Corte di cassazione
Sezione VI civile
Sentenza 6 novembre 2015, n. 22763

Presidente: Petitti - Estensore: Manna

IN FATTO

Con ricorso del 3 luglio 2013 Giuseppe B. adiva la Corte d'appello di Messina per ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento di un equo indennizzo, ai sensi dell'art. 2 della l. 24 marzo 2001, n. 89, per la durata irragionevole di una causa civile instaurata innanzi al Tribunale di Siracusa il 19 novembre 1995 e definita con sentenza di questa Corte Suprema in data 10 gennaio 2013.

Con decreto del consigliere delegato la Corte dichiarava inammissibile la domanda, per l'incompletezza e l'inidoneità della documentazione depositata. L'opposizione proposta ai sensi dell'art. 5-ter l. n. 89/2001, era respinta dalla stessa Corte, in composizione collegiale. Rilevato che il ricorso mancava degli atti e dei verbali di causa del giudizio presupposto, nonché del provvedimento definitivo, la Corte peloritana osservava che non era possibile assegnare alla parte un termine ai sensi dell'art. 3, comma 4, legge citata per integrare le produzioni, dovendosi osservare il termine perentorio prescritto dall'art. 4 anche con riguardo all'integrazione dei documenti. Aggiungeva, quindi, che il richiamo all'art. 640 c.p.c. doveva essere inteso nel senso che la richiesta d'integrazione della prova riguardava il solo caso in cui apparisse necessario l'esame di documenti ulteriori, utili ai fini della decisione, mentre essa restava senz'altro esclusa quando a mancare fossero stati, nelle forme prescritte, gli atti e i documenti indicati dalla legge e "da allegare al ricorso a pena di decadenza".

Per la cassazione di tale decreto Giuseppe B. ricorre sulla base di tre motivi, successivamente illustrati da memoria.

Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 3 e 4 l. n. 89/2001, 156 e 640 c.p.c. e del principio costituzionale del giusto processo, nonché degli artt. 2712 e 2719 c.c., in relazione al n. 3 dell'art. 360 c.p.c.

Deduce parte ricorrente che il decreto impugnato non ha considerato che nessuna nullità può essere dichiarata se non espressamente prevista dalla legge; e che, semmai, l'art. 3, quarto comma, legge Pinto, nel richiamare l'art. 640, primo comma, c.p.c., in base al quale il giudice della fase monitoria può invitare la parte a integrare la prova, depone implicitamente nel senso contrario all'inammissibilità della domanda non sufficientemente documentata.

Né in senso opposto rilevano i termini di cui all'art. 4 e all'art. 3, quarto comma, legge Pinto. Non il primo, perché si riferisce alla presentazione della domanda, nella specie pacificamente tempestiva; non il secondo, in quanto di carattere ordinatorio.

2. Il secondo mezzo allega la violazione dell'art. 3 l. n. 89/2001 e l'omesso esame d'un fatto decisivo e discusso dalle parti, in relazione ai nn. 3 e 5 dell'art. 360 c.p.c.

La Corte territoriale, sostiene il ricorrente, avrebbe ad ogni modo potuto pronunciarsi circa il superamento del termine di durata ragionevole, desumibile dagli altri atti prodotti, quali il ricorso in appello e soprattutto la sentenza di secondo grado, che ha ricostruito con dovizia di particolari l'intero excursus processuale.

3. Il terzo motivo lamenta la violazione dell'art. 2, commi 2-bis e 2-ter, e dell'art. 2-bis l. n. 89/2001, in relazione al n. 3 dell'art. 360 c.p.c., poiché in ogni caso la Corte distrettuale avrebbe dovuto decidere nel merito, riconoscendo irragionevole l'eccedenza temporale rispetto al limite massimo dei sei anni di durata complessiva.

4. Il primo motivo è fondato.

L'art. 3, terzo comma, l. n. 89/2001, come modificato dal d.l. n. 83/2012, convertito con modificazioni in l. n. 134/2012, dispone che unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica della citazione, del ricorso, delle comparse e delle memorie relative al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, dei verbali di causa e dei provvedimenti del giudice, incluso quello che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili; mentre l'art. 4 stabilisce che la domanda deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.

Le predette due disposizioni si coordinano agevolmente tra loro senza per questo integrarsi, come invece mostra di aver opinato la Corte territoriale.

Quest'ultima ha ritenuto che la comminatoria di decadenza si riferisca al ricorso corredato da tutta la documentazione prescritta, e che, di riflesso, le produzioni di cui all'art. 3, terzo comma, cit. condizionino l'attitudine del ricorso stesso a rendere concreta ed attuale la potestas iudicandi della Corte adita. Il che equivale ad affermare che il ricorso privo di uno o più degli atti o dei documenti da allegare in copia autentica sia invalido, e non rinnovabile una volta decorso il termine di proposizione di cui all'art. 4.

Soluzione, quest'ultima, cui si oppongono ragioni di corretta esegesi normativa e di natura sistematica.

4.1. Premesso che l'inammissibilità non è altro che la conseguenza di una nullità (formale o extraformale) insanabile o non più sanabile ovvero di una preclusione, va osservato, sotto il primo profilo, che l'art. 3 legge Pinto non contiene alcuna espressa menzione del fatto che la produzione degli atti e dei documenti sia condizione d'ammissibilità della domanda. Né ciò è ricavabile dall'avverbio "unitamente", incipit del terzo comma dell'art. 3, affatto inidoneo di per sé solo a traslare la perentorietà del termine dell'art. 4 dal ricorso al relativo corredo documentale. La necessità di porre in essere un dato atto entro un termine perentorio, non significa che ogni altra attività processuale, ancorché connessa e coeva, debba compiersi sotto la medesima comminatoria.

