Corte di cassazione
Sezione I civile
Ordinanza 26 maggio 2022, n. 17017
Presidente: Campanile - Relatore: Iofrida
FATTI DI CAUSA
La Corte d'appello di Messina, con sentenza n. 257/2015, depositata il 23 aprile 2015 - in controversia promossa, nell'aprile 2001, da Gaetano S., nei confronti della Cooperativa Solemar, subentrata, nel 1995, alla Cooperativa «Consorzio dello Stretto», la quale chiamava in garanzia e quale unico responsabile il Comune di Messina, per sentire accertare la proprietà di alcuni terreni, in catasto iscritti al «fg 39, part. 683-383-384», siti in Messina Faro Superiore, occupati dal Comune, nel 1985, per la costruzione di alloggi di edilizia economica e popolare, poi realizzati dalla Cooperativa, con retrocessione degli immobili al S. - ha parzialmente riformato la decisione di primo grado, che, affermata la giurisdizione del giudice ordinario essendosi in presenza di un'occupazione «usurpativa» effettuata in assenza di titolo di proprietà, di dichiarazione di pubblica utilità o di irreversibile trasformazione del suolo, aveva respinto la domanda attrice di restituzione, pur in difetto di valida dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, della particella «683» (che risultava frutto di un frazionamento di porzione di mq 2.500 della part. 384), oggetto di un decreto n. 470 del giugno 1999, di acquisizione alla proprietà del Comune (che, pur incidentalmente dichiarato illegittimo, ai fini della domanda risarcitoria, non poteva essere annullato dal giudice ordinario e rappresentava un ostacolo alla pronuncia di accertamento della proprietà in capo all'attore), e di quella «384», illegittimamente occupata dalla Solemar, nonostante l'area non rientrasse tra quelle assegnatele per la realizzazione del programma edilizio, stante l'irreversibile trasformazione del suolo, per effetto della realizzazione dell'opera pubblica e l'impossibilità di pronunciare la retrocessione delle aree, condannando, quanto alla part. «683», la Cooperativa Solemar (e il Comune a tenerla indenne, per avere condotto con negligenza tutta la procedura espropriativa) al pagamento di euro 229.075,00 per l'illegittima occupazione e, quanto a quella «384», la sola Cooperativa al pagamento di euro 3.759,31, sempre a titolo di indennità di occupazione illegittima, oltre interessi legali, mentre della restante particella «383», accertata la permanenza della proprietà in capo all'attore, poiché non coinvolta nel decreto di acquisizione del 1999 e non occupata dalla Solemar, ma solo utilizzata dal Comune per la realizzazione di strade e marciapiedi, ne veniva respinta la domanda risarcitoria e ordinata la restituzione, da parte della Solemar, al medesimo.
In particolare, i giudici d'appello hanno sostenuto che: a) doveva essere confermata la giurisdizione del giudice ordinario, con rigetto del motivo di gravame sollevato dal Comune di Messina; b) la domanda dell'attore di restituzione anche delle particelle «683 e 384», oggetto di appello incidentale del S., doveva essere respinta, ai sensi dell'art. 3, comma 1, l. 458/1988, essendo esclusa la retrocessione al proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, poiché dette particelle erano state o oggetto di decreto del 1999 (incidendo i due fabbricati realizzati su mq 2500 della part. 683), di acquisizione della proprietà al Comune, o occupate ed irreversibilmente trasformate, con costruzione delle pertinenze degli alloggi; c) sussisteva la legittimazione passiva, rispetto alla domanda risarcitoria, della Solemar, per avere occupato le suddette particelle 683 e 384 con dolo, quanto alla seconda particella, e colpa grave, in concorso nell'illecito con il Comune, quanto alla prima particella, e del Comune, quanto all'illegittima apprensione della particella 683; d) i terreni in oggetto (part. 683 e 384) dovevano ritenersi edificabili, stante l'insediamento in PEP, e il valore doveva stimarsi, effettuata una media tra i valori espressi dal CTU con il metodo della permuta e con quello sintetico-comparativo, in euro 207,00 al mq, per la part. 683, con spettanza all'attore di un risarcimento di euro 517.500,00, e in euro 90,00 e 30,00 per la part. 384, con spettanza all'attore di un risarcimento di euro 31.800,00, cui doveva aggiungersi un risarcimento per la perdita delle utilità ricavabili dall'epoca della immissione in possesso alla domanda di risarcimento danno, secondo il criterio di 1/12 annuo dell'indennità virtuale di espropriazione, e rivalutazione monetaria e interessi legali.
