Consiglio di Stato
Sezione V
Sentenza 14 febbraio 2020, n. 1181

Presidente: Severini - Estensore: Prosperi

FATTO

La Nuova Italconsult Lavori s.r.l. ricorreva alla Sezione staccata di Lecce del Tribunale amministrativo della Puglia per il risarcimento dei danni dal ritardo nell'emanazione del provvedimento favorevole del Comune di Taranto sull'istanza presentata l'8 ottobre 1998, per la concessione di un'area demaniale marittima e contiguo specchio acqueo finalizzati alla realizzazione di un complesso turistico-ricettivo e porto turistico sito in località. S. Francesco degli Aranci - Blandamura.

Il Comune di Taranto si costituiva in giudizio ed eccepiva l'irricevibilità, l'inammissibilità del ricorso e l'infondatezza del ricorso.

Il Tribunale amministrativo, con sentenza 11 giugno 2019, n. 207 dapprima respingeva l'eccezione preliminare di irricevibilità del ricorso, basata sulla proposizione del ricorso oltre il termine di centoventi giorni stabilito dall'art. 30, comma 3, c.p.a. Conformemente al principio espresso da C.d.S., Ad. plen., con sentenza 6 luglio 2015, n. 6, il termine di decadenza di centoventi giorni dell'art. 30, comma 3, c.p.a., richiamato chiedere il risarcimento da lesione di interessi legittimi, non era applicabile ai fatti illeciti anteriori all'entrata in vigore del Codice, applicandosi per questi il regime prescrizionale quinquennale previgente di cui all'art. 2947 c.c.

La stessa sentenza riteneva poi infondata l'eccezione di inammissibilità proposta in relazione allo stato di dissesto del Comune (dichiarato con la delibera n. 234/2006), che avrebbe determinato secondo la p.a. la legittimazione esclusiva dell'organo straordinario di liquidazione.

La sentenza ricordava la giurisprudenza della Corte di cassazione per cui tale legittimazione riguardava le azioni esecutive, ma non vi era conseguenza per le azioni di cognizione, ma non comportava la perdita della capacità processuale dell'ente locale, né una sostituzione dell'organo della procedura agli organi istituzionali dell'ente per i comuni in stato di dissesto, a differenza del fallito.

Nel merito, la sentenza ricordava l'assunto di una condivisa giurisprudenza amministrativa, per cui la fattispecie del danno da ritardo va riferita all'art. 2043 c.c.; pertanto il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della domanda e, anche quando abbia ad oggetto il danno da ritardo, la domanda stessa può essere accolta solo se l'istante ha dimostrato che il provvedimento favorevole avrebbe potuto o dovuto essergli rilasciato già ab origine, allegando indici univoci per dimostrare che l'amministrazione ha agito con dolo o colpa grave, per cui il difettoso funzionamento pubblico è riconducibile a un comportamento gravemente negligente o a un'intenzionale volontà di nuocere, contro i canoni di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost.

Nel concreto la sentenza richiamava i passaggi procedimentali della vicenda: la nota del 21 dicembre 1999 che riteneva approvabile la proposta di realizzazione del porto turistico da parte della Nuova Italconsult Lavori, che otteneva l'anticipazione della prima quota di finanziamento di euro 1.181.136,93 nell'ambito del Patto territoriale per l'area di Taranto di cui al d.m. 29 gennaio 1999, n. 975; i plurimi ritardi nel rilascio della concessione demaniale marittima (già riconosciuti dal Tribunale amministrativo con sentenza n. 2075/2012), dalle reiterate convocazioni a lungo termine della conferenza dei servizi per l'esame del progetto della struttura turistico-ricettiva (la prima solamente il 10 ottobre 2000) con continui rinvii per richieste integrative e pareri di altre amministrazioni (inizialmente non richiesti), modifiche di progetto opposte all'interessata con fissazione della conferenza in ritardo e altri rinvii per assenza di altre amministrazioni coinvolte, dinieghi di competenze, studi sulla necessità della VIA (poi riconosciuta come non dovuta), ulteriori richieste di documentazione all'interessata, perplessità delle amministrazioni coinvolte sulle procedure necessarie; l'intervento della Regione Puglia dichiaratasi competente al rilascio di concessioni demaniali marittime per la realizzazione di opere di ingegneria costiera, infine ulteriori inerzie sino alla detta sentenza del Tribunale amministrativo 14 dicembre 2012, n. 2075 (passata in giudicato), che accertava l'inadempimento del Comune di Taranto ordinandogli l'adozione del provvedimento espresso, con riconoscimento che la vicenda era stata virtualmente oggetto di ben quattro procedimenti, non portati a conclusione, e cioè:

