Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Sentenza 26 giugno 2015, n. 47766
Presidente: Santacroce - Estensore: Rotundo
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 5 marzo 2014 la Corte di appello di Palermo ha confermato la decisione in data 19 febbraio 2013, con la quale il Tribunale di Agrigento aveva dichiarato Umberto B. e Angela M. colpevoli del reato di concorso in lesioni personali in danno di Dorotea B. nonché, soltanto il primo, del reato di minacce in danno di Lorenzo C. e di Dorotea B., condannandoli alla pena (condizionalmente sospesa) di tre mesi di reclusione, il primo, e di due mesi di reclusione, la seconda, nonché al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
2. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, con un unico atto, Umberto B. e Angela M., per mezzo del comune difensore, denunciando inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché vizi di motivazione attraverso cinque motivi, di seguito sinteticamente enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.
Con il primo motivo si contesta l'omessa valutazione, con il necessario rigore, delle testimonianze delle parti civili operata dalla Corte di appello, che non avrebbe considerato le macroscopiche contraddizioni dei racconti dei coniugi C.-B.
Il secondo motivo denuncia che la minaccia imputata a B. avrebbe dovuto essere considerata semplice, tenuto conto della provenienza da un soggetto anziano e innocuo nonché del contesto in cui erano state pronunciate le frasi minacciose, come pure dell'inidoneità a cagionare un vero timore ai destinatari.
Il terzo motivo eccepisce l'inammissibilità della costituzione di parte civile di C. nei confronti di M., riguardando la condotta ascritta a quest'ultima solo B., e nei confronti di B. per il reato di lesioni, sempre perché relativo alla sola B., nonché per il reato di minaccia, previa derubricazione in minaccia semplice, per mancanza di querela.
Il quarto motivo invoca la carenza dell'elemento soggettivo e dell'elemento materiale del reato.
Il quinto motivo deduce che la pena irrogata agli imputati sarebbe eccessiva e dovrebbe essere ridotta al minimo edittale.
3. La Quinta Sezione penale, assegnataria dei ricorsi, con ordinanza del 27 marzo 2015, depositata il successivo 14 aprile, ha rimesso i ricorsi stessi alle Sezioni Unite.
La Sezione rimettente rileva, preliminarmente, che i ricorsi risultano inammissibili per plurime ragioni.
Con specifico riguardo al primo motivo, si osserva che alcune doglianze sono del tutto carenti della necessaria correlazione con le argomentazioni della decisione impugnata; inoltre le diverse censure basate sulla ricostruzione delle dichiarazioni delle due persone offese sono aspecifiche, in quanto, lungi dall'offrire un quadro esaustivo delle testimonianze prese in considerazione dai giudici di merito e dallo svolgere, in riferimento a tale analitico e completo quadro di riferimento, le critiche alla decisione impugnata, i ricorrenti si limitano a segnalare, in modo del tutto frammentario, alcuni profili di tali testimonianze, così rimettendo, in buona sostanza, al giudice di legittimità un'inammissibile rivalutazione generale e complessiva del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito.
Il secondo motivo è del pari valutato inammissibile perché deduce questioni sostanzialmente di merito, sollecitando una rivisitazione, esorbitante dai compiti del giudice di legittimità, della valutazione del materiale probatorio che la Corte distrettuale ha operato, sostenendola con motivazione coerente con i dati probatori richiamati e immune da vizi logici.
La Sezione rimettente valuta inammissibile anche il terzo motivo, in quanto privo della necessaria correlazione con le argomentazioni della decisione impugnata (che, sul punto, ha richiamato il danno subito da C. in quanto coniuge della persona offesa).
Il quarto motivo è giudicato manifestamente infondato, giacché, sulla base dell'argomentata ricostruzione dei fatti, la Corte di merito ha ritenuto del tutto evidente e provata la volontarietà delle condotte poste in essere dagli imputati.
Il quinto motivo è considerato del tutto generico: la Corte di merito aveva già rilevato la genericità dell'analogo motivo di gravame, osservando, comunque, che la pena irrogata, davvero contenuta e accompagnata dall'applicazione delle circostanze attenuanti generiche (in ragione dell'incensuratezza e dell'età degli imputati), trovava giustificazione in ragione, soprattutto, dello stato di gravidanza di Dorotea B. A fronte della motivazione della Corte di appello, il motivo di ricorso ribadisce i riferimenti all'età e all'incensuratezza degli imputati, omettendo il confronto con le ulteriori argomentazioni della sentenza impugnata.
4. La Quinta Sezione rileva, altresì, che l'unico atto di ricorso è stato presentato oltre il termine di legge. La sentenza della Corte di appello di Palermo è stata deliberata il 5 marzo 2014, con l'indicazione in dispositivo, ex art. 544, comma 3, c.p.p., del termine di trenta giorni per il deposito della motivazione, avvenuto il successivo 4 aprile 2014. La notificazione dell'avviso di deposito con l'estratto del provvedimento agli imputati contumaci è stata effettuata il 7 maggio 2014, termine che scadeva per ultimo a norma dell'art. 585, comma 3, c.p.p. Il termine per la presentazione del ricorso è scaduto in data 21 giugno 2014 (sabato), mentre il ricorso è stato presentato il 23 giugno 2014.
