Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Sentenza 26 giugno 2015, n. 46653

Presidente: Santacroce - Estensore: Brusco

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 19 settembre 2008 il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari, all'esito del giudizio abbreviato (oltre ad altre pronunzie che più non rilevano nel presente giudizio) condannava D.D.F. - per vari episodi concernenti il traffico illecito di sostanze stupefacenti (capi 91, 107 e 144 dell'imputazione) commessi in Apricena fino all'aprile 2002 - alla pena di anni quattro, mesi otto di reclusione ed euro 20.000,00 di multa.

La Corte di appello di Bari, con sentenza dell'8 marzo 2011, confermava l'affermazione di responsabilità di D.F. e riduceva la pena al medesimo inflitta, previa concessione dell'attenuante prevista dal comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 309/1990, rideterminandola in anni due e mesi otto di reclusione ed euro 20.000,00 di multa. Revocava inoltre la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici.

A seguito di ricorso per cassazione dell'imputato, la Quarta Sezione penale, con sentenza del 6 novembre 2012, annullava la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, avendo rilevato che il giudice d'appello aveva riconosciuto l'attenuante del fatto di lieve entità per tutte le ipotesi contestate ma non ne aveva poi tenuto conto, nel determinare la pena detentiva, nel calcolo dell'aumento per la continuazione rimasto immutato rispetto a quello del primo giudizio.

La Corte di appello di Bari, all'esito del giudizio di rinvio, con sentenza del 7 ottobre 2013, ha ricalcolato la pena inflitta all'imputato secondo i criteri indicati nella citata sentenza di annullamento e l'ha rideterminata in anni due di reclusione ed euro 200,00 di multa.

2. Contro la sentenza da ultimo indicata ha proposto ricorso personalmente D.D.F. che ha dedotto due motivi di censura: con il primo deduce il vizio di motivazione per non avere, il giudice del rinvio, motivato sulla responsabilità del ricorrente; con il secondo motivo il ricorrente si duole della mancanza di motivazione in relazione «al rigetto del riconoscimento delle attenuanti generiche.

3. La Terza Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza del 17 marzo 2015, lo ha rimesso alle Sezioni Unite.

Nell'ordinanza si rileva preliminarmente come i motivi di ricorso proposti dal ricorrente siano da ritenere inammissibili in quanto il giudice del rinvio era stato investito esclusivamente del compito di rivedere il trattamento sanzionatorio; dunque le statuizioni relative all'affermazione di responsabilità dell'imputato e al riconoscimento, in suo favore, delle circostanze attenuanti erano ormai divenute definitive a seguito della ricordata sentenza di annullamento con rinvio di questa Corte.

3.1. Nell'ordinanza si rileva peraltro che il tema della disciplina del traffico illecito di sostanze stupefacenti ha subito, negli ultimi tempi, profonde innovazioni; ciò è avvenuto, inizialmente, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 (che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, inseriti dalla legge di conversione 21 febbraio 2006, n. 49) e, successivamente, a seguito dell'entrata in vigore dei decreti-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, e 20 marzo 2014, n. 36, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n. 79.

Con la sentenza indicata il Giudice delle leggi ha sostanzialmente fatto venir meno gli effetti della ricordata legge di conversione n. 272 del 2006 ripristinando la distinzione tra droghe "leggere" e droghe "pesanti" prevista dalla previgente normativa; con le successive innovazioni ricordate il legislatore ha poi mutato la disciplina del fatto di lieve entità, di cui al comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 309/1990, che è divenuto autonoma ipotesi di reato e non costituisce più, di conseguenza, una circostanza attenuante come nel sistema previgente, con una duplice e sensibile riduzione della pena edittale in precedenza prevista.

3.2. La Terza Sezione, nell'ordinanza ricordata, indica poi gli orientamenti giurisprudenziali di legittimità che si sono formati a seguito di questa evoluzione normativa e ricorda come sia stata data risposta positiva al quesito della rilevabilità d'ufficio «della nullità sopravvenuta della sentenza impugnata in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma attinente alla determinazione della pena anche in caso di inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza ed in assenza di specifica doglianza»; analoga risposta è stata data nel caso di «nullità sopravvenuta della sentenza impugnata in conseguenza di una modifica normativa incidente in misura rilevante sui limiti sanzionatori sia minimi che massimi» e, nel caso di applicazione della disciplina prevista dal comma 5 dell'art. 73 ricordato, «laddove la pena-base sia stata determinata nel provvedimento impugnato in termini sensibilmente distanti dai limiti minimi edittali sì da comportare una rivoluzione globale del fatto».

3.3. Con riferimento alla sentenza di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p. l'ordinanza ricorda poi l'orientamento secondo cui non è illegale la pena applicata nel previgente assetto normativo «qualora questa sia stata commisurata in misura prossima al minimo edittale rimasto normativamente immutato» e rileva che sono state pronunziate sentenze di annullamento senza rinvio in casi in cui la sentenza di merito «abbia applicato una pena utilizzando quale riferimento i parametri edittali previsti dalla disciplina poi dichiarata incostituzionale».

La Terza Sezione ricorda ancora che le Sezioni Unite hanno dato risposta positiva, con la sentenza n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, al quesito se debba essere rideterminata la pena applicata ai sensi dell'art. 444 c.p.p. «anche quando detta pena fosse rientrata nella nuova cornice edittale applicabile per effetto della sentenza della Consulta».

4. Nella medesima ordinanza si afferma poi testualmente che «nessuna posizione risulta invece essere stata assunta con riferimento ad una pena legale - in quanto ricompresa nella forbice edittale applicabile - inflitta in riferimento a fattispecie attenuata ex comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 309/90 in riferimento alle modifiche normative più favorevoli intervenute medio tempore anche laddove il ricorso sia inammissibile per manifesta infondatezza o genericità dei motivi».

Si ricordano poi i casi, oggetto di precedenti pronunzie, nei quali è stato ritenuto che l'inammissibilità del ricorso (salvo che nel caso di tardività) non preclude alla Corte di legittimità di annullare la sentenza che abbia irrogato una pena illegale, anche se «la ricomprensione della pena entro limiti legali in linea di principio dovrebbe precludere un intervento volto a rivedere il trattamento sanzionatorio» pur dovendosi tener conto della circostanza che le modifiche intervenute «hanno sostanzialmente scompaginato ed in misura rilevante l'originario assetto sanzionatorio con riferimento alla fattispecie attenuata disciplinata dal novellato comma 5».

5. Si rileva infine nell'ordinanza, che «la reviviscenza della legge 309/90 nel suo testo originario precedente alla l. 49/06» comporta per l'ipotesi in esame la necessità di applicazione del più favorevole regime previsto dalla nuova disciplina per le "droghe pesanti" e pone quindi il problema della possibilità di applicare d'ufficio la disciplina prevista dal comma 4 dell'art. 2 c.p. anche nel caso di ricorso inammissibile e - indipendentemente dalla circostanza che la pena inflitta possa essere considerata illegale - anche nell'ipotesi in cui tale pena si collochi all'interno della forbice attuale e più favorevole.

In conclusione la Terza Sezione ritiene necessario l'intervento risolutore delle Sezioni Unite in merito alla rilevabilità d'ufficio - in presenza di un ricorso inammissibile che non sollevi censure sul trattamento sanzionatorio - degli effetti derivanti dalle ricordate modifiche normative riguardanti l'ipotesi di reato prevista dal comma 5 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 anche nel caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale oggi vigente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite può essere così formulata:

"Se siano rilevabili di ufficio in sede di legittimità, anche in presenza di ricorso manifestamente infondato e privo di censure in ordine al trattamento sanzionatorio, gli effetti delle modifiche normative sopravvenute in termini di attenuazione della pena, anche nel caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale recata dalla nuova disciplina".

