul 95% dello stanziamento annuale».
12.4.2.- Il meccanismo dello scalino preferenziale, di per sé, non incide irragionevolmente sul principio della concorrenza.
Infatti, il principio concorrenziale non può essere inteso semplicisticamente come necessaria apertura del mercato al maggior numero possibile di operatori, e tra le finalità della tutela della concorrenza vi sono anche l'efficienza economica (sentenza n. 105 del 2016), la promozione dell'innovazione e il benessere del consumatore (sentenza n. 36 del 2024).
Sotto altra angolazione, può poi osservarsi che, ove il legislatore avesse deciso di attribuire le risorse esclusivamente ai primi cento graduati, il primo dei non ammessi al beneficio avrebbe potuto rivendicare un livello di efficienza analogo all'ultimo degli ammessi, ma ciò non avrebbe dato luogo ad una irragionevole compressione del principio di concorrenza, perché risponde ad una logica implicita in qualsiasi procedura concorsuale.
Se in qualsiasi graduatoria vi può essere uno scarto minimale di punteggio e quindi di «efficienza analoga», tra l'ultimo dei soggetti ammessi a contribuzione e quelli collocatisi in posizione immediatamente successiva e non ammessi, a maggior ragione deve considerarsi non manifestamente irragionevole che la contribuzione sia concentrata in misura maggioritaria in favore di un numero predeterminato e sufficientemente ampio di soggetti graduati e ripartita in misura anche significativamente ridotta tra gli altri soggetti ammessi.
Nel caso in esame, infine, non necessariamente le emittenti collocatesi dopo la centesima posizione e a ridosso della medesima sono destinate a beneficiare di un contributo sensibilmente inferiore a quelle che si collocano alla centesima posizione o immediatamente prima, rilevando nella concreta determinazione dello scarto ulteriori fattori, quali la differenza di punteggio e il numero delle emittenti effettivamente ammesse a contribuzione oltre la centesima posizione.
Quanto a quest'ultimo specifico aspetto, va osservato che sul novantacinque per cento dei contributi concorrono cento emittenti, mentre sulla restante parte potrebbe concorrere (e negli anni dal 2017 in poi hanno concorso) un numero anche molto minore: in tale caso la differenza nell'ammontare dei contributi spettanti ai soggetti che si collocano attorno alla centesima posizione potrebbe essere ridotta, se non, in ipotesi, finanche annullata.
È per questo motivo che l'art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 146 del 2017, incorporato nell'art. 4-bis del d.l. n. 91 del 2018, come convertito, prevede che, per le emittenti collocate oltre la centesima posizione, «si procede al riparto delle somme secondo il punteggio individuale conseguito per ciascuna delle tre aree indicate nella tabella 1, fermo restando che l'emittente collocatasi al centunesimo posto non può ottenere un contributo complessivo di importo più elevato di quella che si colloca al centesimo».
12.5.- Per le ragioni esposte, tutte le questioni sollevate devono ritenersi non fondate.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del decreto-legge 25 luglio 2018, n. 91 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, nella legge 21 settembre 2018, n. 108, e dell'art. 13, comma 1-bis, del decreto-legge 18 ottobre 2023, n. 145 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, in favore degli enti territoriali, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 15 dicembre 2023, n. 191, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 21, 24, 41, 77, 103, 111, commi primo e secondo, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli artt. 6, 10 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dal Consiglio di Stato, sezione sesta, con le ordinanze indicate in epigrafe.