1) l'originaria Conferenza di servizi ex art. 6 (Approvazione del progetto definitivo), comma 2, lett. a), d.P.R. 2 dicembre 1997, n. 509 (Regolamento recante disciplina del procedimento di concessione di beni del demanio marittimo per la realizzazione di strutture dedicate alla nautica da diporto, a norma dell'articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59);

2) l'accordo di programma ex art. 6, comma 2, lett. b), dello stesso d.P.R. n. 509 del 1997, avviato il 20 dicembre 2005;

3) il procedimento di cui al d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 (Regolamento recante norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l'ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione di impianti produttivi, per l'esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi, a norma dell'articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59), instaurato l'11 agosto 2009 dalla trasmissione della pratica alla Struttura Unica Attività Produttive;

4) il procedimento di competenza della Regione, suscitato dall'invio della documentazione, da parte dello Sportello Unico Attività Produttive, il 17 ottobre 2011.

Il tutto con l'accertamento definitivo della concreta incompetenza della Regione per le opere di questo genere con l'esame dei progetti iniziato prima dell'entrata in vigore della l.r. Puglia 23 giugno 2006, n. 17 (Disciplina della tutela e dell'uso della costa) e l'obbligo del Comune di Taranto di portare a compimento, positivamente o negativamente, il procedimento in esame.

Il Comune rimaneva inerte e si rendeva necessaria la nomina di un commissario ad acta con ordinanza del Tribunale amministrativo n. 2121/2013, dalla quale muoveva un altro procedimento per verificare la destinazione urbanistica delle aree interessate, e che si concludeva dopo un altro carteggio da cui emergeva l'irrilevanza di alcune precedenti conferenze di servizi per l'assenza di preclusioni urbanistiche dimostranti l'inutilità di accordi di programma e variante urbanistica pur attivati, con il conclusivo accoglimento dell'istanza dalla ricorrente presentata l'8 ottobre 1998 e il rilascio del titolo con nota prot. n. 17855 del 3 febbraio 2015.

La sentenza del Tribunale amministrativo, passati in rassegna tali accadimenti, riteneva l'evidenza di tutti i requisiti della fattispecie risarcitoria.

Così, la sentenza stimava incontrovertibilmente illegittima la condotta del Comune, con il rilascio solo il 3 febbraio 2015 di un provvedimento che già avrebbe dovuto essere emesso dopo la conferenza dei servizi del 24 luglio 2003: allora si era formato l'assenso della maggioranza degli enti coinvolti ma il Comune, invece di adottare il provvedimento espresso di assenso, era entrato in un'interminabile spirale di errori e gravi negligenze, chiedendo anche l'intervento di enti non competenti come la Presidenza del Consiglio dei Ministri (dichiaratasi incompetente) e della Regione (erroneamente ritenutasi attributaria di poteri nonostante il Comune potesse opporre l'art. 10, comma 5, l.r. n. 17 del 2006, che esclude la competenza regionale allorquando «siano state attivate le conferenze di servizi per l'esame e l'approvazione dei progetti», come nel caso di specie); infine rimanendo inerte e in pratica obbligando la ricorrente a un ricorso avverso il silenzio, concluso dalla sentenza di accoglimento n. 2075/2012; e permanendo nell'inerzia anche dopo questa pronuncia, così provocando la nomina del commissario ad acta; ed infine lo stesso Comune, richiesto di fornire un semplice certificato di destinazione urbanistica, ne aveva fornito uno errato.

In sintesi era stata commessa una serie infinita di errori, omissioni e gravi negligenze da parte del Comune di Taranto, risolta solo dal rilascio commissariale del titolo il 3 febbraio 2015, a fronte di una situazione giuridica rimasta del tutto cristallizzata dal 24 luglio 2003, quando la conferenza di servizi si era conclusa con l'assenso della maggioranza degli enti coinvolti nel procedimento - ivi compreso l'assenso della Soprintendenza, preposta alla tutela di interessi sensibili - sicché nulla ostava all'emanazione del provvedimento finale di assenso, secondo la regola dettata dall'art. 14-quater l. n. 241 del 1990, nella versione applicabile ratione temporis.

