Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 29 dicembre 2016, n. 27455

Presidente: Canzio - Estensore: Mazzacane

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato Lamberto M. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma il Comune di Roma e Carlo Me. per sentir "accertare e dichiarare, ex art. 2043 c.c. in capo al funzionario dell'Amministrazione convenuta, Dott. Carlo Me., gli estremi della colpa per illegittimo esercizio della funzione pubblica, sostanziatosi nell'emanazione dell'ordinanza di chiusura n. 6180 del 2 marzo 1994, eseguita il 18 aprile 1994, sull'asserito presupposto dell'esercizio abusivo, da parte dell'attore, di attività commerciale; accertare e dichiarare, che il colpevole illegittimo esercizio della funzione pubblica, ad opera del funzionario municipale convenuto, è stato fonte di danno ingiusto nei confronti dell'attore, condannandolo, per l'effetto, in solido con il Comune di Roma al risarcimento in favore dell'attore delle seguenti voci di danno: a) danno patrimoniale, b) danno non patrimoniale".

I convenuti si costituivano in giudizio contestando le avverse deduzioni.

Successivamente spiegavano intervento volontario Camillo M., Fabio M. ed Anna Teresa P. i quali, qualificandosi anch'essi titolari dell'impresa familiare asseritamente danneggiata dall'operato dei convenuti, chiedevano la condanna dei medesimi al risarcimento del danno patrimoniale ad essi derivato.

Il Tribunale adito con sentenza del 28 febbraio 2011, accogliendo parzialmente la domanda attrice, condannava la convenuta Roma Capitale al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali prodottisi nel periodo compreso tra il 17 luglio 2001 ed il 17 luglio 2006, liquidati in complessivi euro 252.339,33 oltre rivalutazione monetaria ed interessi, rigettava la domanda attrice nei confronti del Me. e la domanda proposta dagli intervenuti nei confronti dei convenuti; il Tribunale riteneva sussistente un comportamento antigiuridico del Comune di Roma con riferimento al solo periodo 1995-2001 per effetto della illegittima protrazione del provvedimento di chiusura dell'esercizio commerciale di cui era titolare il M., nonostante l'intervenuto nulla osta rilasciato dagli stessi uffici comunali in pendenza del procedimento instaurato da quest'ultimo dinanzi al TAR del Lazio, ed aggiungeva che il diritto risarcitorio era in parte prescritto per avvenuto decorso del termine quinquennale ex art. 2947 c.c.

Proposta impugnazione da parte del M. resisteva al gravame Roma Capitale che introduceva altresì appello incidentale; il Me. restava contumace.

Successivamente intervenivano in giudizio Anna Teresa P., Fabio M. e Camillo M. mediante deposito di una comparsa di costituzione.

La Corte di appello di Roma con sentenza del 9 settembre 2015 ha rigettato entrambi gli appelli ed ha compensato interamente tra le parti costituite le spese del grado, dichiarandole non ripetibili quanto all'appellato Me.

La Corte territoriale, per quanto ancora interessa in questa sede, ha disatteso l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario sollevata preliminarmente da Roma Capitale, posto che la responsabilità invocata nel presente giudizio dal M. era fondata su di una condotta omissiva del Comune di Roma (e per esso dei suoi funzionari), quindi in termini aquiliani in quanto ricollegabile all'ipotesi delittuosa dell'abuso d'ufficio (ricorrendo di esso gli elementi oggettivi e soggettivi), anziché all'atto amministrativo poi annullato dal Consiglio di Stato.

La sentenza impugnata ha poi ritenuto sussistente l'elemento soggettivo dell'illecito aquiliano in relazione causale con i danni allegati dall'attore.

In ordine a tale ultimo profilo, il giudice di appello ha evidenziato la genericità della censura di Roma Capitale relativamente alla quantificazione del danno patrimoniale subito dal M. come operata dal CTU per effetto della prolungata chiusura dell'esercizio commerciale, posto che le reiterate critiche all'accertamento tecnico d'ufficio espletato in primo grado non si erano tradotte in alcuna richiesta di integrazione o di rinnovazione del mezzo istruttorio nelle conclusioni definitive rassegnate in primo grado e nella comparsa di costituzione depositata nel giudizio di appello.