Avverso la suddetta pronuncia, S. Gaetano propone ricorso per cassazione, notificato il 23 maggio 2015, affidato a cinque motivi, nei confronti del Comune di Messina (che resiste con controricorso, notificato il 30 giugno 2016) e della Società Cooperativa Solemar a r.l. (che non svolge difese).
Il ricorrente ed il controricorrente hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, ex art. 360, n. 4, c.p.c., la motivazione apparente, in violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in merito al rigetto della domanda di restituzione dei terreni; b) con il secondo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3, c.p.c., dell'art. 3, comma 1, l. 458/1988, essendo inapplicabile tale disposizione in assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità; c) con il terzo motivo, l'omesso esame, ex art. 360, n. 5, c.p.c., di fatto decisivo in merito al rigetto della domanda restitutoria pur in mancanza di una valida dichiarazione di pubblica utilità; d) con il quarto motivo, la motivazione apparente, in violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., ex art. 360, n. 4, c.p.c., in merito all'individuazione dei soggetti legittimati passivi rispetto alle domande risarcitorie; e) con il quinto motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 2043 e 2055 c.c., in relazione alla responsabilità solidale degli enti convenuti, per effetto dell'estensione automatica al terzo chiamato Comune della domanda attorea.
2. La prima censura e la quarta censura, implicanti vizio di motivazione apparente della sentenza impugnata, in punto di rigetto della domanda di restituzione di tutti i terreni e di legittimazione passiva rispetto alle domande risarcitorie, sono infondate.
Il ricorrente assume che vi sarebbero affermazioni inconciliabili e contraddittorie nella decisione impugnata perché la Corte territoriale: a) pur avendo affermato che si verteva in ipotesi di occupazione usurpativa e richiamato il principio espresso nella sentenza delle Sezioni unite n. 735/2015, ha ritenuto comunque impedita la restituzione di alcuni dei terreni di proprietà, per effetto dell'irreversibile trasformazione dell'area, con la costruzione dei fabbricati di edilizia residenziale pubblica, ai sensi dell'art. 3, comma 1, l. 458/1988; b) ha confermato l'accoglimento della domanda risarcitoria soltanto nei confronti della Cooperativa Solemar, condannando il Comune a garantire e manlevare la Solemar di quanto fosse tenuta a corrispondere all'attore in dipendenza dell'occupazione della particella 683, malgrado si vertesse in ipotesi di litisconsorzio necessario, avendo la convenuta Solemar invocato l'unica responsabilità del Comune ed avendo l'attore «esteso» la domanda ne confronti del chiamato in causa.
Ora, la Corte d'appello ha espresso le ragioni del proprio convincimento, affermando: a) quanto al rigetto delle domande di restituzione (che, come ribadito a pag. 11 della sentenza, l'attore «aveva proposto come prima domanda») anche delle part. 683 e 384, che, per la part. 683, tale porzione aveva formato oggetto del decreto sindacale n. 4701 del 1999 di acquisizione al patrimonio comunale e, per entrambe le particelle, la 683 e la 384 (quest'ultima occupata dalla Solemar, nonostante l'area non rientrasse tra quelle assegnatele dal Comune per la realizzazione del programma edilizio), vi era stata l'irreversibile trasformazione del suolo, per effetto della realizzazione dell'opera pubblica, gli alloggi di edilizia residenziale pubblica e le relative pertinenze, ed era quindi esclusa, per legge, la retrocessione (ai sensi dell'art. 3 l. 458/1988); b) quanto alla legittimazione passiva rispetto alla domanda risarcitoria, chiara la responsabilità della Solemar, doveva accogliersi la domanda di garanzia spiegata da Solemar nei riguardi del Comune quanto alla part. 683, stante la gestione amministrativa della vicenda approssimativa e discutibile dell'ente locale per avere «confuso gli atti che riguardavano il Consorzio dello Stretto e la Cooperativa Solemar, apprendendo al patrimonio comunale beni che erano ancora di proprietà privata senza poi condurre legittimamente a termine la procedura con la emissione del decreto di espropriazione».
Le Sezioni unite (Cass. 22232/2016) hanno precisato che «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture».
