Corte di cassazione
Sezione II civile
Sentenza 10 aprile 2018, n. 8805
Presidente: Petitti - Estensore: Chiesi
FATTI DI CAUSA
1. In data 30 maggio 2013 la Commissione nazionale per le società e la borsa - Consob ha notificato, tra gli altri, a Paola S., quale componente del collegio sindacale della Banca Monte dei Paschi di Siena (d'ora in avanti, breviter, BMPS), atto di contestazione relativamente alla violazione degli artt. 94 e 113 del d.lgs. 14 febbraio 1998, n. 58 (T.U.F.) per omissioni e carenze nei controlli rispetto ai prospetti informativi sottoposti alla Consob con i Documenti di Registrazione (cd. DR) depositati dal 2008 al 2012.
2. In particolare - come risulta dal decreto impugnato - nell'operazione di acquisto, dal Banco Santander, della Banca Antonveneta (il cui patrimonio netto aveva, all'epoca, un valore pari a 7,8 miliardi di euro), la BMPS varò un aumento di capitale di 6 miliardi di euro, di cui cinque da offrire in opzione agli azionisti ed uno riservato alla banca american JP Morgan Chase, e ricorrendo per il resto all'indebitamento: con precipuo riferimento al capitale riservato a JPM, questo veniva destinato all'emissione di strumenti finanziari convertibili in azioni BMPS denominati Floating Rate Equity-Linked Subordinated Hybrid (cd. FRESH), mentre le sottostanti azioni venivano concesse da 3PM in usufrutto trentennale alla stessa BMPS. Avviata nel 2012 dalla Consob un'indagine proprio su tale parte del finanziamento dell'acquisto di Banca Antonveneta, emergeva che la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, azionista di maggioranza di BMPS, aveva stipulato contratti derivati del tipo Total Rate Of Return Swap (TROR), aventi come sottosanti i FRESH, per una aliquota pari al 49% dell'emissione totale di questi ultimi. Emergeva, altresì, che nei bilanci erano state contabilizzate, sottacendo la portata di accordi collaterali sottostanti, operazioni in derivati denominate Alexandria, Santorini e Nota Italia.
3. All'esito dell'istruttoria, con delibera n. 18924 del 21 maggio 2014, la Consob ha irrogato a Paola S. la sanzione pecuniaria di Euro 40.000,00 (quarantamila/00) relativamente a ravvisati errori e carenze nei controlli del collegio sindacale rispetto a due specifiche tipologie di operazioni e, precisamente: (a) per la mancata inclusione, nei predetti DR emessi da BMPS, delle informazioni circa la stipulazione, da parte della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, di contratti derivati del tipo TROR per effetto dei quali la Fondazione medesima, quale maggiore azionista della BMPS, avrebbe sottoscritto titoli obbligazionari convertibili in azioni di quest'ultima; (b) per la avvenuta contabilizzazione a seguito di errate informazioni contenute nei medesimi DR, delle operazioni in derivati denominate Alexandria, Santorini e Nota Italia.
4. Paola S. ha dunque impugnato la predetta delibera, ex art. 195, comma 4, T.U.F., innanzi alla corte di appello di Firenze che, con decreto del 23 febbraio 2016, n. 322, ha rigettato l'opposizione, condannando l'opponente al pagamento delle spese di lite, nonché al doppio del contributo unificato.
5. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione la S., articolando sei motivi di gravame. Ha resistito la parte intimata con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie, ex art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo parte ricorrente lamenta la violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.), dell'art. 1, comma 2, dell'art. 3, comma 1, e dell'art. 11 della l. n. 24 novembre 1981, n. 689, nonché degli artt. 92 ss. c.p.c. (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.), dolendosi anzitutto della circostanza per cui la corte territoriale avrebbe omesso di pronunziarsi circa la eccepita non ascrivibilità, ad essa originaria opponente, dei contenuti - e, conseguentemente, delle omissioni, anche nella fase di controllo - dei Documenti di Registrazione approvati il 18 giugno 2008 ed il 18 giugno 2009 (cd. DR 2008 e 2009), per non rivestire ella, all'epoca di tali approvazioni, la carica di componente del Collegio Sindacale di MPS (assunta solamente il successivo 17 novembre 2009); quindi - ed "a valle" rispetto a tale difesa - per non avere la corte di appello di Firenze tenuto conto, in virtù della medesima ragione, della non imputabilità ad essa S. delle omissioni contenute nei predetti DR, onde pervenire ad una riduzione della sanzione amministrativa irrogata in concreto, nonché ad una diversa regolamentazione delle spese di lite.
1.1. Il motivo è inammissibile.
In via preliminare va chiarito che la censura deve essere correttamente riqualificata in termini di denunziato vizio motivazionale, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., per omesso esame di un fatto decisivo: la semplice circostanza che la motivazione dell'impugnato decreto non si soffermi espressamente sulla decorrenza della carica di componente del collegio sindacale, infatti, non implica, di per sé, un'omissione di pronunzia - rilevante ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. - non occorrendo che il giudice dia conto di tutte le argomentazioni a confutazione delle deduzioni difensive delle parti e ben potendo queste ritenersi implicitamente disattese, per incompatibilità con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia medesima (Cass., Sez. 1, 11 settembre 2015, n. 17956, Rv. 636771-01). Tanto premesso - ed osservato che la richiamata previsione del codice di rito, riformulata dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) - osserva il Collegio, in conformità con Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629831-01, che il motivo pecca di specificità, ex art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., non avendo la difesa di parte ricorrente trascritto (tanto più in considerazione delle argomentazioni difensive di senso contrario articolate dalla Consob - cfr. controricorso, p. 11 - sebbene la soluzione non sarebbe mutata neppure nel caso di non contestazione sul punto: cfr., in proposito, Cass., 23 luglio 2009, n. 17253, Rv. 609289-01) il contenuto della delibera n. 18924 oggetto di opposizione, nella parte in cui imputerebbe alla S. omissioni nei controlli relativi ai DR in questione, così precludendo alla Corte ogni valutazione circa la decisività del fatto storico di cui è detto (assunzione della carica di componente del collegio sindacale a far data dal 17 novembre 2009) ai fini di una diversa soluzione della controversia.
1.2. Discende da quanto precede l'assorbimento delle ulteriori doglianze in cui si articola il motivo in esame e che, secondo la stessa prospettazione di parte ricorrente, da tale asserita inimputabilità dipendono.
2. Con il secondo motivo parte ricorrente denunzia la violazione degli artt. 195 T.U.F. e 329 c.p.p., in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c., sostanzialmente dolendosi della tardività di talune delle contestazioni mossele dalla Consob (in specie, quelle relative alla stipulazione, da parte della Fondazione MPS, dei TROR su FRESH).
Il motivo è infondato.
2.1. Va anzitutto chiarito che è consolidato il principio per cui, in tema di sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme che disciplinano l'attività di intermediazione finanziaria, il momento dell'accertamento, dal quale decorre il termine di decadenza per la contestazione degli illeciti da parte della Consob, va individuato in quello in cui la constatazione si è tradotta, o si sarebbe potuta tradurre, in accertamento, dovendosi a tal fine tener conto, oltre che della complessità della materia, delle particolarità del caso concreto anche con riferimento al contenuto ed alle date delle operazioni (Cass., Sez. 2, 3 maggio 2016, n. 8687, Rv. 639747-01). La ricostruzione e la valutazione delle circostanze di fatto inerenti ai tempi occorrenti per la contestazione rispetto all'acquisizione informativa, e in particolare la stima della congruità del tempo utilizzato in relazione alla maggiore o minore difficoltà del caso, sono, poi, elementi rimessi al giudice del merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità, se non limitatamente al vizio motivazionale ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nei ridotti limiti in cui il relativo scrutinio è oggi ammesso. Cfr. la già richiamata Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01).
