Consiglio di Stato
Sezione III
Sentenza 27 novembre 2017, n. 5563

Presidente: Frattini - Estensore: Birritteri

FATTO

Con sentenza n. 12868 del 25 ottobre 2016 (pubblicata il 29 dicembre 2016) il TAR del Lazio ha accolto il ricorso proposto dalla Società Italiana per Condotte d'Acqua s.p.a. avverso il decreto del 22 gennaio 2016, con il quale il Prefetto di Roma ha esteso anche alle imprese consorziate l'accantonamento degli utili imposto al Consorzio Venezia Nuova con la misura di straordinaria e temporanea gestione dell'impresa, applicata con precedente provvedimento dell'1 dicembre 2014, ai sensi dell'art. 32, comma 1, lett. b), del d.l. n. 90/2014.

Il primo giudice - dopo aver ricordato che l'originario provvedimento di commissariamento era stato adottato a seguito delle vicende di carattere penale che hanno interessato gli ex amministratori del Consorzio Venezia Nuova, concessionario dei lavori per la realizzazione del MOSE di Venezia - ha ritenuto che detto accantonamento non potrebbe avere effetto nei confronti delle imprese consorziate, essendo soggetto al commissariamento solo il Consorzio.

In particolare, la separazione tra il consorzio e le imprese che ne fanno parte impedirebbe di applicare anche a queste ultime il potere dei commissari di accantonare gli utili prodotti in capo alle singole consorziate, fatta salva l'ipotesi di applicare anche a queste ultime la misura della straordinaria e temporanea gestione prevista dall'art. 32, comma 1, lett. b), d.l. 90/2014.

Osserva, altresì, il primo giudice che nella fattispecie risulterebbero già accantonate risorse sufficienti a garantire la "capienza" del fondo, per l'eventualità di provvedimenti di confisca o di risarcimento dei danni conseguenti all'esito dei procedimenti penali in corso.

Infine l'adito TAR evidenzia un vizio procedurale conseguente all'omessa comunicazione di avvio del procedimento alle imprese consorziate, sul presupposto dell'autonomia del provvedimento "estensivo" oggetto di impugnazione.

Avverso tale decisione - con unico atto - propongono appello la Prefettura di Roma, il Ministero dell'Interno e l'Autorità Nazionale Anticorruzione.

Parte appellante lamenta, con un primo motivo, violazione e/o falsa applicazione dell'art. 32, del d.l. del 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 114 e degli artt. 2612 e ss. c.c., nonché motivazione insufficiente e contraddittoria, sottolineando che il primo giudice non avrebbe tenuto conto della particolare connotazione del contratto la cui esecuzione è stata commissariata dall'originario provvedimento prefettizio (dell'1 dicembre 2014).

A sostegno dell'assunto l'appellante evidenzia che il contratto oggetto di commissariamento (ossia la Convenzione Generale Rep. n. 7191 del 4 ottobre 1991), riguarda l'intera realizzazione del Piano di salvaguardia della Laguna di Venezia e del Sistema Mose e rappresenta un unicum nel nostro ordinamento, poiché le singole imprese consorziate, pur non essendo parte della Convenzione Generale, eseguono la commessa in questione senza partecipare ad alcuna procedura di evidenza pubblica.

Nella sostanza, secondo l'appellante, tutti i ricavi derivanti dal "contratto" commissariato, la cui esecuzione è ripartita con affidamenti dal CVN alle consorziate, confluiscono esclusivamente in capo alle imprese assegnatarie in concreto dei singoli lavori, salvo che per una quota del tutto residuale, pari al 12% del corrispettivo contrattuale, spettante al Consorzio per la copertura degli oneri di coordinamento. Sicché, impedire l'accantonamento degli utili destinati alle imprese consorziate rende, di fatto, inoperante il commissariamento del contratto.

Con un secondo motivo l'appellante deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 e 21-octies della l. 7 agosto 1990, n. 241.

Si è costituita in giudizio la Società Italiana Per Condotte D'Acqua Spa, invocando l'inammissibilità e, in ogni caso, il rigetto dell'appello.