La soluzione del quesito richiede che vengano esaminati, in sequenza, una serie di problemi di rilievo anche costituzionale: la natura e l'ambito di applicazione dei principi nullum crimen sine lege e nulla poena sine lege; se questo secondo principio trovi una copertura costituzionale; che cosa si intenda per legalità della pena e, in particolare, se possa ritenersi illegale una pena che rientri nella cornice edittale vigente pur in presenza di modifiche normative che abbiano reso più favorevole il successivo trattamento sanzionatorio applicabile all'imputato.

In via subordinata occorrerà valutare se, esclusa in quest'ultima ipotesi l'illegalità della pena, sia comunque consentito al giudice di legittimità di rilevare d'ufficio, nel caso di ricorso inammissibile, la possibilità di applicare il trattamento sanzionatorio più favorevole.

2. Prima di affrontare i problemi indicati è opportuno procedere ad una sintetica ricostruzione preliminare dell'evoluzione storica che ha condotto alle odierne concezioni che riguardano l'ambito di applicazione del principio di legalità della pena oggi ritenuto ricompreso in un più ampio principio di legalità (nullum crimen sine lege).

È noto che queste concezioni trovano la loro origine storico-culturale nei princìpi affermatisi all'epoca dell'illuminismo che hanno caratterizzato la gran parte delle legislazioni che, nell'ottocento e nel novecento, a questi valori si sono ispirate.

Più articolato, come vedremo, è il percorso del principio nulla poena sine lege che oggi appare ricompreso nel primo (o un suo corollario) e che ha formato oggetto di più complesse vicende normative e interpretative.

3. I principi in esame non furono del tutto ignorati dalle legislazioni più antiche (dal diritto romano in poi) in alcuna delle quali però li si affermò mai in modo organico ed anzi - con l'ammissione costante dell'uso dell'analogia e del diritto consuetudinario nel diritto penale (che peraltro, ancor oggi, è posto a fondamento degli ordinamenti processuali di common law pur con forme diverse di garanzia per i diritti della persona) - formarono oggetto di costante disapplicazione.

È la concezione illuminista che porta all'elaborazione più compiuta del principio nullum crimen sine lege e difatti le prime affermazioni di questo principio compaiono, nell'ultima parte del secolo diciottesimo, nelle costituzioni di alcuni degli Stati Uniti d'America e nel codice austriaco.

Ma la prima formale affermazione del principio è quella contenuta nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, approvata all'indomani della rivoluzione, il cui art. 8 così dispone: «La legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata».

È opportuno sottolineare che la dichiarazione fa espresso riferimento ad entrambi i princìpi ricordati e che questa costruzione fu recepita dai sistemi liberali dell'ottocento (e quindi non solo dall'art. 1 del codice penale Zanardelli, del 1889, che stabilisce che «Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da esse stabilite»).

Questa formulazione è stata ripresa, alla lettera, dal codice del 1930, anche se questi principi si ponevano in contrasto con quelli dello stato totalitario (non è un caso che la Relazione al Re del ministro Rocco, prodiga di riconoscimenti per il nuovo regime, sfiori appena l'argomento); e ciò fu rilevato, negli anni successivi all'entrata in vigore del codice, da quella parte della dottrina giuridica che, ispirandosi ai principi delle innovazioni normative dello stato nazionalsocialista, operò per il superamento dei principi riconosciuti dall'art. 1 del codice penale e, in particolare, per l'eliminazione del divieto di analogia. Trovando peraltro ferma opposizione da parte di vari giuristi maggiormente legati ai principi dello Stato liberale.

4. Così stando le cose sarebbe apparso naturale che l'assemblea costituente dovesse riconoscere senza discussione l'introduzione nella Costituzione dei principi nullum crimen sine lege e nulla poena sine lege. Ma non è andata così per la seconda parte del principio anche se il risultato finale che oggi possiamo ritenere acquisito non è diverso.

Tradizionalmente si afferma che il principio nullum crimen, nulla poena sine lege sia espressamente previsto dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione che, in realtà disciplina espressamente solo la prima previsione (nullum crimen sine lege). Su questo principio l'art. 25 ha introdotto una riserva assoluta di legge (con tutte le conseguenze evidenziate nel dibattito che ha riguardato le norme integratrici del precetto penale) mentre il secondo principio (nulla poena sine lege) costituisce una (peraltro oggi incontroversa) costruzione dottrinale e giurisprudenziale.

Non fu una dimenticanza del legislatore costituente perché emerge dai lavori preparatori che effettivamente, all'interno della Commissione dei 75 (ed in particolare della prima sottocommissione incaricata di esaminare questi temi) si fece strada, senza sostanziali opposizioni, la necessità di riaffermare espressamente nel testo della Costituzione non solo il principio nullum crimen sine lege ma altresì il principio nulla poena sine lege. La Commissione preparatoria, in seduta plenaria, pur con alcune modifiche formali, propose una formulazione così costruita che prevedeva espressamente i due principi:

«Nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale; né può essere punito se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso e con la pena in essa prevista, salvo che la legge posteriore sia più favorevole al reo».

L'Assemblea Costituente esaminò il testo proposto della norma costituzionale in questione in diverse sedute e, all'esito, fu approvata una formulazione che non faceva più espresso riferimento al principio nulla poena sine lege limitandosi a riaffermare il principio nullum crimen sine lege. Nessuno in realtà si espresse in senso contrario al principio ma venne solo evidenziata l'inopportunità di riaffermare il principio nella Costituzione.

Le ragioni giustificatrici di questo mutamento, rispetto alle conclusioni della Commissione, si fondarono infatti sull'asserita inutilità dell'espressa previsione (perché il principio sarebbe ricavabile da altre norme), sulla sua inopportunità (perché si sarebbe compromessa la possibilità di applicare il trattamento sopravvenuto più favorevole) sulla sua superfluità (perché la disciplina sul punto era già presente nel codice penale).

5. Si tratta peraltro di lacune che la dottrina ha presto contribuito a colmare pur in presenza di significative resistenze. In particolare, per il principio che interessa (ma per il divieto di analogia si è verificato un processo analogo), si è da subito rilevato che l'uso della locuzione «nessuno può essere punito» usata nel secondo comma dell'art. 25 - ed in particolare l'uso del verbo "punire" che contiene un duplice riferimento all'affermazione di responsabilità e alla individuazione delle conseguenze che ne derivano - non può riferirsi esclusivamente al reato ma debba estendersi anche alla pena.

Del resto si è da tempo sottolineato come apparirebbe assurdo stabilire una riserva assoluta di legge per la previsione del reato e poi consentire che la sua punizione avvenga ad arbitrio del giudice o, addirittura, del potere esecutivo.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 15 del 1962, stabilì finalmente (ma è significativo delle resistenze che ancora esistevano che di contrario avviso fu l'Avvocatura dello Stato!) che la copertura costituzionale dell'art. 25, secondo comma, riguardava non solo il reato ma anche la pena. Inequivocabili le parole usate dal Giudice delle leggi: «L'art. 25, secondo comma, della Costituzione [...] affermando che nessuno può essere punito se non in forza di legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, non soltanto proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l'applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individualizzazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge».

E la dottrina ebbe poco tempo dopo a riaffermare che i due principi «sono così strettamente collegati fra loro da fondersi in un principio unico, essendo la qualità e la misura della pena non già un dato esterno ma un elemento in un certo senso intrinseco alla previsione dell'illecito penale, e dal quale il fatto incriminato ripete, di fronte alla coscienza del cittadino, non soltanto la sua gravità, ma la sua stessa natura».

6. Accertato dunque che il principio di legalità della pena ha acquisito valore costituzionale si tratta adesso di verificare quale sia il contenuto del medesimo principio al fine di accertare se, nel nostro caso, si sia verificata una sua violazione.

Tradizionalmente si afferma che con il principio di legalità della pena - che, ovviamente, trova il suo presupposto nella previsione per legge di un reato - si enuncia il divieto di punire un soggetto con pene che non siano previste dalla legge in senso assoluto, o che non siano previste per il reato per cui deve pronunziarsi condanna ovvero ancora non siano determinate dalla legge. La legge, insomma, deve prevedere tipo, contenuto e misura della pena.

