Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 9 aprile 2018, n. 31322
Presidente: Mazzei - Estensore: Barone
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con la pronunzia indicata in epigrafe la Corte di appello di Potenza ha confermato la sentenza del Gup presso il Tribunale di Matera del 10 febbraio 2015 che aveva dichiarato P. Giovanni Carlos colpevole del reato previsto dall'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011 perché, recandosi ad assistere presso lo stadio comunale di Matera all'incontro di calcio tra la locale rappresentativa e la Casertana, aveva contravvenuto al divieto di partecipare a pubbliche riunioni, contenuto nella misura [di] sorveglianza speciale cui era sottoposto.
2. Avverso questa decisione il P. ha interposto ricorso tramite il proprio difensore eccependo errata applicazione della legge penale atteso che la manifestazione sportiva cui aveva partecipato, per la "natura meramente occasionale ed estemporanea", esulava dalla nozione di «pubblica riunione» connotata dal carattere dell'abitualità.
In tesi difensiva, il divieto imposto al sorvegliato speciale deve, infatti, essere contemperato con il diritto costituzionalmente garantito alla persona di associarsi liberamente; ne consegue che, soltanto nelle ipotesi di abituale frequentazione da parte del sorvegliato speciale di luoghi pubblici, come osterie o bettole, si pone un problema di pericolosità del predetto e di conseguente salvaguardia della "sicurezza".
3. Il ricorso è fondato per le ragioni che si passa ad esporre.
4. In precedenti arresti, riguardanti fattispecie sovrapponibili all'odierna, questa Corte ha ritenuto che si configura il reato di cui all'art. 9 l. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011) nei confronti del "sorvegliato speciale" che si reca allo stadio per assistere ad una partita di calcio, integrando detto comportamento la violazione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni, imposto al predetto con la misura di prevenzione (Sez. 1, n. 15870 dell'11 marzo 2015, dep. 2015, Carpano, Rv. 263320).
A giustificazione del principio affermato, è stato ripetutamente scritto che la nozione di «pubblica riunione», pur essendo suscettibile di interpretazioni variabili, può essere circoscritta, tenendo conto della ratio della fattispecie in esame, volta a sanzionare l'inottemperanza da parte del sottoposto al divieto di partecipare a eventi pubblici in cui è più difficile il controllo dei presenti e più agevole la commissione di reati. Tra questi eventi rientra certamente la disputa calcistica che si tiene in uno stadio, trattandosi di una situazione in cui può intervenire un numero elevato e indeterminato di persone, a prescindere da quanti spettatori risultino, ex post, avervi effettivamente partecipato (Sez. 1, n. 15870 dell'11 marzo 2015, dep. 2015, Carpano, Rv. 263320; Sez. 1, n. 28964 dell'11 marzo 2003, dep. 8 luglio 2003, D'Angelo, Rv. 224925; Sez. 1, n. 42283 del 24 ottobre 2007, dep. 15 novembre 2007, Pesce, Rv. 238113).
5. Questi arresti si collocano in un'epoca antecedente rispetto la pronunzia della Grande camera della Corte Europea dei diritti dell'uomo (da ora in avanti Corte Edu) del 23 febbraio 2017 che ha deciso il caso De Tommaso contro Italia.
6. Con tale decisione la Corte Edu, ripercorrendo le principali linee interpretative maturate sui contenuti dell'art. 7 della Convenzione, ha affermato che:
«[§ 107] Uno dei requisiti derivanti dall'espressione "prevista dalla legge" è la prevedibilità. Pertanto, una norma non può essere considerata una "legge" se non è formulata con sufficiente precisione in modo da consentire ai cittadini di regolare la loro condotta; essi devono essere in grado - se necessario, mediante appropriata consulenza - di prevedere, a un livello ragionevole nelle specifiche circostanze, le conseguenze che un determinato atto può comportare. Tali conseguenze non devono essere prevedibili con assoluta certezza: l'esperienza dimostra che ciò è irrealizzabile. Ancora una volta, mentre la certezza è altamente auspicabile, può portare come strascico un'eccessiva rigidità, e la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze. Di conseguenza, molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui interpretazione e applicazione sono questioni di pratica (si vedano Sunday Times c. Regno Unito (n. 1), 26 aprile 1979, § 49, Serie A n. 30; Kokkinakis c. Grecia 25 maggio 1993, § 40, Serie A n. 260-A; Rekvényi c. Ungheria [GC], n. 25390/94, § 34, CEDU 1999-111; e Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano, § 141).
