Consiglio di Stato
Sezione III
Sentenza 10 gennaio 2018, n. 93

Presidente: Frattini - Estensore: Birritteri

FATTO

Con sentenza n. 1121 del 2017 pubblicata il 19 maggio 2017 il TAR per la Lombardia ha respinto il ricorso proposto dall'Impresa Sangalli Giancarlo & C. s.r.l., avverso il provvedimento dell'8 luglio 2016 con il quale il Prefetto della Provincia di Monza e della Brianza, ha disposto, nei confronti dell'odierna appellante, la misura della straordinaria e temporanea gestione dell'impresa (ex art. 32 del d.l. anticorruzione n. 90/2014) ai fini della completa esecuzione di due contratti di appalto di servizi di igiene ambientale, nonché dell'analogo provvedimento (meramente confermativo) emesso in pari data dal Prefetto della Provincia di Barletta, Andria e Trani.

In particolare la misura è stata disposta su proposta del Presidente dell'ANAC in relazione a due contratti relativi al servizio di raccolta, trasporto dei rifiuti urbani e pulizia della rete stradale affidati all'Impresa Sangalli s.r.l., rispettivamente dal Comune di Monza e dai Comuni di Andria e Canosa. Ciò nella considerazione che a carico dell'impresa appaltante risultavano riscontrate "situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali" di matrice corruttiva, commessi in occasione di varie procedure d'appalto al fine di ottenerne l'aggiudicazione e attribuiti - tra gli altri soggetti coinvolti - a quattro componenti della famiglia Sangalli che ricoprivano all'epoca ruoli di rappresentanza e direzione in seno all'omonima impresa; fatti delittuosi in ordine ai quali è, peraltro, già intervenuta una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, pronunciata ai sensi dell'art. 444 c.p.p. dal GIP presso il Tribunale di Monza, il 19 gennaio 2015.

Costoro, nella prospettazione dell'autorità anticorruzione, sono protagonisti di "un collaudato sistema corruttivo e di una capillare rete di contatti e di appoggi che, nel corso degli anni, hanno consentito all'Impresa Sangalli & C. Srl, attraverso l'aggiudicazione di gare di rilevante e strategica importanza, di entrare nel ristretto numero di aziende leaders a livello nazionale, nel settore dell'igiene urbana in generale".

Il primo giudice dopo aver osservato che "... la semplice lettura dell'art. 32 del d.l. n. 90/2014 consente di individuare due distinti gruppi di ipotesi cui si può correlare l'applicazione della misura della temporanea e straordinaria gestione dell'impresa. Il primo concerne i casi di pendenza di procedimento penale per determinati delitti (concussione, corruzione, traffico di influenze illecite, turbata libertà degli incanti o del procedimento di scelta del contraente), mentre il secondo comprende "situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali" attribuibili ad un'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico...", ha precisato che la misura in questione è stata chiesta e ottenuta dall'ANAC con riferimento alla seconda fattispecie.

Il Tar ha ritenuto infondate le censure dirette a contestare i provvedimenti di applicazione della misura per violazione del principio di irretroattività delle sanzioni penali ed amministrative poiché la temporanea e straordinaria gestione dell'impresa, disposta in relazione a specifici contratti, non ha natura sanzionatoria, trattandosi di una misura di carattere amministrativo non avente finalità afflittive.

Il giudice di prime cure ha stimato non condivisibile la tesi secondo cui l'autorità prefettizia si sarebbe illegittimamente sostituita al potere giurisdizionale, che già aveva escluso la possibilità di procedere al commissariamento dell'impresa, nella considerazione che la misura commissariale negata dal Gip presso il Tribunale di Monza è diversa, per ratio e presupposti, da quella applicata dal Prefetto.

Il Tar ha, inoltre, ritenuto prive di fondamento le contestazioni inerenti l'assenza delle condizioni normative per l'applicazione della misura adottata, poiché detta misura non presuppone necessariamente che siano pendenti indagini o procedimenti penali per i delitti di cui al catalogo dell'art. 32 del d.l. anticorruzione.