Per la cassazione di tale sentenza Roma Capitale ha proposto un ricorso affidato a quattro motivi cui Lamberto M. ha resistito con controricorso; Anna Teresa P., Camillo M., Fabio M. e Carlo Me. non hanno svolto attività difensiva in questa sede; le parti costituite hanno successivamente depositato delle memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo Roma Capitale, deducendo violazione dell'art. 7 in combinato disposto con l'art. 30, secondo comma, c.p.a., sostiene il difetto di giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda attrice, basata sul presupposto che il Me. avesse "arbitrariamente ed illegittimamente sanzionato la totale mancanza di autorizzazione comunale all'esercizio di attività commerciale", affermando poi che "l'illegittima chiusura forzosa della propria attività commerciale vanificava gli innumerevoli sacrifici dell'attore"; pertanto il M. si era doluto di un provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, cosicché inspiegabilmente il giudice di appello aveva correlato la responsabilità della P.A. alla condotta abusiva di ignoti funzionari per il mancato svolgimento delle funzioni di autotutela.

La ricorrente assume che, anche volendo ascrivere la responsabilità della P.A. al comportamento da essa tenuto mediatamente attraverso i suoi funzionari e non al provvedimento, le conclusioni erano le stesse; infatti, partendo dall'assunto che il riparto di giurisdizione tra G.O. e G.A. si basa, come sancito dall'art. 103 Cost. e ribadito dall'art. 7 del c.p.a. sul criterio della "causa petendi", ossia sulla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, e che detta distinzione si fonda a sua volta sul criterio della carenza-cattivo uso del potere, è legittimo concludere che sono attratti nella cognizione del G.O. solo i meri comportamenti violativi delle regole di diritto comune, ossia tutte le situazioni in cui la P.A. agisce in veste privatistica, in assenza di poteri pubblicistici; viceversa, qualora vi sia in astratto il potere pubblicistico e lo stesso venga male amministrato, sussiste la giurisdizione del G.A. in quanto giudice deputato a pronunciarsi sul cattivo uso del potere amministrativo; tale evenienza si verifica anche in presenza di comportamenti violativi di norme di azione e quindi dei precetti contenuti nella l. n. 241 del 1990, in quanto si correlano all'agire della P.A.

In ogni caso, anche individuando il fatto illecito nel comportamento della P.A. successivo alla emanazione dell'atto, viene pur sempre in rilievo la spendita di poteri pubblicistici; né in senso contrario potrebbe invocarsi la disposizione di cui all'art. 34, secondo comma, del c.p.a., che circoscrive la giurisdizione del giudice amministrativo all'ipotesi di poteri della P.A. già esercitati, in quanto la corretta interpretazione di tale norma porta alla conclusione che essa si riferisce unicamente all'ipotesi in cui non sia stato esercitato alcun potere, e non all'ipotesi in cui il potere sia venuto in rilievo, estrinsecandosi nella emanazione di un provvedimento di cui si chiede la rimozione in autotutela.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha evidenziato che, secondo il giudice di primo grado, la domanda di natura risarcitoria proposta dal M. nei confronti del Comune di Roma era fondata sulla condotta antigiuridica di ignoti funzionari del suddetto Comune che avrebbero scientemente ed ingiustificatamente procrastinato la concreta attuazione dei provvedimenti favorevoli al M., e specificatamente del nulla osta all'esercizio della vendita dei prodotti alimentari surgelati, così cagionando danni all'attività commerciale dell'attore; la Corte territoriale, confermando tale impostazione, ha rilevato che, sempre secondo la pronuncia del Tribunale - immune da specifica censura sul punto - la responsabilità del Comune di Roma era ricollegata al reato di "abuso di ufficio contro il destinatario di un atto univocamente superato dalle stesse determinazioni amministrative dell'ente" intervenute nelle more del procedimento dinanzi al TAR, di qui quindi la logica conclusione che, trattandosi di illecito in termini aquiliani, in quanto ricollegabile all'ipotesi delittuosa dell'abuso d'ufficio anziché all'atto amministrativo annullato dal Consiglio di Stato, l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario sollevata da Roma Capitale era infondata.