5. La Sezione rimettente puntualizza, inoltre, che la pena inflitta ad Angela M. è illegale: l'imputata è stata condannata per il solo reato di lesioni, relativo, come si evince dal capo di imputazione e dalla sentenza di primo grado, a malattia di durata inferiore ai venti giorni, ossia per un reato rientrante nella competenza del giudice di pace.
Ad avviso della Quinta Sezione, è illegale anche la pena inflitta a Umberto B., che è stato condannato per il medesimo reato ascritto a M. e per il reato di minaccia grave: infatti, per un verso, la sentenza di primo grado, confermata da quella di appello, ritenuta la continuazione tra i due reati, ha considerato più grave il reato di lesioni, mentre, per altro verso, rispetto a quest'ultimo reato, ha operato - sulla base della comminatoria edittale codicistica e non di quella prevista dal d.lgs. n. 274 del 2000 - la riduzione per l'applicazione dell'art. 62-bis c.p. e, quindi, l'aumento per la continuazione con il reato di minaccia.
Con riferimento alla riconducibilità del reato di lesioni nell'ambito di quelli rientranti nella competenza del giudice di pace, osserva altresì il Collegio che, secondo l'orientamento di gran lunga maggioritario nella giurisprudenza di legittimità, la disciplina dettata dall'art. 48 d.lgs. n. 274 del 2000 «non incide sul disposto di cui all'art. 23, comma 2, c.p.p., che disciplina il potere della parte di eccepire l'incompetenza per materia, allorché la stessa appartiene ad un giudice inferiore, ancorandola, a pena di decadenza, al termine stabilito dall'art. 491, comma 1, c.p.p.» (Sez. 5, n. 15727 del 22 gennaio 2014, Bartolo, Rv. 260560); infatti, l'incompetenza del tribunale a conoscere di reati appartenenti alla competenza del giudice di pace va appunto eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall'art. 491, comma 1, c.p.p., come richiamato dall'art. 23, comma 2, c.p.p. (Sez. 3, n. 31484 del 12 giugno 2008, Infante, Rv. 240752).
La disciplina dettata dall'art. 48 cit., dunque, deve essere interpretata nel senso che «essa non deroga al regime della non rilevabilità d'ufficio dell'incompetenza per materia del tribunale a favore del giudice di pace, ma stabilisce semplicemente che, qualora il giudice, secondo le regole fissate nel codice di procedura penale, debba dichiarare l'incompetenza per materia a favore del giudice pace, lo fa con sentenza e trasmettendo gli atti al pubblico ministero e non direttamente al giudice di pace» (Sez. 3, n. 21257 del 5 febbraio 2014, C., Rv. 259655; contra, isolatamente, Sez. 3, n. 12636 del 2 marzo 2010, Ding, Rv. 246816).
Nel caso di specie, il Collegio osserva che l'incompetenza del tribunale a conoscere dei reati in questione non è stata rilevata né risulta eccepita.
6. Fatte queste premesse, la Quinta Sezione ha constatato l'esistenza di un contrasto, nella giurisprudenza di legittimità, in ordine alla rilevabilità d'ufficio dell'illegalità della pena in caso di inammissibilità del ricorso, contrasto per la cui risoluzione è stata rimessa la decisione alle Sezioni unite.
Un primo orientamento esclude detta rilevabilità. Richiamata l'elaborazione della giurisprudenza di legittimità (Sez. un., n. 11493 del 24 giugno 1998, Verga, Rv. 211469; Sez. un., n. 32 del 22 novembre 2000, De Luca, Rv. 217266; Sez. un., n. 23428 del 22 marzo 2005, Bracale, Rv. 231164) che ha parificato agli effetti giuridici processuali «tutte le cause di inammissibilità che precludono la formazione di una valido rapporto di impugnazione e impediscono l'esercizio del potere di cognizione del giudice ad quem anche per le questioni rilevabili ex officio», in Sez. 5, n. 24926 del 3 dicembre 2003, Marullo, Rv. 229812 si afferma che la regola della rilevabilità d'ufficio della pena illegale «incontra un limite, anche nel caso di ius superveniens, nella inammissibilità dell'impugnazione, che preclude l'esercizio del potere di cognizione e decisione di qualsiasi questione». Nella medesima prospettiva, Sez. 5, n. 36293 del 9 luglio 2004, Raimo, Rv. 230636 (poi richiamata da Sez. un., n. 8413 del 20 dicembre 2007, dep. 2008, Cassa, Rv. 238467) specifica che l'inammissibilità del ricorso non consente l'esercizio del potere-dovere di decidere la questione, rilevabile d'ufficio, concernente la violazione del principio di legalità della pena e, in applicazione di tale principio, pur rilevando l'illegittimità della pena applicata dal giudice di appello per il reato di lesioni lievissime (che rientra nella competenza del giudice di pace ed è punito con la multa e non con la reclusione, anche nel caso in cui il processo sia celebrato davanti a giudice diverso) e, pur ritenendo, in assenza di specifiche doglianze al riguardo da parte del ricorrente, che si tratti di questione rilevabile d'ufficio, afferma la prevalenza della declaratoria di inammissibilità sulla declaratoria d'ufficio. Più di recente, Sez. 2, n. 44667 dell'8 luglio 2013, Aversano, Rv. 257612, considera che la violazione del principio di legalità della pena è rilevabile d'ufficio anche nel giudizio di cassazione a condizione che il ricorso non sia inammissibile e l'esame della questione rappresentata non comporti accertamenti in fatto o valutazioni di merito incompatibili con il giudizio di legittimità.