All'udienza del 26 ottobre 2017, sentite le parti, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

Preliminarmente va rilevata l'infondatezza della dedotta inammissibilità dell'appello considerato che nell'atto di impugnazione non si rileva alcun omesso gravame di capi autonomi della sentenza di primo grado.

Deve, altresì, dichiararsi infondata l'eccezione preliminare formulata in primo grado dall'odierna appellata e richiamata nella memoria di costituzione in appello, inerente l'asserita incompetenza territoriale del Prefetto di Roma, atteso che, nella fattispecie, la stazione appaltante (in relazione alla quale si radica la competenza territoriale del Prefetto ex art. 32 cit.) va identificata nel Ministero delle Infrastrutture (già dei Lavori Pubblici).

Tanto premesso, nel presente giudizio la principale questione controversa è se - in presenza di un provvedimento prefettizio che dispone di provvedere direttamente alla straordinaria e temporanea gestione dell'impresa limitatamente alla completa esecuzione di un'opera pubblica, ex art. 32 d.l. n. 90/2014 - la regola che dispone l'accantonamento in apposito fondo dell'utile d'impresa derivante dall'esecuzione del contratto commissariato sia estensibile o meno anche agli utili spettanti alle imprese che eseguono i lavori per conto del concessionario, con il quale sono consorziate.

Al riguardo appare utile ricordare che - come osservato da acuta dottrina - l'art. 32 del d.l. anticorruzione si propone l'ambizioso obiettivo di contemperare due opposte esigenze: garantire la completa esecuzione degli appalti e neutralizzare il rischio derivante dall'infiltrazione criminale nelle imprese, introducendo un originale e innovativo meccanismo di commissariamento.

Più in particolare la gestione commissariale - espressamente qualificata come attività di pubblica utilità (poiché essa risponde, primariamente, all'interesse generale di assicurare la realizzazione dell'opera; così C.d.S., sez. III, 28 aprile 2016, n. 1630 ed ancor prima sez. III, 24 luglio 2015, n. 3653) - è volta, attraverso l'intervento del Prefetto, non soltanto a garantire l'interesse pubblico alla completa esecuzione dell'opera appaltata ma anche a sterilizzare la gestione del contratto "oggetto del procedimento penale" dal pericolo di acquisizione delle utilità illecitamente captate in danno della pubblica amministrazione. E non si è mancato di sottolineare che, sotto tale profilo, l'istituto si manifesta come uno strumento di autotutela contrattuale previsto direttamente dalla legge.

In altri termini, questa speciale forma di commissariamento riguarda soltanto il contratto (e la realizzazione dell'opera pubblica) e non la governance dell'impresa in quanto tale ed in ciò si distingue dalle misure di prevenzione patrimoniali disposte ai sensi del d.lgs. n. 159/2011 (c.d. codice antimafia). In tal senso depone lo stesso tenore letterale della norma laddove si afferma che il commissariamento ha luogo "limitatamente alla completa esecuzione del contratto o della concessione".

Ciò è, inoltre, confermato dall'intera struttura della norma che consente la gestione commissariale dell'appalto "oggetto del procedimento penale" in evidente alternativa alle regole generali che imporrebbero la caducazione del contratto in corso. Una misura, dunque, ad contractum, secondo l'espressione riportata anche nelle linee guida dell'Anac.

La ratio della norma è quella di consentire il completamento dell'opera nell'esclusivo interesse dell'amministrazione concedente mediante la gestione del contratto in regime di "legalità controllata".

In tale ottica va letto anche il settimo comma dell'art. 32 cit., che impone l'accantonamento degli utili che dal contratto commissariato derivano.

Si tratta di una regola cautelare che si affianca alla gestione controllata del contratto e completa il sistema di tutela dell'interesse pubblico, aggiungendo alla garanzia della realizzazione dell'opera attesa dalla collettività anche la salvaguardia del recupero "patrimoniale" che può conseguire dalla definizione dei procedimenti penali in relazione ai quali il commissariamento stesso è stato imposto.