Tale convincimento è corretto ed immune dai profili di censura sollevati dalla ricorrente, in quanto la responsabilità invocata dal M. nei confronti del Comune di Roma era del tutto svincolata dal precedente provvedimento amministrativo di chiusura dell'esercizio commerciale di cui l'attore era titolare, ormai rimosso dalla stessa Pubblica Amministrazione, ed era invece basata sulla protrazione di fatto della suddetta chiusura in contrasto con le stesse determinazioni del Comune di Roma.

Sulla base di tali presupposti deve quindi ritenersi la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, invero ricorrente quando il comportamento della P.A. risulta privo di ogni interferenza con un atto autoritativo, non potendosi reputare neanche mediatamente espressione dell'esercizio del potere autoritativo, o quando l'atto o il provvedimento di cui la condotta dell'amministrazione sia esecuzione non costituisca oggetto del giudizio, facendosi valere unicamente l'illiceità della condotta del soggetto pubblico ex art. 2043 c.c., suscettibile di incidere sui diritti patrimoniali dei terzi (Cass., Sez. un., ord. 18 ottobre 2005, n. 20123); in altri termini deve essere riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario in tutte le controversie in cui si denunzino comportamenti configurati come illeciti ex art. 2043 c.c., e a fronte dei quali, per non avere la P.A. osservato condotte doverose, la posizione soggettiva del privato non può che definirsi di diritto soggettivo (Cass. 18 ottobre 2015, n. 20117), come appunto nella fattispecie.

Con il secondo motivo la ricorrente, deducendo nullità della sentenza per mancanza della motivazione (art. 132, n. 4, c.p.c.) in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c., assume che il giudice di appello non ha preso adeguatamente in considerazione le doglianze dell'esponente in ordine alle conclusioni della CTU espletata nel giudizio di primo grado; in effetti, premesso che i rilievi dell'appellante incidentale avverso la CTU non riguardavano unicamente la quantificazione dei danni, Roma Capitale assume che la Corte territoriale non ha espresso le ragioni che l'avevano indotta ad accogliere le risultanze della perizia, omettendo completamente di motivare in ordine al mancato apprezzamento delle critiche svolte nell'appello incidentale.

In tale atto difensivo anzitutto era stata sottolineata l'inidoneità e l'insufficienza sulla cui base era stato condotto l'esame peritale, che non aveva tenuto conto della formulazione del quesito formulato dal giudice, che aveva espressamente richiesto che la risposta allo stesso fosse data sulla scorta di documenti fiscali, registri ed altre scritture contabili, in realtà non prodotte dalla controparte; inoltre era stata evidenziata l'irragionevolezza della conclusione del CTU circa il periodo di mancato esercizio dell'attività, circoscritto tra il 18 aprile 1994, data di esecuzione del provvedimento di chiusura, e la data di esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, essendo tale periodo, semmai, individuabile in sei mesi.

Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha affermato, quanto ai danni allegati dal M., che l'appellata aveva contestato le conclusioni cui era pervenuto il CTU nella quantificazione del danno patrimoniale conseguente alla prolungata chiusura del suo esercizio commerciale, riportandosi alle risultanze della propria consulenza tecnica di parte con censura generica e, quindi, inammissibile, poiché le reiterate critiche all'accertamento tecnico d'ufficio disposto ed espletato in primo grado non si erano tradotte in alcuna specifica richiesta di integrazione o di rinnovazione del mezzo istruttorio nelle conclusioni definitive rassegnate in primo grado e nella comparsa di costituzione depositata nel giudizio di appello.