Ed è oggi incontroverso che il principio di legalità della pena riguarda non solo la pena principale ma tutte le ulteriori misure che, in qualche modo, incidono sulla libertà personale e sulla dignità della persona (per es. le pene accessorie: si veda in questo senso la recente sentenza Sez. un., n. 6240 del 27 novembre 2014, dep. 2015, Basile, Rv. 262327, che ha ritenuto rilevabile dal giudice dell'esecuzione l'applicazione di una pena accessoria illegale).

L'esistenza di una riserva di legge assoluta non esclude che la pena possa essere determinata anche con riferimenti a parametri esterni: è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale, per es., la pena pecuniaria proporzionale al valore del bene protetto leso (v. la già citata sentenza del Giudice delle leggi n. 15 del 1962 in tema di sanzioni per l'abusivo esercizio della caccia all'interno del parco del Gran Paradiso sanzionato con una pena pecuniaria corrispondente al valore degli animali uccisi o feriti) o quella che fa riferimento, nel reato di contrabbando, al valore dei beni sottratti al pagamento del dazio doganale (principio su cui già si pronunciò la sentenza n. 167 del 1971 della Corte costituzionale).

Va poi rilevato che in dottrina esistono anche opinioni che, proprio facendo leva sul principio che la legalità della pena è oggetto di una riserva di legge assoluta, tendono a negare la possibilità di prevedere reati e sanzioni nei decreti-legge e nei decreti legislativi (a meno che la disciplina penalistica non sia già interamente disciplinata nella legge delega) ritenendo che sia riservata alla sola legge ordinaria la garanzia del principio nullum crimen, nulla poena sine lege.

Quello ricordato è il contenuto positivo del principio di legalità mentre, in negativo, possiamo invece escludere che rientrino in tale concetto: la previsione di pene ingiuste o eccessive (situazione che potrebbe riguardare, eventualmente, altri principi costituzionali: uguaglianza, legalità sostanziale, proporzionalità, ragionevolezza ecc.) e la legalità processuale che attiene al percorso che condurrà, eventualmente, all'applicazione della sanzione punitiva ma non riguarda il tipo e misura della medesima (e qui verranno in considerazione, se necessario, le norme costituzionali, aventi valenza processuale, contenute negli artt. da 24 a 27 della Costituzione e i principi del giusto processo indicati nell'art. 111).

Per concludere su questo tema può infine ricordarsi come si sia sostenuto in dottrina che contrasterebbero con il principio di legalità della pena, costituzionalmente garantito, la previsione di pene indeterminate nel massimo, l'imprecisione della cornice edittale, la previsione di una cornice edittale troppo ampia, l'inesistenza di criteri vincolanti per il giudice per la determinazione della pena in concreto.

7. Il principio nulla poena sine lege è poi previsto dall'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ed è scolpito nella rubrica della norma che presenta un titolo inequivoco "Nessuna pena senza legge".

Meno evidente è la riaffermazione del principio nella norma che così recita al primo comma: «Nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo la legge nazionale o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato».

Anche in questo caso il principio nulla poena sine lege è ricavabile solo implicitamente dal secondo periodo del primo comma dell'art. 7 ovvio essendo che il mutamento peggiorativo cui si fa riferimento in questa parte della norma - per vieta[r]ne l'applicazione ai fatti commessi successivamente - non può che essere riferito ad un mutamento della legge nazionale o internazionale che prevede (o prevedeva) l'ipotesi di reato.

Va peraltro precisato che il testo dell'art. 7, secondo comma (che deroga in casi eccezionali al principio della retroattività della lex mitior) non fa riferimento alla legge formale ma al "diritto" volendo evidentemente ricomprendere anche gli ordinamenti nel quali esiste l'obbligo per il giudice di conformarsi ai precedenti.

Anzi di recente è stato ritenuto applicabile, dalla Corte EDU, l'art. 7 anche in relazione all'ordinamento italiano (che non prevede l'obbligo indicato) quando ci si trovi in presenza di innovazioni giurisprudenziali che consentono di ritenere punibile una determinata condotta (v. sentenza 14 aprile 2015, Contrada c. Italia).

Il principio ha poi trovato riconoscimento, sempre a livello sovranazionale, anche nell'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il cui art. 15, oltre a prevedere espressamente i principi nullum crimen nulla poena sine lege, prevede anche l'obbligatoria applicazione al colpevole della pena sopravvenuta più favorevole. È peraltro da rilevare, con riferimento alla legge sopravvenuta che preveda una pena più lieve, che con la legge di ratifica lo Stato italiano ha dichiarato di interpretare l'ultima disposizione come applicabile esclusivamente alle procedure in corso con esclusione dei casi in cui una persona sia già stata condannata con una decisione definitiva.

8. E veniamo dunque al tema che più direttamente riguarda la soluzione del primo quesito a cui le Sezioni Unite sono chiamate a dare una risposta: quale sia il contenuto concreto del principio di legalità della pena e se possa ritenersi illegale una pena inflitta in base ad un quadro normativo sanzionatorio, successivamente mutato in senso favorevole all'imputato, se la pena risulti comunque formalmente compatibile anche con la nuova forbice edittale prevista per il reato.

Abbiamo visto come il principio costituzionale di legalità della pena riguardi non solo l'an dell'irrogazione della pena bensì anche il quomodo ed in particolare il quantum di pena inflitta. È singolare rilevare che le concezioni dell'illuminismo pervennero ad auspicare un sistema di pene fisse che avrebbe escluso ogni discrezionalità dei giudici nella determinazione della pena (giudice bouche de la loi).

Superata questa concezione (foriera di ingiustizie di natura diversa derivanti dall'impossibilità di valutare le caratteristiche del caso concreto) è rimasta però l'esigenza - proprio in attuazione del principio di legalità della pena - che la legge indichi in modo preciso i criteri ai quali il giudice deve attenersi per determinare la pena in concreto e, in seconda battuta, che il giudice adempia all'obbligo di motivazione sull'uso di tali criteri nel caso portato alla sua attenzione.

L'osservanza di questi princìpi risponde anche a finalità diverse derivanti dalla necessità di osservare altri principi costituzionali: non potrebbe infatti conciliarsi, per es., un sistema di pene detentive fisse con il principio costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato perché è ben difficile ipotizzare una funzione rieducativa di una pena inflitta senza tener conto degli aspetti soggettivi che hanno caratterizzato la condotta criminosa dell'agente. E neppure potrebbe conciliarsi con il principio di uguaglianza una pena prevista in astratto che non consentisse di tener conto dell'intensità del dolo o della colpa e della gravità della lesione inflitta dall'agente al bene giuridico protetto.

Con la precisazione che il sistema delle pene fisse non è del tutto escluso dal nostro ordinamento: per es. le pene pecuniarie previste per alcuni reati in misura fissa e la stessa pena dell'ergastolo (del resto la Corte costituzionale, nella sentenza n. 50 del 14 aprile 1980, pur ribadendo che solo la pena articolata tra un limite minimo e massimo risponde ai principi costituzionali, non ha escluso che, in presenza di determinati presupposti, anche la pena fissa possa ritenersi non in contrasto con tali criteri).

Questi principi sono stati ribaditi dalla Corte costituzionale in altre pronunce. In particolare la sentenza n. 299 del 1992 ha così scolpito il rapporto tra il principio di legalità della pena e l'articolazione della pena tra un minimo e un massimo (in un caso limite in cui la forbice edittale variava da 2 a 24 anni di reclusione!) evidenziando come il principio di legalità della pena, di valore costituzionale, «non impone al legislatore di determinare in misura fissa e rigida la pena da irrogare per ciascun tipo di reato»; e precisando poi che «lo strumento più idoneo al conseguimento delle finalità della pena e più congruo rispetto al principio di uguaglianza è la predeterminazione della pena medesima da parte del legislatore fra un massimo e un minimo ed il conferimento al giudice del potere discrezionale di determinare in concreto, entro tali limiti, la sanzione da irrogare, al fine di adeguare quest'ultima alle specifiche caratteristiche del singolo caso».