Sotto i contestati profili della gravità e della proporzionalità della misura il primo giudice ha osservato che i provvedimenti gravati mettono in luce, in coerenza con le risultanze istruttorie e con i fatti accertati penalmente, come si sia dato vita ad un vero e proprio modus operandi della società, caratterizzato da condotte di acquisizione fraudolenta degli appalti pubblici, attraverso il metodico ricorso al pagamento di somme, anche cospicue, di denaro, utilizzate per la corruzione di pubblici ufficiali, con "sistematica alterazione delle procedure di gara".

Infine il Tar Lombardia ha rilevato l'assenza di carenze o difetti motivazionali, poiché il provvedimento impugnato poggia su un complesso e dettagliato insieme di dati fattuali, coerenti con le risultanze istruttorie e che si estendono oltre le singole fattispecie di reato vagliate dalla sentenza penale, visto che attengono a reiterate modalità illecite di procacciamento e gestione delle commesse pubbliche, che hanno finito col connotare l'intera organizzazione societaria.

In tale contesto, secondo il primo giudice, risulta scevra da vizi logici anche la valutazione compiuta dall'amministrazione secondo cui la fase esecutiva dei servizi di cui si tratta, in considerazione "dei tempi molto lunghi di esecuzione previsti", richiede "l'urgente e tempestiva attivazione delle misure di gestione straordinaria dell'impresa, a presidio e salvaguardia del corretto operato da parte della società per tutta la durata dell'esecuzione dei contratti", specie considerando che si tratta di servizi svolti a favore della collettività e di primario interesse pubblico.

Avverso tale decisione propone appello l'Impresa Sangalli s.r.l. deducendo, con il primo motivo di gravame, l'omessa pronuncia sulla dedotta violazione del principio di irretroattività di cui all'art. 11 della preleggi rispetto ai fatti in contestazione, tutti risalenti ad epoca anteriore all'entrata in vigore dell'art. 32 del d.l. anticorruzione.

Con un secondo articolato motivo l'appellante lamenta l'illegittimità della misura adottata sotto diversi profili, deducendo che i provvedimenti prefettizi sono stati illegittimamente adottati poiché:

i componenti della famiglia Sangalli sottoposti a procedimento penale non fanno più parte degli organi sociali;

il procedimento penale di cui trattasi è già definito con sentenza irrevocabile;

i decreti prefettizi sono intervenuti a distanza di molto tempo dalla definizione del giudizio penale;

i due contratti "commissariati" risultano eseguiti a regola d'arte;

la misura del risarcimento del danno conseguente dai reati in contestazione è stato oggetto di transazione con il Comune di Monza.

Con un terzo motivo l'appellante lamenta che il pericolo conseguente alle presunte anomalie poste a base dei provvedimenti prefettizi impugnati risulta del tutto indimostrato ed, anzi, smentito dalle misure di self cleaning che l'Impresa Sangalli ha, invece, posto in essere per assicurare condizioni di ripristinata legalità nei rapporti con la pubblica amministrazione; misure, peraltro, positivamente valutate dal GIP di Monza (che ha rigettato la richiesta di misura cautelare di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 231/2001 formulata dalla competente Procura della Repubblica).

All'odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

Come già evidenziato dalla Sezione in una recente decisione (C.d.S., III, sentenza n. 5563 del 2017) l'art. 32 del d.l. anticorruzione si propone l'ambizioso obiettivo di contemperare due opposte esigenze: garantire la completa esecuzione degli appalti e neutralizzare il rischio derivante dall'infiltrazione criminale nelle imprese, introducendo un originale e innovativo meccanismo di commissariamento.

Più in particolare la gestione commissariale - espressamente qualificata come attività di pubblica utilità (poiché essa risponde, primariamente, all'interesse generale di assicurare la realizzazione dell'opera; così C.d.S., sez. III, 28 aprile 2016, n. 1630 ed ancor prima C.d.S., sez. III, 24 luglio 2015, n. 3653) - è volta, attraverso l'intervento del Prefetto, non soltanto a garantire l'interesse pubblico alla completa esecuzione dell'appalto ma anche a sterilizzare la gestione del contratto "oggetto del procedimento penale" dal pericolo di acquisizione delle utilità illecitamente captate in danno della pubblica amministrazione. E non si è mancato di sottolineare che, sotto tale profilo, l'istituto si manifesta come uno strumento di autotutela contrattuale previsto direttamente dalla legge.