Deve a tal punto premettersi che nella fattispecie, in presenza di una sentenza impugnata pubblicata il 9 settembre 2015, trova applicazione "ratione temporis" la nuova formulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. che prevede, quanto all'impugnazione delle sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado, tra i motivi di ricorso per cassazione, quello per "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti"; in proposito le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che tale modifica ha introdotto nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo; ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; la nuova formulazione della norma suddetta deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici di cui all'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità della motivazione, sicché è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (sentenza del 7 aprile 2014, n. 8053).

Orbene deve rilevarsi che la ricorrente, pur mostrandosi consapevole della nuova formulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nonché della richiamata pronuncia di questa Corte al riguardo, con la censura in esame non si attiene alle suindicate modalità nel denunciare il vizio in oggetto, limitandosi sostanzialmente a sottoporre ad un vaglio critico la CTU espletata in ordine alla determinazione dei danni lamentati dal M., e quindi a prospettare una valutazione delle risultanze peritali diversa da quella offerta dal giudice di appello, senza quindi neppure dedurre il "fatto storico" di cui sarebbe stato omesso l'esame, prima ancora che la sua "decisività".

Deve comunque aggiungersi che la censura in esame difetta del requisito dell'autosufficienza, atteso che l'asserito mancato esame delle critiche svolte da Roma Capitale alla CTU nell'appello incidentale comportava l'onere di trascrivere quella parte del predetto atto processuale in tesi contenente tali critiche onde consentire a questa Corte di verificare la veridicità dell'assunto e la sua decisività, mentre in realtà questo onere non è stato assolto.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell'art. 2043 c.c. in riferimento all'art. 2697 c.c., rileva che, nonostante nel quesito rivolto al CTU relativo alla quantificazione del danno lamentato dall'attore si fosse espressamente richiesto di dare una risposta sulla scorta di documenti fiscali, registri ed altre scritture contabili, tale esame non era avvenuto per l'omessa produzione di tale documentazione da parte del M.; tale carenza era stata inutilmente evidenziata nell'appello incidentale, cosicché la sentenza impugnata aveva erroneamente applicato il canone di cui all'art. 2697 c.c. sull'onere probatorio incombente all'attore quanto al danno richiesto ai sensi dell'art. 2043 c.c.

Il motivo è infondato.

In proposito occorre richiamare le considerazioni già svolte in occasione dell'esame del motivo precedente per ritenere che la mancata trascrizione di quella parte dell'appello incidentale in cui sarebbero state formulate censure nei confronti della CTU preclude a questa Corte di verificare la fondatezza o meno della doglianza; d'altra parte la ricorrente non ha impugnato la statuizione della Corte territoriale secondo cui l'appellata si era riportata alle risultanze della propria consulenza di parte con censura generica e quindi inammissibile; infatti, se la censura sollevata con l'appello incidentale si risolveva sostanzialmente in un richiamo a detta consulenza di parte (come appunto affermato dalla sentenza impugnata), non sussisteva alcun onere da parte del giudice di appello di sottoporre tale atto difensivo ad un esame specifico, costituendo la consulenza tecnica di parte una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio, con la conseguenza che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne ed a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili e conformi al parere del proprio consulente (vedi "ex multis" Cass. 29 gennaio 2010, n. 2063).

Con il quarto motivo Roma Capitale, deducendo falsa applicazione dell'art. 2043 c.c., censura la sentenza impugnata per aver affermato la responsabilità della P.A. ascrivendola al comportamento di ignoti funzionari, consistente nella mancata attivazione al fine di elidere le conseguenze negative del provvedimento di chiusura, successivamente al rilascio del titolo autorizzatorio; tuttavia, rileva la ricorrente, nonostante l'esclusione di responsabilità in capo al funzionario responsabile del procedimento teso all'adozione dell'atto di chiusura, la Corte di Appello, confermando la sentenza di primo grado, ha evidenziato profili di responsabilità della P.A. ascrivibili alla "condotta di ignoti funzionari comunali" volta a procrastinare la rimozione degli effetti della chiusura dell'esercizio commerciale, dopo che era intervenuto il nulla osta del competente ufficio comunale.