In ultimo, giova altresì ribadire che «la conformità della sentenza al modello di cui all'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. non richiede l'esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, essendo sufficiente, al fine di soddisfare l'esigenza di un'adeguata motivazione, che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l'iter seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata» (Cass. 8294/2011).
Nella specie, la sentenza non risulta affetta da motivazione apparente o contraddittoria, in quanto il ragionamento esplicitato non risulta del tutto illogico e incoerente.
3. Il secondo ed il terzo motivo sono invece fondati.
Prima dell'intervento delle Sezioni unite del 2015, questa Corte aveva affermato l'ammissibilità della tutela restitutoria nell'ipotesi in cui l'attività di trasformazione del suolo privato non fosse riconducibile ad alcun fine di pubblico interesse legalmente dichiarato (fattispecie cosiddetta di occupazione usurpativa) anche in relazione «agli interventi astrattamente qualificati da finalità di edilizia residenziale pubblica, posto che l'art. 3 della l. n. 458 del 1988, che esclude la restituzione degli immobili a tal fine utilizzati, va interpretato nel senso che l'operatività dell'esclusione resta subordinata alla preventiva esistenza di una dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace al momento della costruzione dell'immobile, a ciò inducendo sia il tenore della norma, che, con dizione analoga a quella dell'art. 42, terzo comma, Cost., introduce uno specifico vincolo di scopo ("per finalità di edilizia residenziale..."), che è da escludere in assenza della dichiarazione, sia la caratterizzazione della fattispecie dalla norma considerata, di annullamento o di declaratoria di illegittimità "del provvedimento espropriativo", che necessariamente presuppone l'esistenza della dichiarazione di pubblica utilità, sia l'interpretazione recepita dalla Corte costituzionale (sentenze n. 384 del 1990 e n. 486 del 1991), che considera la norma come una sostanziale applicazione al settore specifico della edilizia residenziale pubblica di quella particolare, ma diversa, fattispecie acquisitiva alla mano pubblica di beni privati costituita dalla figura della cosiddetta occupazione appropriativa, caratterizzata dall'esistenza di detta dichiarazione» (Cass. 18239/2005; Cass. 20131/2013).
L'art. 3 l. 458/1988 (abrogato dall'art. 58 del d.P.R. 327/2001, ma ancora in vigore, ex art. 57 t.u.e., per fattispecie anteriori all'entrata in vigore del t.u.e.) stabiliva, al primo comma, che il proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica aveva diritto al risarcimento del danno causato «da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene». La norma è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, la quale, con sentenza del 27 dicembre 1991, n. 586, ne ha esteso l'applicabilità all'ipotesi di mancanza del provvedimento espropriativo.
Orbene, a seguito dell'intervento delle Sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 735/2015, ogni distinzione tra occupazione acquisitiva ed occupazione usurpativa, a seconda della presenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, che comportava diverse conseguenze sul piano economico ed anche dell'individuazione del momento di consumazione dell'illecito (momento dell'irreversibile trasformazione del suolo con la realizzazione dell'opera pubblica o il momento della proposizione della domanda risarcitoria), è stata superata e deve, dunque, parlarsi, in entrambi i casi, di occupazione abusiva o illegittima tout court, essendo la relativa domanda risarcitoria caratterizzata da una medesima causa petendi, rappresentata da un illecito a carattere permanente (Cass. n. 7135 del 2015; n. 12260 del 2016; n. 22929 del 2017), cosicché l'atto abdicativo del diritto dominicale va ricollegato alla proposizione della domanda di risarcimento per equivalente, in riferimento al quale va operata la stima del bene distrutto (Cass. 12961/2018).