Secondo un diverso indirizzo, l'inammissibilità del ricorso non impedisce alla Corte di cassazione di procedere al necessario annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui abbia provveduto ad infliggere una pena illegale: in un caso di inammissibilità del ricorso per genericità o manifesta infondatezza dei motivi, Sez. 5, n. 24128 del 27 aprile 2012, Di Cristo, Rv. 253763 sottolinea che il principio di legalità ex art. 1 c.p. e la funzione costituzionale della pena ex art. 27 Cost. «non appaiono conciliabili con la applicazione di una sanzione non prevista dall'ordinamento». In linea con l'impostazione appena richiamata, Sez. 5, n. 46122 del 13 giugno 2014, Oguekemma, Rv. 262108 afferma che l'illegalità della pena, dipendente da una statuizione ab origine contraria all'assetto normativo vigente al momento consumativo del reato, è rilevabile d'ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile. In questa prospettiva, si è osservato che il «principio della funzione rieducativa della pena, imposta dall'art. 27, terzo comma, è fra quelli che, di recente, ed in ossequio alla evoluzione interpretativa determinata dai principi della CEDU, le Sezioni Unite hanno riconosciuto essere in opposizione all'esecuzione di una sanzione penale rivelatasi, pure successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima (Sez. un., n. 18821 del 24 ottobre 2013, Ercolano, Rv. 258651). Non vi è motivo, a maggior ragione, per escludere che la illegalità della pena inflitta, dipendente da una statuizione ab origine contraria all'assetto normativo vigente al momento di consumazione del reato, possa e debba essere rilevata, prima della formazione del giudicato ed a prescindere dalla articolazione di un corrispondente motivo di impugnazione, pure in presenza di un ricorso caratterizzato da inammissibilità, nella specie, non originaria». Nel solco del medesimo orientamento, Sez. 1, n. 15944 del 21 marzo 2013, Aida, Rv. 255684 afferma che l'inammissibilità del ricorso per cassazione non impedisce alla Suprema Corte di procedere al necessario annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui abbia provveduto ad irrogare una pena illegale.
7. Il Primo Presidente, con decreto del 17 aprile 2015, ha assegnato ex art. 618 c.p.p. il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna pubblica udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. In primo luogo deve rilevarsi che in effetti, come sottolineato dalla Sezione rimettente (v. il punto 4 del Ritenuto in fatto), il ricorso per cassazione in esame (proposto con unico atto nell'interesse di Umberto B. e di Angela M.) è inammissibile per tardività, posto che la sentenza impugnata è stata deliberata in data 5 marzo 2014, con l'indicazione in dispositivo, ex art. 544, comma 3, c.p.p., del termine di trenta giorni per il deposito della motivazione, avvenuto il successivo 4 aprile 2014. La notifìcazione dell'avviso di deposito con l'estratto del provvedimento agli imputati contumaci è stata effettuata il 7 maggio 2014 (termine che scadeva per ultimo a norma dell'art. 585, comma 3, c.p.p.). Conseguentemente il termine per la presentazione del ricorso scadeva in data 21 giugno 2014 (sabato), mentre il ricorso risulta presentato il 23 giugno 2014.
In secondo luogo va evidenziato che correttamente la Sezione rimettente (v. il punto 5 del Ritenuto in fatto) ha rilevato la illegalità della pena inflitta sia ad Angela M. (condannata a due mesi di reclusione per il solo reato di lesioni, relativo a malattia di durata inferiore ai venti giorni, ossia per un reato rientrante nella competenza del giudice di pace) sia ad Umberto B. (condannato a tre mesi di reclusione per il medesimo reato ascritto a M. e per il reato di minaccia grave, avvinti dalla continuazione, ritenuto più grave il reato di lesioni ed operati rispetto a quest'ultimo reato la riduzione ex art. 62-bis c.p. e il successivo aumento ex art. 81, secondo comma, c.p. in riferimento al reato di minaccia sulla base della comminatoria edittale codicistica e non di quella prevista dal d.lgs. n. 274 del 2000).
2. Fatte queste premesse, va puntualizzato che la questione rimessa alle Sezioni Unite riguarda l'individuazione dell'ambito di cognizione rimesso al giudice dell'impugnazione inammissibile e, segnatamente, la possibilità che detto giudice rilevi d'ufficio l'illegalità della pena inflitta, pur a fronte di un ricorso per cassazione inammissibile. In particolare, il quesito posto alle Sezioni Unite può essere così ricostruito: "se sia rilevabile d'ufficio, in sede di legittimità, in presenza di ricorso inammissibile, in quanto presentato fuori termine, l'illegalità della pena determinata dall'applicazione di sanzione ab origine contraria all'assetto normativo vigente al momento di consumazione del reato".