In altri termini, questa speciale forma di commissariamento riguarda soltanto il contratto (e la sua attuazione) e non la governance dell'impresa in quanto tale ed in ciò si distingue dalle misure di prevenzione patrimoniali disposte ai sensi del d.lgs. n. 159/2011 (c.d. codice antimafia). In tal senso depone lo stesso tenore letterale della norma laddove si afferma che il commissariamento ha luogo "limitatamente alla completa esecuzione del contratto o della concessione".

Ciò è, inoltre, confermato dall'intera struttura della norma che consente la gestione commissariale del contratto in evidente alternativa alle regole generali che ne imporrebbero la caducazione. Una misura, dunque, ad contractum, secondo l'espressione riportata anche nelle linee guida dell'Anac.

La ratio della norma è quella di consentire il completamento dell'opera (ovvero, come nella fattispecie, la gestione del servizio appaltato) nell'esclusivo interesse dell'amministrazione concedente mediante la gestione del contratto in regime di "legalità controllata".

In tale ottica va letto anche il settimo comma dell'art. 32 cit., che impone l'accantonamento degli utili che dal contratto commissariato derivano.

Si tratta di una regola cautelare che si affianca alla gestione controllata del contratto e completa il sistema di tutela dell'interesse pubblico, aggiungendo all'interesse alla prosecuzione del contratto commissariato anche la salvaguardia del recupero "patrimoniale" che può conseguire dalla definizione dei procedimenti penali.

Ciò al fine di scongiurare il paradossale effetto di far percepire, proprio attraverso il commissariamento, il profitto dell'attività criminosa; in coerenza sia con la disposizione generale che consente nel processo penale di disporre la confisca del profitto del reato (art. 240 c.p.), sia avuto riguardo, nella fattispecie, alla speciale disposizione di cui all'art. 322-ter c.p.

Non a caso la norma non offre indicazioni quantitative in ordine all'entità degli utili accantonabili. Utili che devono, invece, essere accantonati nella loro totalità, ponendo la legge una regola cautelare in se autosufficiente e volta a garantire, in corso di commissariamento, che tutti i ricavi maturati che derivano dal contratto amministrato siano impiegati esclusivamente a copertura dei costi.

Peraltro, non va persa di vista l'essenziale considerazione che, prima dell'entrata in vigore della norma, l'alternativa praticabile in presenza di fenomeni corruttivi era, come detto, quella del recesso dall'esecuzione del contratto.

In altri termini, la natura cautelare dell'accantonamento va letta in collegamento all'esito del giudizio penale, da cui discende la necessità di assicurare la confisca del profitto dei reati contro la p.a. facenti parte del catalogo indicato dal primo comma dell'art. 32 cit.

E sul punto va subito chiarito che detta norma rimane applicabile anche allorché i fatti penalmente rilevanti sono già stati accertati con sentenza passata in giudicato, poiché il quantum confiscabile va specificamente determinato (nelle competenti sedi giurisdizionali, compreso il giudice dell'esecuzione penale) e, contrariamente all'assunto dell'appellante, non è equivalente all'ammontare del solo danno subito dalla p.a. persona offesa (l'unico possibile oggetto di "transazione") ma assume, come già rilevato, ben più ampio rilievo, attenendo all'intero profitto confiscabile.

Va, peraltro, segnalato che - come risulta dai provvedimenti impugnati - mentre i fatti sottoposti all'attenzione dell'Autorità giudiziaria di Monza (sentenza GIP n. 71 del 19 gennaio 2015) sono ormai coperti dal giudicato, l'entità della confisca per equivalente risultava all'epoca dell'adottato provvedimento ancora sub judice, essendo stata la sentenza di patteggiamento annullata con rinvio sul punto dalla Corte di cassazione (il riferimento è a Cass. pen., sez. VI, del 9 dicembre 2015, n. 1088 del 2016, in archivio CED, Cassazione).