[108] Il livello di precisione della legislazione nazionale richiesto - che non può in ogni caso prevedere ogni eventualità - dipende in larga misura dal contenuto della legge in questione, dal campo che essa è finalizzata a contemplare e dal numero e dalla qualità di coloro cui è destinata (si vedano RTBF c. Belgio, n. 50084/06, § 104, CEDU 2011; Rekvényi, sopra citata, § 34; Vogt c. Germania, 26 settembre 1995, § 48, Serie A n. 323; e Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano, sopra citata, § 142). Spetta inoltre in primo luogo alle autorità nazionali interpretare e applicare il diritto interno (si veda Khlyustov, sopra citata, §§ 68-69).
[109] La Corte ribadisce che una norma è "prevedibile" quando offre una misura di protezione contro le ingerenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche (si vedano Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano, sopra citata, § 143, e Khlyustov, sopra citata, § 70). Una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità, benché le particolareggiate procedure e condizioni da osservare non debbano essere necessariamente comprese nelle norme del diritto sostanziale (si vedano Khlyustov, sopra citata, § 70, e Silver e altri c. Regno Unito, 25 marzo 1983, § 88, Serie A n. 61)».
6.1. Tanto premesso, la Corte Edu, dopo avere esposto, al par. 122, le ragioni per cui ritiene che gli obblighi di «vivere onestamente e rispettare le leggi» e di «non dare ragione alcuna ai sospetti» non siano stati delimitati dal legislatore italiano in modo sufficientemente dettagliato, ha espresso, al par. 123, la propria «preoccupazione» anche in relazione alla parte della disciplina in materia di misure di prevenzione, comprendente l'assoluto divieto di partecipare a pubbliche riunioni, affermando che «la legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezione del giudice».
Ritiene, quindi, (par. 124) che «la legge abbia lasciato ai giudici un'ampia discrezionalità senza indicare con sufficiente chiarezza la portata di tale discrezionalità e le modalità per esercitarla... [per cui] l'applicazione al ricorrente di misure di prevenzione non è sufficientemente prevedibile e non è accompagnata da adeguate garanzie contro i vari possibili abusi».
In definitiva, come affermato ai parr. 125 e 126, «la legge n. 1423/1956 [ora d.lgs. n. 159/2011] è redatta in termini vaghi ed eccessivamente ampi. Né le persone cui erano applicabili le misure di prevenzione (articolo 1) né il contenuto di alcune di queste misure (articoli 3 e 5) sono definiti dalla legge con sufficiente precisione e chiarezza. Ne consegue che la legge non soddisfaceva i requisiti di prevedibilità stabiliti dalla giurisprudenza della Corte. Conseguentemente, non si può affermare che l'ingerenza nella libertà di circolazione del ricorrente sia stata basata su disposizioni di legge che soddisfano i requisiti di legittimità previsti dalla Convenzione. Vi è pertanto stata violazione dell'articolo 2 del Protocollo n. 4 a causa dell'imprevedibilità della legge in questione».
7. L'evidenziato deficit di chiarezza e previsione - dunque di tassatività - della disposizione ha immediatamente determinato, nel sistema interno, la rimessione del quesito interpretativo circa le ricadute della decisione sovranazionale alle Sezioni unite penali di questa Corte, sul versante del rilievo penale della violazione delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale di vivere onestamente e di rispettare le leggi.