La ricorrente assume che la responsabilità della P.A. non può prescindere dalla sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa, soprattutto laddove, come nella fattispecie, la responsabilità suddetta venga ascritta ad un comportamento; l'indagine quindi al riguardo avrebbe dovuto incentrarsi sulla verifica dello stato soggettivo di coloro che avevano agito mediante il rapporto di immedesimazione organica con la P.A.; invece il giudice di appello, pur non avendo individuato i funzionari cui ascrivere la colpa o il dolo, ha erroneamente affermato la sussistenza dell'elemento soggettivo in capo a Roma Capitale anziché concludere per l'impossibilità di ravvisarne l'esistenza.

Il motivo è infondato.

Il giudice di appello ha rilevato, quanto alla dedotta assenza degli elementi costitutivi dell'illecito aquiliano, che, diversamente da quanto sostenuto da Roma Capitale con l'appello incidentale, il giudice di primo grado aveva affermato che, sebbene il reato di abuso d'ufficio ascritto ad ignoti per i fatti di cui è causa fosse risultato prescritto (con conseguente archiviazione del procedimento), erano in ogni caso ravvisabili gli estremi dell'illecito extracontrattuale in relazione alla "condotta temeraria degli uffici comunali in persona di ignoti funzionari"; pertanto, ha aggiunto la Corte territoriale, con riferimento alla consapevole ingiustificata protrazione della chiusura del locale desunta anche dalla "condotta vessatoria palesatasi nella resistenza processuale aggravata... mediante l'uso distorto di una difesa in grado di appello protrattasi per otto anni, e configurante un abuso d'ufficio contro il destinatario di un atto univocamente superato dalle stesse determinazioni dell'ente", il Tribunale aveva correttamente ritenuto sussistente l'elemento soggettivo dell'illecito aquiliano in relazione causale con i danni allegati dall'attore.

Orbene dalla lettura della sentenza impugnata e dallo stesso ricorso di Roma Capitale emerge come dato pacifico che il danno lamentato dal M. è riconducibile sotto un profilo causale alla protrazione della chiusura del suo esercizio commerciale "nonostante il sopravvenuto rilascio del nulla osta dell'ufficio tecnico circoscrizionale", secondo quanto affermato dal giudice di primo grado e riportato dalla Corte territoriale, che ha evidenziato l'insussistenza di uno specifico motivo di censura avverso la statuizione del Tribunale in ordine ad una condotta omissiva del Comune di Roma e per esso dei suoi funzionari.

Muovendo da tale premessa è conseguentemente logico ritenere sussistente la responsabilità aquiliana del predetto Comune in conseguenza di tale comportamento omissivo di uno o più dei suoi funzionari, i quali erano in grado di adottare le necessarie misure onde evitare l'ingiustificata protrazione della chiusura dell'esercizio commerciale di cui era titolare il M., e quindi scongiurare la consumazione dell'illecito; a tal riguardo è ininfluente la mancata individuazione dei singoli funzionari comunali responsabili delle suddette omissioni, non essendo affatto contestata la loro riconducibilità ad una o più persone fisiche poste in rapporto giuridicamente rilevante con l'ente pubblico (ovvero funzionari del Comune di Roma), e dunque risultando provata la responsabilità della P.A. come apparato per i danni subiti dal M. per effetto della mancata riapertura del proprio esercizio commerciale, una volta che era stata accertata la sussistenza di tutti i presupposti di legge indispensabili in tal senso.

In definitiva il ricorso deve essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Infine ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dei comma 1-bis dello stesso articolo 13.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, condanna la ricorrente al rimborso in favore del M. delle spese di giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi oltre accessori di legge, e dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 dello stesso art. 13.