Corte di cassazione
Sezione II civile
Ordinanza 14 marzo 2022, n. 8229

Presidente: Manna - Relatore: Grasso

LA CORTE OSSERVA

Alla Gaburri s.r.l., in solido con Giambattista G., venne applicata, con ordinanza ingiunzione emessa dal Comune di Rezzato, sanzione amministrativa pecuniaria per avere violato l'art. 29, comma 2, l.r. Lombardia n. 14/1998, per avere escavato sabbia e ghiaia in difformità rispetto a quanto autorizzato.

La società sanzionata e Giambattista G. proposero opposizione davanti al competente Tribunale contestando la quantificazione dell'escavato e della sanzione, che era stata calcolata presupponendo, spiegavano gli opponenti, una insussistente reiterazione dell'illecito, sulla base di tariffe superiori, che erano state deliberate dal Consiglio regionale in data successiva alla commissione dell'illecito e senza tenere conto delle difficoltà finanziarie della società opponente.

Il Tribunale, accertato un escavato illegale inferiore al contestato, accolta in parte l'opposizione, ridusse la sanzione da euro 4.266.089,00 a euro 635.289,90.

Il Comune di Rezzato impugnò la sentenza di primo grado e la Corte di Brescia, per quel che qui rileva, accolse il secondo motivo d'appello, con il quale il Comune aveva contestato violazione o falsa applicazione del principio del favor rei e l'inosservanza di quello del tempus regit actum, poiché il giudice di primo grado aveva reputato doversi applicare la tariffa di euro 0,41 per mc, prevista dal decreto del Consiglio regionale 28 settembre 2004, invece che quella di euro 0,70, che era stata applicata dal Comune in quanto vigente (decreto del Consiglio regionale dell'8 novembre 2011, avente efficacia dall'1 gennaio 2011), versandosi in presenza d'illecito permanente. Accolse, del pari, il terzo motivo, con il quale l'appellante si era doluto per avere il Tribunale rideterminato la sanzione nel minimo, sol perché la società opponente versava in difficile situazione economica, trascurando, per contro, gli altri criteri di cui all'art. 11 l. n. 689/1981. All'esito il giudice d'appello fissò la sanzione di euro 1.446.188,60.

Avverso quest'ultima decisione Gaburri s.r.l. in liquidazione e Giambattista G. propongono ricorso sulla base di due censure e il Comune di Rezzano resiste con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 11 delle preleggi, 1 l. n. 689/1981, 29.15 e 25 l.r. Lombardia n. 14/1998, nonché 3 e 97 Cost., sulla base di quanto appresso:

- si era in presenza di modifiche tariffarie approvate da norme secondarie, le quali non potevano avere efficacia retroattiva;

- la previsione sanzionatoria di cui all'art. 29 della l. r. n. 14/1998 risultava "etero-integrata" dalle tariffe regolamentari, e nel rispetto del principio di legalità di cui all'art. 1 della l. n. 689/1981 avrebbe dovuto applicarsi la sanzione vigente al momento della commissione dell'illecito, né la natura permanente dell'illecito era di ostacolo a una tale conclusione, dovendosi anche in tal caso distinguere «il momento perfezionativo, momento in cui il fatto materiale (escavazione) si compie, dagli effetti che, in virtù della permanenza, continuano a prodursi».

1.1. Il motivo deve essere rigettato.

1.1.1. Occorre partire dalle previsioni di legge.

Dispongono i primi due commi dell'art. 29 della legge lombarda qui in rilievo:

«1. Nel caso di coltivazione di sostanze minerali di cava effettuata senza autorizzazione o concessione è irrogata una sanzione amministrativa di entità variabile tra trenta e sessanta volte la somma di cui alla lett. a), comma 1 dell'art. 15, riferita al volume di materiale estratto e, comunque, non inferiore a lire 20.000.000, ferme restando le ulteriori sanzioni previste dalle leggi statali, nonché, qualora ne ricorrano le condizioni, i provvedimenti di cui agli artt. 18, 20 e 21.

2. Nel caso di materiali scavati in eccedenza rispetto ai quantitativi autorizzati nell'ambito territoriale estrattivo previsto nel piano, l'entità della sanzione di cui al comma 1 è ridotta del 50%».