In particolare, le Sezioni unite del 2015, nell'interrogarsi, una volta espunto dall'ordinamento nazionale l'istituto dell'occupazione acquisitiva, elaborato dalla giurisprudenza e, successivamente, divenuto presupposto di diverse disposizioni di legge, per contrarietà dell'istituto con i principi dettati dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione EDU, se, da un lato, l'interpretazione della giurisprudenza sulle conseguenze dell'illecita utilizzazione fosse o meno «la sola consentita dal sistema» e, dall'altro, se le norme di «copertura all'istituto» potessero o meno essere «sganciate» da questo ed essere oggetto di una diversa interpretazione, data risposta positiva al primo interrogativo, hanno affermato, in ordine al secondo interrogativo e con riguardo specifico anche all'art. 3 della l. 458/1988 (disposizione, questa, abrogata dal d.P.R. n. 327 del 2001, art. 58, a decorrere dall'entrata in vigore dello stesso d.P.R., che, nell'escludere la restituzione del bene, «presuppone evidentemente che alla trasformazione irreversibile dell'area consegua necessariamente l'acquisto della stessa da parte chi ha realizzato le opere») che: a) tale disposizione «non ha carattere generale, essendo limitata alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata»; b) inoltre, come chiarito da Cass., Sez. un., n. 12546/1992, essa si riferisce ad una fattispecie che non può neppure ricondursi all'istituto dell'occupazione acquisitiva, non essendo configurabile l'effetto acquisitivo in favore dell'ente territoriale, in mancanza di una legittima procedura espropriativa, e neppure essendo ipotizzabile, secondo l'orientamento giurisprudenziale all'epoca espresso dal giudice di legittimità, l'accessione invertita in favore di cooperative (o di privati), mancando «sia l'irreversibile destinazione del suolo privato a parte integrante di un'opera pubblica (bene demaniale o patrimoniale indisponibile) sia l'appartenenza a un soggetto pubblico».
Questa Corte a Sezioni unite ha inoltre chiarito che «in materia di espropriazione per pubblica utilità, la necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui l'espropriazione deve sempre avvenire in "buona e debita forma", comporta che l'illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un'opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all'acquisto dell'area da parte dell'Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente»; l'illecito a carattere permanente, insito sia nell'occupazione appropriativa (occupazione sotto la vigenza della dichiarazione di pubblica utilità ma con realizzazione dell'opera pubblica in assenza di un decreto di esproprio) sia in quella usurpativa (ricorrente nell'ipotesi di mancanza anche di un valido ed efficace provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità dell'opera), è dunque inidoneo a comportare l'acquisizione autoritativa alla mano pubblica del bene occupato, con cessazione dell'illecito soltanto per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente (Cass. 22929/2017).
Deve poi richiamarsi il principio di diritto espresso da questa Corte nella ordinanza 16509/2019, secondo cui «nel caso di occupazione acquisitiva derivante dalla trasformazione irreversibile del terreno ablato nell'ambito di un procedimento inizialmente assistito da dichiarazione di pubblica utilità, e successivamente divenuto illegittimo per la mancata emanazione del decreto di esproprio nel termine di legge, l'inefficacia di detta dichiarazione opera ex nunc, non verificandosi alcun travolgimento ex post delle attività legittimamente compiute dalla P.A. sulla base del decreto di occupazione e in pendenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità», cosicché al privato è dovuta l'indennità di occupazione legittima «a far data dall'immissione in possesso nel bene fino alla perdita di efficacia della dichiarazione di p.u., che determina in ogni caso la sopravvenuta carenza di potere ablatorio della P.A.».
Ora, nella specie, il giudice di primo grado aveva, con sentenza del 2009, accertato essere intervenuta una «occupazione usurpativa» del terreno del S., da parte del Comune, «in difetto di titolo sulla part. 683 (ex 384)» e che «neppure facendo riferimento all'ordinanza n. 461 del 20 agosto 1985 era possibile rinvenire una valida dichiarazione di pubblica utilità dell'opera ex art. 13 l. 2359/1865» (pag. 4 della sentenza impugnata), in quanto la realizzazione di edifici di edilizia economica e popolare nei terreni in oggetto (le part. 683 e 384, rimaste in contestazione) era avvenuta in assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, essendo emerso dagli atti che, disposta dal Comune di Messina un'occupazione d'urgenza, per la costruzione di alloggi di edilizia economica e popolare, con decreto n. 461/1985, coinvolgente anche terreni di proprietà del S., la Cooperativa originariamente incaricata («Consorzio dello Stretto», cui poi era subentrata, nel 1995, la Cooperativa Solemar, la quale aveva realizzato e completato i lavori tra il settembre 1996 ed il maggio 2002, come descritto a pag. 15 della sentenza impugnata) aveva «realizzato gli immobili su terreni diversi da quelli occupati in via d'urgenza» (pag. 2 della sentenza impugnata e pag. 12 del ricorso, che riporta estratti della CTU espletata in primo grado). Il decreto sindacale n. 470 del 1999 consisteva, come riportato in ricorso, sulla base delle risultanze della CTU, in un atto con il quale «l'ente locale certificava l'avvenuta acquisizione al patrimonio comunale dei fondi occupati dalla Solemar... per effetto di accessione invertita... ed irreversibile trasformazione determinata dall'esecuzione di quegli interventi». Il Tribunale aveva rilevato l'intervenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità costituita dal decreto di occupazione d'urgenza del 1985, in mancanza di un'effettiva espropriazione entro i termini stabiliti e di qualsivoglia attività edificatoria sulle aree oggetto di occupazione d'urgenza, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.