Dunque il ritardo, intercorso tra il 24 luglio 2003 ed il 3 febbraio 2015, era dovuto ad una patente sequenza di errori/ritardi/negligenze/inerzia fondata su gravi violazioni delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede dell'amministrazione comunale, alle quali deve invece essere costantemente ispirato l'esercizio della funzione: con evidente sussistenza dell'elemento psicologico richiesto dalla fattispecie risarcitoria.

Per la quantificazione dei danni, la sentenza riteneva errata la relazione peritale di parte (che li stimava in complessivi euro 5.625.171,54) in primo luogo per il conteggio del contributo a fondo perduto concesso e poi revocato dal Ministero delle attività produttive, pari ad euro 3.543.410,78, perché questa voce non rappresentava né una spesa, né un mancato utile, consistendo in un contributo statale alla realizzazione di un'opera suscettibile di avvantaggiare l'intera comunità, non in un importo per arricchire la ricorrente: a fronte della mancata realizzazione dell'opera, tale voce non era conteggiabile né quale perdita, né quale utile.

Quanto al danno pari ad euro 1.223.998,94, cioè a quanto era stato preteso da Equitalia s.p.a. a titolo di restituzione dell'anticipazione offerta dal Ministero delle attività produttive, maggiorata di interessi, spese e sanzioni, la sentenza rilevava che agli atti vi era solo copia della cartella esattoriale, ma non anche la prova del suo pagamento.

Andava invece computata quale voce di danno emergente la somma di euro 2.267.112,81, pari alle spese effettivamente rendicontate, accertate e accettate dalla struttura tecnica (la locale CCIAA) incaricata di seguire l'opera, sottraendone però sia lo storno dei costi (fattura fornitura scogli, al netto della penale), pari ad euro 690.335,54, sia il valore recuperabile (consulenza dell'ing. Picciarelli), pari ad euro 533.000,35, sia il realizzo per vendita di parte del terreno (euro 246.549,00).

Quindi, il danno emergente riconoscibile ammontava ad euro 797.227,92, arrotondati ad euro 797.230,00.

Per la quantificazione degli utili, la sentenza affermava si dovesse tener conto della mancata realizzazione dell'opera, nonostante il passaggio di circa quattro anni dal rilascio del titolo; era quindi destituito di fondamento l'assunto del consulente di parte su un danno da mancato utile di euro 1.768.348,43, pari al ritorno in 25 anni del capitale investito - che è dato a sua volta dalla differenza tra euro 5.311.759,21, pari al costo complessivo dell'opera, ed euro 3.543.410,78, pari al suddetto contributo statale - e doveva considerarsi corretta una liquidazione equitativa di un utile annuale di euro 60.000, calcolato tenendo conto della capacità ricettiva dell'opera e del costo medio di noleggio di un posto-barca.

Considerato che la decorrenza del danno andava fissata al 24 luglio 2003 - quando si era manifestato l'assenso della maggioranza degli enti coinvolti in conferenza di servizi -, competevano alla ricorrente gli utili per 18 anni e mezzo di mancata attività, dal 24 luglio 2003 al 6 febbraio 2019, data della sentenza: quindi utili per complessivi euro 1.110.000 (euro 60.000 x 18 anni, + euro 30.000 per i sei mesi finali).

Tale importo andava decurtato del 30%, ad evitare un'indebita locupletazione dalla capitalizzazione in unica soluzione di redditi ben più bassi (euro 60.000 annui), che la ricorrente avrebbe conseguito anno dopo anno: quindi il totale mancato guadagno risarcibile era pari ad euro 777.000 (euro 1.110.000 - euro 333.000).

Perciò la sentenza stimava che il Comune di Taranto andava condannato a corrispondere alla ricorrente euro 797.230 a titolo di danno emergente, e euro 777.000 a titolo di lucro cessante: per un totale finale di euro 1.574.230,00 oltre interessi legali su tale importo, dalla data della decisione al soddisfo.

Il Comune di Taranto presentava appello al Consiglio di Stato, notificato il 7 agosto 2019, contestando la sentenza per aver imputato al Comune la responsabilità soggettiva del ritardo nel procedimento, che andava invece riferita a tutti gli enti e le amministrazioni che avevano partecipato ai procedimenti che si erano succeduti, in particolare alla Regione che aveva avocato a sé le competenze inducendo in errore il Comune, e alla Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio che aveva contribuito con pareri negativi a rallentare l'iter della vicenda.