2.2. Precisamente, in relazione al sindacato sulla tempistica degli atti di indagine, questa Corte ha affermato (a) che il giudice deve limitarsi a rilevare se vi sia stata un'ingiustificata e protratta inerzia durante o dopo la raccolta dei dati di indagine, tenuto anche conto che ragioni di economia possono indurre a raccogliere ulteriori elementi atti a dimostrare la sussistenza, accanto a violazioni già risultanti dagli atti raccolti, di altre violazioni amministrative, al fine di emettere un unico provvedimento sanzionatorio, (b) che la valutazione della superfluità degli atti di indagine va effettuata con un giudizio ex ante (e in tal senso il giudice deve rilevare l'evidente superfluità, per essere manifestamente già accertati tempi, entità e altre modalità delle violazioni, senza omettere di considerare anche la possibile connessione con altre violazioni ancora da accertare), essendo irrilevante che indagini potenzialmente fruttuose in via prognostica si rivelino, ex post, inutili (cfr. Cass., Sez. 2, 30 ottobre 2017, n. 25730, Rv. 645950-01 e Cass., Sez. lav., 8 agosto 2005, n. 16642, Rv. 582917-01, entrambe in motivazione) e (c) che qualora gli elementi integranti un illecito amministrativo emergano dagli atti di un procedimento penale, il termine per la contestazione della violazione decorre dalla ricezione, da parte dell'autorità amministrativa, degli atti trasmessi dall'autorità giudiziaria (cfr. Cass., sez. 2, 30 marzo 2010, n. 7754, Rv. 612179-01).
2.3. Orbene, la corte territoriale ha dato ampiamente conto (cfr. decreto impugnato, pp. 13-15, sub § 4.1) delle ragioni che l'hanno portata a ritenere tempestiva la contestazione - avvenuta il 30 maggio 2013 - delle omissioni in questione alla S., individuando il dies a quo, ai fini del rispetto del termine previsto dall'art. 195, comma 1, T.U.F., in quello (10 aprile 2013) in cui è cessato il segreto investigativo disposto dalla Procura della Repubblica di Siena, mediante messa a disposizione della Consob medesima dei risultati dell'attività di indagine fino ad allora compiuta (cfr. anche l'art. 14, comma 3, della l. 24 novembre 1981, n. 689), comprensiva delle condotte poi ascritte all'odierno ricorrente e sanzionate, pro parte, con la delibera Consob n. 18924 del 21 maggio 2014; d'altronde, la previsione del segreto istruttorio, ex art. 329 c.p.p., impediva di portare a conoscenza degli indagati, attraverso una anticipata contestazione delle violazioni amministrative, gli elementi raccolti nell'ambito delle indagini penali, la cui divulgazione avrebbe potuto compromettere l'andamento di queste ultime (Cass., sez. 2, 5 novembre 2009, n. 23477, Rv. 609980-01).
La medesima Corte di appello ha, inoltre, evidenziato come, solo a seguito di tale disclosure sia divenuto chiaro il quadro effettivo delle complesse operazioni finanziarie poste in essere da BMPS e delle conseguenti responsabilità (anche dei componenti del Collegio sindacale).
2.4. Né coglie nel segno la difesa della parte ricorrente, laddove afferma che l'Autorità di vigilanza era già in possesso, anteriormente a tale data - e precisamente fin da luglio 2012 - della documentazione rilevante e sufficiente per muovere alla S. le contestazioni de quibus vertitur: il motivo pecca, in parte qua, di specificità, ex art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., non essendo stato trascritto il contenuto di tale documentazione, richiamata solamente in via riassuntiva (cfr. pp. 7-8 del ricorso) ed in maniera tale, dunque, da non consentire al Collegio di valutare se lo spessore della vicenda e le responsabilità della S. fossero - come sostenuto in ricorso - effettivamente così chiari già all'epoca indicata dalla ricorrente.