3. Le Sezioni Unite sono state recentemente chiamate a risolvere la questione relativa alla possibilità per la Corte di cassazione di rilevare d'ufficio, anche in caso di inammissibilità del ricorso, la nullità sopravvenuta della sentenza in conseguenza della illegalità della pena determinata da dichiarazione di illegittimità costituzionale (Sez. un., n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli).
Il quesito allora posto alle Sezioni Unite atteneva alla legalità della pena come conseguenza degli effetti della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente [illegittimi] gli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, inseriti nella legge di conversione n. 49 del 2006, determinando la reviviscenza dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 nell'originaria formulazione, che prevede sanzioni più miti per le droghe c.d. leggere.
Le Sezioni Unite, dopo avere rilevato che il contrasto esistente nella giurisprudenza di legittimità in riferimento alla specifica questione (rilevabilità d'ufficio della illegalità della pena in conseguenza di pronuncia di illegittimità costituzionale in caso di inammissibilità del ricorso) in realtà si ritrova anche nella giurisprudenza relativa al tema generale della legalità della pena (che cioè non derivi da una pronuncia di illegittimità costituzionale), hanno preliminarmente puntualizzato che alle origini del contrasto giurisprudenziale segnalato si pone la diversa valorizzazione attribuita all'ambito applicativo dell'art. 609, comma 2, c.p.p. che, come è noto, consente alla Corte di cassazione di decidere le questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo, oltre quelle che non siano state dedotte prima per impossibilità oggettiva.
Si è poi illustrato il percorso interpretativo che ha condotto la giurisprudenza di questa Corte ad individuare gli spazi di cognizione del giudice di legittimità rispetto alle cause di non punibilità di cui all'art. 129 c.p.p. in presenza di ricorso inammissibile, con il graduale superamento della classica distinzione tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute fino ad approdare ad una categoria unitaria della causa di inammissibilità, riconoscendo la prevalenza della declaratoria di inammissibilità su quella della non punibilità, realizzando una progressiva erosione degli spazi riservati alla operatività dell'art. 129 c.p.p.
Si tratta di una giurisprudenza che ha sviluppato una visione sostanzialistica della dinamica impugnatoria e delle relative conseguenze sul piano delle preclusioni processuali, puntualizzando che quando il ricorso per cassazione è ab origine affetto da inammissibilità non può considerarsi idoneo ad instaurare un rapporto di impugnazione e, di conseguenza, risultano inibiti i poteri officiosi del giudice, compresa la possibilità di rilevare d'ufficio le cause di non punibilità di cui all'art. 129 c.p.p. (Sez. un., n. 21 dell'11 novembre 1994, Cresci; Sez. un., n. 15 del 30 giugno 1999, Piepoli; Sez. un., n. 32 del 2 novembre 2009, De Luca; Sez. un., n. 33542 del 27 giugno 2001, Cavalera; Sez. un., n. 23428 del 22 marzo 2005, Bracale). In base a questa giurisprudenza le cause di inammissibilità sono soggette ad un regime unitario (dal momento che producono il medesimo risultato, quello di non consentire la trattazione del "merito") e in presenza di una fattispecie di invalidità della impugnazione non si stabilisce un valido rapporto processuale: anche la manifesta infondatezza, in quanto collocata tra le cause di inammissibilità, non è idonea a fornire la forza propulsiva all'atto di impugnazione per accedere all'ulteriore grado del processo.
Tuttavia la giurisprudenza citata, che, nell'esaminare il rapporto tra inammissibilità e cause di non punibilità, valorizza il dato processuale rispetto a quello sostanziale, individua alcune ipotesi in cui l'impugnazione inammissibile non condiziona l'accertamento del giudice. Sono i casi in cui la cognizione del giudice, nonostante il ricorso inammissibile, cade sull'accertamento dell'abolitio criminis o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice formante oggetto dell'imputazione, deroghe che vengono giustificate dall'eccezionale possibilità di incidere in executivis sul provvedimento in relazione al quale si è formato il giudicato formale, così come previsto dall'art. 673 c.p.p. (Sez. un., n. 32 del 22 novembre 2000, De Luca e n. 23428 del 22 marzo 2005, Bracale; e da ultimo Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto).
In queste decisioni si osserva come l'eccezionale possibilità di incidere in executivis sul provvedimento contrassegnato dalla formazione del giudicato formale parrebbe comportare, al pari dell'ipotesi in cui debba essere dichiarata l'estinzione del reato a norma dell'art. 150 c.p., che a tanto possa provvedere il giudice dell'impugnazione inammissibile - indipendentemente dalla procedura nel concreto seguita - a meno che il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione del ricorso abbia già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale (Sez. un., n. 32 del 22 novembre 2000, De Luca).
In definitiva, il principio ribadito nell'ultimo approdo delle Sezioni Unite (sent. n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli) è il seguente: «nel giudizio di cassazione l'illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d'ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo».