Non solo, ma il rinvio ai primi due commi dell'art. 640 c.p.c., contenuto nel quarto comma dell'art. 3, milita a favore della soluzione esattamente opposta. La tesi contraria sostenuta dalla Corte messinese appare viziata da una sostanziale petizione di principio (nel senso che revoca in ipotesi la tesi che vorrebbe dimostrare), poiché dà di detta norma un'interpretazione deontica e servente rispetto a quella oggetto di argomentazione. Per contro, nulla predica che il potere del giudice di invitare il ricorrente a integrare i documenti prodotti si riferisca solo a quant'altro, in ipotesi, appaia utile a valutare la dedotta violazione del termine di durata ragionevole. In disparte la genericità di un siffatto assunto, tale interpretazione della norma non considera che per effetto del richiamo anche al secondo comma dell'art. 640 c.p.c. l'inottemperanza all'invito del giudice importa il rigetto della domanda con decreto motivato. Conseguenza, quest'ultima, incompatibile con il testo del terzo comma del medesimo articolo, che chiaramente configura come necessari e sufficienti ai fini del procedere gli atti e i documenti di cui prescrive il deposito (diversamente non se ne comprenderebbe l'elencazione). Non senza considerare che, così intesa, la seconda parte del quarto comma dell'art. 3 esprimerebbe un potere di ricerca officiosa della prova inconciliabile con la struttura monitoria del procedimento, nel quale la domanda più che essere "decisa" è integrata dal giudice ai fini della successiva provocatio ad opponendum.

Tanto meno avrebbe rilievo, infine, considerare che, ai sensi della prima parte del quarto comma dell'art. 3 legge cit., il decreto motivato con il quale il presidente della corte d'appello, o il magistrato della stessa Corte a tal fine designato, provvede sulla domanda di equa riparazione, deve essere emesso entro trenta giorni dal deposito del ricorso. Si tratta di un termine ordinatorio perfettamente compatibile con quello di cui al primo comma dell'art. 640 c.p.c., la cui accidentale consumazione non è argomento logico per risolvere, in un senso piuttosto che in un altro, un quesito interpretativo di carattere generale.

4.2. Sotto il profilo sistematico deve rilevarsi che i requisiti di forma-contenuto che governano la validità degli atti processuali e la produzione dei relativi effetti in maniera non potenzialmente caduca, sono per definizione interni all'atto stesso, come si ricava dall'art. 156 c.p.c. Con la conseguenza che essi non possono farsi dipendere da un'attività di produzione, la quale non soggiace a requisiti formali diversi dalla certificazione del suo compimento, ai sensi dell'art. 87 disp. att. c.p.c.

Se ne trae conferma dal fatto che l'art. 125 c.p.c., non casualmente richiamato, del resto, dal primo comma dell'art. 3 l. n. 89/2001, nel disciplinare il contenuto (e la sottoscrizione) degli atti di parte non elenca tra i requisiti di validità le produzioni documentali, che per loro stessa natura riguardano la prova del diritto azionato, non la sua corretta ed efficiente postulazione mediante la domanda giudiziale.

Né, infine, varrebbe ipotizzare il deposito degli atti e dei documenti di cui al terzo comma dell'art. 3 cit. come attività perfezionativa della costituzione in giudizio del ricorrente. Funzionale a delimitare in senso soggettivo l'ambito dei partecipanti alla causa, la costituzione in giudizio, quale dichiarazione formale di presenza nel processo al fine di acquisirne oneri e poteri, non è configurabile nell'ambito di un procedimento monitorio. Essendo quest'ultimo caratterizzato da un rapporto necessariamente (e non solo eventualmente) biunivoco, è insensato pensare alla posizione del ricorrente nei termini relazionali propri della costituzione.

4.3. Va da sé, per quanto fin qui considerato, che respinta la domanda con decreto ex art. 3, sesto comma, l. n. 89/2001, per la sua insufficiente documentazione, il ricorrente può produrre gli atti e i documenti mancanti nella successiva fase d'opposizione, che per la sua natura pienamente devolutiva non subordina l'esercizio di tale facoltà ad alcuna previa concessione, ora per allora, di quel medesimo termine non concesso ai sensi del primo comma dell'art. 640 c.p.c.

5. Ai sensi dell'art. 384, primo comma, c.p.c., va dunque formulato il seguente principio di diritto: "soggiace al termine perentorio stabilito dall'art. 4 l. n. 89/2001 unicamente il deposito nella cancelleria della Corte d'appello adita di un ricorso avente i requisiti di cui all'art. 125 c.p.c., richiamato dal primo comma dell'art. 3 stessa legge. Pertanto, il deposito degli atti e dei documenti elencati nel terzo comma del medesimo articolo può sopravvenire in qualunque momento utile, prima che il presidente della Corte o il consigliere da lui designato provvedano con decreto sulla domanda, ovvero nel termine eventualmente concesso ai sensi dell'art. 640, primo comma, c.p.c., richiamato dal successivo quarto comma dello stesso art. 3".

6. L'accoglimento del primo motivo assorbe l'esame delle restanti censure e della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, terzo comma, legge Pinto, prospettata nella memoria di parte ricorrente.

6. Il decreto impugnato va dunque cassato con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Messina, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, assorbiti gli altri, cassa il decreto impugnato con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Messina, che provvederà anche sulle spese di cassazione.