3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell'art. 94 T.U.F. e del Reg. CE 809/2004, in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c., per avere la corte di appello di Firenze ritenuto rilevante, ai fini della configurazione della responsabilità della S., l'omissione, nei prospetti informativi sottesi alle contestazioni per cui è causa, di informazioni (quale l'indicazione dei potenziali sottoscrittori degli strumenti finanziari FRESH e TROR), invero non richieste dalle menzionate previsioni normative.
Il motivo è, in parte infondato, in parte inammissibile.
3.1. L'art. 94 T.U.F. (nella formulazione vigente ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. 11 ottobre 2012, n. 84), introdotto all'interno del d.lgs. n. 58 del 1998 in recepimento della Direttiva 2003/71/CE (cd. "Direttiva prospetti") dispone che "il prospetto contiene, in una forma facilmente analizzabile e comprensibile, tutte le informazioni che, a seconda delle caratteristiche dell'emittente e dei prodotti finanziari offerti, sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell'emittente e degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti. Il prospetto contiene altresì una nota di sintesi recante i rischi e le caratteristiche essenziali dell'offerta (comma 1). Il prospetto per l'offerta di strumenti finanziari comunitari è redatto in conformità agli schemi previsti dai regolamenti comunitari che disciplinano la materia (comma 2). In esecuzione della menzionata Direttiva 2003/71/CE, peraltro, è stato emanato il Regolamento CE n. 809 del 2004 (Regolamento della Commissione recante modalità di esecuzione della direttiva 2003/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le informazioni contenute nei prospetti, il modello dei prospetti, l'inclusione delle informazioni mediante riferimento, la pubblicazione dei prospetti e la diffusione di messaggi pubblicitari), il cui secondo e sesto considerando precisano, rispettivamente, che "in funzione del tipo di emittente e di strumento finanziario interessati occorre fissare la tipologia di informazioni minime corrispondenti agli schemi più frequentemente utilizzati nella pratica" e che "nella maggior parte dei casi, vista la varietà di emittenti, i tipi di strumenti finanziari, la partecipazione o meno di un terzo come garante, l'esistenza o meno di una quotazione, ecc., uno schema unico non fornisce tutte le informazioni di cui gli investitori hanno bisogno per assumere le loro decisioni di investimento. Pertanto deve essere possibile la combinazione di vari schemi. Occorre elaborare una tabella di combinazione non esaustiva, che fissi le varie combinazioni di schemi e di moduli possibili per la maggior parte dei diversi tipi di strumenti finanziari e che sia di ausilio agli emittenti nella redazione dei loro prospetti".
Sicché, da un lato, il Regolamento fornisce unicamente le "informazioni minime", di carattere non esaustivo, che devono corredare i prospetti; dall'altro, l'art. 94 T.U.F. contiene una previsione di carattere decisamente elastico e residuale, essendo ivi previsto che il prospetto debba comunque contenere "tutte le informazioni" necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell'emittente e degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti. L'ampiezza dell'art. 94 T.U.F. e, al contempo, il carattere non esaustivo di schemi e moduli allegati al Regolamento consentono, dunque, di escludere che le informazioni da inserire nei prospetti siano esclusivamente quelle riconducibili al Regolamento medesimo, dovendosi anzi ritenere che, proprio per la loro funzione (i.e., consentire un investimento consapevole) i prospetti vadano corredati da informazioni da adattare, nel rispetto del "minimo" prescritto dalla normativa unionale, alle circostanze del caso concreto.
3.2. Così disattesa la censura relativa alla dedotta violazione di legge - cfr. ricorso, p. 10, sub III) - e venendo alla seconda parte in cui si articola il motivo in esame, la Corte territoriale ha ampiamente e congruamente motivato (cfr. pp. 15-18 del decreto impugnato, sub 4.2) in merito alle ragioni per cui l'omessa informazione circa la sottoscrizione dei TROR in via indiretta da parte della Fondazione MPS, per il tramite di JP Morgan, è da considerarsi un'omissione rilevante nell'ottica del cit. art. 94, comma 2, T.U.F.