8.1. Il principio di legalità della pena impone dunque al legislatore di determinare la pena da irrogare tra un minimo e un massimo (salvo casi marginali); di contenere in termini ragionevoli la distanza tra minimo e massimo; di prevedere che il giudice eserciti il suo potere discrezionale in base ai criteri stabiliti dalla legge (in particolare quelli previsti dall'art. 133 c.p.). Tra questi criteri indicati dalla legge il criterio fondamentale cui deve attenersi il giudice è quello della "gravità del reato" desunta dagli indici oggettivi e soggettivi richiamati dalla norma indicata.

In questo quadro normativo così delineato è possibile affermare che sia legale una pena irrogata per un reato per il quale sia mutata la cornice edittale in senso favorevole al reo purché la pena in concreto irrogata rientri nella nuova cornice edittale?

La risposta da dare al quesito, secondo il parere delle Sezioni Unite, non può essere univoca ma deve uniformarsi alle specificità dei casi che possono verificarsi.

Se il giudice deve adeguare la sanzione alla gravità del reato e se il legislatore ha ritenuto di connotare il fatto sanzionato di una valutazione di minor gravità sembra evidente che, in linea di massima, si verifichi una sfasatura tra la pena irrogata e quella che dovrebbe essere inflitta in esito al nuovo trattamento sanzionatorio entrato in vigore successivamente.

Ritengono peraltro le Sezioni Unite che questa situazione non comporti automaticamente che la pena debba essere ritenuta illegale. È vero che la categoria della illegalità della pena è da ritenere più ampia di quella tradizionalmente accolta - che si rifà esclusivamente alla circostanza che la pena determinata in concreto superi o sia inferiore ai limiti stabiliti dalla legge o che sia stata applicata una pena che non poteva essere inflitta - ma per poter escludere questa conseguenza e dare una risposta al quesito va verificata l'esistenza di diverse condizioni.

In particolare l'illegalità della pena dovrà essere esclusa quando, pur in esito all'esame della modifica normativa più favorevole, ci si trovi in presenza di una pena che, rimanendo nei margini edittali sopravvenuti, sia stata irrogata con riferimento alla gravità di un fatto criminoso il cui disvalore sociale non sia mutato significativamente; di una pena inflitta entro limiti ragionevolmente commisurabili, in astratto, anche alla diversa gravità del fatto come previsto dalla nuova normativa; di una pena che sia stata determinata in concreto con riferimento ad una gravità non significativamente diversa rispetto a quella del successivo e più favorevole trattamento e chiaramente commisurata ai criteri indicati dall'art. 133 c.p.

In presenza di tutte queste condizioni ci troviamo in presenza di una pena che potrebbe essere ritenuta ingiusta ma non illegale perché, in ipotesi, potrebbe essere legittimamente inflitta, con un'adeguata motivazione giustificatrice che tenga conto dell'innovazione normativa, anche in base alla nuova e più favorevole disciplina sanzionatoria (e in tal caso la pena originariamente inflitta neppure potrebbe essere ritenuta ingiusta).

Illegale deve invece essere ritenuta la pena che, pur rimanendo nei margini edittali di tale più favorevole disciplina, ne stravolga i parametri di riferimento - in particolare il principio di proporzionalità - e sia applicata in modo incompatibile con la disciplina normativa successiva.

Se il mutamento intervenuto in materia di stupefacenti a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 (con la reintroduzione della distinzione tra droghe "leggere" e "pesanti") fosse intervenuto a seguito di una modifica legislativa certamente non potrebbe essere ritenuta legale una pena determinata nel minimo della precedente normativa quando quel minimo è divenuto oggi, per le droghe "leggere", il massimo previsto dalla nuova disciplina.

In questo caso la pena dovrebbe essere ritenuta illegale, pur rimanendo nella forbice edittale, perché i parametri normativamente previsti per la sua determinazione non solo non risultano adeguati e proporzionati rispetto al nuovo trattamento sanzionatorio ma risultano completamente stravolti; inoltre la gravità del fatto - che costituisce il principale criterio di orientamento per il giudice nella determinazione della pena - perderebbe completamente questa sua primaria funzione e il principio di proporzionalità verrebbe applicato con criteri incompatibili rispetto a quelli che ne disciplinano l'applicazione e che dovrebbero ispirare la decisione.

8.2. Dunque - al di fuori dei casi ricordati - per poter ritenere illegale la pena non è sufficiente che la stessa sia stata determinata con riferimento ad un fatto la cui gravità il legislatore ha ritenuto di attenuare rispetto a quella precedentemente ipotizzata riducendo, anche sensibilmente, la pena precedentemente prevista. Il potere di graduare la pena attribuito al giudice in relazione alle caratteristiche del caso concreto (da un punto di vista oggettivo e soggettivo) è infatti mutato a seguito della modifica normativa e il giudice deve ad essa adeguarsi perché è mutato il grado di disvalore della condotta.

Ma ciò, lo si ribadisce, non è sufficiente a trasformare la pena inflitta - successivamente divenuta ingiusta - in pena illegale e il giudice potrebbe riconfermare la prima pena inflitta, ove la ritenesse adeguata anche al nuovo assetto sanzionatorio, con una valutazione ovviamente riservata al giudice di merito essendo preclusa, a quello di legittimità, una rivalutazione alla luce dei parametri cui deve farsi riferimento per la determinazione della pena.

9. Questa costruzione potrebbe essere seriamente messa in dubbio (quanto meno sotto il profilo della legittimità costituzionale) se il giudice della cognizione - e quindi anche quello di legittimità - non disponesse di alcuno strumento normativo per ricondurre a giustizia una pena irrogata con riferimento ad un quadro normativo mutato in favore dell'imputato perché ciò porrebbe in discussione la compatibilità di questo sistema, oltre che col diritto convenzionale della CEDU, anche con il nostro sistema costituzionale sotto ulteriori e diversi principi rispetto a quello previsto dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione (uguaglianza, ragionevolezza, proporzionalità, principio di rieducazione).

Non può infatti applicarsi, al caso della sopravvenuta modifica normativa, la disciplina della dichiarazione di incostituzionalità della normativa sanzionatoria - come è avvenuto sul tema degli stupefacenti in cui è stato travolto il precedente assetto sanzionatorio relativo alle c.d. "droghe leggere" - che prevede la possibilità di applicare il nuovo trattamento anche da parte del giudice dell'esecuzione (Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, Rv. 260695) perché la dichiarazione di incostituzionalità può consentire di utilizzare il ben più incisivo strumento normativo previsto dal già ricordato art. 30 legge n. 87 del 1953 e, nella fase dell'esecuzione, quello previsto dall'art. 673 c.p.p.

9.1. Le Sezioni Unite hanno infatti ribadito, anche recentemente (sentenza n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli), che ben diversi sono i fenomeni dell'abrogazione (o del mutamento di disciplina riguardante la norma da applicare) rispetto alla dichiarazione di incostituzionalità della medesima; nel primo caso - che, riguardando le libere scelte politico istituzionali del legislatore, ha carattere fisiologico - la norma conserva la sua validità fin dalla sua entrata in vigore e fino alla sua abrogazione (o alla sua modifica) salvo la necessità di disciplinare i rapporti intertemporali.

Nel secondo caso (dichiarazione di incostituzionalità) la norma perde efficacia fin dall'inizio (salvo i rapporti esauriti ma con rilevanti eccezioni estensive, in questo caso, nella materia penale); la dichiarazione della sua invalidità retroagisce al momento della sua entrata in vigore perché la norma è affetta da una patologia che non avrebbe dovuto consentire al legislatore di approvarla (la giurisprudenza della Corte costituzionale è univoca da tempo in questo senso: v. sentt. n. 40 del 1970; n. 139 del 1984; più recentemente - v. sent. n. 314 del 2009 - si è riaffermato che la dichiarazione di incostituzionalità è anche idonea a provocare la reviviscenza della norma abrogata da parte della legge dichiarata non conforme alla Costituzione).