Risulta, dalla sentenza della Corte d'appello, che il Comune, appellante principale, aveva contestato la statuizione di primo grado, deducendo che la fattispecie doveva essere ricostruita come «occupazione appropriativa», dal momento che il procedimento aveva preso «avvio dalla approvazione del piano di zona di cui alla del. CC 885/C del 19 dicembre 1979 nel quale era implicita la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera», il che giustificava anche la successiva determina sindacale dell'1 giugno 1999, di acquisizione dell'area al patrimonio comunale. Il S., appellante incidentale, aveva eccepito che la delibera del 1979, di approvazione del P.E.P. valevole ai fini della dichiarazione di pubblica utilità, non era stata neppure prodotta in giudizio e comunque l'irreversibile trasformazione dei terreni di proprietà del medesimo era avvenuta o nel 2002, alla data di completamento dei lavori, come accertato dal CTU, o nel giugno 1999, alla data del decreto sindacale di attestazione dell'acquisizione della porzione 683, non ancora irreversibilmente trasformata, al patrimonio comunale, in ogni caso «dopo la definitiva scadenza di validità del P.E.P. (al 19 dicembre 1994) ex art. 38, comma 2, l. 865/1971» non potendo operare la proroga triennale di cui all'art. 51 l. 457/1978 (in quanto relativa a piani di zona già in essere alla data della sua entrata in vigore e non quindi successivamente deliberati, quale quello in oggetto, risalente al 1979). La Corte d'appello, richiamandosi al contenuto della pronuncia delle Sezioni unite n. 735/2015, nelle more del giudizio intervenuta, non ha preso posizione sulla questione, ritenendo assorbente il fatto che non assumeva più rilievo, dopo tale arresto, la distinzione tra occupazione usurpativa e occupazione appropriativa e che nella specie vi era stata, quanto alle part. 683 e 384, la realizzazione del programma di edilizia residenziale pubblica, con operatività dell'art. 3 l. 458/1988, spettando al privato il solo risarcimento del danno.
Assume quindi il ricorrente che vi sia stata violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della l. 458/1988, ex art. 360, n. 3, c.p.c., nonché, ex art. 360, n. 5, c.p.c., omesso esame di fatto decisivo rappresentato dall'assenza di alcuna dichiarazione di pubblica utilità, in quanto, non ricorrendo il presupposto applicativo della costruzione e manipolazione del bene contrassegnata dal vincolo di scopo conseguente ad una dichiarazione di pubblica utilità, doveva e deve essere accolta la domanda restitutoria dell'attore, proposta in via principale, oggetto anche di specifica doglianza con appello incidentale (nel primo motivo), salvo un legittimo atto di acquisizione coattivo sanante ex art. 42-bis d.P.R. 327/2001, allo stato non intervenuto.
Deduce, in replica, il Comune che, da un lato, l'art. 3 della l. 458/1988, disposizione di carattere speciale, esclude possa disporsi la retrocessione di area utilizzata per edilizia residenziale pubblica, una volta che sia intervenuta la trasformazione irreversibile della stessa e «l'acquisto» da parte di chi ha realizzato le opere (peraltro, quanto alla part. 683, per effetto anche di acquisizione al patrimonio del Comune, con decreto n. 4701 del 1° giugno 1999), e, dall'altro lato, nella specie, il S. avrebbe, in primo grado e in appello, «espressamente abdicato al suo diritto alla restituzione» (anche implicitamente), chiedendo la condanna al risarcimento del danno».