4. Come si è visto, le Sezioni unite hanno già chiarito (da ultimo nella sentenza n. 33040 del 2015, Jazouli) che una deroga alla prevalenza del rilievo della illegalità della pena sul giudicato sostanziale è rappresentata dal ricorso tardivamente proposto. In questo caso si è in presenza di una impugnazione sin dall'origine inidonea a instaurare un valido rapporto processuale, in quanto il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione della impugnazione ha già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale (v. anche la citata sentenza n. 32 del 2000, De Luca), sicché il giudice dell'impugnazione si limita a verificare il decorso del termine e a prenderne atto. Questa speciale causa di inammissibilità è quindi preclusiva di un'eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio, anche dinanzi alla declaratoria di incostituzionalità della pena (nello stesso senso alcune decisioni recenti relative al tema delle modifiche che hanno interessato la pena per le droghe "leggere": Sez. 4, n. 24638 del 6 maggio 2014, Valle, Rv. 259381; Sez. 4, n. 24544 del 6 maggio 2014, Chourabi, Rv. 260908).
Non resta quindi che riaffermare in questa sede la natura dirimente della inammissibilità contrassegnata dalla inosservanza del termine per impugnare, destinata comunque a prevalere anche in un caso, come quello in esame, di illegalità ab origine della pena (v. Sez. un., n. 24246 del 25 febbraio 2004, Rv. 227681, Chiasserini). Si tratta, del resto, di affermazione di principio costantemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità, che ha chiarito che il ricorso tardivo configura un caso in cui fa difetto un presupposto essenziale, legislativamente previsto, per la stessa configurabilità di un atto di impugnazione, sicché ci si trova in presenza di un atto inidoneo ad introdurre il giudizio di impugnazione ed alla instaurazione di un valido rapporto processuale. Si è in questo caso in presenza di un simulacro di gravame che il provvedimento giudiziale di inammissibilità, per la sua natura dichiarativa, rimuove dalla realtà giuridica fin dal momento della sua origine. La declaratoria di inammissibilità si risolve quindi nella constatazione che si è ormai formato un giudicato in senso sostanziale fin dall'insorgenza della causa stessa di inammissibilità, concretizzatosi alla scadenza dei termini per proporre l'impugnazione. La pronunzia è quindi finalizzata ad impedire l'inutile prosecuzione di una attività comunque destinata a sfociare, a norma dell'art. 591, comma 4, c.p.p., anche a posteriori, in un accertamento negativo di pendenza del processo (Sez. un., n. 15 del 30 giugno 1999, Rv. 213981, Piepoli).
D'altra parte, in base all'art. 648, comma 2, c.p.p. la sentenza contro la quale è ammessa l'impugnazione è irrevocabile «quando è inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l'ordinanza che la dichiara inammissibile». Il secondo termine contiene un riferimento al disposto dell'art. 591, comma 2, c.p.p., secondo cui il giudice dell'impugnazione, anche di ufficio, dichiara con ordinanza l'inammissibilità e dispone l'esecuzione del provvedimento impugnato.
La giurisprudenza di legittimità ha interpretato l'art. 648, comma 2, c.p.p. nel senso seguente: quando è inutilmente decorso il termine per proporre impugnazione, la sentenza è irrevocabile, a prescindere dall'esito del relativo giudizio; in quella sede, peraltro, si potrà verificare che l'impugnazione non sia, in realtà, tardiva (si pensi ad un'impugnazione presentata in luogo diverso da quello in cui fu emesso un provvedimento, tardivamente trasmessa), ma se, al contrario, la tardività sia confermata, la relativa ordinanza non potrà che prendere atto di un'irrevocabilità già verificatasi. Questa soluzione è imposta dall'utilizzo della particella disgiuntiva "o" che separa le due ipotesi dell'inutile decorso del termine per proporre impugnazione e dell'inutile decorso del termine per impugnare l'ordinanza di inammissibilità dell'impugnazione, particella la quale indica che l'evento della irrevocabilità si compie quando si verifica anche una sola delle due ipotesi contemplate. L'interpretazione contraria secondo cui l'art. 648, comma 2, c.p.p. stabilisce il principio che, nel caso sia stata proposta impugnazione tardiva, la irrevocabilità della sentenza interviene solo con l'inutile decorso del termine per proporre impugnazione avverso la pronuncia che dichiara la inammissibilità, mostra tutti i suoi limiti là dove si consideri l'ipotesi di una impugnazione largamente tardiva, che comporterebbe, accettando la tesi difensiva, il venir meno dell'irrevocabilità della sentenza e l'obbligo di sospensione dell'esecuzione di una sentenza da tempo ormai definitiva. A parte il fatto che detta tesi manca di base testuale: il legislatore avrebbe usato una formula diversa, se avesse voluto stabilire l'inapplicabilità della prima ipotesi (quella dell'inutile decorso del termine per proporre impugnazione) nel caso di un'impugnazione, anche tardiva. L'art. 648, comma 2, c.p.p. deve, quindi, essere interpretato nel senso che il riferimento all'ordinanza di inammissibilità dell'impugnazione contenuto nella seconda ipotesi riguardi le cause di inammissibilità diverse dalla tardività dell'impugnazione. Ne discende che la sentenza penale è irrevocabile, e deve pertanto essere necessariamente eseguita a cura del pubblico ministero, quando è inutilmente decorso il termine per proporre impugnazione, anche nel caso in cui questa sia stata tardivamente proposta, poiché, altrimenti, la presentazione di un atto di impugnazione fuori termine sarebbe sempre sufficiente ad impedire la formazione del giudicato formale (Sez. 1, n. 35503 del 24 giugno 2014, Kiem, Rv. 260287; e in precedenza Sez. un., n. 24246 del 2004, Chiasserini, cit.).
