Corte di cassazione
Sezione III civile
Ordinanza 30 marzo 2018, n. 7901

Presidente: Chiarini - Relatore: Graziosi

Rilevato che:

Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. depositato il 20 maggio 2013 Franca M. adiva il Tribunale di Rimini perché condannasse Massimo B. a restituirle la somma di Euro 28.233,21, oltre interessi dal 27 luglio 2001, quale differenza tra quanto versatogli nel 2001 e quanto invece gli doveva versare in conseguenza della sentenza della Corte d'appello di Bologna n. 297/2005, che aveva riformato la sentenza del Tribunale di Rimini n. 162/2001. Controparte si costituiva, resistendo ed eccependo la prescrizione ai sensi dell'art. 2946 c.c. Con ordinanza del 12 aprile 2014 il Tribunale accoglieva la domanda attorea; avendo il B. proposto appello, cui la M. resisteva, la Corte d'appello di Bologna, con sentenza del 9 febbraio 2016 pronunciata ex art. 281-sexies c.p.c., rigettava il gravame.

Il B. ha proposto ricorso, articolato in quattro motivi.

Considerato che:

1.1. Il primo motivo denuncia, ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 352 e 281-sexies c.p.c., sostenendo che è inammissibile applicare l'art. 281-sexies c.p.c. in grado di appello e che la corte territoriale ha omesso di esaminare tale eccezione, benché nelle precisate conclusioni si fosse rilevata appunto l'inapplicabilità della norma in appello.

Se è vero che su tale eccezione la corte territoriale tace, è ben facile comprenderne la ragione: è priva di alcuna consistenza, in quanto il giudizio di cui si tratta, come sopra si è visto, era stato introdotto in primo grado nel 2013, ovvero ad oltre un anno da quando il comma sesto nell'art. 352 c.p.c. era stato inserito dall'art. 27 l. 12 novembre 2011, n. 183, con applicabilità a distanza di trenta giorni dall'entrata in vigore della legge, che era la legge di stabilità dei 2012. Indiscutibile, quindi, è nella presente causa l'applicabilità dell'art. 281-sexies c.p.c. anche nel secondo grado, la cui sentenza fu per di più pronunciata nel 2016, ovvero a più di quattro anni di distanza dalla novellazione de qua. Pretendere, quindi, che dinanzi ad una eccezione così assolutamente priva di sostanza e palesemente defatigatoria il giudice sia obbligato ad una specifica risposta non significa avvalersi del principio della corrispondenza chiesto-pronunciato, bensì integrare un evidente abuso dello strumento processuale del diritto di difesa sotto il profilo della proposizione delle eccezioni.

1.2.1. Il secondo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione dell'art. 336 c.p.c., omessa e/o errata motivazione e conseguente erronea condanna dell'attuale ricorrente, nonché ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., il tutto in rapporto all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c.

Il Tribunale ha ritenuto applicabile l'art. 389 c.p.c., attinente alle domande conseguenti alla cassazione; il giudice d'appello, invece, pur prendendo atto della fondatezza delle obiezioni dell'attuale ricorrente, ha dichiarato la sussistenza di un mero errore di qualificazione giuridica, e pertanto ha riqualificato la fattispecie come riconducibile all'art. 336 c.p.c. Il ricorrente ribadisce quanto aveva addotto al giudice d'appello e afferma che quest'ultimo non avrebbe potuto effettuare una riqualificazione giuridica.

1.2.2. Anche questa doglianza è priva di ogni pregio. Ictu oculi è condivisibile il rilievo della corte territoriale sulla inapplicabilità dell'art. 389 c.p.c. - errore del giudice di prime cure - dal momento che tale norma presuppone che sia stato accolto ricorso da questa Suprema Corte con conseguente cassazione della sentenza impugnata, come già denuncia la sua inequivoca rubrica; invece - come rileva il giudice d'appello - nel caso in esame il ricorso per cassazione era stato respinto.

Invero, con sentenza n. 162/2001 il Tribunale di Rimini aveva condannato la M. a corrispondere al B. una data somma, di cui successivamente la Corte d'appello di Bologna aveva ridotto l'importo con sentenza n. 295/2005, confermata dalla sentenza n. 8740/2012 di questa Suprema Corte. Osserva pertanto correttamente il giudice d'appello che la domanda restitutoria fatta valere in questo successivo giudizio è riconducibile all'art. 336 c.p.c. "secondo cui la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, sicché, con la pubblicazione della sentenza di riforma, viene meno immediatamente l'efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con conseguente obbligo di restituzione della somma pagata e di ripristino della situazione precedente"; e "la domanda di restituzione può essere proposta dinanzi allo stesso giudice dell'appello ovvero, come è avvenuto nel caso di specie, anche separatamente" (motivazione della sentenza impugnata, pagine 3-4).

