Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 8 marzo 2016, n. 16175

Presidente: Ramacci - Estensore: Mengoni

RITENUTO IN FATTO

1. Con diffuso ricorso depositato il 5 gennaio 2016, Giampiero I. presentava a questa Corte Suprema una istanza di rimessione del processo ai sensi dell'art. 45 c.p.p., evidenziando elementi tali da far ritenere che il giudizio in corso a suo carico (ed a carico di tale Giuseppina P.) in ordine al reato di cui all'art. 174, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, fosse gravato da una giurisprudenza - applicata dai Giudici di Bolzano - volutamente isolata, del tutto avulsa dalle novità normative in materia (in particolare, dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), contraria ai pacifici principi in tema di onere probatorio e, da ultimo, chiaramente volta a riconoscere comunque la colpevolezza dell'imputato; in sintesi, una giurisprudenza «ablativa delle garanzie democratiche», come peraltro si desumerebbe da un «documento» datato 12 dicembre 2013, con il quale la Procura della Repubblica di Bolzano avrebbe «ordinato al funzionario dei Beni culturali di procedere alla dichiarazione di particolare interesse culturale dei beni ancora in giudiziale sequestro, ai sensi dell'art. 13, d.lgs. n. 42 del 2004, (...) ai fini della confisca». Quel che - a parere dello I. - troverebbe conferma in un caso analogo trattato presso lo stesso Ufficio giudiziario (c.d. affaire Wachtler), ampiamente riportato nel ricorso, e, in termini contrari, in opposte decisioni assunte presso organi giudicanti diversi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Occorre premettere che la presente istanza ex art. 45 c.p.p. segue ad altra - dal medesimo tenore - che lo I. ha depositato presso questa Corte nel 2015, poi dichiarata inammissibile con ordinanza del 27 novembre 2015 non ancora depositata; istanza che il ricorrente oggi reitera - dunque, senza neppure conoscere la motivazione sottesa a questo provvedimento - in forza di un elemento asseritamente nuovo ex art. 49 c.p.p., quale il citato documento della Procura della Repubblica di Bolzano del 12 dicembre 2013.

Orbene, la richiesta risulta manifestamente infondata.

In primo luogo, osserva la Corte che non è dato conoscere se il presunto elemento nuovo possa esser ritenuto davvero tale, atteso che il documento in oggetto non è allegato all'istanza; quel che, all'evidenza, non consente neppure di accertarne - a monte - la materiale esistenza, né, quantomeno, l'effettivo e completo contenuto, invero riportato nella domanda ex art. 45 c.p.p. soltanto per limitatissimo periodo, pari a tre righe, senza alcuna indicazione ulteriore.

Il che imporrebbe - già di per sé - la declaratoria di inammissibilità della richiesta.

4. A ciò si aggiunga, poi, che la stessa risulta comunque palesemente priva di fondamento nel merito.

L'art. 45 c.p.p., nel testo novellato dalla l. 7 novembre 2002, n. 248, stabilisce che in ogni stato e grado del processo, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la corte di appello o del pubblico ministero presso il Giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro Giudice, designato a norma dell'articolo 11.

L'istituto in oggetto ha evidentemente carattere eccezionale, implicando una deroga al principio costituzionale del Giudice naturale precostituito per legge e, come tale, comporta la necessità di un'interpretazione restrittiva delle disposizioni che lo regolano, in esse comprese quelle che stabiliscono i presupposti per la "translatio iudicii" (Sez. un., n. 13687 del 28 gennaio 2003, Berlusconi, Rv. 223638; Sez. 2, n. 2565 del 19 dicembre 2014, Sigmund, Rv. 262278). Ne consegue che la relativa richiesta deve essere fondata su circostanze gravi, tali da legittimare il timore che, per il concorso di una situazione ambientale anomala, la serenità e l'imparzialità dei Giudici possano essere seriamente incise e menomate, con compromissione della corretta esplicazione della funzione giurisdizionale, e non può essere giustificata da mere congetture, supposizioni o illazioni ovvero da vaghi timori soggettivi dell'imputato (Sez. 5, n. 41694 del 15 luglio 2011, Holzeisen, Rv. 251110); in altri termini, per grave situazione locale deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale, riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge e connotato da tale abnormità e consistenza da non poter essere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per la non imparzialità del Giudice o di un pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo medesimo, configurabili soltanto in presenza di questa grave situazione locale e come conseguenza di essa (Sez. 5, n. 22275 del 27 aprile 2011, Lavarra, Rv. 250575). Infine, questo contesto, idoneo a configurare causa di rimessione del processo ad altra sede, deve essere - oltre che concreto, effettivo e non opinabile - di incontrovertibile attualità e tale da non essere superabile se non con il trasferimento del processo ad altro ufficio giudiziario (Sez. 1, n. 52976 del 7 ottobre 2014, Riva F.i.r.e. Italia s.p.a., Rv. 262298).

