Corte di cassazione
Sezione IV civile (lavoro)
Ordinanza 7 giugno 2019, n. 15509

Presidente: Napoletano - Relatore: Marotta

Rilevato che:

1. con sentenza n. 1273/2013, depositata in data 7 novembre 2013, la Corte di appello di L'Aquila, pronunciando sull'impugnazione proposta da Francesca M. nei confronti dell'Azienda Sanitaria Locale di Pescara, in riforma della decisione del Tribunale di Pescara, accertato il ricorso abusivo alla contrattazione a termine, condannava al risarcimento del danno in favore dell'appellante nella misura di 20 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori;

la Corte territoriale, superata la questione della decadenza ex art. 32 della l. n. 183/2010, riteneva che l'ASL di Pescara si fosse avvalsa delle prestazioni lavorative dell'appellante, mediante sottoscrizione di contratti a termine, al di fuori dei presupposti tipici previsti dalla legge e che pertanto tali assunzioni a termine fossero illegittime per violazione de le previsioni di cui al d.lgs. n. 368/2001;

inoltre rilevava il mancato rispetto dei limiti temporali legislativamente previsti;

esclusa, poi, la possibilità di conversione del rapporto, quantificava il risarcimento del danno in applicazione del meccanismo riparatorio di cui all'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 secondo il quale il danno non può che essere inquadrato quale pregiudizio derivante dalla perdita di un posto di lavoro assistito da tutela reale e così a termini dell'art. 18, commi quarto e quinto, della l. n. 300/1970 (cinque mensilità valore minimo - comma quarto - più quindici mensilità quale misura sostitutiva della reintegra - comma quinto -);

2. avverso tale sentenza l'Azienda Sanitaria Locale di Pescara ha proposto ricorso per cassazione con due motivi;

3. Francesca M. ha resistito con controricorso;

4. non sono state depositate memorie.

Rilevato che:

1. con il primo motivo l'Azienda ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 32 della l. n. 183 del 2010;

sostiene che i giudici di appello avrebbero errato nel respingere l'eccezione dell'Azienda relativa all'intervenuta decadenza dall'impugnativa dei contratti in questione;

evidenzia che non può applicarsi alla fattispecie in esame il comma 1-bis della disposizione citata (che ha prorogato al 31 dicembre 2011 il termine per l'impugnazione giudiziale dei licenziamenti) e che pertanto il previsto termine decadenziale, decorrente dall'entrata in vigore della l. n. 183 del 2010, è maturato per ciascuno dei contratti impugnati;

2. il motivo è infondato;

è, al riguardo, sufficiente richiamare quanto da questa Corte già ritenuto con riguardo all'applicabilità della proroga dei termini di decadenza ai contratti a termine già conclusi alla - data di entrata in vigore del Collegato Lavoro - stipulati anche in base alla normativa vigente prima del d.lgs. n. 368 del 2001 - e con riferimento a quelli i cui termini siano comunque decorsi primi dell'entrata in vigore della l. n. 10 del 2011 (si vedano Cass. 10 febbraio 2015, n. 2494; Cass. 2 luglio 2015, n. 13563; Cass. 14 dicembre 2015 n. 25103; Cass., Sez. un., 14 marzo 2016, n. 4913);

deve, infatti, ritenersi che il differimento dell'efficacia della nuova disciplina decadenziale, introdotta dall'art. 32, stante quanto disposto dal comma 1-bis aggiunto a tale disposizione dalla l. 26 febbraio 2011, n. 10, di conversione del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, che ha previsto che le disposizioni di cui al novellato art. 6, primo comma, l. n. 604/1966, relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011, sia operante per tutte le fattispecie alle quali questa nuova disciplina si riferisce;

in proposito è stato affermato che il comma 1-bis dell'art. 32, della l. n. 183 del 2010, introdotto dal d.l. n. 225 del 2010, convertito con modificazioni dalla l. n. 10 del 2011, nel prevedere "in sede di prima applicazione" il differimento al 31 dicembre 2011 dell'entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, si applica a tutti i contratti ai quali tale regime risulta esteso e riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato art. 6 della l. n. 604 del 1966, sicché, con riguardo ai contratti a termine non solo in corso ma anche con termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell'intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore del c.d. "collegato lavoro") e il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di sessanta giorni per l'entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale), si applica il differimento della decadenza mediante la rimessione in termini, rispondendo alla ratio legis di attenuare, in chiave costituzionalmente orientata, le conseguenze legate all'introduzione ex novo del suddetto e ristretto termine di decadenza;