Che poi il giudice d'appello non potesse rettificare in diritto il fondamento della decisione del primo giudice è asserto di assoluta inconsistenza, la rettifica della motivazione di una decisione impugnata che ha dato un esito giuridicamente esatto essendo prevista nel sistema delle impugnazioni in quanto discendente dalla prevalenza - assicurata in forza del principio dell'economia processuale e del sintonico principio conservativo - del dispositivo sulla motivazione della decisione (per il giudizio di appello, v. già Cass., sez. 2, 22 luglio 1971, n. 2391; per il ricorso di cassazione, ove il principio è espressamente stabilito dall'art. 384, ultimo comma, c.p.c., v. p. es. Cass., sez. 1, 24 giugno 2015, n. 13086).

1.3.1. Il terzo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2946 c.c., errata motivazione e conseguente erronea dichiarazione di insussistenza della eccepita prescrizione decennale dell'azione di ripetizione ex art. 2033 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c.

1.3.2. Pure questa censura risulta manifestamente infondata.

Si tratta, invero, della riproposizione di un'analoga doglianza versata nell'atto d'appello (dove, a sua volta, costituiva riproposizione dell'eccezione avanzata in primo grado), doglianza che così la corte territoriale ha ben confutato: "è da disattendere anche in questa sede l'eccezione di prescrizione reiterata dall'appellante: se infatti il diritto alla ripetizione/restituzione di quanto corrisposto in esecuzione della sentenza riformata sorge (non già come vorrebbe l'appellante con il pagamento, ma) con la pubblicazione della pronuncia di riforma, nel caso di specie individuabile al 2 marzo 2005, ne consegue che nel 2013, al momento della proposizione della domanda di restituzione..., l'ordinario termine di prescrizione decennale non era ancora spirato" (motivazione della sentenza impugnata, pagina 4).

È del tutto evidente, infatti, che il termine prescrizionale può cominciare a decorrere soltanto "dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere", come recita la norma, logica prima ancora che giuridica, racchiusa nell'art. 2935 c.c. E il diritto restitutorio di certo non poteva essere esercitato finché il giudice d'appello, con la sentenza n. 297/2005, non riformò la sentenza di primo grado che aveva condannato la M. a corrispondere a controparte la somma così accertata eccessiva. Il che significa che la decorrenza si avviò dal 2005 - dalla sentenza riformante sorgendo, proprio ai sensi dell'art. 336 c.p.c. come già aveva rilevato la corte territoriale, il diritto alla restituzione (cfr. Cass., sez. 3, ord. 3 ottobre 2005, n. 19296 e Cass., sez. 3, 21 dicembre 2001, n. 16170) -, e non (come insiste a prospettare il ricorrente) dal 2001, ovvero da quando fu pronunciata la sentenza che, al contrario, aveva condannato al pagamento della somma eccessiva la M.

La censura del ricorrente si fonda, in ultima analisi, su un'impostazione che deforma la reale e manifesta sequenza giuridica della vicenda.

1.4. Il quarto motivo lamenta errore in ordine alla statuizione delle spese per violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., in quanto dai precedenti motivi risulterebbe che l'attuale ricorrente non era soccombente.

Il motivo è intrinsecamente subordinato a quelli precedenti, e pertanto anch'esso manifestamente infondato.

Pertanto, tutto il ricorso risulta manifestamente infondato, per cui deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo. Sussistono altresì, in forza del combinato disposto del comma 1-bis e del comma 1-quater dell'art. 13, d.P.R. 115/2012, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

2.1. La natura di tutte le censure presenti nel ricorso, inoltre, come ictu oculi emerge già dalle osservazioni al riguardo effettuate, è connotata da una così eclatante infondatezza che non si può disconoscere una colpa grave nella loro proposizione - per la prima anzi una mala fede -, in riferimento all'art. 96, terzo comma, c.p.c., nel caso in esame sine dubio applicabile per la completa soccombenza del ricorrente (la norma è intrinsecamente in combinato disposto con l'art. 91 c.p.c. che appunto richiama).

L'irrogazione di una sanzione al soccombente ai sensi di tale norma esige, peraltro, in questo stadio dell'evoluzione giurisprudenziale, alcune osservazioni in ordine ai suoi presupposti.

Invero, figura tra gli ultimi arresti Cass., sez. 2, 21 novembre 2017, n. 27623, massimata nel senso che "la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta - con finalità deflattive del contenzioso - alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'aver agito o resistito pretestuosamente".

Considerata la trattazione ex professo che in quest'ultima pronuncia è rinvenibile a proposito del contenuto dell'art. 96, terzo comma, c.p.c. e che la conduce ad abbandonare, almeno in parte, l'orientamento finora al riguardo sviluppatosi, è opportuno esaminarla.