In proposito, la difesa del ricorrente offre una propria diversa ricostruzione della complessiva vicenda, volta a dimostrare l'ininfluenza dell'informazione in questione rispetto alla completezza dei prospetti riepilogativi: in tal modo, tuttavia, essa esorbita dai confini del vizio motivazionale denunziabile ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ormai circoscritto, a seguito della riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi di "mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale", di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", al di fuori delle quali il vizio in questione può essere dedotto solo per omesso esame di un "fatto storico", che abbia formato oggetto di discussione e che appaia "decisivo" ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, cit. nonché, da ultimo, Cass., Sez. 3, 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01).
In particolare, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l'apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell'ambito di quest'ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., Sez. 6-5, 7 aprile 2017, n. 9097, Rv. 643792-01).
La censura è, pertanto, inammissibile.
4. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.), nonché dell'art. 149 del d.lgs. n. 58 del 1998 (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), giacché la corte territoriale avrebbe "omesso del tutto di pronunciarsi in ordine alle diffuse argomentazioni del ricorrente sull'attività svolta dal collegio sindacale ed ha falsamente applicato l'art. 149 del d.lgs. n. 57/1998".
4.1. Il motivo è inammissibile.
Posto che il decreto impugnato compiutamente affronta, alle pp. 21-22, sub 5.2, le questioni concernenti l'ambito di applicazione dell'art. 149 T.U.F. e l'omesso controllo imputato ai componenti del collegio sindacale (e, quindi alla S.), rileva il Collegio come con la censura in questione - da correttamente ricondurre al vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. - ancora un volta si tende a rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto - in sé logico, consequenziale e coerente - compiuto dai giudici del merito, così nuovamente esorbitando dai limiti del vizio motivazionale denunziabile con il ricorso in cassazione. Ciò, peraltro, a tacer la circostanza che parte ricorrente si è limitata a richiamare, a sostegno della propria diversa valutazione circa il comportamento del collegio sindacale, documenti allegati alla produzione del grado di merito (cfr. ricorso, pp. 16-17), senza invece trascrivere né indicare in quale atto sarebbero state svolte le argomentazioni proposte in questa sede.
5. Con il quinto motivo parte ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 195, comma 7, T.U.F. (nel testo vigente ratione temporis), per contrasto con l'art. 117 Cost., in relazione all'art. 6, § 1, della C.E.D.U. e, al contempo, si duole della violazione dell'art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87 (in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), per non avere la Corte territoriale disposto la sospensione del processo in attesa della definizione dell'incidente di costituzionalità sollevato, con riferimento al menzionato art. 195, comma 7, T.U.F., dalla stessa corte di appello di Firenze, sebbene in altri e diversi giudizi.
Il motivo è, in parte, infondato, in parte, inammissibile.
5.1. Quanto alla ritenuta violazione dell'art. 23 cit. (da correttamente riqualificare in termini di denunziato error in procedendo, ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., non ostando a tale operazione ermeneutica l'erronea intitolazione del motivo di ricorso. Cfr. Cass., Sez. un., 24 luglio 2013, n. 17931, Rv. 627268-01; Cass., Sez. 6-3, 20 febbraio 2014, n. 4036, Rv. 630239-01; Cass., Sez. 6-5, 27 ottobre 2017, n. 25557), osserva la Corte come il vigente sistema processuale appare informato ad una dicotomia tra ipotesi tipiche ed obbligatorie di sospensione, da un lato, e scelte lato sensu concordate, dall'altro, pur se non formalmente strutturate secondo l'archetipo dell'art. 296 c.p.c.: in questa prospettiva sistematica, dunque, la questione di incostituzionalità della norma astrattamente applicabile diventa pregiudiziale in senso stretto ed implica la sospensione del processo pendente solo ove ritualmente portata all'interno di questo mediante formale eccezione di parte (o rilievo d'ufficio), all'esito di una delibazione di rilevanza e non manifesta infondatezza autonomamente svolta dal giudice che ne è investito mentre, al di fuori di tale ipotesi "rituale", la sospensione del processo - cd. "anomala", secondo la definizione empirica in uso in dottrina, in ragione dell'estraneità delle parti istanti al processo pregiudicante - appare, piuttosto, riconducibile nell'alveo concettuale della sospensione facoltativa (Cass., Sez. 1, 26 marzo 2013, n. 7580, Rv. 625706-01). Sicché, in mancanza (della prova) di una concorde istanza delle parti a tal fine rivolta, né avendo sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 195, comma 7, T.U.F., correttamente la corte fiorentina ha disposto la prosecuzione [del] processo in corso davanti a sé, indipendentemente dalla pendenza, innanzi al giudice delle leggi, di un giudizio incidentale di costituzionalità avente ad oggetto quella medesima norma, ma originato da altro processo tra parti diverse (arg. da Cass., Sez. 6-1, 26 giugno 2013, n. 16198, Rv. 626868-01).