Relativamente alla quantificazione del danno, la sentenza aveva seguito erroneamente il ragionamento della relazione peritale, che aveva effettuato le stime sia per il complesso turistico, sia per l'approdo nautico; ma la controversia aveva investito il ritardo nel rilascio della concessione marittima, cioè solo il secondo progetto, e così si dimezzavano i danni liquidati; e poi era erronea l'individuazione del 6 febbraio 2019 (data della sentenza) come dies ad quem: semmai tale termine andava collegato al 3 febbraio 2015, data del rilascio del titolo dopo di che i ritardi erano solo responsabilità dell'appellata.

Il Comune di Taranto concludeva per l'accoglimento dell'appello, rammentando anche la situazione di dissesto finanziario che lo aveva colpito nel 2006 e la crisi economica mondiale del 2008, fatti che si sarebbero riversati sull'attività dell'appellata.

La Italconsult Costruzioni s.r.l. si costituiva e spiegava appello incidentale, notificato il 4 settembre 2019. Svolgeva considerazioni avverso la parte di sentenza che aveva escluso dal danno emergente il contributo del Ministero delle attività produttive (in parte erogato, ma con revoca di cui alla cartella esattoriale citata, determinata dal comportamento negligente dell'appellante principale: e altrettanto valeva per quanto recuperato con la cartella predetta in punto aggio e interessi). Ancora erronea era la ricostruzione del danno liquidato, in particolare delle diminuzioni rispetto alla perizia, poiché non erano stati computati i ritardi materiali nella consegna delle aree, né era spiegabile alla luce dei principi e delle norme sui "frutti civili" l'abbattimento del 30% sul lucro cessante.

All'udienza del 16 gennaio 2020 la causa è passata in decisione.

DIRITTO

Con il primo motivo di appello, il Comune di Taranto contesta nel complesso la responsabilità risarcitoria affermata dall'appellata sentenza in ragione dell'addebitabilità intera a esso Comune del ritardo nel rilascio all'appellata della concessione demaniale marittima.

Per l'appello, la sentenza ha infatti omesso di valutare fatti evidenzianti il concorso di più soggetti pubblici; e che già emergevano dalla sentenza dello stesso Tribunale amministrativo n. 2075/2012 sul silenzio formatosi in relazione al rilascio della concessione che pur rilevava l'inerzia del Comune di Taranto: la sentenza aveva affermato che il ritardo - o meglio l'assenza di un provvedimento favorevole - andava considerata nell'incertezza delle amministrazioni sul procedimento da seguire.

Il Comune appellante indica che altre amministrazioni, tra cui la Regione Puglia e la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio, hanno contribuito a rallentare il procedimento (il che è riconosciuto dalla stessa Italconsult e dalla sentenza C.d.S., IV, n. 4451/2010, sulla revoca del contributo finanziario per la realizzazione dell'intervento sull'area di cui in controversia, revoca determinata dal superamento dei termini stabiliti dal d.m. 31 luglio 2000, n. 320).

La censura è fondata in parte.

Il Collegio ritiene che si debba muovere da alcuni accertamenti giudiziali sulla vicenda in questione, ossia dagli accertamenti contenuti nella sentenza del Consiglio di Stato appena qui citata, e nella sentenza del Tribunale amministrativo per la Puglia, sez. di Lecce, n. 2075/2012 (che ha affermato l'inerzia del Comune di Taranto).

In primo luogo va considerato che la sentenza del Consiglio di Stato indica che la revoca del contributo concretava una decadenza, istituto che opera con valore oggettivo al mero decorso del termine stabilito realizzare l'intervento (il che si riverbera sulla quantificazione del danno); ma non nega la configurabilità di una responsabilità da ritardo degli altri enti coinvolti per adempimenti che erano di loro competenza; inoltre a ritardare avevano contribuito i tempi dei procedimenti di conferenza di servizi e di valutazione regionale sull'impatto ambientale delle opere, i quali, all'epoca della trattazione della vicenda in Consiglio di Stato - aprile 2010 - non risultavano ancora conclusi, nonostante la presenza di numerosi pareri favorevoli.