Peraltro, va rilevato che, all'esito del giudizio di rinvio, la questione della misura della confisca disposta dal GIP di Monza è stata riproposta dinanzi la Corte di cassazione che ha, di recente, definito il giudizio, dichiarando inammissibili i ricorsi che, per la parte che qui interessa, riguardavano anche la questione della confiscabilità del profitto del reato in misura eccedente il quantum oggetto di transazione con il Comune di Monza (cfr. Cass. pen., sez. VI, del 25 gennaio 2017, n. 6287 del 2017, in archivio CED, Cassazione).

E ciò vale, in questa sede a confermare la correttezza dell'interpretazione qui sostenuta in punto di irrilevanza della transazione dedotta dall'appellante con la p.a. persona offesa (il Comune di Monza) nella complessiva determinazione del quantum confiscabile.

Da ciò l'infondatezza dei motivi di appello articolati sul punto.

Tanto premesso, esaminando gli ulteriori motivi di gravame va rilevato che correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto infondata la tesi (oggi nella sostanza ribadita con i motivi di appello) della natura sostanzialmente sanzionatoria dell'istituto al quale, invece, va attribuita la sopra richiamata funzione di strumento per l'esecuzione del contratto nell'esclusivo interesse della p.a. (in alternativa al recesso) cui si affianca l'ulteriore funzione cautelare e preventiva, di accontamento degli utili eventualmente prodotti in visto della definitiva confisca.

In tal senso inteso il commissariamento deve ritenersi applicabile a tutti i rapporti contrattuali in esecuzione al momento dell'entrata in vigore della nuova normativa previsa dal d.l. anticorruzione, senza che possa farsi questione in ordine alla dedotta irretroattività della norma né con riferimento alla sua inesistente natura para-sanzionatoria né avuto riguardo alla dedotta violazione del principio di irretrottavità, con riferimento all'art. 11 delle preleggi, trattandosi di disposizione pienamente applicabile ai contratti in esecuzione, secondo il noto principio tempus regit actum.

Da ciò discende l'infondatezza dei correlativi motivi di appello.

Parimenti infondato è il motivo di gravame inerente l'inapplicabilità dell'istituto nel caso in cui il procedimento penale sia già stato definito con sentenza passata in giudicato.

La misura rimane, infatti, pacificamente applicabile anche nell'ipotesi in cui si rilevi nella gestione dell'impresa titolare del contratto la "presenza di situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali", come inequivocabilmente testimoniato dall'uso del termine "ovvero", significativamente inserito subito dopo la previsione dell'adottabilità della misura nel caso di pendenza di procedimenti penali inerenti il catalogo dei reati previsti dall'art. 32 del d.l. anticorruzione.

Parimenti infondati risultano i rilievi sviluppati dall'appellante con riferimento al merito delle valutazioni discrezionali operate dall'amministrazione sulla gravità delle anomalie gestionali conseguenti alle reiterate condotte illecite, prese in considerazione quali indici di permeabilità criminale nella gestione della società ricorrente.

Al riguardo gli elementi dettagliatamente esposti dall'ANAC e richiamati nei provvedimenti prefettizi impugnati si fondano su plurimi dati oggettivi (comprese le confessioni rese in sede penale da alcuni imputati condannati per gravi fatti di corruzione) dai quali è coerente e logico desumere l'evidenza di "un collaudato sistema corruttivo e di una capillare rete di contatti e di appoggi" che ha radicalmente compromesso l'impresa Sangalli & C. s.r.l., con "un radicamento stabile e diffuso nell'organizzazione aziendale" elevato a sistema "anche nei modi di esplicazione e di coinvolgimento di tutti i gradi apicali dell'impresa, rappresentati dal nucleo familiare Sangalli".

A fronte di ciò ben poco rilievo può essere attribuito alla mera dismissione delle cariche operative, da parte dei componenti della famiglia Sangalli coinvolti nelle vicende penali sopra richiamate, e le altre (invero modeste) misure di self cleaning segnalate dall'appellante, dovendosi tuttora considerare corretta e concreta la valutazione dell'amministrazione sulla permanente attualità del pericolo di infiltrazioni criminali di tipo corruttivo che la gestione commissariata dei due rilevanti contratti in corso di esecuzione è finalizzata a prevenire.

In conclusione l'appello proposto risulta infondato e deve essere respinto.

La peculiarità della questione trattata rende equo compensare tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, respinge l'appello. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.