5.2. Quanto, poi, alla questione di legittimità costituzionale reiterata in questa sede dalla difesa della S., la stessa va dichiarata inammissibile, per genericità: ed infatti, come sono manifestamente inammissibili, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, le questioni di legittimità di cui non sia sufficientemente motivato il contrasto con i parametri costituzionali (cfr. Corte cost. 24 giugno 2004, n. 187; 22 novembre 2001, n. 373; 10 dicembre 1987, n. 485), è del pari inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che, limitandosi a dedurre genericamente (nella specie, peraltro, esclusivamente nella rubrica del motivo n. V - cfr. pag. 18 del ricorso) l'illegittimità di una norma, non dia conto delle ragioni di contrasto con le previsioni costituzionali eventualmente indicate, così limitandosi a reiterare un'istanza avanzata nel giudizio di merito e chiedendo dichiararsi la questione non manifestamente infondata, onde rimettersene l'esame alla Corte costituzionale (Cass., Sez. 1, 13 maggio 2005, n. 10123, Rv. 581298-01. Solo per completezza, peraltro, si evidenzia che sulla questione di legittimità dell'art. 195, comma 7, T.U.F. sollevata con plurime ordinanze di rimessione dalle corti di appello di Firenze e Genova, la Corte costituzionale, con ordinanza 7 luglio 2017, n. 158, ha disposto la restituzione degli atti ai giudici a quibus, stante lo ius superveniens rappresentato dal d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72).
6. Con il sesto ed ultimo motivo, infine, parte ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, per contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della C.E.D.U.: a detta della difesa della S., la previsione contenuta nel cit. art. 6 - di inapplicabilità delle novellate previsioni del T.U.F. alle violazioni commesse, come nella specie, anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 72 del 2015 e, dunque, delle disposizioni adottate dalla Consob (e dalla Banca d'Italia, secondo le rispettive competenze) ai sensi dell'art. 196-bis T.U.F. - contrasterebbe con i menzionati paradigmi costituzionali, determinando, da un lato, un'irragionevole disparità di trattamento, qoad poenam, rispetto alle medesime condotte e, dall'altro, un vulnus al principio del favor rei, stante, da un lato, la natura sostanzialmente penale delle sanzioni in commento e, dall'altro, la configurazione in termini di lex mitior, relativamente al mancato rispetto degli obblighi di cui al precedente art. 94, delle sanzioni contemplate dal novellato art. 191 T.U.F., rispetto a quanto previsto dalla precedente formulazione della medesima norma. La questione è stata, altresì, oggetto di ulteriore sviluppo ad opera della parte ricorrente, nella memoria ex art. 378 c.p.c., depositata il 28 dicembre 2017 nonché nel corso della discussione svolta nella pubblica udienza, con precipuo riferimento alle argomentazioni sottese dalla Corte di Appello di Milano alla propria ordinanza del 19 marzo 2017, di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell'art. 6, comma 2, cit.
