Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 4 novembre 2015, n. 45338
Presidente: Gentile - Estensore: Rago
FATTO
1. Con ordinanza del 15 aprile 2015, il giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Monza rigettava la richiesta di messa alla prova presentata da R. Daniela e R. Massimiliano - imputati per il reato di truffa - sostenendo che la suddetta richiesta «non potrebbe in alcun modo assolvere alla funzione alla quale è preposto l'istituto, non essendovi alcuna evidenza concreta di una prognosi di eliminazione ovvero attenuazione delle conseguenze generate né tantomeno di alcun profilo risarcitorio della vittima; nel caso di specie con riguardo ad una contestazione di truffa con danno patrimoniale rilevante ove, per l'appunto, la pregnanza del disvalore penale si accentra sulla sfera patrimoniale della p.o.; tali argomentazioni appaiono rafforzate dal fatto che gli imputati R. D. e S. A. sono soggetti pregiudicati per reati specifici»; contestualmente, il giudice, ritenendosi incompatibile «attesa la valutazione sopra espressa non solo sull'insussistenza delle condizioni per pronunciare sentenza ex art. 129 c.p.p. ma anche sul merito dei fatti dell'intera vicenda», rinviava al 14 maggio 2015 per la celebrazione dell'udienza preliminare avanti ad altro giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Monza.
Nelle more dell'udienza di rinvio, in data 12 maggio 2015, la difesa depositava in cancelleria un atto di reiterazione dell'istanza di messa alla prova, argomentando in particolare ai sensi dell'art. 168-bis, comma 2, c.p., ove per la concessione della messa alla prova sono richiesti comportamenti indirizzati all'eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato, nonché ove possibile il risarcimento del danno: in particolare, gli istanti manifestavano la loro disponibilità ad offrire alla p.o. la somma di Euro 11.000 (Euro 5.500 per imputato) e motivavano l'avvenuta eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, consistente nell'interruzione dei contatti con il Sig. F. (ideatore della truffa) - da un lato - e con il Sig. P. (vittima) dall'altro.
All'udienza preliminare del 14 maggio 2015, il giudice dell'udienza preliminare respingeva nuovamente l'istanza di messa alla prova «giacché identica nei presupposti; nel riferimento alla condotta successiva al reato, nelle condizioni ex art. 168-bis c.p. 464, comma 4-quater, c.p.p., risulta proposta al precedente giudice dell'udienza preliminare che nel rigettarla, ha rimesso le parti allo scrivente Giudice ravvisando correttamente profili di eventuale incompatibilità e che pertanto la stessa richiesta andava semmai riformulata davanti allo stesso Giudice del rigetto e ciò in analogia con la disciplina e l'interpretazione giurisprudenziale univoca sugli altri riti alternativi previsti dal codice, non ammette la richiesta per tardività della stessa».
2. Contro le suddette ordinanze, entrambi gli imputati, a mezzo del comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione.
3. Contro l'ordinanza del 14 maggio 2015, sono state dedotte le seguenti censure:
3.1. violazione dell'art. 464-bis c.p.p. per avere il giudice erroneamente ritenuto che la richiesta fosse stata tardivamente proposta, essendo stata la medesima, al contrario, depositata in cancelleria prima dell'udienza e reiterata a voce all'udienza preliminare;
3.2. violazione dell'art. 464-quater c.p.p. per avere il giudice erroneamente ritenuto che la nuova istanza fosse uguale a quella precedente: la nuova istanza, infatti, conteneva, al contrario della prima, l'offerta del pagamento della somma di Euro 11.000,00.
