Corte di cassazione
Sezione III civile
Ordinanza 12 luglio 2023, n. 19948

Presidente: Graziosi - Relatore: Gianniti

RILEVATO CHE

1. Con sentenza n. 4083/2019 la Corte d'appello di Milano, rigettando integralmente l'appello proposto da Mario Alberto B., Artura Katia B. e Carlo B., confermava la sentenza del giudice di primo grado che, rigettando l'opposizione, aveva confermato il decreto n. 8177/2014 con il quale il Tribunale di Monza, su richiesta della banca Monte dei Paschi di Siena, aveva ingiunto, da un lato, a Brioschi Contract s.r.l. il pagamento della complessiva somma di euro 149.543, quale saldo negativo di rapporto di conto corrente e conto anticipi e, dall'altro, ai fideiussori - gli odierni ricorrenti - il pagamento della somma di euro 84.000, ovvero entro l'importo massimo garantito.

Nella sentenza la corte di merito, dopo aver ripercorso il contenuto della sentenza di primo grado (pp. 6 e 7), ha ribadito:

- la competenza territoriale del Tribunale di Monza;

- la validità ed efficacia della fideiussione per cui è causa;

- l'inapplicabilità nella specie dell'art. 1956 c.c., non essendo stato provato che la banca fosse a conoscenza dell'aggravamento della situazione economica della società debitrice;

- che l'atto fideiussorio era stato redatto in forma scritta, come richiesto dall'art. 117 t.u.b.;

- la fondatezza della condanna per lite temeraria emessa dal giudice di primo grado, pronunciata altresì dalla corte in relazione al giudizio di appello.

2. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso Mario Alberto B., Carlo B. e Artura Katia B.

Ha resistito con controricorso la banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a.

Nessuna delle parti ha presentato memoria.

CONSIDERATO CHE

1. Il ricorso è affidato a due motivi.

1.1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la nullità della sentenza e del procedimento nella parte in cui la corte territoriale ha omesso di rilevare, anche d'ufficio, la nullità della fideiussione ex art. 1421 c.c. per contrasto all'art. 2 della l. n. 287/1990.

Sostengono che il documento negoziale azionato è un formulario redatto unilateralmente dalla banca, e non già, come erroneamente affermato da entrambi i giudici di merito, una dichiarazione dei fideiussori alla banca del loro costituirsi fideiussori della società Brioschi.

Rilevano che detto documento negoziale alle clausole 2, 6 ed 8 riporta le stesse clausole che la Banca d'Italia con provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005 ha ritenuto illegittime in quanto in contrasto con l'art. 2, comma 2, lett. a), della l. n. 287/1990, osservando che questa Suprema Corte, con ordinanza n. 28910/2017 e con sentenza n. 21878/2019, ha affermato che la coincidenza oggettiva delle condizioni contrattuali pattuite con quelle di cui agli artt. 2), 6) ed 8) del Modulo ABI dell'ottobre 2002 è condizione necessaria e sufficiente per ritenere che l'invalidità della intesa a monte tra istituti di credito, volta a restringere la concorrenza, si estenda in via derivata al contratto di garanzia a valle, stipulato tra la singola banca ed il singolo garante.

Adducono i ricorrenti che: a) la nullità per la natura anticoncorrenziale della fideiussione omnibus non è parziale, in considerazione della gravità delle violazioni che la determinano; b) può essere rilevata d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo (come affermato da Cass. n. 26242 del 2014, nn. 7294 e 16977 del 2017 e n. 4175 del 2020).

1.2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e/o erronea applicazione dell'art. 96, comma 3, c.p.c. nella parte in cui la corte di merito, in relazione ad entrambi i gradi di giudizio di merito, ha ritenuto sussistenti i presupposti, desumendo la loro colpa grave dalla circostanza che i molteplici motivi di impugnazione erano stati supportati da «tesi difensive totalmente prive di qualsivoglia fondamento giuridico, chiaramente pretestuose e dilatorie».

Sostengono che sia mancato un accertamento positivo della loro colpa grave e che l'agire in giudizio, anche per una pretesa che si rivela poi infondata, non è di per sé condotta rimproverabile (come affermato da Cass. n. 21570 del 2012, n. 24546 e n. 27354 del 2014, n. 1115 del 2016).