considerato che la ratio del differimento dell'applicabilità del nuovo regime decadenziale risiede nell'esigenza di evitare che l'immediata decorrenza di un termine decadenziale, prima non previsto, potesse pregiudicare chi, intenzionato a contestare la cessazione del rapporto di lavoro o le altre tipologie di atti datoriali indicati nell'art. 32 cit., si trovasse ad incorrere inconsapevolmente nella decadenza, non sarebbe giustificata, a fronte del principio di eguaglianza, una differenziazione che limitasse tale differimento alla sola ipotesi dell'impugnativa del licenziamento ed escludesse le altre, tra cui la contestazione della legittimità dell'apposizione del termine al contratto di lavoro;

deve pertanto ritenersi che il legislatore abbia inteso posticipare l'applicabilità del nuovo regime decadenziale nel suo complesso con riferimento a tutti i termini introdotti dall'art. 32 cit.);

nella specie, come evidenziato dalla Corte di appello, trattandosi di contratti stipulati dal 2005 fino al 9 agosto 2011 ed essendo stato il giudizio di primo grado introdotto il 12 agosto 2011, il termine decadenziale era stato impedito;

2. con il secondo motivo l'Azienda ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 7 del d.lgs. n. 165/2001 e dell'art. 18 della l. n. 300/1970 nonché motivazione insufficiente;

deduce che erroneamente la Corte territoriale ha richiamato le condizioni di cui all'art. 7 del d.lgs. n. 165/2001 che riguardano gli incarichi individuali con contratto di lavoro autonomo e rileva che la condotta contrattuale adottata dall'Azienda si sottrae ad ogni ipotesi di censura per aver soddisfatto tutte le condizioni imposte dalla legge e dalla normativa pattizia;

si duole, poi, del riconoscimento di un risarcimento del danno in assenza di ogni prova e comunque in rapporto al pregiudizio derivante dalla perdita di un posto di lavoro assistito da tutela reale in assenza di ogni aspettativa a vedersi riconosciuto un impiego stabile, a tempo indeterminato;

rileva l'erroneità dell'applicazione del criterio di cui all'art. 18 della l. n. 300/1970 in presenza di un regime sanzionatorio (risarcitorio) quale quello di cui al d.lgs. n. 165/2001;

3. le doglianze sono inammissibili nella parte la ricorrente si limita a prospettare la legittimità del ricorso ai contratti a termine senza confrontarsi specificamente con il decisum della Corte territoriale che ha ritenuto l'illegittimità dei contratti a termine stipulati dalla M. per essere stata quest'ultima utilizzata per sei anni senza che le sue prestazioni corrispondessero ad obiettivi e progetti specifici e determinati e per essere stata, al contrario, la medesima adibita a compiti istituzionali dell'ASL senza che risultasse l'impossibilità oggettiva di utilizzare risorse umane già presenti all'interno dell'organizzazione aziendale per lo svolgimento della medesima attività e comunque "per la durata complessiva dei contratti";

4. per il resto le doglianze di cui al secondo motivo sono in parte fondate alla luce di quanto precisato da questa Corte nella decisione a Sezioni unite del 15 marzo 2016, n. 5072;

4.1. in tale pronuncia è stato innanzitutto evidenziato che il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore sicché non può predicarsi la conversione del rapporto quale "sanzione" dell'illegittima apposizione del termine al rapporto di lavoro o comunque dell'illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale;

4.2. d'altra parte il rispetto del a normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato - oltre che dall'obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente - anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l'illegittimo ricorso al contratto a termine. Sicché può dirsi che l'ordinamento giuridico prevede, nel complesso, "misure energiche" (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l'illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale;