A sua volta il comma 1, lett. a), dell'art. 15 prevede:

«1. Il rilascio della autorizzazione è subordinato alla presentazione di convenzione stipulata, sulla base di uno schema tipo predisposto dalla Giunta regionale, tra il richiedente ed il Comune o i Comuni interessati, con la quale il richiedente si impegna:

a)- a versare annualmente al comune, in un'unica soluzione, una somma a titolo di contributo alla spesa necessaria per la realizzazione delle infrastrutture e degli interventi pubblici di recupero ambientale dell'area interessata direttamente o indirettamente dall'attività estrattiva, ulteriori rispetto a quelli posti a carico del titolare dell'autorizzazione; tale somma è commisurata al tipo ed alla quantità di materiale estratto all'anno, in conformità alle tariffe stabilite dal Consiglio regionale ai sensi dell'art. 25 e comunque non può essere superiore a quella occorrente per la realizzazione degli interventi predetti».

Sulla base di quest'ultima norma la Regione Lombardia, con atti di normazione secondaria, aggiorna periodicamente le tariffe. Si tratta, in definitiva, di previsione diretta alla determinazione del "prezzo".

Per contro, la fattispecie illecita risulta essere compiutamente descritta dalla norma primaria, la quale determina anche la sanzione (da trenta a sessanta volte il "prezzo" stabilito per l'estrazione). Le tariffe in discorso, quindi, seppure necessarie al fine di computare la sanzione in caso d'illecito, non hanno funzione integrativa diretta, non potendo l'amministrazione, di sua sponte, disporre che in caso d'illecito debba applicarsi una diversa e maggiore tariffa, ma, ben diversamente, essendo chiamata ad aggiornare il "prezzo" per la generalità dei gestori di cava.

Proprio per l'esposte ragioni qui non si rileva violazione del principio di legalità derivante dall'art. 1 della l. n. 689/1998, nei termini precisati da questa Corte con le sentenze nn. 1696/2005 e 13344/2010: è la legge che descrive la condotta illecita ed è essa che determina la sanzione prevedendo il coefficiente di moltiplicazione. Il moltiplicando, aggiornato dall'amministrazione, non è precipuamente determinato allo scopo di integrare la sanzione, ma al ben diverso e generale fine di stabilire il "prezzo" a mc; sicché giammai essa amministrazione potrebbe implementare esso, al solo scopo di rendere più severa la sanzione, senza, allo stesso tempo, aumentare in via generalizzata la tariffa, valevole per tutte le escavazioni.

1.1.2. Va poi rilevato che, secondo l'orientamento uniforme di questa Corte, in tema di miniere, cave e torbiere, l'esercizio abusivo dell'attività estrattiva rileva non solo per il quantum escavato, cui è commisurata la sanzione pecuniaria, ma anche per l'alterazione ambientale, la cui permanenza è destinata a durare fino a quando non venga eliminata nella sua materialità od antigiuridicità, sicché la coltivazione di una cava in difformità dall'autorizzazione-concessione integra un illecito amministrativo non istantaneo, ma permanente (Sez. 6, n. 5727 del 23 marzo 2015, Rv. 634709).

Si è poi chiarito che in tema di sanzioni amministrative, l'esercizio abusivo di cava per l'estrazione di sabbia e ghiaia costituisce illecito permanente, il cui momento consumativo - coincidente con l'inizio dello scavo in difformità dall'autorizzazione e che si distingue da quello perfezionativo, in quanto caratterizzato da una situazione giuridica già realizzata ma che si protrae nel tempo finché perdura la condotta illecita del contravventore - deve ritenersi cessato in seguito al sequestro dell'area interessata disposto dal giudice penale, atteso che l'esecuzione di tale misura cagiona, per l'autore dell'illecito, la perdita della libera disponibilità del bene e, quindi, l'impossibilità di determinarsi liberamente in ordine allo stesso; ne consegue che il termine di prescrizione quinquennale previsto dall'art. 28 della l. 24 novembre 1981, n. 689, decorre dall'esecuzione del provvedimento del sequestro adottato dal giudice penale, momento in cui viene a cessare la permanenza della condotta illecita (Sez. 2, n. 28652 del 23 dicembre 2011, Rv. 620357; conf., Cass. 21190/2006).