2. Il primo motivo è inammissibile, perché privo di autosufficienza.

Non è stato infatti indicato quando furono stipulati i contratti fideiussori, per cui non è dato sapere se può essere applicabile o meno la nullità (parziale) come recentemente riconosciuta dal supremo giudice nomofilattico - Sez. un. 41994/2021 - in relazione allo specifico modello ABI del 2002; si afferma soltanto (a pag. 9 del ricorso) che "il documento negoziale" dagli attuali ricorrenti "siglato" contiene la terna della clausole 3, 6 e 8, e che sarebbe "prodotto sub doc. 7 del fascicolo monitorio della Banca". Il principio dell'autosufficienza esige però, come è ben noto, che il giudice di legittimità possa rinvenire nel ricorso tutti i dati essenziali identificativi della vicenda, senza dover attingere ad altri atti e documenti, e nel caso in esame invece proprio il fondamentale elemento cronologico della stipulazione dei contratti di garanzia - necessario appunto per ricondurli allo schema ABI investito della nullità invocata - non è stato indicato nel ricorso.

3. Fondato è invece il secondo motivo.

Le Sezioni unite, con sentenza n. 9912 del 2018, hanno statuito che: «La responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell'azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione».

Il giudice d'appello, rigettando il motivo del gravame attinente alla condanna degli attuali ricorrenti ex art. 96/3 c.p.c., ad avviso dei ricorrenti "ha indirettamente tratto la convinzione della colpa grave" da loro tesi "chiaramente pretestuose e delatorie"; inferendo un "danno punitivo conseguente alla duplice condanna", poi, sarebbe sproporzionato e immotivato, perché agire per far valere una pretesa infondata non è di per sé censurabile.

In effetti il giudice d'appello, a pag. 12 della sentenza, osserva che gli appellanti - cioè gli attuali ricorrenti, appunto - si dolgono della condanna ex art. 96/3 "nonostante la omessa dimostrazione dell'elemento soggettivo", ma poi risolve rapidamente la doglianza con l'asserto che sussiste nel caso de quo colpa grave "avendo gli opponenti proposto tesi del tutto inammissibili e pretestuose, all'evidenza infondate e prive di qualsivoglia pregio, oltre che - a tratti - appositamente fuorvianti rispetto alla soluzione giuridica della vertenza".

Questo a proposito del motivo d'appello; poi direttamente per la condanna ex art. 96/3 disposta in appello la corte territoriale si limita all'asserto, a ben guardare meramente generico, che "la condanna per lite temeraria appare poi fondata anche (ed ancor più) nel presente giudizio" per avere gli attuali ricorrenti "proseguito nella proposizione di tesi difensive totalmente prive di qualsivoglia fondamento giuridico, chiaramente pretestuose e dilatorie".

La sostanza del motivo - che, come è noto, spetta al giudice di legittimità qualificare - si rinviene, allora, nella denuncia di una radicale carenza di motivazione: per entrambe le condanne ex art. 96/3, invero, la corte territoriale offre soltanto rapidi asserti generici - ovvero asserti apodittici, di "finta" motivazione - senza delineare alcunché di specifico (e per questo, ovviamente, non è presente neanche la identificazione di un elemento soggettivo concreto), e così realmente giungendo - al vizio motivazionale si congiunge anche questo, logicamente - a comprimere il diritto di difesa, come evidenzia la giurisprudenza invocata nel motivo stesso.

Invero la responsabilità di cui all'art. 96, terzo comma, c.p.c., presuppone, sotto il profilo soggettivo, una concreta presenza di malafede o colpa grave della parte soccombente perché agire in giudizio per far valere una pretesa non è di per sé condotta rimproverabile anche se questa si riveli infondata. La figura dell'art. 96/3 è evidentemente, per così dire, eccezionale e/o residuale, come l'istituto - evidentemente correlato - dell'abuso del processo, giacché una sua interpretazione lata o addirittura automaticamente aggiunta alla sconfitta processuale verrebbe a contrastare con i principi dell'art. 24 Cost., a prescindere poi da quelli sovranazionali.

4. Per le ragioni che precedono, dell'impugnata sentenza, dichiarato inammissibile il primo motivo, s'impone la cassazione in relazione al motivo secondo, con rinvio alla Corte d'appello [di] Milano, che in diversa sezione e composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione del suindicato principio.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso limitatamente al secondo motivo, cassando la sentenza per quanto di ragione e rinviando la causa, anche per le spese, alla Corte d'appello di Milano.