La sentenza del Tribunale amministrativo 14 dicembre 2012, n. 2075 segna poi un momento cardine dell'insieme dei (giusti ed erronei) procedimenti che hanno fatto seguito alla istanza della Italconsult dell'8 ottobre 1998 di concessione di un'area demaniale marittima e specchio acqueo per la realizzazione del porto turistico. Dall'accertamento, ormai definitivo, operato da questa sentenza, si può identificare una definizione delle responsabilità conseguenti, che solo in parte possono farsi risalire al Comune.

In sintesi, l'istanza è stata seguita da quattro procedimenti, vale a dire:

1) l'originaria Conferenza di servizi ex art. 6 (Approvazione del progetto definitivo), comma 2, lett. a), d.P.R. 2 dicembre 1997, n. 509 (Regolamento recante disciplina del procedimento di concessione di beni del demanio marittimo per la realizzazione di strutture dedicate alla nautica da diporto, a norma dell'articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59);

2) l'accordo di programma ex art. 6, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 509 del 1997, avviato il 20 dicembre 2005;

3) il procedimento di cui al d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 (Regolamento recante norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l'ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione di impianti produttivi, per l'esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi, a norma dell'articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59), avviato l'11 agosto 2009 dalla trasmissione della pratica alla Struttura Unica Attività Produttive;

4) il procedimento di competenza della Regione, avviato a seguito dell'invio della documentazione, da parte della SUAP, il 17 ottobre 2011.

Solo a quel punto e passati ulteriori mesi, precisamente nel settembre 2012, perdurando l'inerzia nel provvedere la Nuova Italconsult Lavori s.r.l. ricorreva al Tribunale amministrativo avverso il Comune di Taranto, la Regione Puglia, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero per i beni e le attività culturali e la locale Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici: si deduceva la violazione dell'obbligo di provvedere di cui all'art. 2 l. 7 agosto 1990, n. 241, eccesso di potere per sviamento e ingiustizia manifesta e alla violazione dei principi del giusto procedimento e degli artt. 3 e 42 Cost.

Il Tribunale amministrativo rilevò che non vi era dubbio che la società ricorrente avesse titolo a ottenere la conclusione di un procedimento risalente a un'istanza dell'8 ottobre 1998, finalizzato al rilascio della concessione demaniale marittima: procedimento che, dopo ben quattordici anni, non era ancora giunto a conclusione.

Nondimeno, in questa sede ai fini risarcitori occorre vagliare quanto accaduto in questi molti anni, facendo riferimento alla diligenza richiesta ad un'amministrazione pubblica nel definire un procedimento amministrativo, sia con riguardo agli obblighi che le gravano anche ai sensi della l. n. 241 del 1990, sia con riguardo al dovere di ordinaria cura procedimentale di cui è gravata rispetto alla generalità dei soggetti.

Va a questi propositi anzitutto rilevato un primo ritardo del Comune, consistente nell'attivare un procedimento improprio, che difatti sarebbe stato in seguito sostituito con altro su sollecitazione della Capitaneria di Porto (la quale rappresentava la necessità di convocare una conferenza di servizi ai sensi del d.P.R. n. 509 del 1997 piuttosto che il procedimento previsto ai sensi del d.P.R. n. 447 del 1998); l'approvazione del progetto preliminare finalmente sopravvenuta a seguito delle integrazioni fornite dall'interessata ai sensi del d.P.R. n. 509 del 1997; l'interruzione di tale secondo procedimento in ragione del fatto che la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio aveva espresso parere negativo circa alle opere a mare con conseguente richiesta alla Italconsult di presentare modifiche (fatto avvenuto il 13 novembre 2002), unitamente alla sollecitazione nei confronti del Comune di Taranto a indire nuovamente la conferenza di servizi (poi fissata al 30 gennaio 2003, e ottenimento di parere favorevole ma condizionato della Soprintendenza, e comunque con l'assenza di determinazioni efficaci per via dell'assenza della Regione Puglia; e poi con seduta successiva stabilita per l'aprile 2013, dove l'assessore regionale esprimeva assenso, ma anche qui senza effetti, in vista dell'assenza del parere del Genio Civile per le Opere Marittime di Bari).