10. Nel nostro caso ci troviamo in presenza di una successione di norme che hanno modificato, in senso favorevole all'imputato, il trattamento sanzionatorio (sicuramente nel determinare la pena ma anche, nella quasi totalità dei casi ipotizzabili, nel rendere autonoma la fattispecie riguardante il caso di lieve entità).

Ma, seppur di minore efficacia rispetto a quanto avviene nel caso della dichiarazione di incostituzionalità (se non altro perché non esperibile nel giudizio di esecuzione), lo strumento per ovviare a questo effetto del mutamento normativo esiste nel nostro ordinamento ed è costituito dall'art. 2, quarto comma, c.p. in base al quale «Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile».

10.1. Si tratta di un principio che, per una parte (l'irretroattività della legge penale sfavorevole), ha valore costituzionale non derogabile (art. 25, secondo comma, della Costituzione); per altra parte (la retroattività della legge penale più favorevole) non ha un'analoga copertura costituzionale ben potendo il legislatore (e salvo i casi di leggi eccezionali o temporanee che il quarto comma dell'art. 2 in esame sottrae, per ovvie ragioni, alla disciplina generale) escludere la retroattività della lex mitior purché la deroga sia fondata su esigenze meritevoli di tutela (ne vedremo più avanti alcuni esempi) che, in un bilanciamento degli interessi in gioco, possano prevalere sull'esigenza della incondizionata retroattività della legge più favorevole.

Questa valutazione va fatta tenendo conto del principio di ragionevolezza e il parametro costituzionale che consente questo controllo è stato individuato nel principio di uguaglianza, previsto dall'art. 3, primo comma, della Costituzione, per verificare se trovi giustificazione una disparità di trattamento tra coloro che hanno commesso il reato prima del mutamento normativo ovvero successivamente (per l'affermazione di questi principi si veda, tra le altre, la sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 2006 alla quale si farà più avanti ampio riferimento).

È da rilevare che, nella giurisprudenza della Corte costituzionale questi principi sono rimasti fermi (vedi sent. n. 236 del 2011) anche dopo che la Corte EDU (v. sentenza della Grande Camera 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia) sembrava aver assunto una posizione più rigida escludendo sostanzialmente in ogni caso la possibilità di derogare - in presenza dei presupposti ai quali già si è fatto cenno - al principio della retroattività della norma più favorevole ricavabile dall'art. 7 della CEDU.

10.2. Ulteriori approfondimenti di questo tema non sono necessari non potendo essere posta in dubbio, nel nostro caso, l'astratta applicabilità dell'art. 2, quarto comma, c.p. Con la conseguenza che il giudice della cognizione è dunque obbligato ad applicare, in ogni caso, il trattamento che accerti essere più favorevole al reo.

11. Il problema che si pone all'esame delle Sezioni Unite è invece quello di verificare se questo sindacato sia ancora possibile quando il ricorso è inammissibile ovvero se, a questa soluzione, osti la formazione del giudicato che, si afferma, dovrebbe conseguire all'inammissibilità dell'impugnazione.

La diversità delle risposte date dalle Sezioni semplici della Corte a questo quesito evidenzia la complessità dei problemi che le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere e anche la astratta plausibilità delle contrapposte soluzioni ad oggi proposte, tutte fondate su percorsi argomentativi che non possono essere ritenuti scorretti.

Per tentare di individuare una soluzione convincente del problema occorre partire da una premessa che riguarda il valore del giudicato la cui formazione costituisce il presupposto dell'affermazione per cui, in presenza di un ricorso inammissibile, non è consentito entrare nel merito delle questioni, non proposte dalle parti, sia pure in presenza di un mutamento normativo entrato in vigore successivamente alla consumazione del reato, perché sulla regiudicanda si è già formata una preclusione costituita, appunto, dal giudicato.

Vedremo che questa affermazione non è sempre valida ma, per il momento, si può partire dal presupposto che la soluzione corrisponda ad una corretta applicazione della disciplina processuale vigente sulla formazione del giudicato nel processo penale.

11.1. Sul tema del giudicato non può che richiamarsi l'evoluzione che l'istituto ha subito nel tempo.

Da una sostanziale intangibilità prevista dal codice Rocco - vista come un simbolo dell'affermazione dell'autorità dello Stato e dell'infallibilità delle decisioni pronunziate in suo nome - il giudicato ha, negli ultimi decenni, via via perso queste caratteristiche venendo a costituire un'importante finalità che il processo deve perseguire e che consenta, ove possibile, di evitare il prolungamento ingiustificato dei contenziosi giudiziari in tutti i rami del diritto e non solo nel settore penale.

Ma da principio assoluto di tutela dell'autorità dello Stato (totalitario) si è passati ad un principio che assolve per un verso ad una funzione pratica di razionalità dell'ordinamento (i giudizi devono terminare prima possibile e quindi vanno previsti mezzi che impediscano la loro indefinita pendenza) e, per altro verso, svolge la funzione di assicurare l'osservanza di un principio costituzionale (la ragionevole durata del processo: art. 111, secondo comma, Cost.) che peraltro coincide con la ragione pratica.

Questa finalità (i processi devono concludersi in tempi ragionevoli e con decisioni nei limiti del possibile immutabili) non è però più individuata come lo scopo unico e indefettibile della giurisdizione e, soprattutto, lo strumento che ne consente il perseguimento può trovare deroghe significative ove la sua inderogabilità si ponga in contrasto con il rispetto di principi della persona ugualmente meritevoli di tutela.

11.2. D'altro canto il principio dell'intangibilità del giudicato non ha trovato, neppure come previsione di una riserva di legge, alcun riconoscimento nella Costituzione (salvo, implicitamente e parzialmente, nel secondo comma dell'art. 27 - che non consente di considerare colpevole l'imputato prima di una condanna definitiva - e forse nel rifiuto, parimenti implicito e tutt'altro che condiviso, della possibilità di una reformatio in pejus di un giudicato sulla responsabilità).

Anzi i vari casi di attenuazione del suo valore si riferiscono proprio a ipotesi di prevalenza dei principi costituzionali sulla disciplina normativa che rende non modificabili le sentenze sulle quali si è formato il giudicato. Perché, in definitiva, si tratta di conciliare due interessi tra di loro contrastanti ma meritevoli entrambi di tutela che certamente, anche quando non espressamente menzionati (il primo di essi), hanno comunque un fondamento costituzionale: la certezza dei rapporti giuridici e la tutela dei diritti fondamentali della persona (non solo quelli dell'imputato bensì anche quelli della persona offesa e delle altre parti non pubbliche del processo).

12. Le tappe di questo percorso erosivo dell'intangibilità del giudicato sono molteplici e ad esse è sufficiente accennare. Già l'entrata in vigore della Costituzione del 1948 ha mutato le coordinate per la soluzione del problema. La tutela dei diritti inviolabili dell'uomo (art. 2) e le previsioni contenute negli artt. da 24 e 27 non potevano che rendere più flessibile il giudicato ogni volta che la sua intangibilità avesse provocato una lesione dei principi affermati in queste norme costituzionali.

Pur non esistendo, nella Costituzione, una norma che espliciti questo principio, il rilievo che l'art. 24, quarto comma, dà alla previsione che la legge determini le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari offre una indicazione (sia pure implicita) della rilevanza (costituzionale) della previsione di istituti e modalità idonei a prevenire il verificarsi di tali errori e ciò può avvenire anche rendendo meno stabili le decisioni di condanna. Ma di ancor maggiore rilievo è l'affermazione della funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma) che, imponendo un trattamento esecutivo differenziato per i singoli soggetti, non può non riverberare i suoi effetti anche sulla qualità e quantità della pena inflitta dal giudice della cognizione.