4.3. la medesima pronuncia ha richiamato la decisione della Corte costituzionale (sent. 27 marzo 2003, n. 89) che ha escluso ogni contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. dell'art. 36 d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui tale ultima norma non consente, a differenza di quanto accade nel rapporto di lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni;

4.4. è, infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, dato che il principio dell'accesso mediante concorso - enunciato dall'art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione - rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati. In particolare nella cit. pronuncia la Corte ha enunciato, come criterio generale, che «[...] il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello [...] dell'accesso mediante concorso, enunciato dall'art. 97, terzo comma, della Costituzione»;

ed ha sottolineato che «l'esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, di cui al primo comma dello stesso art. 97 della Costituzione, di per sé rende palese la non omogeneità - sotto l'aspetto considerato - delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta dei legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati»;

4.5. in termini inequivocabili la Corte ha quindi escluso, sotto questo profilo, l'esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell'impiego privato, cui il principio del concorso è del tutto estraneo;

4.6. anche la successiva giurisprudenza costituzionale ha ribadito il principio del pubblico concorso, quale mezzo ordinario e generale di reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni, principio che risponde alla finalità di assicurare «il buon andamento e l'efficacia dell'Amministrazione», valori presidiati dal primo e dal terzo comma dell'art. 97 Cost. (sentenze n. 190 del 2005, n. 205 e n. 34 del 2004);

4.7. sempre nella suddetta decisione a Sezioni unite è stato anche evidenziato che la Corte di giustizia, nell'ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13, che richiama precedenti enunciati della stessa Corte (cfr. sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07; nonché ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a., C-364107; del 24 aprile 2009, Koukou, C-519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., da C-162/08, e del 1° ottobre 2010, Affatato, C-3/10), ha ribadito che la clausola 5 dell'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato;

4.8. la direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato così "lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia" e neppure contiene una disciplina generale del contratto a tempo determinato, ma pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell'abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5);

4.9. questa è la portata dell'accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5: precisa infatti la Corte di giustizia (7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, cit.) che "l'obiettivo di quest'ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato";

4.10. quindi la compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato (e così il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall'art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) è un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza (Corte cost. n. 89/2003, cit.);

4.11. è stato poi chiarito che le considerazioni svolte sull'obbligo del concorso pubblico e sul conseguente divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato nel caso di rapporto con pubbliche amministrazioni consentono di collocare fuori dal risarcimento del danno la mancata conversione del rapporto;

questa è esclusa per legge e tale esclusione - come detto - è legittima sia secondo i parametri costituzionali sia secondo quelli europei: non ci può essere risarcimento del danno per il fatto che la norma non preveda un effetto favorevole per il lavoratore a fronte di una violazione di norme imperative da parte delle pubbliche amministrazioni;

4.12. quindi il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perché una tale prospettiva non c'è mai stata;

come è stato precisato, il danno è altro;

il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem, subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi;

si può ipotizzare una perdita di chance (qualora le energie lavorative del dipendente sarebbero potute essere liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato);

ma neppure può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un'occupazione migliore;

4.13. tuttavia l'esigenza di conformità alla cit. direttiva del 1999 richiede, in analogia con la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, costituita dall'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010 di individuare la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, nell'esonero dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo;

4.14. ad avviso delle Sezioni unite, "la trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n. 13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l'esigenza di interpretazione adeguatrice: la quale si ferma qui e non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall'art. 32, comma 5, cit., perché - si ripete - la mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un'esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione";

4.15. è stato così conclusivamente affermato che: "il lavoratore pubblico - e non già il lavoratore privato - ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova (perché ciò richiede l'interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall'onere probatorio, all'indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5" e che tuttavia "non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato";

4.16. nel caso di specie, la Corte territoriale ha quantificato il danno applicando un parametro diverso da quello costituito dall'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010;

5. in conclusione va accolto, in parte qua, il secondo motivo di ricorso e rigettato il primo; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte di appello di Ancona che deciderà la causa adeguandosi al seguente principio di diritto: "Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall'art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all'art. 32, comma 5, l. 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 l. 15 luglio 1966, n. 604";

il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie, in parte qua, il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Ancona.