2.2. Nella sua motivazione, infatti, la sentenza afferma che il terzo comma dell'art. 96 "differisce del tutto" dalle fattispecie dei due precedenti commi, riconducibili alla responsabilità aquiliana o per fatti illeciti. Proprio per i gravosi oneri probatori che questi commi impongono alla parte vittoriosa, "il legislatore del 2006, nel quadro del potenziamento della funzione nomofilattica della Corte di cassazione e nel tentativo di contenere il numero dei ricorsi", introduceva nell'art. 385 c.p.c. un quarto comma, configurante una nuova forma di responsabilità aggravata limitata al giudizio di cassazione, la cui ratio sarebbe "agire sulla leva economica per scoraggiare i litiganti ad accedere alla Corte suprema con ricorsi manifestamente infondati o inammissibili". Questa fattispecie non rivestiva funzione risarcitoria, e quindi non poteva essere definita species della più generale figura della responsabilità aquiliana, bensì assumeva funzione sanzionatoria dell'abuso del processo, essendo diretta ad "irrogare nell'interesse generale, allo scopo di reprimere l'abuso del ricorso per cassazione", una "sanzione di ordine pubblico", accomunandosi con i primi due commi dell'art. 96 c.p.c. esclusivamente tramite l'elemento soggettivo, nell'art. 385, quarto comma, richiesto almeno come colpa grave, ovvero "condotta consapevolmente contraria alle regole generali di correttezza e buona fede tale da risolversi in un uso strumentale ed illecito del processo, in violazione del dovere di solidarietà" ex art. 2 Cost. Essendo - afferma ancora la pronuncia in esame - pure l'art. 385, quarto comma, c.p.c. rimasto in pratica inapplicato, tra l'altro per aver "continuato a richiedere l'accertamento della "colpa grave" della parte soccombente", pretendendo cioè dal giudice "un giudizio in termini di negligenza e di colposità della condotta della parte e - per essa - del suo difensore, non sempre agevole da formulare", appunto per queste "difficoltà applicative" sarebbe stato introdotto il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. diretto a "generalizzare ed estendere ad ogni grado di giudizio la possibilità per il giudice di reprimere l'abuso del processo con una condanna di tipo sanzionatorio in favore della parte vittoriosa", nel solco dell'art. 385, quarto comma, c.p.c., come quest'ultimo configurando una fattispecie "evidentemente estranea alla responsabilità aquiliana" e destinata a irrogare una "sanzione di ordine pubblico" che sarebbe imposta "con finalità di deflazione del contenzioso, nell'interesse pubblico alla repressione dell'abuso del processo e di quelle condotte processuali che determinano una violazione delle regole del giusto processo e della sua ragionevole durata". L'istituto dell'art. 96, terzo comma, è diretto quindi a reprimere l'abuso del processo, ricorrente quando quest'ultimo "viene spiegato a finalità devianti" rispetto alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi ex art. 24, primo comma, Cost., come pure emerge dalla sentenza n. 152/2016 della Corte costituzionale. Tuttavia - e qui si abbandona l'orientamento, finora compatto, della giurisprudenza di questa Suprema Corte - rispetto all'art. 385, quarto comma, nell'art. 96, terzo comma, sussisterebbe un forte "elemento di discontinuità" derivante dalla mancata previsione di alcun elemento soggettivo quale elemento costitutivo della fattispecie, e l'interpretazione che ve lo ha comunque riscontrato come mala fede o colpa grave indicati dal primo comma dell'art. 96 (si richiama soltanto Cass., sez. 6-3, 2 febbraio 2016, n. 3376), in conformità con certa dottrina, costituirebbe "una interpretazione manipolativa della norma, contrastante con i dati testuali".

A tale interpretazione sarebbe infatti di ostacolo la "inequivoca volontà del legislatore di sopprimere qualsiasi riferimento ai profili soggettivi di responsabilità" perché il mancato riferimento alla colpa grave "nel ricollocare il testo dell'art. 385, quarto comma, nell'ambito dell'art. 96" non può "essere ascritto ad una dimenticanza" costituendo invece "una scelta legislativa adottata sulla via della semplificazione della fattispecie, allo scopo di favorirne una più agevole applicazione".

Ulteriore smentita si rinverrebbe nell'inciso "in ogni caso" il quale, "secondo corretti canoni interpretativi", significherebbe "al di fuori di quanto previsto dai commi che precedono", ossia al di fuori dei presupposti dei primi due commi dell'art. 96.

Ancora, il presupposto della soccombenza ex art. 91 lascia intendere "l'applicabilità della disposizione a tutte le ipotesi di soccombenza, a prescindere da ogni valutazione circa la malafede o la colpa grave".