5. In base alle argomentazioni sopra svolte, può quindi affermarsi il seguente principio:
"In presenza di ricorso inammissibile perché presentato fuori termine non è rilevabile d'ufficio, in sede di legittimità, l'illegalità della pena".
Ne discende che i ricorsi in esame, proposti, come si è visto, fuori termine, devono essere dichiarati inammissibili per tale causa.
6. Resta da esaminare la problematica relativa alla possibilità di dedurre la illegalità della pena in sede esecutiva.
Recentemente la Sezione Quarta di questa Corte, dopo avere affermato che l'inammissibilità del ricorso per cassazione - nella specie per tardività - preclude la rilevabilità della sopravvenuta illegalità della pena dovuta alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma attinente alla determinazione della pena, ha precisato (in motivazione e con rapido inciso) che l'eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio, da operarsi in ragione della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità di norme ad esso attinente, può essere dedotta in sede esecutiva (Sez. 4, n. 24638 del 6 maggio 2014, Valle, Rv. 259381, cit.).
La questione merita, pertanto, approfondimento in questa sede.
7. La giurisprudenza di legittimità ammette pacificamente la possibilità che il giudice dell'esecuzione intervenga per rimuovere la pena principale ove la stessa sia stata inflitta in violazione dei parametri normativamente fissati (Sez. 1, n. 1436 del 25 giugno 1982, Carbone, Rv. 156173; Sez. 3, 24 giugno 1980, Sanseverino, non mass.; Sez. 5, n. 809 del 29 aprile 1985, Lattanzio, Rv. 169333; Sez. 1, n. 4869 del 6 luglio 2000, Colucci, Rv. 216746; Sez. 1, n. 12453 del 3 marzo 2009, Alfieri, Rv. 243742; Sez. 1, n. 38712 del 23 gennaio 2013, Villirillo, Rv. 256879; Sez. 4, n. 26117 del 16 maggio 2012, Toma, Rv. 253562; Sez. 1, n. 14677 del 20 gennaio 2014, Medulla, Rv. 259733). In particolare, si è ribadito che in sede esecutiva l'illegittimità della pena può essere rilevata solo quando la sanzione inflitta non sia prevista dall'ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata - salvo che sia frutto di errore macroscopico - trattandosi in questo caso di errore censurabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza. In buona sostanza la condanna a pena illegittima, contenuta in una sentenza non ritualmente impugnata, non può essere rettificata in sede esecutiva, salvo che sia configurabile un'ipotesi di assoluta abnormità della sanzione; la pena sia frutto di un errore macroscopico non giustificabile e non di una argomentata, pur discutibile, valutazione; la sanzione sia oggetto di palese errore di calcolo, in grado di comportarne la sostanziale illegalità. E ciò in quanto il principio di legalità della pena, enunciato dall'art. 1 c.p. ed implicitamente dall'art. 25, secondo comma, Cost., informa di sé tutto il sistema penale e non può ritenersi operante solo in sede di cognizione. Tale principio, che vale sia per le pene detentive sia per le pene pecuniarie, vieta che una pena che non trovi fondamento in una norma di legge, anche se inflitta con sentenza non più soggetta ad impugnazione ordinaria, possa avere esecuzione, essendo avulsa da una pretesa punitiva dello Stato. L'applicazione di pena illegale, per errore nella determinazione o nel calcolo di essa, non configura un caso di inesistenza giuridica o abnormità del provvedimento che la dispone, e, ove la sua determinazione sia frutto non di argomentata valutazione, ma di palese errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione, se ne impone la rettifica o la correzione da parte del giudice dell'esecuzione, adito ai sensi dell'art. 666 c.p.p., nel rispetto dei principi contenuti nell'art. 25, secondo comma, Cost. e nell'art. 7 CEDU, i quali escludono la possibilità d'infliggere una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso (Sez. 1, n. 14677 del 20 gennaio 2014, Medulla, cit.).
Recentemente le Sezioni Unite, dirimendo il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità, hanno ribadito tali principi anche in riferimento alla pena accessoria, affermando che l'applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione, purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione (Sez. un., n. 6240 del 27 novembre 2014, B., Rv. 262327).
8. Questa giurisprudenza deve essere letta alla luce degli ultimi approdi raggiunti da queste Sezioni Unite in ordine al ruolo assegnato dal codice di rito al giudice dell'esecuzione con riferimento specifico al controllo sulla legalità della pena.