La questione - e, con essa, il motivo - è manifestamente infondata in entrambi i profili in cui si articola.
6.1. Invero, l'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015 effettivamente dispone, quale disposizione atta a regolare il regime transitorio, che le modifiche apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 alla parte quinta del T.U.F. non si applicano alle violazioni commesse prima dell'entrata in vigore delle disposizioni di attuazione della Consob e della Banca d'Italia ("Le modifiche apportate alla parte 5 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 - recita la richiamata disposizione - si applicano alle violazioni commesse dopo l'entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d'Italia secondo le rispettive competenze ai sensi del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 196-bis. Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d'Italia continuano ad applicarsi le norme della parte 5 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo"); d'altra parte, conferma il principio di irretroattività in subiecta materia il successivo comma 3 del medesimo art. 6, che esclude, per le condotte antecedenti, l'aggravamento delle sanzioni pecuniarie, invece previsto dall'art. 39, comma 3, della l. 28 dicembre 2005, n. 262 ("Alle sanzioni amministrative previste dal decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, non si applica l'articolo 39, comma 3, della legge 28 dicembre 2005, n. 262").
6.2. Sennonché, questa Corte ha più volte esaminato il tema - riproposto in questa sede - del possibile contrasto dell'art. 6, comma 2, cit., con i paradigmi costituzionali e sovranazionali invocati dalla parte ricorrente, pervenendo ad una soluzione di carattere negativo, la quale merita di essere ribadita e confermata, con l'ulteriore conforto di alcuni recenti arresti del giudice delle leggi.
È stato infatti condivisibilmente osservato da Cass., Sez. 1, 30 giugno 2016, n. 13433, Rv. 640354-01, che l'assimilazione delle sanzioni irrogate dalla Consob alle sanzioni di tipo penale, affermata dalla C.E.D.U. nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c. Italia, con riferimento specifico al divieto del "ne bis in idem" ed a cagione della ritenuta identità del fatto materiale allora all'esame della Corte, non vale ad enucleare un principio generale di equiparazione tra le due categorie, tale da estendere tout court alle prime il principio - di natura eccezionale - della retroattività dello ius superveniens, proprio delle seconde. Nel medesimo senso, la pressoché coeva Cass., sez. 1, 2 marzo 2016, n. 4114, Rv. 638803-01, ha ulteriormente precisato che i principi espressi dalla sentenza Grande Stevens vanno considerati nell'ottica del giusto processo - quale ambito di specifico intervento della Corte - ma non possono portare a ritenere sempre sostanzialmente penale una disposizione qualificata come amministrativa dal diritto interno: e tale devesi qualificare l'art. 191 T.U.F., "norma sostanziale contemplante un mero illecito amministrativo. Donde, in mancanza di espressa disposizione di legge, resta immune dai riflessi di principi dettati in materia di norme penali sostanziali, posto che un concetto della "natura penale" di una disposizione di diritto interno sarebbe esso in stridente relazione di incompatibilità col sistema costituzionale italiano, in cui la nozione di illecito penale è astretta dal criterio di legalità formale" (così, con specifico riferimento proprio all'art. 191 T.U.F., Cass., sez. 1, 2 marzo 2016, n. 4114, cit., in motivazione, al § 8).
In particolare, la non equiparabilità delle sanzioni ex art. 191 T.U.F. (applicate nella specie) a quelle (di natura sostanzialmente penale) per manipolazione del mercato, ex art. 187-ter T.U.F. - e sulle quali si è, invece, espressamente pronunciata la richiamata sentenza Grande Stevens - sollevata con la richiamata ordinanza del 19 marzo 2017 - deriva dalla diversa tipologia, severità, nonché incidenza patrimoniale e personale, di queste ultime rispetto alle prime, dovendosi a tal fine tenere conto anche dell'assenza di sanzioni accessorie e della mancata previsione di una confisca obbligatoria (elementi presenti nella fattispecie scrutinata dalla Corte EDU).