Infine, ulteriore prova della volontà legislativa di non esigere elemento soggettivo emergerebbe "dai lavori parlamentari" e in particolare dalla modifica dell'incipit del terzo comma dell'art. 96, originariamente così formulata: "Nei casi previsti dai commi precedenti, il giudice condanna altresì...".

Conclude pertanto queste argomentazioni l'arresto affermando che nell'art. 96, terzo comma, "il legislatore ha voluto configurare non già una fattispecie ancillare rispetto alle figure risarcitorie previste nei primi due commi... ma una figura di responsabilità indipendente e autonoma, che prevede una "sanzione di carattere pubblicistico", priva di natura risarcitoria, destinata a reprimere la parte soccombente che abbia fatto "abuso" dello strumento processuale. Il rafforzamento della repressione dell'abuso del processo si è manifestato nella scelta legislativa di sopprimere l'elemento soggettivo della fattispecie", per cui per applicare l'art. 96, terzo comma, il giudice "non è più tenuto a svolgere complessi - quanto delicati - apprezzamenti sulla colposità e negligenza della condotta della parte e del suo difensore", dovendosi invece limitare a valutare "oggettivamente" la sussistenza di un abuso del processo "quale emerge dagli atti processuali e dal loro contenuto". Quindi al giudice è affidato "il più ampio potere discrezionale", da esercitarsi "con la dovuta ragionevolezza"; la condanna deve avere fondamento soltanto oggettivo, prescindendo della sussistenza dell'elemento psicologico colposo, e può pertanto essere pronunciata in caso di azione o resistenza con abuso dello strumento processuale, ovvero nel caso in cui siano state proposte domande od eccezioni o formulate difese "macroscopicamente inammissibili o manifestamente infondate vuoi sotto il piano giuridico (in quanto proposte in totale ed evidente carenza dei presupposti previsti dalla legge) vuoi sotto il profilo fattuale (allegando, ad es., fatti di cui si accerti la manifesta falsità)". Peraltro, tra coloro che così si comportano "vi saranno certamente parti che hanno agito con "malafede" o con "colpa grave" o "senza la normale prudenza", il tutto restando comunque irrilevante, perché "il giudizio che il giudice è chiamato a formulare attiene alla condotta processuale nella sua "oggettività", e non all'atteggiamento psicologico - di malafede o di negligenza più o meno grave - della parte".

2.3. Questo collegio, dato così atto dell'ampia e coerente argomentazione di tale recentissimo arresto, ritiene, peraltro, ancora meritevole d'adesione l'anteriormente sviluppato orientamento.

Invero, come è noto il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. è stato introdotto ormai da tempo, in quanto inserito nella complessiva riforma - una delle più importanti degli ultimi decenni - operata dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, con vigenza quindi per le cause instaurate a partire dal 4 luglio 2009. Esito indubbio di una evoluzione complessiva che, allo scopo di rispettare il valore costituzionale introdotto dieci anni prima della ragionevole durata, aveva virato da una concezione privatistica - attuata tramite quel che si poteva definire, almeno sotto certi profili, un "ludico" potere dispositivo delle parti - verso l'opposta rotta della natura pubblicistica dello strumento giurisdizionale civile, l'istituto è inequivocamente diretto ad ostare alla temeritas non a mezzo di strumenti risarcitori, bensì come mezzo punitivo di ciò di cui si era ormai raggiunta una piena percezione, ovvero l'abuso del processo.

Non è questo il luogo per ricostruire la suddetta evoluzione, che, dal ritenere accettabile l'intrinsecamente contraddittorio concetto del processo come "gioco", è pervenuta infine a riconoscere che ogni diritto - e pertanto non solo quello sostanziale ma anche quello processuale (il diritto strumento del diritto) - può essere oggetto di abuso, id est uso deformato e teleologicamente sviato, ovvero il suo esercizio può essere non corrispondente allo scopo per cui il legislatore l'ha istituito, anzi ad esso contrario. Non si può peraltro non rilevare che, anche a livello dottrinale, criterio per identificare l'esistenza o meno di un abuso è stato ravvisato nell'animus di chi lo esercita, ovvero nell'elemento soggettivo sotteso al fine deviato che rende un illecito l'esercizio di un diritto, oltrepassando l'apparenza della forma lecita proprio alla luce di tale concreto fine come generante l'effettiva sostanza illecita dell'atto.