12.1. I casi di revisione previsti dal vigente codice di rito penale (art. 630 c.p.p.) non costituiscono un'innovazione significativa perché riproducono sostanzialmente quelli previsti dall'art. 554 del codice di rito previgente; le successive estensioni sono in parte riconducibili ad un'innovazione normativa processuale (legge 12 giugno 2003, n. 2003, che ha esteso la possibilità di revisione alle sentenze di patteggiamento) e per altra parte ad un intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 113 del 2011) che ha consentito la revisione del processo quando si tratti di conformare la sentenza di condanna alle sentenze definitive della Corte EDU.

Di particolare rilevanza (anche per il caso oggi all'esame delle Sezioni Unite), in quest'ultima sentenza, è l'espressa affermazione che, quando si tratti della violazione delle garanzie attinenti ai diritti fondamentali della persona, il giudicato non può non cedere all'esigenza di salvaguardare questi diritti con lo strumento nell'ampliamento dei casi di revisione. Ampliamento che, del resto, è avvenuto anche a seguito di mutamenti giurisprudenziali: può ricordarsi, in particolare, la possibilità di revisione della sentenza di condanna ammessa dalle Sezioni Unite (sentenza n. 624 del 26 settembre 2001, dep. 2002, Pisano, Rv. 220443) anche nel caso in cui la prova nuova, che può condurre alla revisione, era già esistente nel processo ma non era stata valutata dal giudice.

12.2. Del resto, nel caso di pronunzia della Corte EDU, lo Stato soccombente ha un duplice obbligo: quello di conformare l'ordinamento interno alle regole della Convenzione ritenute violate ma, altresì, quello di rimuovere, per quanto possibile, gli effetti negativi della decisione ritenuta in contrasto con la medesima Convenzione e ciò - anche se la conseguenza non è inevitabile - importa nella più parte dei casi un effetto di rimozione, totale o parziale, del giudicato.

E non è inutile ricordare che parte della dottrina invita a riflettere sul tema - fino ad una certa epoca affrontato negativamente dalla giurisprudenza di legittimità - secondo cui sarebbe necessario individuare gli strumenti normativi per eliminare il giudicato in casi di conclamata violazione dei diritti e delle garanzie fondamentali nei quali non sia stato proposto, dalla parte, ricorso alla Corte EDU.

Su questo versante le Sezioni Unite - pur dopo un intervento della Corte costituzionale sulla norma oggetto della già ricordata sentenza Scoppola - hanno scelto la soluzione favorevole alla persona i cui diritti fondamentali abbiano subito un'ingiustificata violazione precisando, proprio sul tema che si sta esaminando, che «il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti mortificato, per una carenza strutturale dell'ordinamento interno rilevata dalla Corte EDU, un diritto fondamentale della persona, quale certamente è quello che incide sulla libertà: s'impone, pertanto, in questo caso di emendare "dallo stigma dell'ingiustizia" una tale situazione» (Sez. un., n. 18821 del 24 ottobre 2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258649).

13. Numerose e rilevanti sono anche le innovazioni normative di natura processuale che si sono susseguite nel tempo, anche successivamente all'entrata in vigore del codice di rito vigente, erodendo ulteriormente i vincoli derivanti dall'intangibilità del giudicato: esemplificativamente possono ricordarsi la possibilità di applicare, nella fase dell'esecuzione, la disciplina del concorso formale e della continuazione (art. 671 c.p.p.); il ricorso straordinario per cassazione per errore materiale o di fatto (art. 625-bis c.p.p.); l'ampliamento dei casi di restituzione nel termine previsti dall'art. 175 c.p.p.; la rescissione del giudicato (art. 625-ter c.p.p.) di recente introduzione ad opera della l. n. 67 del 2014.

13.1. Molto significative sono, ancora, le innovazioni, in particolare giurisprudenziali, seguite alla necessità di dare attuazione a sentenze della Corte EDU.

In materia di possibilità, per il giudice italiano, di dare al reato una qualificazione diversa e più grave di quella contestata, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 45807 del 12 novembre 2008, Drassich, Rv. 241753; Sez. 2, n. 37413 del 15 maggio 2013, Drassich, Rv. 256651) ha affermato - in due occasioni e nell'ambito del medesimo caso processuale - che ciò potesse avvenire utilizzando il già richiamato strumento processuale previsto dall'art. 625-bis c.p.p. Ed è pervenuta, in entrambi i casi, alla revoca della sentenza pronunziata dalla Corte di cassazione.

In materia di esecuzione già con la sentenza Sez. 1, n. 2800 del 1° dicembre 2006, dep. 2007, Dorigo, Rv. 235447, si è ritenuto essere consentito al giudice di legittimità, in base all'art. 670 c.p.p., di superare il vincolo del giudicato quando la Corte EDU abbia accertato che nel processo erano state violate le regole del giusto processo.

Lo strumento offerto dall'intervento del giudice dell'esecuzione è stato poi di recente utilizzato per rimuovere una situazione di contrasto con le norme della CEDU nella quale la Corte EDU aveva censurato una decisione italiana che aveva condannato all'ergastolo una persona imputata di un delitto che, nel momento in cui optava per il rito abbreviato, prevedeva una pena massima di trenta anni di reclusione (si tratta del già ricordato caso Scoppola esaminato dalla sentenza Sez. 5, n. 16507 dell'11 febbraio 2010, Rv. 247244).

E il medesimo strumento è stato individuato (Sez. 1, n. 19361 del 24 febbraio 2012, Teteh Assic, Rv. 253338) sia per rimuovere parzialmente il giudicato formatosi sulla sentenza di condanna nel caso di dichiarazione di incostituzionalità di un'aggravante (si trattava dell'aggravante della clandestinità oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010) sia per rimuovere gli effetti di una sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea riguardante il caso di permanenza illegale nel territorio dello Stato malgrado il provvedimento di rimpatrio del questore (Sez. 1, n. 36446 del 23 settembre 2011, George, Rv. 250880).

E le Sezioni Unite hanno di recente (sentenza n. 6240 del 27 novembre 2014, dep. 2015, Basile, Rv. 262327) confermato la possibilità, per il giudice dell'esecuzione, di rilevare l'applicazione di una pena accessoria illegale sempre che, la sua erronea applicazione, non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione.

13.2. Infine, sotto il profilo sostanziale e con diretto riferimento al tema in esame, può ricordarsi il terzo comma dell'art. 2 c.p., introdotto dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 85, per il caso di successione di leggi diverse che abbiano modificato la specie della pena.

Un percorso analogo si è anche verificato nella disciplina del processo civile: può ricordarsi, in questa materia, l'estensione dei casi di revocazione delle sentenze di appello o pronunziate in unico grado, previsti dall'art. 395 c.p.c., ad opera di interventi della Corte costituzionale.

13.3. Non è però inutile ricordare che questo processo erosivo della stabilità del giudicato (che ha riguardato prevalentemente, è opportuno rilevarlo, la intangibilità del trattamento sanzionatorio) non è privo di limiti significativi, perché la Corte costituzionale (v. sentenza n. 230 del 2012) ha escluso che il mutamento giurisprudenziale in favore del condannato possa condurre alla rimozione di una precedente sentenza di condanna.

Sotto diversi profili si è negato (Sez. 1, n. 27640 del 19 gennaio 2012, Hamrouni, Rv. 253383; ma sono prevalenti le decisioni di segno opposto: v. Sez. 1, n. 26890 del 2012, Harizi, Rv. 253084; Sez. 1, n. 977 del 2011, dep. 2012, Hauohu, Rv. 252062) che la dichiarazione di incostituzionalità della norma che prevede un'aggravante possa avere conseguenze in sede di esecuzione.

Infine deve ricordarsi che, successivamente alla decisione del presente processo, le Sezioni Unite hanno affermato la possibilità, per il giudice dell'esecuzione, di revocare la sentenza di condanna pronunciata dopo l'entrata in vigore della legge (ignorata dal giudice della cognizione) che ha abrogato la fattispecie incriminatrice: v. sentenza del 29 ottobre 2015, Mraidi, non ancora depositata.