4. Contro l'ordinanza del 15 aprile 2015, i ricorrenti lamentano di essere stati penalizzati dalle loro difficili condizioni economiche, sicché il giudice si era limitato alla valutazione del mero aspetto economico senza neppure valutare la «possibilità di introdurre nel programma prescrizioni comportamentali ed impegni specifici che gli imputati avrebbero al contrario di buon grado assunto per promuovere, nel massimo delle loro possibilità, anche la conciliazione con la parte offesa» alla quale non era stato chiesto neppure il proprio parere. Peraltro, il giudice non aveva considerato che l'obbligo risarcitorio è richiesto solo ove sia possibile e, quindi, dev'essere correlato alle concrete condizioni economiche dell'imputato.
DIRITTO
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
2. Il nuovo istituto della messa alla prova per gli imputati maggiorenni, è disciplinato dagli artt. 464-bis ss. c.p.p. i quali dettano la sequenza temporale e le modalità della richiesta secondo una precisa tempistica.
L'art. 464-bis/4 c.p.p. indica, in modo molto articolato, in cosa deve consistere il programma di trattamento che, allegato all'istanza personalmente sottoscritta dall'imputato o da un suo procuratore speciale, dev'essere sottoposto al giudice, per la valutazione.
In particolare, relativamente alla fase dell'udienza preliminare (come per la fattispecie in esame), a norma dell'art. 464-bis/2 c.p.p. «La richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422 [...]»: ovviamente, è appena il caso di rilevare che, l'ampio tempus deliberandi stabilito dalla legge, non autorizza a ritenere che possano essere proposte plurime istanze "fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422", in quanto, presentata l'istanza, la facoltà concessa all'imputato si esaurisce.
Una volta che l'istanza sia stata proposta, il giudice dell'udienza preliminare - dopo avere eventualmente integrato o modificato, ex art. 464-quater/4 c.p.p., con il consenso dell'imputato, il programma del trattamento - decide, o accogliendo l'istanza (nel qual caso, sospende il procedimento: art. 464-quater/3-4-5 c.p.p.), o rigettandola (nel qual caso, ovviamente, ordina procedersi nel giudizio). In tale ultimo caso, l'art. 464-quater/9 c.p.p. dispone che «in caso di reiezione dell'istanza, questa può essere riproposta nel giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento» ex art. 492 c.p.p.
Contro la suddetta ordinanza (sia essa positiva o negativa) le parti (Pubblico Ministero - parte offesa - imputato), possono ricorrere per cassazione nel termine generale di quindici giorni di cui all'art. 585/1, lett. a), c.p.p. che decorre ai sensi dell'art. 585/2 c.p.p.
All'imputato, però, è riservata, come si è detto, in caso di reiezione dell'istanza, la facoltà di riproporla nel giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 464-quater/9 c.p.p.).
Si tratta, come si può notare, di una sequenza procedurale molto rigida, scandita secondo tempi e modalità molto precisi che non ammette, quindi, procedure alternative o "miste".
3. Ora, applicando la suddetta cadenza processuale al caso in esame, deve rilevarsi che, per entrambe le ordinanze impugnate, sono maturate preclusioni processuali che rendono il ricorso inammissibile.
4. Relativamente all'ordinanza del 15 aprile 2015, va osservato che la medesima avrebbe dovuto essere impugnata entro il termine di quindici giorni decorrente dalla lettura del provvedimento in udienza, in quanto, com'è scritto nello stesso ricorso (cfr. pag. 4), la difesa ne prese contestualmente atto, provvedendo a depositare un'altra istanza in data 12 maggio 2015: ciò significa, quindi, che, da una parte, il termine per impugnare è ampiamente scaduto e, che, a tutto concedere, il comportamento tenuto dagli imputati (reiterazione dell'istanza) fu di tacita ed inequivoca acquiescenza, per facta concludentia, al provvedimento di reiezione in quanto ne presentarono un'altra: l'impugnazione contro la suddetta ordinanza, pertanto, va dichiarata inammissibile.
5. Ma anche l'impugnazione contro l'ordinanza del 14 maggio 2015 va dichiarata inammissibile in quanto l'istanza non avrebbe potuto essere riproposta davanti allo stesso giudice dell'udienza preliminare: quindi, l'inammissibilità dichiarata dal giudice va confermata sia pure sotto altro profilo.
