Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise
Sentenza 12 dicembre 2017, n. 529

Presidente: Silvestri - Estensore: Ciliberti

FATTO E DIRITTO

I. Il ricorrente, assistente capo della Polizia di Stato, in servizio presso [omissis] della Questura di Campobasso, in data 29 luglio 2014 rassegnava al suo Questore una relazione di servizio, per segnalare alcune criticità all'interno dell'Ufficio (riduzione di personale addetto, aumento dei carichi di lavoro, eccessivo stress degli operatori, ecc.). Lo stesso chiedeva e otteneva poi, in data 13 novembre 2014, dalla sua dirigente, la dott.ssa [omissis], di essere ricevuto per spiegare le ragioni della stesura e dell'invio della relazione scritta di doglianze al Questore. Il colloquio tra il ricorrente e la sua capufficio si svolgeva a porte chiuse, in assenza di testimoni, nella stanza della stessa dirigente. Sennonché, a conclusione dell'incontro, la d.ssa [omissis] segnalava per iscritto al dirigente della Divisione del Personale della Questura, un presunto comportamento irriguardoso tenuto dal ricorrente nei suoi confronti, proprio nel corso del colloquio del 13 novembre 2014. Ne seguiva una contestazione d'addebito e l'applicazione della misura disciplinare. Il ricorrente insorge, con il ricorso notificato il 2 novembre 2015 e depositato il 20 novembre 2015, per impugnare i seguenti atti: 1) il decreto n. 333-D/88470 del Capo della Polizia - Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, emesso il 5 agosto 2015 e notificato il 31 agosto 2015, con il quale è stato respinto il ricorso gerarchico presentato dal ricorrente avverso la sanzione disciplinare di cui al decreto prot. n. 290/2.8/Pers./15, emesso in data 17 febbraio 2015 dal Questore della Provincia di Campobasso; 2) il decreto prot. n. 290/2.8/Pers./15, emesso in data 17 febbraio 2015 dal Questore della Provincia di Campobasso, con il quale è stata inflitta la sanzione disciplinare della "pena pecuniaria nella misura di 1/30 di una mensilità dello stipendio e degli altri assegni a carattere fisso e continuativo", ex art. 4, n. 18), in relazione all'art. 3, n. 6), del d.P.R. n. 737/1981, per la seguente mancanza: "Nel corso del colloquio con il proprio dirigente, avente ad oggetto problematiche d'ufficio, assumeva comportamenti ed atteggiamenti scorretti nei confronti dello stesso"; 3) la contestazione di addebiti disciplinari di cui alla nota prot. n. 1837/2.8.Pers./14 del 18 novembre 2014, notificata l'1 dicembre 2014; 4) la relazione di servizio del Commissario Capo della Polizia di Stato di Campobasso del 13 novembre 2014; 5) ogni atto o provvedimento connesso o conseguente. Il ricorrente deduce, all'uopo, i seguenti motivi: 1) violazione dell'art. 2967 c.c. e difetto di istruttoria del procedimento; 2) violazione e falsa applicazione dell'art. 120 del T.U. 10 gennaio 1957, n. 3; 3) violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 737/1981 e del d.P.R. n. 782/1985, violazione dell'art. 3 della l. n. 241/1990, violazione dell'art. 97 Cost., violazione del d.P.C.M. n. 214/2012, difetto di motivazione, contraddittorietà, illogicità nella motivazione, eccesso di potere, erroneità manifesta.

Si costituisce il Ministero intimato, per resistere nel giudizio. Con successiva memoria deduce l'infondatezza del ricorso. Conclude per la reiezione.

All'udienza del 5 dicembre 2017, la causa è introitata per la decisione.

II. Il ricorso è fondato.

III. Non può escludersi che il ricorrente abbia usato parole poco consone o irriguardose nei confronti della sua capufficio e superiore gerarchico, ma ciò è avvenuto in un colloquio tra l'interessato e la capufficio medesima, svoltosi a porte chiuse, in assenza di testimoni, all'interno della stanza della dirigente. Nella specie, non risulta da riferimenti esterni che vi sia stata tra l'incolpato e la parte offesa una discussione dai toni concitati, dato che avrebbe potuto essere agevolmente acquisito o confermato mediante le testimonianze del personale presente in quel momento nelle stanze attigue. L'escussione dei testi a discarico, indicati dal ricorrente nel procedimento disciplinare, o anche solo una rapida interrogazione del personale presente al momento nelle vicinanze dell'ufficio (dove è avvenuto il fatto contestato come illecito disciplinare), avrebbe consentito di accertare, quanto meno, se il colloquio avesse avuto toni pacati ovvero concitati. Sennonché, nessun teste è stato sentito. L'istruttoria, nella specie, è risultata alquanto sbrigativa e frettolosa, senza dire che, nel procedimento disciplinare, impedendo l'escussione dei testi a discarico, non si è consentito al dipendente di spiegare tutte le possibili difese e giustificazioni. Nella sentenza della Corte costituzionale n. 182/2008, il diritto di difesa non ha un'applicazione piena nell'ambito dei procedimenti disciplinari (non è cioè paragonabile al diritto di difesa nel processo penale) e, tuttavia, l'onere della prova non può essere del tutto obliterato. Com'è noto, per principio generale, l'onere della prova, sia sul piano sostanziale sia su quello processuale, spetta a colui che avanza una pretesa o una domanda, per cui anche nel procedimento disciplinare è ineludibile la necessità che vi sia un adeguato riscontro probatorio circa l'addebitabilità dei fatti di cui l'incolpato è ritenuto responsabile (cfr.: C.d.S., III, 12 settembre 2016, n. 3843). Nella specie, l'unica prova è la dichiarazione della stessa parte offesa. Anche senza dubitare della sincerità e della genuinità del resoconto del colloquio oggetto di addebito, reso dalla dirigente dell'Ufficio immigrazione, non può non rilevarsi che detto funzionario potrebbe aver percepito come offensiva un'intonazione o una sfumatura o una forza illocutoria delle parole e delle proposizioni ("non mi fanno paura le sanzioni"; "il muro si alza sempre più"; "il giocattolo si è rotto") che, viceversa, quelle parole e quelle frasi potrebbero non aver avuto, traducendosi piuttosto in un mero sfogo di frustrazione da parte di chi le ha profferite. Il giudizio più irriguardoso attribuito al ricorrente nei confronti della sua capufficio ("per me lei è una persona sleale"), inteso che sia stata pronunciato nel corso dell'abboccamento, sarebbe un apprezzamento gratuito e insolente che, tuttavia, non può essere decontestualizzato: dalla ricostruzione dei fatti, non emerge in modo chiaro per quale ragione e in quale momento esso sarebbe stato profferito.