A questo punto, constatata l'impossibilità di una definizione, il carteggio venne rimesso alla Presidenza del Consiglio dei ministri: al seguito di che, la determinazione venne revocata. La Regione Puglia a quel punto richiese studi e chiarimenti sull'esclusione dell'opera dalla procedura di VIA, mai richiesta negli anni precedenti: quindi la Regione stessa confermava la non assoggettabilità alla procedura; la nuova Conferenza di servizi fu fissata al 30 agosto 2005 e, nella seduta conclusiva del 20 dicembre 2005, per la prima volta venne stabilito che occorreva seguire il procedimento dell'accordo di programma ai sensi dell'art. 6, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 509 del 1997.

Per il raggiungimento dell'accordo di programma fu fissata la data del 27 luglio 2006 poi spostato all'11 agosto 2009; il Comune di Taranto decise la trasmissione delle funzioni alla Struttura Unica Attività Produttive, competente sui procedimenti per impianti produttivi previsti dal d.P.R. n. 447 del 1998; il 16 settembre 2009 la Struttura richiese un parere sulla conformità del procedimento seguito alla Regione, la quale richiamò la l.r. n. 17 del 2006 affermando la propria competenza su "rilascio di concessioni demaniali marittime per la realizzazione di opere di ingegneria costiera": e il 17 ottobre 2011 la SUAP trasmise tutta la documentazione alla Regione: il che accadeva dopo che la Regione Puglia era ripetutamente intervenuta nei procedimenti rammentati e con tutt'altre determinazioni.

Nel gennaio 2012 la Italconsult ricordò che la competenza regionale doveva considerarsi esclusa per i progetti, anteriori alla l.r. n. 17 del 2006, per i quali fosse stata attivata la conferenza di servizi, ribadendo che alla procedura dovesse applicarsi il d.P.R. n. 509 del 1997.

Di seguito intervenne il rammentato ricorso della Italconsult al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, avverso l'inerzia delle varie amministrazioni. Il Tribunale amministrativo, con sentenza n. 2075/2012 (poi passata in giudicato per non impugnazione), pose ordine accertando che non spettava alla Regione definire il procedimento, non avendo essa competenza in materia di "rilascio di concessioni demaniali marittime per la realizzazione di opere di ingegneria costiera", e precisando che la l.r. 23 giugno 2006, n. 17 specificava all'art. 10, comma 5, con riguardo alle "concessioni per la realizzazione delle strutture dedicate alla nautica da diporto", l'esclusione della competenza regionale sui procedimenti di esame dei progetti preliminari e di approvazione dei progetti definitivi nel caso in cui fossero state attivate le Conferenze dei servizi per l'esame e l'approvazione dei progetti. Il che era avvenuto per il 30 aprile 2002, con il rilascio di tali concessioni secondo le procedure di cui al d.P.R. 2 dicembre 1997, n. 509: sicché il concreto procedimento andava portato a termine dal Comune di Taranto (che, avendolo avviato in base al d.P.R. n. 509 del 1997, sarebbe dovuto "pervenire alla determinazione conclusiva, sia essa positiva che negativa, procedendo al vaglio di tutti gli elementi richiesti dalla procedura dettata dal menzionato d.P.R. n. 509 del 1997, verificandone l'applicabilità al peculiare caso di specie, nonché avendo riguardo alla sussistenza di ogni condizione per il rilascio della concessione demaniale marittima").

Da tale necessaria rivisitazione dei procedimenti in concreto avviati o sviluppati, tra loro concatenati e condotti spesso in modo perplesso, conseguono due considerazioni che vanno messe alla base dell'attuale pronuncia di appello. Anzitutto, va rilevato che l'intera vicenda è stata segnata dal concorso di pubbliche amministrazioni, statali e regionali, la cui effettiva interlocuzione ha accentuato l'insicurezza giuridica di base e, con essa, il concreto compito del Comune di Taranto. Il che è avvenuto sulla base di un'incertezza di fondo sul procedimento da seguire che contraddistingueva l'orientamento di tutte le amministrazioni coinvolte, a sua volta ingenerata da una legislazione di conclamata semplificazione normativa (i due procedimenti di cui sopra sono entrambi disciplinati da regolamenti di delegificazione emanati in funzione di semplificazione ai sensi dell'art. 20, comma 8, l. 15 marzo 1997, n. 59) ma nei fatti di - il caso mostra - di "complessificazione"; poi con diverse assenze alle conferenze di servizi, le quali hanno contribuito seriamente ad aggravare i ritardi; poi con richieste di modificazione dello strumento procedimentale, ripensamenti su VIA e compatibilità con vincoli culturali di consistenza dubbia, con rivendicazioni di competenze (come quella, poi rivelatasi senza fondamento, della Regione Puglia) da cui sono derivate ulteriori incertezze e ritardi.