Se è vero, allora, che l'originaria tutela dall'abuso prevista nel codice di rito tramite lo strumento risarcitorio della responsabilità aggravata per lite temeraria - i primi due commi dell'art. 96, insitamente connessi all'art. 88 - non aveva apportato risultati sufficienti, proprio per un evidente problema probatorio (la natura lato sensu accessoria della domanda di risarcimento per lite temeraria comporta che, di solito, non viene svolta attività istruttoria diretta in modo specifico al relativo danno, l'istruttoria incentrandosi invece sui fondamenti della domanda principale e trovandosi così il processo, all'esito, in una situazione di difetto di elementi probatori sull'an, ordinariamente non superabile, a differenza del quantum, con presunzioni), è pure vero, peraltro, che la radice di entrambi gli istituti, quello risarcitorio e quello punitivo, è la stessa: l'abuso del processo, che, anche nel caso in cui non abbia cagionato danni alla controparte, ha comunque generato un pregiudizio al sistema processuale. E non a caso, pertanto, il legislatore del 2009 ha inserito l'istituto nell'art. 96, lasciando di questo intatta la rubrica "Responsabilità aggravata" e connettendo dunque l'istituto stesso a quello tradizionale risarcitorio.

È in quest'ottica - e non quindi in un'ottica di contrasto - che appare logico intendere l'incipit, di per sé semanticamente alquanto amorfo, del terzo comma: "In ogni caso...". L'istituto posto nel nuovo terzo comma non si contrappone, bensì si aggiunge a quello tradizionale dei primi due commi. Neppure l'antecedente figura dell'art. 385, quarto comma, assume, del resto, una natura di contrapposizione/scissione bensì prodromica rispetto all'istituto in esame: il fatto che in essa vi sia menzione esplicita dell'elemento soggettivo di per sé non comporta imprescindibilmente che il difetto di tale menzione nel terzo comma dell'art. 96 significhi esclusione del presupposto soggettivo. Se tale contrapposizione fosse stata perseguita dal legislatore del 2009, non si comprende, se non altro, perché l'istituto sia stato inserito nell'art. 96, che, vertendo su una fattispecie aquiliana originata da determinati tipi di condotte processuali, l'elemento soggettivo lo esige, pur attenuandolo nell'ipotesi in cui l'attività temeraria abbia un impatto superiore sulla sfera giuridica della controparte (il secondo comma). Sarebbe stato invece strutturalmente congruo, se si fosse scavato uno iato di tale profondità con lo strumento tradizionale, inserire nel riquadro complessivo un articolo ad hoc (per esempio, un art. 96-bis), come non è certo raro avvenga.

Che poi il legislatore mirasse ad infrangere ogni connessione con lo strumento tradizionale non è evincibile neppure dal riferimento, posto nel terzo comma dell'art. 96, all'art. 91. Fin dalla giurisprudenza più remota si è infatti riconosciuta l'incompatibilità tra la condanna per lite temeraria e il difetto di integrale condanna alle spese processuali, vale a dire la compensazione (Cass., sez. 1, 16 gennaio 1964, n. 102; Cass., sez. 1, 4 gennaio 1978, n. 24; Cass., sez. 1, 11 maggio 1978, n. 2299; Cass., sez. 3, 9 marzo 1982, n. 1531; Cass., sez. 1, 7 agosto 1990, n. 7953; Cass., sez. lav., 24 aprile 1993, n. 4804 e Cass., sez. 1, 30 marzo 2000, n. 3876; e, pur prospettando un'eccezione a tale regola per il giudizio di legittimità se "la pronuncia delle spese si svincola dalla pronuncia concernente il motivo di impugnazione", in ultima analisi la conferma anche Cass., sez. 2, 15 aprile 1965, n. 588): ergo, la soccombenza totale è presupposto anche dei primi due commi dell'art. 96, e quindi non comprova - come invece ha ritenuto l'arresto in esame - l'assenza dell'elemento soggettivo per integrare la fattispecie dell'ultimo comma.

2.4. L'assenza di un espresso riferimento all'elemento soggettivo nell'ultimo comma dell'art. 96, d'altronde, più che veicolare una ratio di innovazione rispetto sia allo strumento risarcitorio dei primi due commi, sia alla figura prodromica - e infatti contestualmente abrogata - dell'art. 385, quarto comma, manifesta quella che è la caratteristica globale della norma, ovvero la sua redazione in modo estremamente sintetico e quindi pure problematico per l'interpretazione, tale da aprire, in effetti, una via di discrezionalità prossima all'arbitrio se l'interpretazione stessa non riesce ad inquadrare l'istituto in modo congruo nel sistema in cui viene inserito (le caratteristiche del dettato letterale dell'art. 96, terzo comma, sono ampiamente esaminate nella motivazione di Cass., sez. 3, 29 settembre 2016, n. 19285, per confermare poi l'orientamento interpretativo cui in questa sede si aderisce). Mentre, invero, una misura del quantum di cui si deve gravare il temerario viene lasciata intendere nei precedenti commi dell'art. 96 (ivi coincide, infatti, con un danno), e parimenti veniva determinata nell'art. 385, quarto comma, con uno specifico massimo che faceva barriera alla individuazione equitativa, il terzo comma dell'art. 96 conferma la quantificazione equitativa senza porvi alcun limite. L'elemento implicito connota quindi l'istituto sia nell'an - riguardo alla determinazione del presupposto soggettivo - sia nel quantum: la norma ha davvero svolto un percorso parlamentare, ma ne è uscita, oggettivamente, come norma incompleta sul piano letterale, di cui, appunto, solo una lettura sistematica - anche dal punto di vista più elevato, cioè una lettura costituzionalmente/sovranazionalmente orientata - riesce a costituire un contenuto reale e sufficiente.