Ora, tale rinuncia implicita alla domanda di restituzione, con abdicazione del diritto dominicale, non emerge dagli atti, avendo il S. chiesto sin dal primo grado, in via principale, la restituzione dei terreni di proprietà e, solo in via subordinata, il risarcimento del danno per equivalente, tanto da avere proposto specifico motivo di appello incidentale avverso la decisione di primo grado che aveva solo per uno dei tre terreni accolto la domanda restitutoria, ritenendo impossibile per gli altri la tutela reale, in applicazione dell'art. 2058, comma 2, c.c. (eccessiva onerosità) e 2933, comma 2, c.c. (ritenendo che la distruzione dell'opera di edilizia residenziale convenzionata integrasse pregiudizio all'intera economia nazionale).
Deve quindi ritenersi che il S. non avesse chiaramente rinunciato al suo diritto alla restituzione dei terreni di proprietà.
Occorre poi rilevare che sulla questione di giurisdizione (del giudice ordinario), in relazione a tutte le domande attoree, è calato il giudicato.
Orbene, come già detto, la proceduta è stata avviata (nel 1986) ed è proseguita nel vigore del comma 1 dell'art. 3 della legge speciale n. 458/1988; la realizzazione del programma costruttivo è stata completata nel 2002, ugualmente nel vigore della disposizione citata; il giudizio è stato introdotto nel 2001 quando il comma 1 dell'art. 3 della l. n. 458/1988 era ancora vigente.
Come già chiarito da questa Corte (Cass. 6390/2017; Cass. 25549/2018), la disposizione di cui all'art. 3, comma 1, l. 458 del 1988 - quale integrata con la sentenza additiva della Corte cost. n. 486 del 1991, che ha escluso la possibilità della retrocessione (da intendersi nel senso di restituzione, come precisato da Cass. n. 2712 del 1990) delle aree illecitamente occupate -, abrogata dall'art. 58 d.P.R. 327/2001, ma ancora applicabile, in alcune fattispecie pregresse (anteriori all'entrata in vigore del t.u.e., 30 giugno 2003), ratione temporis, deve essere intesa, «secondo l'impostazione esegetica convenzionalmente orientata data dalla menzionata sentenza n. 735 del 2015», «piuttosto che punto di emersione a livello normativo del fenomeno dell'occupazione acquisitiva, del quale il legislatore avrebbe preso atto», come «volta a riconoscere, secondo il normale criterio di efficacia delle leggi nel tempo di cui all'art. 11 preleggi, sia il diritto al risarcimento del danno per il proprietario del suolo utilizzato per opere di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, sia ad escludere in suo favore la tutela reale usualmente apprestata dall'ordinamento al danneggiato». Tuttavia, nei suddetti precedenti, è stata ritenuta non rilevante la questione della compatibilità di tale disposizione coi principi della CEDU in tema di art. 1 Prot. 1 alla Convenzione e, dunque, la sua legittimità costituzionale in relazione al disposto dell'art. 117 Cost. in quanto la parte ricorrente non aveva agito in via reipersecutoria, ma aveva chiesto il risarcimento per equivalente.
Il Consiglio di Stato (investito per giurisdizione esclusiva ex art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a.), con sentenza della VI Sezione n. 460/2019, in controversia avente ad oggetto una domanda di restituzione, previa riduzione nel pristino stato, di terreni di proprietà di privati, l'occupazione dei terreni ed irreversibilmente trasformati, malgrado inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità ed in assenza di decreto di esproprio definitivo, ha affermato, confermando la decisione di primo grado che aveva accolto la domanda, che: a) sulla scorta di quanto statuito dall'Adunanza plenaria con la sentenza n. 2 del 2016, un'interpretazione letterale dell'art. 3 della l. n. 458 del 1988, escludendo la retrocessione del bene (con diritto al solo risarcimento del danno), consentirebbe «la reintroduzione di una fattispecie di espropriazione larvata o indiretta, conseguente al mero fatto dell'irreversibile trasformazione dell'area a seguito del compimento dell'opera pubblica, con correlativo acquisto della proprietà del fondo da parte chi ha realizzato le opere»; b) è pertanto necessario sottoporre la disposizione, già ritenuta il punto di emersione a livello normativo del fenomeno dell'occupazione acquisitiva (Cass., Sez. un., 19 gennaio 2015, n. 735), ad un'opera di interpretazione giuridica che tenga conto degli approdi raggiunti dalle Corti interne alla luce dei fondamentali pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell'uomo; c) il contrasto tra l'istituto dell'occupazione acquisitiva e i principi dettati dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione EDU può quindi essere risolto in via ermeneutica, addivenendo ad un adeguamento interpretativo della lettera della disposizione di cui al citato art. 3, alla luce dell'art. 42 della Costituzione; d) deve quindi essere escluso il presupposto sostanziale «a monte» (il potere di acquisizione indiretta), con la conseguenza che cade, necessariamente, l'effetto meramente procedimentale «a valle» (il potere di non retrocedere il bene), così riconvertendo anche quest'ultima residuale ipotesi di occupazione appropriativa nel solco dei principi ormai consolidati dettati dall'Adunanza plenaria n. 2/2016; e) la previsione, così esattamente reinterpretata alla luce dei principi europei, costituzionali e giurisprudenziali delle Corti interne, nemmeno pone un dubbio di rilevanza, nel caso in esame, di una questione di legittimità costituzionale della l. n. 458 del 1988, art. 3, comma 1, in relazione al disposto dell'art. 117 Cost., comma 1.