Quindi, se è vero che al Comune di Taranto è effettivamente addebitabile di aver tenuto un complessivo comportamento che non è rispondente ai canoni del buon andamento, si deve nondimeno rilevare che lo stesso Comune si è trovato anche senza una sua propria colpa in una condizione di effettiva incertezza sul procedimento, generato sia dalla sovrapposizione normativa di cui si è detto, sia dalla condotta di altre amministrazioni, in particolar modo della Regione (quest'ultima con responsabilità oltremodo ampie, essendo dotata di potestà legislativa concorrente e dunque per essa essendo di diversa qualificazione l'error iuris sulle norme). Del resto, il Comune non è dotato di potestà legislativa; e se è vero che, per principio fondamentale dello Stato di diritto, la legge non ammette ignoranza (il che grava anzitutto sulle pubbliche amministrazioni), è anche vero che la oggettiva confusione del quadro normativo, tanto più se determinata da un lato da una semplificazione normativa che non ha raggiunto il fine effettivo della certezza, dall'altro dal comportamento di altre amministrazioni pubbliche invece dotatetene, non può avere per conseguenza diretta e immediata l'addebitabilità dell'insicurezza giuridica così generata ad un'amministrazione diversa da quella statale o regionale, e comunque priva di poteri normativi.

Queste considerazioni sono essenziali al fine di identificare, eccezionalmente, la non ricorrenza in concreto della necessaria colpa in capo all'amministrazione comunale di Taranto. E, per la altrettanto eccezionale scusabilità dell'errore che vi è connessa, portano ad escluderne almeno in parte la responsabilità, quantitativamente e qualitativamente.

Non può invero non prendersi atto che non solo il Comune, ma anche le altre amministrazioni coinvolte hanno dovuto operare nel contesto particolare di quella normazione complessa e che si prestava ad essere interpretata come contraddittoria, e che evidentemente non offriva un ordinario livello di sicurezza giuridica. Si veda ad esempio - come del resto le rammentate vicende qui evidenziano - la sovrapposizione e la confusione tra accordo di programma ex d.P.R. n. 447 del 1998 e conferenza di servizi ex d.P.R. n. 509 del 1997. Il che, ponendo le amministrazioni, anche loro malgrado, in condizione di non poter identificare con certezza i procedimenti e le modalità procedimentali del loro doveroso agire, e prima ancora le loro competenze al riguardo, è ragionevolmente a base prima del risultato lesivo da ritardo in capo alla Nuova Italconsult Lavori s.r.l.

Vi è tuttavia una data di discrimine, oltre la quale l'incertezza normativa non è più adducibile a giustificante errore scusabile del Comune: ed è quella del 14 maggio 2013, che segna il passaggio in giudicato della sentenza 14 dicembre 2012, n. 2075 che ha affermato la competenza comunale. Da quel momento la colpa del Comune nel ritardo è inequivoca.

Va dunque riconosciuta la responsabilità piena, causa di risarcimento del danno, in capo al Comune di Taranto a decorrere da quella data.

Invero il Comune è rimasto inerte e la situazione si è protratta fino a quando il commissario ad acta il 3 febbraio 2015 ha rilasciato all'appellata il titolo richiesto: in presenza di una sentenza che, sciogliendo le insicurezze, aveva statuito l'incombenza del Comune, sicché non vi era più alcuna esimente per l'appellante Comune circa un'inerzia perdurata questa volta inspiegabilmente.

In tal senso la domanda giudiziale di risarcimento dei danni va accolta: nei limiti temporali suddetti.

La seconda censura, sulla quantificazione dei danni, va anch'essa accolta in parte e all'interno di tale parte per effetto di quanto testé rilevato in merito alla responsabilità del Comune.

In primo luogo è infondato l'assunto dell'appellante secondo cui i ritardi hanno investito la sola concessione dello specchio acqueo con la prospiciente battigia, in quanto l'appellata sarebbe stata libera di realizzare il complesso ricettivo retrostante.