Non a caso, infatti, l'arresto in esame traduce la propria lettura decurtante dell'elemento soggettivo nell'asserto che l'art. 96, terzo comma, conferisca al giudice "il più ampio potere discrezionale" quanto all'irrogazione della sanzione, poiché fra i sanzionabili non tutti avrebbero "macchiato" la propria condotta anche con un elemento soggettivo ("vi saranno certamente parti che hanno agito con "malafede" o come "colpa grave" o "senza la normale prudenza", il tutto restando privo di rilievo perché "il giudizio che il giudice è chiamato a formulare attiene alla condotta processuale nella sua "oggettività", e non all'atteggiamento psicologico - di malafede o di negligenza più o meno grave - della parte"). E questo dimostra come l'interpretazione proposta da tale arresto, in ultima analisi, pur dichiaratamente - come si è visto - esigendolo fuoriesce dal concetto di abuso, poiché l'abuso è comunque un fatto illecito, e affinché un fatto sia illecito occorre che l'elemento oggettivo sia posto in essere sulla base di un correlato elemento soggettivo; e, dal punto di vista inverso del giudicante, non vi è irrogazione di una sanzione dinanzi appunto ad un fatto illecito, bensì l'esercizio di un mero, "sciolto" potere, perché la sanzione verrebbe irrogata anche a chi ha commesso la sua condotta senza malafede e comunque comportandosi con una normale prudenza. Il che conduce al fondamento della giurisprudenza, sinora compatta, che - senza subire influsso da alcune incertezze dottrinali, rimaste peraltro minoritarie - ha sempre preteso l'elemento soggettivo quantomeno della colpa: non può essere sanzionata una condotta processuale sol perché l'esito è poi sfavorevole a chi l'ha compiuta, ovvero non si può punire chi ha esercitato in modo corretto il suo diritto processuale, come se il diritto processuale dovesse essere retroattivamente espunto dal risultato di assenza di diritto sostanziale in cui sfocia il giudizio o anche - seppur più rara ipotesi - dalla caduta dirimente della parte in un vizio di rito.

La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha immediatamente posto i paletti necessari ad evitare quello che altrimenti condurrebbe a un clamoroso contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., 6, § 1, CEDU e 47 Carta dei diritti UE: "agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile" - e ciò naturalmente vale pure per la posizione inversa di resistenza - (così Cass., sez. 6-2, ord. 30 novembre 2012, n. 21570; Cass., sez. 3, 30 dicembre 2014, n. 27534; Cass., sez. 6-3, ord. 21 ottobre 2016, n. 22120). L'oggettività sotto il profilo dell'esercizio dei diritti nel senso prospettato dall'arresto in esame non è dunque sufficiente, secondo l'ampio filone giurisprudenziale sviluppato da questa Suprema Corte, a integrare la fattispecie di cui al terzo comma dell'art. 96 (oltre alla giurisprudenza appena richiamata, e all'unico arresto citato nella pronuncia qui esaminata - Cass., sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2016, n. 3376 -, v. pure: Cass., sez. 6-3, ord. 11 febbraio 2014, n. 3003; Cass., sez. 6-3, ord. 18 novembre 2014, n. 24546; Cass., sez. 6-1, ord. 22 dicembre 2015, n. 25852; Cass., sez. lav., 19 aprile 2016, n. 7726; Cass., sez. 3, 16 giugno 2016, n. 12413; Cass., sez. 5, 14 settembre 2016, n. 18057).

2.5. Né, d'altronde, questa impostazione risulta incisa in senso modificativo, sotto l'aspetto che si sta considerando, dal noto intervento delle Sezioni unite che ha annoverato l'art. 96, terzo comma, c.p.c. tra le fattispecie, direttamente determinate dal legislatore ex art. 23 Cost., di "danni punitivi" presenti nell'ordinamento interno (Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601); al contrario, l'innesto nella responsabilità civile, della quale - rileva il giudice nomofilattico - negli ultimi anni, accanto alla preponderante funzione compensativo-riparatoria, altresì "è emersa una natura polifunzionale", rafforza la lettura che fin dall'inizio si è formata a proposito dell'art. 96, terzo comma, tra l'altro confermando expressis verbis che il terzo comma dell'art. 96 svolge "funzione sanzionatoria dell'abuso del processo". Nessuna responsabilità oggettiva, dunque, per l'uso del processo sfociato in un esito sfavorevole, bensì un vero e proprio illecito, cui consegue una pena, che rimane tale anche se pena privata: e la pena privata altro non è che l'istituto del c.d. danno punitivo, così qualificato originariamente negli ordinamenti anglosassoni e così ora ufficialmente accolto - in quanto preesistente seppure con qualifica diversa e comunque avvolto nella riserva di legge - nell'ordinamento italiano (sulla natura di danno punitivo di quanto viene irrogato ai sensi dell'art. 96, terzo comma, ancor prima di Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601, v. Cass., sez. lav., 19 aprile 2016, n. 7726, già citata; e cfr. pure Cass., sez. 1, 30 luglio 2010, n. 17902).