14. Quali conclusioni possono trarsi da questa evoluzione normativa e giurisprudenziale?

A parere delle Sezioni Unite il primo approdo del ricordato percorso è che - a fronte di una lesione o di una violazione dei diritti o delle garanzie fondamentali delle persone di natura sia processuale sia sostanziale - il principio dell'intangibilità del giudicato trovi una serie di limitazioni, non tutte ipotizzabili preventivamente, che impongono all'ordinamento di eliminare la violazione o di attenuarne gli effetti, quando l'eliminazione sia divenuta impossibile, e al giudice di individuare lo strumento più idoneo a questo fine quando l'ordinamento sia silente sul punto.

Il problema non è dunque quello della formazione del giudicato ma quello di verificare se si sia verificata una lesione di un diritto o di una garanzia fondamentale della persona che giustifichi una limitazione della sua intangibilità pur formalmente prevista.

Orbene è da chiedersi se sia possibile affermare che costituisca una lesione di questi principi la circostanza che una persona sia stata giudicata - in un processo che deve ritenersi ancora in corso perché la responsabilità o la pena sono comunque ancora in discussione - con riferimento ad un quadro normativo nel frattempo modificato a seguito di una evidente variazione del giudizio di disvalore della condotta da parte del legislatore indipendentemente dalla circostanza che ci si trovi o meno in presenza di una vera e propria illegalità della pena.

È proprio questo il punto di partenza: la pena deve adempiere alla funzione rieducativa costituzionalmente garantita ma se viene inflitta con riferimento ad un apparato sanzionatorio che lo stesso legislatore, riformandolo in senso favorevole all'imputato, ha ritenuto non più adeguato per una condotta - pur oggetto ancora di un giudizio che giustifica la previsione di una sanzione penale - è evidente che questa funzione non può essere stata, in astratto, correttamente svolta.

Inoltre, in questi casi, non si può affermare che sia stato garantito il rispetto del principio di proporzionalità, posto che la pena è stata stabilita in concreto in base a criteri che, in linea di massima, appaiono di maggior gravità rispetto a quelli che il condannato avrebbe avuto diritto di vedersi applicare, sia pure con una valutazione compiuta a posteriori. E inoltre non è provato che sia stato rispettato il principio della natura individualizzante che deve caratterizzare la sanzione inflitta il cui principale riferimento deve essere costituito - lo si è già chiarito - dalla gravità del reato commesso; gravità che lo stesso legislatore ha ritenuto di dover mutare con la astratta previsione di un trattamento sanzionatorio più attenuato.

Queste argomentazioni sono da sole sufficienti per pervenire all'affermazione dell'esistenza di un obbligo, per il giudice della cognizione, di rimuovere la situazione di violazione di un principio fondamentale dell'ordinamento quale è certamente il diritto dell'imputato di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo salvo che il legislatore (con i limiti che vedremo) non abbia inteso derogare al principio della retroattività della lex mitior.

15. È necessario adesso soffermarsi su un altro aspetto, rilevante e decisivo, che costituisce il passaggio successivo ai fini della soluzione della questione proposta.

Si è detto che la formazione del giudicato non è, da sola, sufficiente a impedire che il giudice di legittimità possa estendere il suo sindacato anche a questioni che gli sarebbero precluse se non si fosse verificata una lesione dei diritti fondamentali della persona che, in una valutazione comparativa tra gli interessi che vengono in considerazione, non può che avere valore preponderante e non recessivo rispetto a quello ricollegato alla stabilità delle decisioni giurisprudenziali.

Ma occorre chiedersi se questa affermazione abbia valore assoluto oppure valga per i soli casi in cui la responsabilità, o la pena, siano ancora in discussione sia pure con la proposizione di un ricorso che ordinariamente sarebbe destinato ad una pronuncia di inammissibilità.

15.1. L'art. 609 c.p.p. - dopo aver riaffermato nel primo comma l'applicabilità del principio devolutivo anche nel giudizio di legittimità - al secondo comma prevede espressamente che la Corte di cassazione decida anche le questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.

Nel nostro caso si è certamente verificata la seconda ipotesi (la sentenza di rinvio è stata pronunziata prima che entrassero in vigore i primi mutamenti normativi); ed anche il ricorso risulta anche essere stato proposto in data anteriore (10 dicembre 2013) all'entrata in vigore del d.l. 146/2013; non esisteva quindi alcuna preclusione a proporre successivamente motivi conseguenti alle innovazioni normative di cui si è detto. Ma va rilevato che l'invocazione del trattamento sanzionatorio meno grave neppure ha formato oggetto di censure diversamente e successivamente proposte.

15.2. Ritengono peraltro le Sezioni Unite che questa violazione della disciplina sostanziale applicabile possa essere rilevata d'ufficio dal giudice di legittimità anche se l'imputato con il ricorso originario (o con motivi nuovi o memorie) non abbia proposto alcun motivo riguardante la pena né alcuna ragione di critica alla sua determinazione da parte del giudice del rinvio pur dopo le rilevanti modifiche normative intervenute successivamente alla sentenza di conferma della condanna.

Pur non vertendosi, infatti, in un'ipotesi di pena illegale (nel qual caso l'obbligo di eliminazione dell'illegalità, da parte del giudice, prescinderebbe totalmente dalle ragioni dell'impugnazione: in questo senso si veda, da ultimo, la già citata sentenza Sez. un., Jazouli, cui si rinvia per la ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali di legittimità formatisi sul punto), emergono dalle considerazioni che precedono più ragioni per affermare la rilevabilità d'ufficio della questione di cui trattasi indipendentemente dal momento (anteriore o successivo all'entrata in vigore delle modifiche normative di favore) in cui il ricorso sia stato proposto.

15.3. La prima ragione riguarda la stessa formulazione dell'art. 2, quarto comma, c.p. Certo non è buona regola ricavare da una norma sostanziale conseguenze di natura processuale ma va detto che, nel nostro caso, è la stessa norma sostanziale che fa riferimento ad un istituto di natura esclusivamente processuale quale l'irrevocabilità della sentenza.

Bene: l'art. 2 richiede esclusivamente - per la sua applicazione - che la sentenza impugnata non sia divenuta irrevocabile e dunque (salvo il caso di omessa impugnazione) che non sia stata pronunziata la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso. Solo con questa decisione la sentenza impugnata diviene irrevocabile per l'inequivoco disposto contenuto nel secondo periodo del comma 2 dell'art. 648 c.p.p.

16. Di ben maggiore peso è l'argomentazione che si ricava dall'inquadramento della violazione sopravvenuta in esame tra le violazioni dei diritti fondamentali della persona che impongono anche al giudice, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell'uomo, di eliminare le conseguenze di tali violazioni; e tra queste violazioni non può non essere inclusa, per le ragioni già indicate, quella di vedersi applicato un trattamento sanzionatorio sfavorevole in presenza di innovazioni normative che l'hanno mitigato.

Questo obbligo del giudice non incontra limiti ed anzi - lo si è già ricordato in precedenza - ha formato oggetto di un pluridecennale percorso che ha condotto ad un'estensione interpretativa dei poteri del giudice della cognizione oltre che (in forma anche più accentuata) del giudice dell'esecuzione.

La necessità di eliminare le conseguenze di una lesione di un diritto fondamentale della persona conduce dunque a prescindere dalla formale proposizione di motivi riguardanti questo aspetto della responsabilità. Una pena irrogata in base a criteri non più corrispondenti al giudizio di disvalore della condotta espresso dal legislatore è una pena che - anche se è da ritenere "legale" nel senso già indicato - è idonea, in particolare, a violare il criterio di proporzionalità che sempre deve assistere l'esercizio del potere punitivo attribuito all'autorità giudiziaria; fermo restando, lo si ribadisce, che il giudice di merito, motivando opportunamente e adeguatamente, potrebbe riconfermare la pena inizialmente inflitta quando la ritenesse adeguata anche al sistema sanzionatorio successivamente introdotto.

