Corte di cassazione
Sezione IV civile (lavoro)
Ordinanza 8 febbraio 2021, n. 2980
Presidente: Torrice - Relatore: Di Paolantonio
RILEVATO CHE
1. la Corte d'Appello di Messina ha riformato la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato l'illegittimità dei contratti a tempo determinato stipulati con Giovanni C. dall'Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico G. Martino ed aveva condannato l'ente al risarcimento del danno, quantificato in misura pari a 20 mensilità della retribuzione percepita dal ricorrente in costanza di rapporto;
2. la Corte territoriale ha premesso che fra le parti erano intercorsi diversi contratti, in forza dei quali il C. era stato utilizzato senza soluzione di continuità dal 15 gennaio 2007 al 31 marzo 2008 ed ha aggiunto che l'Azienda non aveva dimostrato ragioni idonee a giustificare il ricorso reiterato alla tipologia contrattuale;
3. il giudice d'appello, peraltro, ha ritenuto che la declaratoria di illegittimità dei termini apposti ai singoli contratti fosse ininfluente in quanto dalla stessa non poteva derivare, con criterio di automatismo, il diritto al risarcimento del danno, non allegato e non provato dall'originario ricorrente;
4. ha precisato che l'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 non prevede una sanzione civile con finalità repressive dell'abuso del contratto a termine e, pertanto, il danno che l'assunto a tempo determinato pretende di aver subito deve essere fondato quanto meno su elementi gravi, precisi e concordanti che consentano di fare ricorso alla prova presuntiva;
5. per la cassazione della sentenza Giovanni C. ha proposto ricorso sulla base di due motivi ai quali ha opposto difese l'Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico G. Martino.
CONSIDERATO CHE
1. con il primo motivo il ricorrente si duole della violazione dell'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, in relazione all'art. 18 della l. n. 300/1970 e sostiene che il risarcimento può costituire una delle misure previste dalla direttiva 1999/70/CE ai fini della repressione dell'abuso del contratto a termine solo qualora il lavoratore venga esonerato dalla prova del danno perché, altrimenti, la violazione della normativa eurounitaria rimarrebbe priva di sanzione, non essendo consentita nell'impiego pubblico la conversione del rapporto. Richiama giurisprudenza della Corte di giustizia e di questa Corte per sostenere che, ove emerga l'inesistenza delle esigenze che giustificano il ricorso al rapporto a tempo determinato, il danno, che va qualificato comunitario, deve essere in ogni caso liquidato e, in via equitativa, può essere utilizzato il meccanismo sanzionatorio previsto dai commi 4 e 5 della l. n. 300/1970;
2. la seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione dell'art. 32 della l. n. 183/2010 perché l'indennità prevista dalla norma richiamata in rubrica deve essere liquidata d'ufficio ed applicata anche nei giudizi pendenti all'entrata in vigore della nuova disciplina;
3. i motivi di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono fondati, nei limiti di seguiti precisati, perché la Corte territoriale, nell'affermare che il danno deve essere provato dal soggetto che assume di averlo subito e in nessun caso può essere ritenuto in re ipsa, si è discostata dal principio di diritto affermato dalle Sezioni unite di questa Corte secondo cui «in materia di pubblico impiego privatizzato, nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito» (Cass., Sez. un., n. 5072/2016);
3.1. con la richiamata pronuncia, alla quale le stesse Sezioni unite hanno dato continuità con la successiva sentenza n. 19165/2017, si è in sintesi osservato che, ove venga in rilievo la clausola 5 dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, il diritto dell'Unione non impone la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato, giacché può costituire una misura adeguata anche il risarcimento del danno;
3.2. nell'impiego pubblico contrattualizzato, poiché la conversione è impedita dall'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, attuativo del precetto costituzionale dettato dall'art. 97 Cost., il danno risarcibile, derivante dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., consiste di norma nella perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c.;
3.3. peraltro, poiché la prova di detto danno non sempre è agevole, è necessario fare ricorso ad un'interpretazione orientata alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia richiede un'adeguata reazione dell'ordinamento volta ad assicurare effettività alla tutela del lavoratore, sì che quest'ultimo non sia gravato da un onere probatorio difficile da assolvere;
3.4. sulla questione qui controversa è, poi, recentemente intervenuta la Corte di Lussemburgo che, chiamata a pronunciare sulla conformità al diritto dell'Unione dell'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, come interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte, ha evidenziato che «la clausola 5 dell'accordo quadro dev'essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un'indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall'altro, prevede la concessione di un'indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell'ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest'ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno» anche facendo ricorso, quanto alla prova, a presunzioni (Corte di giustizia 7 marzo 2018, in causa C-494/16, Santoro);
4. nel caso di specie la Corte territoriale se, da un lato, ha correttamente ritenuto che dall'illegittimità delle clausole appositive dei termini non potesse derivare l'instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, essendo a ciò ostativo il chiaro disposto dell'art. 36 d.lgs. n. 165/2001, dall'altro ha errato nel respingere la domanda risarcitoria perché non provata, finendo in tal modo per lasciare privo di sanzione l'abuso;
5. la sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato nei punti che precedono e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità;
6. la fondatezza del ricorso rende inapplicabile l'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Messina, in diversa composizione, alla quale demanda anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.