Sul punto va, infatti, osservato, che la cadenza procedurale descritta al precedente § 2., non prevede la reiterazione dell'istanza ove questa sia stata respinta dal giudice dell'udienza preliminare in quanto l'imputato, contro la decisione negativa del suddetto giudice, può reagire in due modi: a) prestare quiescenza all'ordinanza di rigetto e reiterarla nel successivo giudizio "prima della dichiarazione di apertura del dibattimento"; b) impugnarla direttamente con ricorso per cassazione.
Quello che non è consentito è proprio la riproposizione dell'istanza davanti allo stesso giudice.
È, infatti, lo stesso art. 464-quater/4 c.p.p. che prevede, proprio al fine di evitare defatiganti impugnazioni e, quindi, di agevolare la procedura di messa alla prova, una eventuale fase in cui il giudice, prima di decidere - ad es. perché sollecitato dallo stesso imputato che, nell'istanza di messa alla prova, abbia chiesto al giudice, nell'ipotesi in cui ritenesse inaccoglibile l'istanza, di indicare le integrazioni o le modifiche ritenute opportune, al fine di valutarle - «può integrare o modificare il programma di trattamento, con il consenso dell'imputato».
Quindi, la legge ha previsto, nell'ambito dell'udienza preliminare, un ampio ventaglio di soluzioni a favore dell'imputato:
a) la modifica o l'integrazione concordata dell'istanza prima della decisione del giudice;
b) una volta che il giudice abbia deciso (negativamente):
b1) la riproposizione dell'istanza nel giudizio;
b2) il ricorso immediato per cassazione.
È del tutto evidente, pertanto, che non possono essere introdotte nuove ed anomale procedure tendenti alla riproposizione dell'istanza rigettata, perché l'istanza di messa alla prova, può essere proposta, davanti a giudice dell'udienza preliminare, una sola volta nell'ampio termine di cui all'art. 464-bis/2 c.p.p. ("fino a che non siano formulate le conclusioni") e, una volta che il giudice abbia deciso negativamente, solo nel successivo giudizio.
Quanto appena detto, si desume, d'altra parte, anche dall'art. 464-ter/4 c.p.p. che prevede e disciplina l'ipotesi in cui la richiesta di messa alla prova sia presentata durante le indagini preliminari (e, quindi, in una fase ancora antecedente all'udienza preliminare) sulla quale decide il giudice per le indagini preliminari. In tale ipotesi, è previsto che, ove l'istanza sia rigettata, l'imputato può solo «rinnovare la richiesta prima dell'apertura del dibattimento di primo grado» sulla quale decide il giudice del dibattimento ai sensi dell'art. 464-quater c.p.p.: quindi, in tale ipotesi non è prevista neppure la reiterazione dell'istanza davanti al giudice dell'udienza preliminare.
Questa è quanto la legge prevede in modo del tutto lineare e a questa procedura occorre rigidamente attenersi anche per evitare plurime reiterazioni di istanze con correlative impugnazioni delle eventuali ordinanze di rigetto (come nel caso di specie) che non farebbero altro che paralizzare il processo con il rischio di creare inestricabili problemi processuali.
In conclusione, il ricorso deve rigettarsi alla stregua del seguente principio di diritto: «nell'ipotesi in cui l'istanza di messa alla prova sia formulata nella fase dell'udienza preliminare e la medesima sia respinta dal giudice, l'imputato non può riproporre, davanti allo stesso giudice, una nuova istanza, sia pure modificata nel contenuto, in quanto a fronte del rigetto egli ha solo due possibilità: o il ricorso per cassazione o la riproposizione dell'istanza nel giudizio prima della dichiarazione di apertura del dibattimento».
Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Depositata il 13 novembre 2015.