6.3. Dalla natura amministrativa della sanzione applicata alla S. discende, in mancanza di una specifica previsione normativa che estenda ad essa il principio del favor rei di matrice penalistica, il diverso principio del tempus regit actum, pienamente recepito dall'art. 6, comma 2; previsione la cui legittimità è viepiù confermata, peraltro, da un recente arresto del giudice delle leggi (Corte cost., 20 luglio 2016, n. 193) che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della l. 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui - per l'appunto - non prevede l'applicazione della legge sopravvenuta più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi, ha chiarito che: a) rispetto al denunziato contrasto con l'art. 117 Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, non si rinviene, nel quadro delle garanzie apprestato dalla Convenzione medesima, l'affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative; b) rispetto al denunziato contrasto con l'art. 3 Cost., non è dato rinvenire, in materia di sanzioni amministrative, un vincolo costituzionale nel senso dell'applicazione, in ogni caso, della legge successiva più favorevole, rientrando anzi nella discrezionalità del legislatore - col rispetto del limite della ragionevolezza - modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina.
Conforta ulteriormente tale conclusione, d'altra parte, Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 43 che, nel ritenere infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 30, comma 4, della l. 11 marzo 1953, n. 87, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede la propria applicabilità alle sentenze irrevocabili con le quali è stata inflitta una sanzione amministrativa qualificabile come "penale" ai sensi del diritto convenzionale, ha ribadito che anche per le sanzioni qualificate come amministrative dal diritto interno, ma suscettibili nell'ottica convenzionale di essere individuate come aventi carattere penale, non è possibile reputare automaticamente estese alle stesse le garanzie che l'ordinamento statuale riserva alle sole sanzioni penali così come qualificate dall'ordinamento interno, palesandosi quindi legittima la differente applicazione delle regole in tema di ius superveniens favorevole in relazione agli illeciti amministrativi, anche laddove siano qualificabili come penali in base alle norme CEDU.
6.4. Peraltro, anche a voler diversamente ragionare (e, dunque, ritenere che si versi in presenza di una sanzione di natura sostanzialmente penale), continuerebbe a trovare applicazione, quale trattamento sanzionatorio più favorevole, la disciplina anteriore al d.lgs. n. 72 del 2015 (con irrilevanza, sotto tale aspetto, della prospettata questione di legittimità) considerato che i limiti edittali (da Euro 5.000,00 ad Euro 500.000,00) previsti dall'art. 191, comma 2, T.U.F., nella formulazione vigente al momento di irrogazione della sanzione, sono inferiori a quelli previsti dalla normativa sopravvenuta (da Euro 5.000 ad Euro 750.000,00) - invocata dalla difesa della ricorrente - e che sarebbero destinati ad essere applicati anche nei confronti della parte ricorrente, ex art. 191, comma 2-bis, T.U.F. (poi confluito nell'attuale comma 5), introdotto dall'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 72 cit., stante l'importanza ed entità delle complessive operazioni oggetto di contestazione e delle conseguenze che ne sono derivate per l'organizzazione aziendale ed i risparmiatori (cfr. l'art. 190-bis, comma 1, lett. a, T.U.F., introdotto dall'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 72 cit.), come ampiamente e motivatamente argomentato nel decreto impugnato.
6.5. Per i suesposti motivi, peraltro, non rilevano nel presente giudizio le argomentazioni svolte dalla Corte di Appello Milano nell'ordinanza del 19 marzo 2017 e sottese alla richiesta di - quantomeno - sospensione del presente giudizio in attesa di definizione di quell'incidente di costituzionalità.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
7. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, si dà infine atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente Paola S. al pagamento, in favore della controricorrente Consob - Commissione nazionale per le società e la borsa, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 (cinquemila/00) per compenso professionale, Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento sul compenso professionale ed agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente Paola S., dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Note
V. anche Corte di cassazione, sezione II civile, sentenza 10 aprile 2018, n. 8806.