Con la sentenza n. 40076 del 27 aprile 2017, Paternò, Rv. 270496, il più autorevole consesso della Cassazione ha affermato che l'inosservanza delle prescrizioni generiche di "vivere onestamente" e di "rispettare le leggi", da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non configura il reato previsto dall'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, il cui contenuto precettivo è integrato esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche; la predetta inosservanza può, tuttavia, rilevare ai fini dell'eventuale aggravamento della misura di prevenzione.
8. Non diversamente dalla questione risolta dalle Sezioni unite, l'odierno Collegio ritiene che, anche con riferimento al «divieto di partecipare a pubbliche riunioni», la normativa interna necessiti di una rilettura "tassativizzante" e tipizzante della fattispecie, tale da rendere coerenza costituzionale e convenzionale alla norma incriminatrice di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 (Corte cost., sentenze n. 349 e n. 348 del 2007).
9. Occorre, invero, al riguardo evidenziare che nell'ordinamento italiano non è rintracciabile una definizione univoca di «pubblica riunione».
Senza alcuna pretesa di esaustività, si considerino le seguenti previsioni:
- l'art. 266, comma 3, n. 3, c.p. (reato di istigazione di militari a disobbedire alle leggi») stabilisce che «agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso... in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata»;
- l'art. 18 TULPS stabilisce, al comma 2, che è «considerata pubblica anche una riunione, che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per il luogo in cui sarà tenuta, o per il numero delle persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l'oggetto di essa, ha carattere di riunione non privata»;
- l'art. 4, comma 4, della l. 18 aprile 1975, n. 110 prevede che «è vietato portare armi nelle riunioni pubbliche anche alle persone munite di licenza»; la giurisprudenza, chiamata a definire, in relazione a tale norma, la nozione di «pubblica riunione» ha affermato che per configurarsi quest'ultima debbono concorrere tre requisiti: 1) lo scopo comune, che differenzia la riunione dall'occasionale concorso di persone in un determinato luogo; 2) la possibilità per chiunque di accedervi, sia pure a determinate condizioni, che non riguardino la persona; 3) una pluralità di persone riunite (così Sez. 1, n. 14302 del 23 settembre 1986, De Palma, che ha ritenuto ricorrere i presupposti anzidetti in relazione ad una condotta criminosa posta in essere in una discoteca dove si trovavano oltre mille persone, ivi convenute a seguito di un invito non ad personam, ma del tutto anonimo; in tempi più remoti, Sez. 6, n. 3093 del 4 dicembre 1981, dep. 1982, Soriente, Rv. 152877 ha ritenuto che nella nozione di pubblica riunione rientrasse anche «l'aula giudiziaria in occasione di un pubblico dibattimento», ciò in ragione del fatto che «la norma di cui all'art. 4 della legge 110/75 non specifica quali caratteri debba avere una riunione oltre quello pubblico, se cioè debba essere lecita o no, all'aperto o al chiuso, dimostrativa o meno, e così via»).
Si tratta di definizioni, non soltanto non perfettamente sovrapponibili tra loro, ma di ampiezza tale da esporre la relativa figura criminosa a censure di legittimità costituzionale per la violazione del canone della determinatezza-tassatività della fattispecie, che rende ingiustificata la grave menomazione del diritto costituzionalmente garantito di riunirsi pacificamente e senza armi (art. 17 Cost.).
Perplessità acuite dal fatto che gli indici elencati per qualificare «non privata» una riunione, rilevando anche alternativamente tra loro, elevano, oltre misura, il tasso della discrezionalità rimessa al giudice.
10. L'attuale orientamento giurisprudenziale in materia di misure di prevenzione, pur riconoscendo che la nozione di «pubblica riunione» sia suscettibile di interpretazioni variabili, ritiene superabile il deficit di certezza affidandosi alla ratio della fattispecie in esame, per cui, ai fini della configurazione del reato in esame, rileverebbe qualsiasi situazione in cui può intervenire un numero elevato e indeterminato di persone, tale da rendere più difficile il controllo dei presenti e più agevole la commissione di reati (Sez. 1, n. 15870 dell'11 marzo 2015, dep. 2015, Carpano, Rv. 263320).