Con la sentenza n. 18821 del 24 ottobre 2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651 e 258649, le Sezioni Unite hanno affermato che il giudice dell'esecuzione, investito della richiesta di sostituzione della pena dell'ergastolo - inflitta con sentenza irrevocabile - con quella temporanea di trenta anni di reclusione, ove riconosca il diritto del condannato a beneficiare del trattamento più favorevole previsto dall'art. 30, primo comma, lett. b), l. n. 479 del 1999, deve provvedere, incidendo sul giudicato, alla sollecitata sostituzione, avvalendosi dei poteri previsti dagli artt. 665, 666 e 670 c.p.p. e, più in particolare, che non può essere ulteriormente eseguita, ma deve essere sostituita con quella di anni trenta di reclusione la pena dell'ergastolo inflitta in applicazione dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 all'esito di giudizio abbreviato richiesto dall'interessato nella vigenza dell'art. 30, comma 1, lett. b), l. n. 479 del 1999 - il quale disponeva, per il caso di accesso al rito speciale, la sostituzione della sanzione detentiva perpetua con quella temporanea nella misura precisata - anche se la condanna è divenuta irrevocabile prima della dichiarazione di illegittimità della disposizione più rigorosa, pronunciata per violazione dell'art. 117 Cost. in riferimento all'art. 7, par. 1, CEDU, laddove riconosce il diritto dell'interessato a beneficiare del trattamento "intermedio" più favorevole, in quanto il divieto di dare esecuzione ad una sanzione penale contemplata da una norma dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi esprime un valore che prevale su quello della intangibilità del giudicato e trova attuazione nell'art. 30, quarto comma, l. 11 marzo 1953, n. 87.
In questa sentenza, sottolineati gli ampi margini di manovra che l'attuale ordinamento processuale riconosce alla giurisdizione esecutiva, non si è mancato di rilevare che l'istanza di legalità della pena è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice e non ostacolata dal dato formale della c.d. "situazione esaurita", che tale sostanzialmente non è, non potendosi tollerare che uno Stato di diritto assista inerte all'esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale.
Non va sottaciuto, infatti, che la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l'intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, secondo comma; 25, secondo comma) e deve assolvere alla funzione rieducativa imposta dall'art. 27, terzo comma, Cost., profili che vengono sicuramente vanificati dalla declaratoria di incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perché ritenuta in contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dall'art. 117, primo comma, Cost.; imponendosi un bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e altri valori, pure costituzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale e inviolabile alla libertà personale, la cui tutela deve ragionevolmente prevalere sul primo.
Il ruolo del giudice dell'esecuzione e la reale portata del principio della intangibilità del giudicato costituiscono i temi portanti di Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, Rv. 260695 e 260700, nella quale le affermazioni formulate da Sez. un. Ercolano risultano ulteriormente sviluppate.
In particolare, nella sentenza Gatto si è significativamente chiarito:
- che l'efficacia del giudicato penale nasce dalla necessità di certezza e stabilità giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, ma anche dall'esigenza di porre un limite all'intervento dello Stato nella sfera individuale, sicché si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem, e non implica l'immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona;
- che quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest'ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell'esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento "correttivo" da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, o comunque derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l'applicazione di norme più favorevoli eventualmente medio tempore approvate dal legislatore;
- che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 61, primo comma, n. 11-bis, c.p., ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010, impedisce che sia eseguita la porzione di pena, irrogata con sentenza irrevocabile, corrispondente all'applicazione della circostanza aggravante prevista da tale norma, spettando al giudice dell'esecuzione individuare la porzione di pena da eliminare;
- che il giudice dell'esecuzione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, c.p., nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, c.p., può affermare la prevalenza dell'attenuante anche compiendo attività di accertamento, sempre che tale valutazione non sia stata esclusa dal giudice della cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali; tuttavia, nel rideterminare la pena, deve attenersi ai limiti derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l'applicazione di norme più favorevoli eventualmente medio tempore approvate dal legislatore.
Nel pervenire a queste conclusioni, nella sentenza Gatto le Sezioni Unite hanno evidenziato che il vigente codice di rito ha ridisegnato il ruolo e la funzione del giudice dell'esecuzione. Infatti nell'attuale sistema è prevista una nutrita serie di poteri del giudice dell'esecuzione, più o meno incidenti sul giudicato, che la dottrina ha classificato come selettivi (art. 699 c.p.p.), risolutivi (art. 673 c.p.p., di conversione (art. 2, terzo comma, c.p.), modificativi (artt. 672, 676 c.p.p.), ricostruttivi (art. 671 c.p.p. e 188 disp. att. c.p.p.), complementari e supplenti (art. 674 c.p.p.). Dal contenuto di tali disposizioni emerge con tutta evidenza l'insostenibilità della vecchia concezione circa la natura secondaria ed accessoria della fase esecutiva che, ormai, grazie alle nuove attribuzioni del giudice ed alla giurisdizionalizzazione del procedimento, ha acquistato una dimensione centrale e complementare a quella della fase di cognizione, concorrendo, come è stato notato, al completamento funzionale del sistema processuale.