Peraltro, interpretare l'art. 96, terzo comma, come conseguenza di una incolpevole perdita del processo (così, in ultima analisi, diverrebbe, sussistendo, secondo l'arresto in esame, "il più ampio potere discrezionale") comporterebbe un'ulteriore frizione con i valori costituzionali e sovranazionali. L'esercizio dei diritti processuali, sia per avviare il processo sia per resistervi, svilupperebbe in modo non corretto quella "leva economica" che tale arresto ha ravvisato nel prodromo dell'art. 385, quarto comma, in riferimento ai ricorsi per cassazione evidentemente privi di consistenza. Se è vero, infatti, che un sistema di costi processuali già sussiste per dissuadere alla radice dalle infondate iniziative che si traducono in inutili afflussi, e che pertanto, se sono in concreto applicati per non avere apportato effetto preventivo, assumono una funzione di sanzione in senso lato (tipico esempio si rinviene nell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 115/2002; altrettanto tipica, nel parallelo settore penale, dove espressamente la si qualifica sanzione, la fattispecie dell'art. 616 c.p.p.), è parimenti vero che, oltre a non trattarsi di pena privata, tali costi non sono affatto assimilabili all'istituto in questione, poiché compiutamente predeterminati nel loro importo, in genere anche abbastanza limitato. Attribuire, invece, al giudice, senza neppure rilievo di un elemento soggettivo, il potere di infliggere una sanzione pecuniaria di importo assolutamente non predeterminato e quindi magari elevato finisce con il creare un rischio quale conseguenza dell'esercizio di per sé - e quindi anche per nulla criticabile - dei diritti processuali, rischio che graverebbe in misura inversamente proporzionale al reddito della persona titolare dei diritti. E poiché in radice la sostanza dei diritti è l'eguaglianza, emerge con evidenza la notevole criticità che giungerebbe ad affliggere l'effetto dell'art. 96, terzo comma, qualora appunto si scinda radicalmente l'elemento soggettivo dall'elemento oggettivo dell'esercizio dei diritti.

2.6. In conclusione, sotto molteplici profili ritiene questo collegio di non condividere l'impostazione dell'arresto in esame, alternativa a quella finora manifestatasi (cfr. da ultimo Cass., sez. 1, 8 febbraio 2017, n. 3311, che applica l'art. 96, terzo comma, senza menzionare espressamente l'elemento soggettivo ma lasciandone dunque intendere l'effettuato accertamento, laddove afferma che il ricorrente deve essere sanzionato per avere "abusato dello strumento processuale" e richiama al riguardo precedente giurisprudenza - come Cass., sez. lav., 19 aprile 2016, n. 7726, citata - che afferma l'esigenza dell'elemento soggettivo).

Peraltro, non si può non rilevare altresì che tale arresto si distoglie dalla linea assolutamente dominante anche perché ravvisa l'accertamento dell'elemento soggettivo come necessitante d'una modalità gravosa che in realtà non incombe sul giudice. Il giudice "non è più tenuto a svolgere complessi - quanto delicati - apprezzamenti sulla colposità e negligenza della condotta della parte e del suo difensore" solo se l'istituto viene decurtato dell'elemento soggettivo: l'accertamento di quest'ultimo, infatti, è chiaramente condizionata dalla natura dell'elemento oggettivo. Pertanto, l'accertamento dell'uno viene a coincidere con l'accertamento dell'altro, come già evidenziato da precedenti di questa Suprema Corte, perché è proprio tramite le modalità di difesa lato sensu che si appalesa l'abuso, senza necessità di investigazioni ulteriori, considerato pure che l'elemento soggettivo non necessita la consapevolezza nel massimo grado della negatività di quel che si viene a compiere - la cosiddetta mala fede -, ben potendosi arrestare al livello colposo, che agevolmente emerge dalle caratteristiche degli atti processuali.