La soluzione non convince in quanto è espressione di una inversione logico-giuridica per effetto della quale la ratio giustificatrice della fattispecie assurge ad elemento integrativo di quest'ultima.
Il risultato è un precetto penale che, pur per ragioni differenti rispetto all'obbligo estremamente generico di rispettare le leggi, si atteggia in termini non meno incerti ed imprecisi demandando di fatto alla discrezionalità del giudice il compito di colmare il vuoto di determinatezza della norma e in particolare di un elemento costitutivo del reato quale è la "pubblica riunione", da definire, volta per volta, attraverso la coniugazione del dato fattuale con la ratio fondante la fattispecie criminosa.
Da qui la «preoccupazione» espressa dal Giudice della Convenzione per la grave compromissione da parte del legislatore della libertà fondamentale di riunione, senza alcuna specificazione in merito all'ambito temporale o spaziale del relativo divieto.
Quale che sia delle interpretazioni sopra richiamate quella che si vuole seguire per restringere la portata della norma attraverso una definizione della nozione di «pubblica riunione», si tratta, sempre, di soluzioni non in grado di ridimensionare la vasta discrezionalità attribuita al giudice nel "comporre" il contenuto della norma incriminatrice, dal momento che potrebbero farvisi rientrare condotte partecipative ad eventi o situazioni, profondamente diversi tra loro e non sempre in linea con la ratio giustificatrice del divieto di assistervi.
Al pari di quanto osservato nella sentenza "Paternò", deve, anche in relazione alla questione ora dibattuta, evidenziarsi che il carattere precettivo della norma penale è «funzionale ad influire sul comportamento dei destinatari» ma tale carattere difetta alla prescrizione che vieta di partecipare a pubbliche riunioni, perché il contenuto incerto della stessa non è in grado di orientare il comportamento sociale richiesto. L'indeterminatezza dell'oggetto del divieto è tale che impedisce la stessa conoscibilità del precetto in primo luogo da parte del destinatario e poi da parte del giudice che, si è visto, essere anzi chiamato a dare, egli, un contenuto preciso alla prescrizione.
«Autorevole dottrina - si legge ancora nella sentenza "Paternò - proprio con riferimento al rapporto determinatezza-conoscibilità, ha osservato che qualora una sanzione penale venisse applicata in mancanza della possibilità di conoscere la norma precettiva, a causa della sua indeterminatezza, si avrebbe una situazione in cui il soggetto che subisce la pena risulterebbe in definitiva strumentalizzato dall'ordinamento a puri scopi di prevenzione generale mediante intimidazione, rivelandosi pertanto l'ordinamento totalmente insensibile a quelle esigenze di tutela della persona che sono espresse e realizzate dalla colpevolezza. In sostanza, il rapporto che lega la determinatezza della norma penale alla sua prevedibilità e conoscibilità finisce per influire sulla sussistenza della colpevolezza, intesa come possibilità del destinatario di essere motivato dal diritto. Il difetto di precettività... impedisce alla norma in questione di influire sul comportamento del destinatario, in quanto non sono individuate quelle condotte socialmente dannose, che devono essere evitate, e non sono prescritte quelle socialmente utili, che devono essere perseguite. In questa situazione di incertezza il sorvegliato speciale non è in condizione di conoscere e prevedere le conseguenze della violazione di una prescrizione che si presenta in termini così generali. D'altra parte, in presenza di un precetto indefinito l'ordinamento penale non può neppure pretenderne l'osservanza».
11. Un'esegesi costituzionalmente orientata della fattispecie in esame non può, dunque, che portare all'affermazione del principio secondo cui: l'inosservanza del divieto di partecipare a pubbliche riunioni da parte del soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non integra il reato previsto dall'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011.
12. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto ascritto all'odierno imputato (v. sub par. 1) non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Depositata il 10 luglio 2018.