La prova del fatto contestato qui è tratta esclusivamente dalle dichiarazioni della parte offesa dalla condotta ritenuta violativa delle regole disciplinari. Mutuando utili suggerimenti dalla giurisprudenza penale, si può ritenere che le dichiarazioni della parte offesa possono essere legittimamente poste - da sole e in assenza di riscontri oggettivi esterni - a base dell'affermazione di responsabilità dell'incolpato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva e dell'attendibilità intrinseca del racconto (cfr., ex multiis, Cass. pen., IV, n. 44644 del 18 ottobre 2011; III, n. 28913 del 3 maggio 2011). Il vaglio positivo dell'attendibilità del dichiarante deve essere penetrante e rigoroso, più di quanto non lo sia quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, talché la deposizione della persona offesa può essere assunta da sola come fonte di prova unicamente se sottoposta al riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva. La valutazione della credibilità della persona offesa rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale. Nel caso di specie, tale valutazione è del tutto mancata o, quantomeno, non è stata esplicitata nella motivazione del provvedimento disciplinare. Inoltre, non può sottacersi - come evidenziato da parte ricorrente - che l'intera vicenda acquisterebbe un significato di ripicca o puntiglio, se fosse ricondotta a possibili e personali motivi di risentimento della dirigente verso l'incolpato, a causa del "report" da lui scritto direttamente al Questore, in data 29 luglio 2014, per segnalare le criticità del [omissis] della Questura di Campobasso, scavalcando - invero in modo poco opportuno, ma senza violare alcuna disposizione o norma interna - il livello gerarchico del capoufficio.

IV. Ma vi è di più. L'art. 13 del d.P.R. n. 737/1981 (recante "sanzioni disciplinari per il personale dell'Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti") si occupa di enucleare le modalità con cui devono essere irrogate le sanzioni disciplinari per gli appartenenti alla Polizia di Stato, sancendo in particolare che: "Nello svolgimento del procedimento deve essere garantito il contraddittorio". Analogamente, la l. n. 241/1990 ha introdotto il principio del giusto procedimento, in virtù del quale la determinazione del pubblico interesse si deve realizzare (anche) attraverso il contraddittorio con i portatori dei contrapposti interessi coinvolti dall'esercizio del potere pubblico. Nella partecipazione al procedimento si possono ravvisare due finalità diverse: da un lato, una funzione di tutela della propria posizione giuridica soggettiva (la c.d. partecipazione "difensiva"), che è volta a consentire all'interessato di far valere le proprie ragioni, a procedimento ancora in corso e prima che sia emanato il provvedimento; dall'altro, una funzione più prettamente collaborativa, dato che, attraverso le osservazioni e le informazioni fornite dal partecipante, l'Amministrazione può meglio conoscere ogni elemento utile per la migliore valutazione del caso concreto. Si è andata così affermando la distinzione tra il principio del giusto procedimento (mutuato dal sistema anglosassone del "due process of law"), che vale essenzialmente per i procedimenti e i provvedimenti che producono effetti restrittivi della sfera giuridica soggettiva dei cittadini, ed il principio di partecipazione, avente un ambito di applicazione più ampio, che assegna agli intervenienti nel procedimento un ruolo collaborativo riferito alla completezza della fase istruttoria e al miglioramento dei risultati della funzione. Anche l'art 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE - proclamata a Nizza il 7 dicembre 2001 e recepita nel Trattato di Lisbona del 2007 - ha ben definito il contenuto sostanziale rappresentato dal rispetto del diritto "di ogni individuo - nei confronti delle istituzioni - di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio". Di qui il basilare principio, sostanziale e processuale, concretizzatesi nel diritto dell'incolpato di potersi difendere, venendo sentito o producendo prove e documenti, prima che l'organo titolare di potestà sanzionatoria adotti misure afflittive. Nello stesso senso, secondo l'interpretazione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, il diritto di difesa "impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il loro punto di vista" (cfr.: Corte di giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, C-32/95 P., Commissione Comunità europea c. Lisrestal). Il rispetto di tale regola non può esaurirsi nel passaggio formale dell'audizione o nell'acquisizione acritica delle deduzioni scritte dell'incolpato, ma deve integrare una completa valutazione delle circostanze e dei fatti alla luce degli apporti partecipativi, valutazione che deve altresì emergere dalla motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare. Nel caso di specie, tale emersione non si è verificata, sicché anche il censurato profilo del difetto di motivazione del provvedimento impugnato è da ritenersi attendibile.

V. In conclusione, il ricorso deve essere accolto. Si ravvisano giustificate ragioni per la compensazione delle spese del giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, annulla i provvedimenti impugnati.

Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo a identificare le parti private.