Ciò lascia intendere, da ultimo, Cass., sez. 3, 30 novembre 2017, n. 28658, che, pur per l'ipotesi analoga di cui all'art. 385, quarto comma, ravvisa la colpa grave "nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda", come nel caso in cui vengano reiterate tesi giuridiche già confutate dal giudice di merito "riproponendo i medesimi argomenti da quel giudice compiutamente ed analiticamente computati, senza tener nella minima considerazione le ragioni per le quali erano state ritenute inaccoglibili e senza sottoporre ad alcuna critica tali ragioni". E questa pronuncia si pone sulla scorta di Cass., sez. 3, 29 settembre 2016, n. 19285, citata, che nella motivazione, dopo aver affermato che la natura dell'illecito "non può non incidere sulla natura dell'elemento soggettivo che, implicitamente ma inequivocamente, l'art. 96, terzo comma, richiede", descrive una serie di ipotesi, sia relative specificamente ai gradi di impugnazione (in cui "una riproposizione pedissequa di quanto era già stato sottoposto al giudice che lo ha emesso, e che non si rapporta in modo specifico alle risposte di confutazione che il giudice ha fornito per opporre specifiche obiezioni a tali risposte che non consistano esclusivamente nella ripetizione di quanto gli era stato addotto già di per sé ha natura abusiva imperniata sulla mala fede, in quanto non tiene conto del fatto che l'impugnazione deve avere per oggetto il provvedimento impugnato, e non può pretermetterlo"; e in cui inoltre è abuso con colpa grave "una impugnazione che travisa un contenuto chiaro e lineare del provvedimento impugnato, attribuendo ad esso un contenuto diverso per sostenere la propria tesi di impugnante", come pure l'ipotesi in cui - e qui può sussistere pure abuso con mala fede - "senza alcun dubbio, l'impugnazione viene utilizzata per una funzione diversa da quella che il legislatore le affida: così avviene, per esempio, qualora si presenti una impugnazione esclusivamente di merito dinanzi al giudice di legittimità" - come già riconosciuto da Cass., sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2016, n. 3376 -), sia relative a qualunque grado del giudizio ("la conclamata infondatezza (la "temerarietà") della prospettazione giuridica con cui si agisce o con cui ci si difende, vale a dire una inconsistenza giuridica percepibile" che avrebbe dovuto indurre a non farla valere, sia sotto il profilo processuale sia sotto il profilo sostanziale, come nel caso di "una rappresentazione del diritto sostanziale del tutto generica ed assertiva, priva di alcuna specifica illustrazione": tipologia di abuso con correlato elemento soggettivo già riconosciuta da Cass., sez. 6-3, ord. 18 novembre 2014, n. 24546, sez. 3, 30 dicembre 2014, n. 27534 e Cass., sez. 6-3, 21 gennaio 2016, n. 1115).

Per di più, a ben guardare, la stessa Cass., sez. 2, 21 novembre 2017, n. 27623, pur avendo asserito la necessità di "complessi - quanto delicati - apprezzamenti" per accertare l'elemento soggettivo, la cui gravosità avrebbe spinto il legislatore a configurare privo di quest'ultimo l'istituto di cui all'art. 96, terzo comma, così da liberare del relativo incombente il giudicante, descrive quel che ritiene essere abuso dello strumento processuale sotto il profilo dell'azione o della resistenza indicando domande od eccezioni o formulate difese "macroscopicamente inammissibili o manifestamente infondate vuoi sotto il piano giuridico (in quanto proposte in totale ed evidente carenza dei presupposti previsti dalla legge) vuoi sotto il profilo fattuale (allegando, ad es., fatti di cui si accerti la manifesta falsità)". E così viene implicitamente ad ammettere che i due accertamenti, quello oggettivo e quello soggettivo, vengono a sovrapporsi, in quanto la conformazione degli atti processuali deve essere tale da dimostrare quantomeno un atteggiamento negligente nella fruizione del processo: non può bastare aver torto, bensì occorre un torto inquinato dalla propria colpa, se non addirittura impregnato di un proprio dolo. Diversamente ritenendo, si giungerebbe ad una rischiosa ambiguità interscambiante soccombenza assoluta e abuso, con i riflessi costituzionali e sovranazionali già indicati come configurabili.

In conclusione, quindi, si deve anche applicare per sanzione di un abuso colposo rappresentato dal ricorso oggetto della presente pronuncia l'art. 96, terzo comma, c.p.c., ritenendo - come già più sopra si è anticipato - dimostrati sia l'elemento oggettivo sia l'elemento soggettivo dell'abuso dalla configurazione di tutti i motivi in cui il ricorso si è articolato, manifestamente infondati e intrinsecamente temerari per quanto sopra si è appunto descritto, stimando equa - per l'agevolezza comunque della risoluzione del ricorso, derivante dall'assoluta evidenza dell'inconsistenza di ogni motivo - una somma di Euro 2000 quale sanzione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 5000, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge, nonché a corrispondere a controparte, ai sensi dell'art. 96, terzo comma, c.p.c., la somma di Euro 2000.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.