Ciò al fine di scongiurare il paradossale effetto di far percepire, proprio attraverso il commissariamento che gestisce l'esecuzione del contratto, il profitto dell'attività criminosa; in coerenza sia con la disposizione generale che consente nel processo penale di disporre la confisca del profitto del reato (art. 240 c.p.), sia avuto riguardo, nella fattispecie, alla speciale disposizione di cui all'art. 322-ter c.p.

Non a caso la norma (contrariamente a quanto sembra ritenere il primo giudice laddove richiama la "capienza" degli utili già accantonati dal CVN) non offre indicazioni quantitative in ordine all'entità degli utili accantonabili. Utili che devono, invece, essere accantonati nella loro totalità, ponendo la legge una regola cautelare in se autosufficiente e volta a garantire, in corso di commissariamento, che tutti i ricavi maturati che derivano dal contratto amministrato siano impiegati esclusivamente a copertura dei costi.

Peraltro, non va persa di vista l'essenziale considerazione che, prima dell'entrata in vigore della norma, l'alternativa praticabile in presenza di fenomeni corruttivi era, come detto, quella del recesso dall'esecuzione del contratto.

Il dato che pare insuperabile riguarda, comunque, il tenore letterale della norma che si limita ad imporre, tout court, il congelamento degli utili, in quanto tali, attraverso una formula nella quale si afferma che l'utile "è accantonato in apposito fondo e non può essere distribuito né essere soggetto a pignoramento, sino all'esito dei giudizi in sede penale".

In altri termini, la natura cautelare dell'accantonamento va letta in collegamento all'esito del giudizio penale, da cui discende la necessità di assicurare la confisca del profitto dei reati contro la p.a. facenti parte del catalogo indicato dal primo comma dell'art. 32 cit., se accertati all'esito del procedimento penale.

Pertanto, contrariamente all'assunto espresso sul punto dalla difesa dell'appellata, la misura degli utili già accantonati e la loro eventuale capienza non ha alcuna influenza con l'operatività dell'accantonamento in parola che la norma impone come sempre obbligatorio. Soltanto in esito ai processi penali potrà farsi questione in ordine alla misura degli utili in concreto da confiscare (se ritenuti profitto del reato) e all'eventuale residuo da redistribuire agli aventi diritto.

Tanto precisato con riferimento alle condizioni operative generali del commissariamento prefettizio disposto ex art. 32 cit. rimane da verificare se, nella fattispecie concreta, possano o meno essere accantonati anche gli utili incassati dal CVN per l'esecuzione dei lavori ma destinati alle imprese consorziate che quei lavori hanno materialmente eseguito.

Al riguardo va evidenziato che il primo giudice non ha adeguatamente valorizzato la peculiarità della concessione di cui è unico titolare il CVN, che gestisce anche gli incassi dei S.A.L. (quale unica controparte contrattuale della p.a.) e i relativi pagamenti alle imprese consorziate.

Sicché, l'affermazione secondo cui il provvedimento prefettizio impugnato ha natura autonoma e incide direttamente sulla posizione giuridica soggettiva delle imprese consorziate non può essere condivisa.

In primo luogo perché, in virtù delle clausole contrattuali vigenti, è soltanto il CVN l'unica controparte della stazione appaltante, con la conseguenza che l'atto negoziale di (ri)trasferimento delle singole quote delle risorse percepite per i lavori fatti eseguire dalle imprese consorziate (mediante accordi interni di natura privatistica) è atto che rientra nei poteri dei commissari e non riguarda la governance delle imprese estranee al commissariamento.

Al più, dette imprese, potranno tutelare la loro posizione giuridica dinanzi al G.O. facendo valere, nei riguardi del CVN, i vincoli contrattuali assunti in ordine alle modalità di pagamento e l'eventuale inadempimento di tali rapporti, cui è da ritenersi estranea la stazione appaltante.

In altri termini, posto l'obbligo giuridico che grava sui commissari di accantonare tutti gli utili (senza distinzione alcuna) che discendono dal contratto commissariato, non si vede come sia possibile distinguere tra utili spettanti al Consorzio ed utili di competenza delle imprese consorziate.

Una tale distinzione potrebbe configurarsi ove il commissariamento si riferisca all'Ente commissariato (in questo caso al CVN) e non già all'oggetto della commessa pubblica.