In forza di quanto precede, questa Corte ha quindi affermato - quel che si riporta a titolo esemplificativo - che non costituiscono di per sé idonea turbativa allo svolgimento del processo le locali campagne di stampa e manifestazioni di piazza (Sez. 3, n. 45310 del 7 ottobre 2009, Picardi, Rv. 245215); ancora, che la pendenza di procedimenti penali a carico di magistrati non è di per sé sufficiente ad integrare la "grave situazione locale", tassativamente richiesta dall'art. 45 c.p.p., ai fini della rimessione, allorché non risulti che essa, pur nella sua gravità, abbia proiettato un'ombra di indiscriminato sospetto e di generale sfiducia sugli uffici giudiziari nel loro complesso (Sez. 5, n. 49612 del 4 novembre 2014, Zagami, Rv. 261727); da ultimo, che non costituisce causa di rimessione del processo il coinvolgimento, quali imputati, di appartenenti alle forze dell'ordine, impegnati nell'istituzionale collaborazione con l'autorità giudiziaria, non trattandosi di situazione ambientale esterna al processo ed alla relativa dialettica (Sez. 5, n. 13287 del 9 febbraio 2011, Cremonini, Rv. 249844).

Orbene, così richiamati i canoni ermeneutici che debbono guidare il giudizio di questa Corte sull'istanza ex art. 45 c.p.p., osserva il Collegio che - proprio in ragione di questi - la domanda proposta dallo I. risulta manifestamente infondata. Ed invero, a parere dello stesso i presupposti dell'istituto dovrebbero ritenersi configurati in forza di affermazioni che, all'evidenza, risultano oltremodo vaghe, confuse, apodittiche, qualificabili per non più che illazioni destituite di ogni fondamento; come tali, irricevibili. Affermazioni - peraltro molto diffuse e ripetute - in ragione delle quali gli Uffici giudiziari di Bolzano realizzerebbero a suo danno «l'ablazione delle garanzie democratiche», adottando una giurisprudenza - in materia di beni culturali - superata e non conforme alla lettera del d.lgs. n. 42 del 2004 («Solo recentemente sono riuscito a capire che i giudici di Bolzano, in virtù della statutaria autonomina della Provincia, seguono, in tema di Beni culturali, una legge diversa da quella italiana vigente, e cioè dal Codice del 2004»); giurisprudenza, peraltro, contenuta in sentenze «scritte in tedesco e non tradotte in italiano, con oggettivo isolamento del Tribunale e della Sezione distaccata a Bolzano della Corte di appello rispetto al resto del territorio nazionale». Quel che, peraltro, l'istante intenderebbe provare anche con il richiamo a casi simili, riportati nel testo in modo evidentemente sommario (oltre che, all'evidenza, del tutto ininfluente), oltre che con la citazione di testi dottrinari, e-mail e articoli di quotidiani. Sì da affermare il principio - la cui palese infondatezza risulta già dalla lettera dell'art. 45 in esame - secondo cui un eventuale (e giammai dimostrato) indirizzo ermeneutico difforme dai canoni consolidati realizzerebbe, ex se, una grave situazione locale, tale da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabile, idonea a realizzare qui pregiudizi che l'articolo in esame tassativamente prevede.

L'istanza, pertanto, deve essere dichiarata inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 48, u.c., c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile l'istanza e condanna Giampiero I. al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Depositata il 20 aprile 2016.