Ora, ai sensi del comma 1 dell'art. 3 della l. n. 458/1988, l'utilizzazione di un'area per edilizia pubblica, sovvenzionata e convenzionata, con procedimento espropriativo dichiarato illegittimo o non concluso nei termini e forme di legge, determina per il proprietario il solo diritto ai danni, con esclusione della restituzione del fondo. La norma in esame, come già ritenuto da questa Corte (Cass., Sez. un., 735/2015) non presuppone necessariamente un'ipotesi di occupazione acquisitiva o usurpativa, mancando «sia l'irreversibile destinazione del suolo privato a parte integrante di un'opera pubblica (bene demaniale o patrimoniale indisponibile) sia l'appartenenza a un soggetto pubblico». Invero, la costruzione di alloggi di edilizia residenziale può essere compiuta non da soggetti pubblici ma da parte di cooperative all'uopo delegate dal Comune, il che non poteva dare vita ad entità materiali qualificabili come opere pubbliche (cfr. Corte cost. 1991 cit.) e gli alloggi realizzati vengono di regola assegnati a privati, al termine del programma costruttivo (cfr. Cass. 10709/1992; Cass., Sez. un., 12546/1992, ove si è evidenziato che l'intento del legislatore è stato quello di apprestare «tutela di un interesse solo indirettamente pubblico ma che non accede all'opera pubblica, essendo chiaro che, senza il riconoscimento legislativo, la posizione degli assegnatari di alloggi edificati mediante occupazione abusiva, pur se strutturalmente analoga a quella dell'ente beneficiario dell'opera pubblica, non avrebbe ricevuto tutela»).
Tuttavia, tale disposizione - premesso che per la sua applicazione la Corte d'appello avrebbe dovuto previamente verificare se ricorresse o meno una residuale ipotesi di occupazione appropriativa e quindi se vi fosse o meno una previa dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace al momento della costruzione dell'immobile, a ciò inducendo sia il tenore della norma, che, con dizione analoga a quella dell'art. 42, terzo comma, Cost., introduce uno specifico vincolo di scopo - deve ormai essere reinterpretata alla luce dell'art. 42 Cost. e dell'art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione EDU e quindi, dovendosi escludere un potere di acquisizione dei terreni in capo all'amministrazione, il divieto di restituzione del bene al privato, dettato dalla suddetta disposizione, non può essere ritenuto ancora operante.
4. Il quinto motivo, attinente a vizio di violazione di legge quanto alla domanda, subordinata, di risarcimento danni ed alla responsabilità solidale della convenuta Solemar e del terzo chiamato Comune, risulta inammissibile per novità (quanto al profilo dell'estensione automatica della domanda attorea, autonomo rispetto alla domanda di garanzia avanzata dalla convenuta) e preclusione da giudicato interno (non essendo stato proposto dal S. un motivo di appello incidentale sul punto della responsabilità solidale di Solemar e del Comune di Messina; il S. aveva solo contestato il mancato accoglimento della pretesa restitutoria, nonché altri profili relativi alla quantificazione della pretesa risarcitoria).
5. Per tutto quanto sopra esposto, vanno accolti il secondo e terzo motivo del ricorso, respinti il primo e quarto, assorbito il quinto e va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Messina. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo e il terzo motivo del ricorso, respinti il primo e quarto, inammissibile il quinto, e cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d'appello di Messina, in diversa composizione, anche in ordine alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.