Ma non pare possa dubitarsi che il commissariamento riguarda il contratto la cui esecuzione va completata mediante il ricorso a questa procedura di legalità controllata e giammai l'ente nel suo complesso.

Tutto ciò al netto della considerazione che, in attesa dell'esito del processo penale, l'utile è soltanto accantonato e non ancora esposto a provvedimenti direttamente ablativi (a conferma della funzione meramente cautelare dell'istituto).

Oltre a ciò coglie nel segno l'Avvocatura appellante laddove sottolinea, in coerenza con la ratio dell'istituto, che tenuto conto della davvero particolare natura della convenzione stipulata dalla p.a. con il CVN, l'interpretazione sposata dal primo giudice finirebbe per vanificare del tutto la cautela imposta dal settimo comma dell'art. 32 cit.

Invero la natura giuridica dei rapporti contrattuali che legano la p.a. al concessionario e questi alle imprese consorziate che eseguono, in concreto, la maggior parte dei lavori in totale assenza di procedure di evidenza pubblica, va posta al centro dell'analisi nel presente giudizio.

Se, infatti, di tale specifico rapporto concessorio si tiene conto, anche la pretesa di assoggettare alla misura di cui all'art. 32 cit. le imprese consorziate (quale strumento per ottenere il risultato auspicato dalla p.a. con il provvedimento impugnato) appare di incerta applicabilità.

Invero, le singole imprese consorziate non hanno con la pubblica amministrazione alcun rapporto, non rientrando in alcuna delle categorie indicate dalla norma per procedere al commissariamento in questione.

Giova sul punto ricordare che l'applicazione dell'istituto di cui all'art. 32 cit., presuppone la presenza di "un'impresa aggiudicataria di un appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o forniture" ovvero di "un concessionario di lavori pubblici" o di "un contraente generale"; e solo a queste imprese può essere imposta la straordinaria e temporanea gestione limitatamente alla completa esecuzione del contratto d'appalto o della concessione.

Sicché, anche sotto questo aspetto, le conclusioni cui è pervenuto in giudice di primo grado non sembrano conformi alla ratio dell'istituto applicato.

Alla luce delle sopra esposte considerazioni rimane da dire che il provvedimento impugnato, contrariamente a quanto assunto dal TAR, deve ritenersi di natura meramente ricognitiva (o, se si preferisce, interpretativa ed estensiva) dell'originario provvedimento prefettizio del 2014 che applica la misura al CVN.

Detto provvedimento vale soltanto a specificare ai commissari che, già in forza dell'originario provvedimento, gli utili che devono essere accantonati sono, necessariamente, tutti quelli che a qualsiasi titolo derivano dal contratto, al netto dei costi per la realizzazione dell'opera.

Si tratta, peraltro, come già evidenziato, di una conclusione che discende direttamente dalla legge che tale accantonamento impone, senza alcun margine di discrezionalità neppure in ordine alla pretesa "capienza" dei fondi già accantonati argomentata dal primo giudice.

In virtù di tali considerazioni va disatteso anche l'ultimo argomento utilizzato per annullare il provvedimento impugnato: il mancato avviso del procedimento nei confronti delle imprese consorziate cui il provvedimento stesso andava esteso.

Ciò non soltanto perché - una volta correttamente intesa la norma - l'accantonamento di tutti gli utili è da ritenersi per i commissari attività totalmente vincolata e obbligatoria (anche rispetto al quantum da accantonare), ma anche perché l'impugnato provvedimento prefettizio colpisce soltanto in via di fatto e indirettamente le imprese in questione, la cui posizione soggettiva va tutelata, semmai, dinanzi al giudice ordinario per tutte le questioni interne relative al rapporto tra le consorziate che hanno eseguito i lavori e il CVN.

Sicché e conclusivamente, in totale riforma della sentenza impugnata, l'appello proposto deve essere accolto e, per l'effetto, il ricorso proposto in primo grado deve essere respinto.

La peculiarità delle questioni trattate rende equo compensare integralmente le spese di entrambi i gradi di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in integrale riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado.

Compensa interamente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.