D'altra parte la maggiore latitudine dei poteri di cui è stato dotato il giudice dell'esecuzione è stata recentemente ribadita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 210 del 2013, che ha sottolineato che tale organo non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 c.p.p.). A ciò deve aggiungersi che il giudice dell'esecuzione è dotato di penetranti poteri di accertamento e di valutazione ben più complessi di quelli richiesti da un giudizio di comparazione tra circostanze, stante il disposto normativo di cui all'art. 671 c.p.p.
9. In applicazione dei principi espressi nei punti che precedono, non resta che affermare che l'illegalità della pena, non rilevabile di ufficio in sede di legittimità in presenza di ricorso inammissibile perché presentato fuori termine, è deducibile davanti al giudice dell'esecuzione. Tale soluzione, per altro, oltre a garantire il rispetto del principio di legalità ex art. 1 c.p. e della funzione della pena delineata dall'art. 27 Cost., appare in linea con le coordinate fondamentali del nostro sistema processuale, rispettando la formazione del giudicato e l'intangibilità dell'accertamento processuale allorché sia trascorso il termine per proporre ricorso per cassazione.
Né è invocabile nel caso in esame l'art. 619 c.p.p., in quanto il potere della Corte di cassazione di rettificazione del provvedimento impugnato non può essere esercitato in presenza di un ricorso inammissibile (Sez. 6, n. 12597 del 20 febbraio 2004, Fasciolo, Rv. 229216; Sez. 7, n. 1686 del 10 dicembre 2009, dep. 2010, Frisoli, Rv. 245421; Sez. 4, n. 4114 del 10 gennaio 2014, Cipolline, Rv. 258187; Sez. 4, n. 8013 del 17 gennaio 2014, Marfisi, Rv. 259281).
10. A proposito della vicenda di specie, peraltro, occorre ribadire che, nella richiamata sentenza Sez. un. Basile, questa Corte ha avuto modo di affermare il principio secondo il quale è possibile procedere alla emenda, in executivis, della pena accessoria applicata extra o contra legem dal giudice della cognizione, a condizione che la stessa sia determinata o comunque determinabile per legge; senza intervento, dunque, di apprezzamenti discrezionali in ordine alla scelta della specie e della durata della pena, che finirebbero per rendere il giudice della esecuzione tributario di una cognizione non dissimile da quella che caratterizzerebbe il munus del giudice del rinvio a seguito di annullamento, da parte del giudice della legittimità, della pena illegalmente applicata nei gradi di merito.
Ancorché il tema non abbia formato oggetto di specifica devoluzione a queste Sezioni Unite, non sembra infatti superfluo rilevare come, nel procedimento davanti al giudice di pace, la natura delle pene applicabili, appare saldarsi intimamente, per precisa scelta del legislatore, alle varie peculiarità che caratterizzano quel giudizio, al punto che l'art. 63 d.lgs. n. 274 del 2000 rende applicabile per il tribunale che giudichi di reati di competenza del giudice di pace anche istituti particolari, come la esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto (art. 34) e la declaratoria di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (art. 35). Inoltre, per le sanzioni previste dal Titolo II del medesimo decreto, è esclusa l'applicazione della sospensione condizionale della pena (art. 60), che invece nel caso di specie, come si è già ricordato, il Tribunale ha concesso in riferimento alla pena della reclusione.
Nel caso di mancata applicazione delle sanzioni previste dal Titolo II del citato d.lgs. n. 274 del 2000 da parte del tribunale che abbia erroneamente applicato le pene ordinariamente previste dalla legge per reati che sono attribuiti alla competenza del giudice di pace, è, dunque, l'intero modello sanzionatorio a dover essere rielaborato, con scelte che attengono alle attribuzioni tipiche del giudice del merito. L'art. 52, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 274 del 2000, prevede, infatti, che, quando il reato - come nel caso di specie - è punito con la sola pena della reclusione o dell'arresto, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da euro 516 a euro 2.582 o la pena della permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi. Dunque, il giudice che applica quel modello sanzionatorio e gli istituti processuali correlati di cui innanzi si è detto, è chiamato ad effettuare una valutazione contenutistica di tutti i parametri di commisurazione del trattamento sanzionatorio alla luce delle risultanze processuali, operando le conseguenti determinazioni, non soltanto sulla quantità del trattamento, ma anche sulla specie della sanzione da applicare, tenendo anche conto delle richieste dello stesso imputato, dal momento che il lavoro di pubblica utilità può essere applicato solo su richiesta dell'imputato, a norma dell'art. 54, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000.
Ne deriva, pertanto, che una simile rimodulazione della pena, lungi dal porsi come mera opera di nuova commisurazione o sostituzione matematicamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giudice della cognizione, si pone quale complessivo nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può trovare spazio l'intervento del giudice della esecuzione.
11. Alla inammissibilità dei ricorsi consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e pro capite al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende che si stima equo determinare in euro mille. I ricorrenti vanno altresì condannati alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende.
Condanna altresì i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili C. Salvatore Lorenzo e B. Dorotea, che liquida in complessivi euro tremila, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.
Depositata il 3 dicembre 2015.