La permanenza, si è anche detto, cessa con l'accertamento dell'illecito (Cass. n. 17291/2006).

Ciò posto non sussiste la violazione del principio che impone applicarsi la legge del tempo, più volte ribadito da questa Corte, la quale ha affermato che in tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, irretroattività e di divieto dell'applicazione analogica di cui all'art. 1 della l. 24 novembre 1981, n. 689, comportano l'assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali ab origine, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all'art. 2, secondo e terzo comma, c.p., i quali, recando deroga alla regola generale dell'irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore (Sez. 6, n. 29411 del 28 dicembre 2011, Rv. 620859; conf., ex multis, Cass. n. 1105/2012).

In definitiva è utile precisare il seguente principio di diritto: «non contrasta con il principio di legalità che discende dall'art. 1 della l. n. 689/1981, dal quale deriva che la riserva di legge è applicabile anche in riferimento alle sanzioni previste dalle Regioni, la disciplina regionale, la quale con legge, oltre a descrivere l'illecito amministrativo, ne preveda la sanzione mediante indicazione di un coefficiente di moltiplicazione di un moltiplicando, costituente il prezzo del bene o del servizio (evaso dal trasgressore), periodicamente aggiornato con atto normativo secondario, al solo fine di rendere attuale il predetto controvalore, avente portata generale per gli utenti o fruitori, e non al precipuo scopo d'integrare la sanzione».

1.1.3. Infine, va rilevato che la denunzia di violazione di norme costituzionali è inammissibile, stante che la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell'applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l'eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (di recente, Sez. 5, n. 15879 del 15 giugno 2018, Rv. 649017; conf. n. 3709/2014).

2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o mancata applicazione degli artt. 8-bis, 11 e 16 della l. n. 689/1981.

Dopo aver precisato che, in senso proprio, in materia di trasgressioni amministrative risulta corretto discorrere di reiterazione e non di recidiva, siccome invece aveva scritto la sentenza d'appello, la stessa era da reputarsi insussistente essendo trascorso oltre un quinquennio dalla precedente contestazione; l'art. 11 della legge poneva, per la quantificazione della sanzione, parametri che non contemplavano la reiterazione. In ogni caso, i ricorrenti "confidano" nella conferma del computo di primo grado e, in subordine, evidenziano che la Corte di Brescia avrebbe dovuto ridurre la sanzione al minimo ai sensi dell'art. 16 della citata l. n. 689.

La doglianza è inammissibile.

2.1. La Corte locale ha censurato la sentenza di primo grado in punto di quantificazione della sanzione, che il primo giudice aveva fissato nel minimo sol perché la società sanzionata versava in non buone condizioni economiche, e ha rideterminato la stessa moltiplicando la tariffa a mc per 40, quindi ponendo la misura di cinque punti al di sotto della media.

La disquisizione dei ricorrenti sulla non sussumibilità della condotta nella categoria formale della reiterazione di cui all'art. 8-bis della l. n. 689 cit. non ha pertinenza. Invero, la formale qualità della reiterazione (se del caso nella forma specifica) veste rilievo agli «effetti che la legge espressamente stabilisce» (art. 8-bis, comma 5); mentre qui il giudice, nella determinazione della sanzione, in ordine alla quale esprime giudizio in questa sede non censurabile, ben può liberamente apprezzare, nell'àmbito dei criteri enunciati dalla norma, la circostanza che l'incolpato nel passato sia incorso nella medesima trasgressione.

Infine inconcludente deve dirsi la pretesa secondo la quale la Corte d'appello avrebbe dovuto applicare la misura ridotta, che la legge riserva nel caso di accesso del sanzionato al pagamento in misura ridotta nella fase amministrativa (art. 16).

I ricorrenti vanno condannati a rimborsare le spese in favore del controricorrente, tenuto conto del valore, della qualità della causa e delle attività svolte, siccome in dispositivo.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002 (inserito dall'art. 1, comma 17, l. n. 228/2012) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge;

ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002 (inserito dall'art. 1, comma 17, l. n. 228/2012), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.