16.1. Il principio di proporzionalità non è espressamente previsto dalla Costituzione ma costituisce una necessaria applicazione sia del principio di uguaglianza (che verrebbe violato dai giudici se a ciascun imputato fosse irrogata una pena non correlata alla concreta valutazione negativa della sua condotta individualmente accertata) sia del principio di rieducazione cui deve necessariamente ispirarsi la determinazione della pena; principio la cui applicazione non va limitata alla sola fase della esecuzione della pena ma deve ispirare anche la sua concreta determinazione (v., da ultimo, Corte cost. n. 105 del 2014, che precisa che «la finalità rieducativa della pena [...] implica un costante "principio di proporzione" tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa dall'altra»).

E proprio perché si tratta di un diritto fondamentale della persona, cui è attribuito valore costituzionale, non può essere disconosciuto all'imputato il diritto di vederselo riconosciuto - quando sia fondato su una scelta legislativa che ha mutato in melius il disvalore della condotta da lui tenuta - ricollegando l'inesistenza di tale diritto alle carenze verificatesi nella sua difesa personale o in quella tecnica.

16.2. Del resto la tutela dei diritti fondamentali della persona costituisce il fondamento delle ormai numerose decisioni di legittimità - ed in particolare delle Sezioni Unite di questa Corte - che hanno ritenuto superabile l'ostacolo della inammissibilità del ricorso quando si fosse in presenza di incontestabili violazioni dei diritti della persona ricollegate alla necessità di rivalutazione di posizioni giuridiche soggettive ritenute lese per la mancata applicazione di mutamenti normativi sopravvenuti.

Si è già ricordato, pur dovendosi dare atto della diversità delle ipotesi specifiche esaminate, il caso, recentemente deciso dalle Sezioni Unite, nel quale è stata ritenuta rilevabile d'ufficio l'illegalità della pena applicata con la sentenza di patteggiamento per il reato di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 riferito alle droghe "leggere" (v. la già citata sentenza Jazouli) anche se, in questo caso, la decisione si ricollega all'intervenuta dichiarazione di incostituzionalità di cui si è in precedenza parlato.

Possono poi ricordarsi l'ipotesi (analoga a quella di cui si discute in questo processo) in cui il ricorso, inammissibile, è stato proposto prima degli interventi normativi di cui si [è] detto in precedenza (Sez. 4, n. 51744 del 13 novembre 2014, Campagnaro, Rv. 261576) e quella in cui è stata annullata, per essere il reato estinto per prescrizione, la sentenza d'appello, malgrado l'inammissibilità del ricorso, perché la modifica del trattamento sanzionatorio, successiva alla sentenza impugnata, aveva avuto come conseguenza la riduzione dei termini di prescrizione (Sez. 3, n. 52031 del 6 novembre 2014, Rahman, Rv. 271709).

Vi sono poi le ipotesi nelle quali la modifica normativa ha reso necessario rivedere, pur in presenza di ricorso inammissibile, il giudizio di comparazione delle circostanze essendo divenuto, il fatto di lieve entità previsto dal comma 5 dell'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, ipotesi autonoma di reato (Sez. 4, n. 27600 del 13 marzo 2014, Buonocore, Rv. 259368) mentre, in precedenza, era pacificamente ritenuta una circostanza attenuante.

16.3. In tutte le ipotesi indicate ci troviamo in presenza della lesione di un diritto fondamentale della persona: quello di essere giudicata secondo il più favorevole dei trattamenti succedutisi nel tempo; e questo obbligo, per il giudice di legittimità, persiste tutte le volte che, indipendentemente dalla corretta proposizione dei motivi, venga posta in discussione l'affermazione della responsabilità o di aspetti della responsabilità e delle conseguenze che ne derivano.

17. Del resto, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (v. la sentenza, già citata, n. 393 del 2006), anche la possibilità di escludere per legge la retroattività della norma penale più favorevole incontra limiti assai rigorosi e può essere consentita solo in ipotesi estreme o comunque assai limitate.

La Corte costituzionale, con la sentenza da ultimo indicata, pur riconoscendo che «il regime giuridico riservato alla lex mitior, e segnatamente la sua retroattività, non riceve nell'ordinamento la tutela privilegiata di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione» ha tuttavia riconosciuto che «eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell'art. 3 Cost., possono essere disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa». E tale ragione giustificativa della deroga al principio di retroattività della legge più favorevole «impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo».

E il Giudice delle leggi - anche richiamando precedenti della medesima Corte - ha esemplificativamente indicato alcune ipotesi nelle quali può essere consentita la deroga in questione quando si tratti di interessi quali quelli «dell'efficienza del processo, della salvaguardia dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell'intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo».

Da questo quadro ricostruttivo della giurisprudenza della Corte costituzionale deriva, ad avviso delle Sezioni Unite, la conseguenza che, nel caso in cui la nuova normativa neppure abbia previsto un tale limite alla retroattività in mitius della disciplina sanzionatoria penale sopravvenuta, a questo principio vada attribuita (potrebbe dirsi "a maggior ragione") la massima estensione.

Del resto è stata la necessità di dare la più ampia estensione a questo principio che ha determinato il legislatore, come si è già accennato, ad introdurre (ad opera dell'art. 14 della l. 24 febbraio 2006, n. 85) il terzo comma dell'art. 2 c.p., che, ha consentito al giudice dell'esecuzione, anche nel caso di condanna definitiva, di sostituire la pena detentiva, inflitta in base alla precedente normativa, quando la disciplina sia stata modificata successivamente con la previsione esclusiva della pena pecuniaria.

Non vi è dunque - in definitiva - alcuna ragione per escludere che questa violazione possa influire, nel giudizio di cognizione, anche su una determinazione di pena inflitta in base a parametri che il legislatore ha successivamente ritenuto di modificare in senso favorevole all'imputato. E la rilevanza costituzionale del principio della cui salvaguardia si tratta non può che consentire al giudice della cognizione di sindacarne l'astratta violazione indipendentemente dalla proposizione di uno specifico motivo.

18. In conseguenza delle considerazioni svolte va dunque enunciato il seguente principio di diritto:

"La Corte di cassazione, nel caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e con il quale non vengano proposti motivi riguardanti il trattamento sanzionatorio, può rilevare d'ufficio, con conseguente annullamento sul punto, che la sentenza impugnata era stata pronunziata prima dei mutamenti normativi che hanno modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all'imputato; ciò anche nel caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale sopravvenuta alla cui luce il giudice di rinvio dovrà riesaminare tale questione".

19. Non può invece essere dichiarata l'estinzione dei reati per i quali è intervenuta condanna malgrado sia ormai decorso il termine di prescrizione previsto dalla legge.

Nella specie, essendo l'affermazione di responsabilità divenuta definitiva con la sentenza di annullamento pronunziata dalla Quarta Sezione di questa Corte, il processo è proseguito per la sola determinazione del trattamento sanzionatorio e ciò non consente di applicare l'indicata causa di estinzione del reato (in questo senso la giurisprudenza di legittimità è pacifica: si vedano, da ultimo, le sentenze Sez. 2, n. 44949 del 17 ottobre 2013, Abenavoli, Rv. 257314; Sez. 6, n. 45900 del 16 ottobre 2013, Di Bella, Rv. 257464; Sez. 6, n. 28412 dell'8 marzo 2013, Nogherotto, Rv. 255608; Sez. 2, n. 8039 del 9 febbraio 2010, Guerriero, Rv. 246806; Sez. 4, n. 24732 del 27 gennaio 2010, La Serra, Rv. 248117).

20. La sentenza impugnata deve quindi essere annullata con rinvio, per una nuova determinazione della pena in base ai criteri indicati, ad altra sezione della Corte di appello di Bari.

Vanno invece ritenuti inammissibili e quindi rigettati, per le considerazioni già svolte, i motivi di ricorso proposti dal ricorrente.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Bari.

Rigetta il ricorso nel resto.

Depositata il 25 novembre 2015.