In realtà è desumibile dagli atti in causa e dall'intera vicenda, che si trattava di un progetto complessivo, dove le strutture erano immediatamente collegate sia dal punto di vista spaziale, sia da quello funzionale. Lo dimostra l'insistenza della parte nel tentativo di evitare la revoca del contributo con il giudizio in Consiglio di Stato, dove il giudice dette atto con la richiamata sentenza n. 4451/2010 del compimento del 46% dell'opera, intendendo per opera tanto il fabbricato ricettivo, quanto il futuro porticciolo, rimasto a livello di progetto.

Dunque l'uso andava insieme con l'altro e non si poteva immaginare il primo senza il porto turistico cui doveva essere annesso. Dunque il danno emergente così come determinato dal Tribunale appare corretto.

Argomenti differenti vanno impiegati per il lucro cessante, appunto in riferimento con il parziale accoglimento del precedente motivo.

Se il criterio seguito dall'appellata sentenza appare logico e non arbitrario in quanto consono ai canoni di incasso da realizzazione di una struttura come quella in questione, vanno modificati i termini stabiliti dalla sentenza stessa, fatti risalire al 24 luglio 2003, ossia a quella che doveva essere la conclusione dell'originaria conferenza di servizi. In realtà, questi non potranno che decorrere dalla data (14 maggio 2013) del passaggio in giudicato della rammentata sentenza del Tribunale amministrativo che affermò la competenza del Comune.

Il termine finale per il lucro cessante va invece individuato nel 3 febbraio 2015, data di proposizione del ricorso di primo grado e cui faceva riferimento la domanda. Anche se l'esecuzione giuridica e materiale del provvedimento è avvenuta nel 2019, non poteva questo periodo essere trattato in causa perché non rientrante nella domanda e successivo ad essa; dunque non poteva il giudice di primo grado riconoscere un lucro cessante al 6 febbraio 2019, data della decisione della causa in primo grado, al di là della domanda giudiziale introduttiva.

Per completezza va escluso che concretizzino esimenti lo stato di dissesto del Comune risalente al 2006 in quanto non incidente con l'ordinaria attività amministrativa di gestione, né - certo - la crisi economica mondiale iniziata nel 2008, fatto che nulla ha a che vedere con l'inerzia di un Comune nel rilasciare un atto di concessione demaniale.

Quanto all'appello incidentale se ne deve rilevare l'infondatezza.

In primo luogo, quanto all'esclusione dal danno emergente del contributo del Ministero delle attività produttive, il Collegio condivide quanto rilevato dal Tribunale amministrativo, per cui il contributo statale era comunque collegato alla realizzazione di un'opera e non era una spesa dell'appellante incidentale, ma una pubblica erogazione nell'interesse della comunità a tale realizzazione; per le stesse ragioni non la si poteva ritenere un mancato utile risarcibile: l'assenza di un completamento dell'opera, visto che a tutt'oggi - nonostante il rilascio del titolo - essa non risulta definitivamente realizzata, dimostra la correttezza dell'affermazione che il contributo è una voce neutra non conteggiabile.

In secondo luogo la domanda di liquidazione di danni posteriori all'introduzione della causa, derivanti dalla protratta inerzia del Comune nel portare ad esecuzione il provvedimento del commissario, è con tutta evidenza inammissibile secondo quanto prima rilevato.

In terzo luogo il ragionamento del giudice di primo grado sulla decurtazione del 30% da capitalizzazione in un'unica soluzione di redditi da conseguire anno per anno appartiene alla logica della matematica finanziaria ed appare scevro da irrazionalità.

Segue da quanto sopra che competono all'appellata euro 797.230,00 a titolo di danno emergente ed euro 72.301,37 a titolo di lucro cessante per l'anno, gli otto mesi ed i venti giorni di ritardo al momento della proposizione del ricorso, decurtati questi ultimi del 30% per sterilizzare la locupletazione derivante dalla capitalizzazione del pagamento in un'unica soluzione, così come determinato nel giudizio di primo grado, per un totale di euro 869.531,37 oltre gli interessi legali su tale importo dalla data della decisione di primo grado.

Per le seguenti considerazioni l'appello principale deve essere in parte accolto nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, mentre deve essere respinto l'appello incidentale.

L'esito della causa permette la compensazione delle spese di giudizio per ambedue i gradi.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, accoglie in parte l'appello principale e respinge l'appello incidentale e, per l'effetto, riforma parzialmente la sentenza impugnata con il rigetto parziale del ricorso introduttivo.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.