Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 8 luglio 2015, n. 41991

Presidente: Gentile - Estensore: Verga

MOTIVI DELLA DECISIONE

Ricorre per Cassazione a mezzo del difensore, L. Antonio, avverso l'ordinanza in data 10 marzo 2015 del Tribunale del riesame di Brescia che ha respinto l'appello proposto avverso l'ordinanza del 12 febbraio 2015 del Gip del Tribunale di Brescia che aveva rigettato l'istanza volta ad ottenere l'immediata scarcerazione, a causa della perdita di efficacia della misura carceraria in corso di esecuzione, applicata con ordinanza del GIP del locale Tribunale del 10 settembre 2014 eseguita il 24 settembre 2014 ai sensi dell'art. 297, comma 3, e 303, comma 1, lett. a), n. 3 c.p.p.

Deduce il ricorrente che il Tribunale del riesame non ha posto in discussione la sussistenza del requisito della desumibilità dagli atti ed ha concordato con la difesa che non vi era la necessità della fattispecie di connessione qualificata trattandosi di procedimenti pendenti avanti la stessa autorità giudiziaria. Lamenta però che il Tribunale del riesame ha affermato che tale dato oggettivo non sarebbe sufficiente a far scattare il meccanismo della retrodatazione richiedendo anche un elemento intenzionale del P.M. cioè che la separazione dei procedimenti sia dipesa da un'opzione strategica abusiva del pubblico ministero. Secondo la difesa tale requisito è estraneo all'attuale logica dell'istituto disciplinato dall'art. 297, comma 3, c.p.p. così come elaborato dalle sentenze della Corte costituzionale e dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Rileva che nel caso di specie alla data del 5 febbraio 2014, momento di emissione della prima ordinanza il procedimento di cui alla seconda, era già nella cancelleria del Gip, avendo il pubblico ministero formulato richieste di emissione della misura il 29 gennaio 2014. Il Gip quando ha emesso l'ordinanza 5 febbraio 2014 aveva tutti gli atti per emettere la misura che fu emessa 6 mesi dopo. Viene altresì sottolineato che il GIP che ha emesso la seconda ordinanza è il coordinatore dei GIP del Tribunale di Brescia per cui sapeva di avere assegnato il procedimento a diverso collega.

Il ricorso deve essere respinto sulla scorta delle seguenti considerazioni.

Per un corretto inquadramento della questione è opportuno richiamare sinteticamente le decisioni cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità nell'interpretazione della norma dettata dall'art. 297 c.p.p., comma 3.

Con la norma in esame, disciplinante l'istituto cosiddetto della "contestazione a catena", il legislatore ha voluto codificare la regula iuris frutto dell'elaborazione giurisprudenziale formatasi sotto la vigenza del previgente codice di rito, con la quale si era stabilita una deroga al principio della decorrenza autonoma dei termini di durata massima della custodia in relazione a ciascun titolo cautelare, all'evidente fine di evitare il fenomeno della "diluizione" nel tempo della "carcerazione provvisoria", attuata mediante l'emissione, in momenti diversi, nei confronti della stessa persona di più provvedimenti coercitivi concernenti il medesimo fatto, diversamente qualificato o circostanziato, ovvero riguardanti fatti di reato diversi ma connessi tra loro.

Così, nel suo testo originario l'art. 297 c.p.p., comma 3 (che riprendeva la disposizione da ultimo appositamente introdotta nel codice abrogato dalla l. n. 398 del 1984) stabiliva che la decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare applicata con un'ordinanza si sarebbe dovuta retrodatare al momento dell'esecuzione di altra precedente ordinanza cautelare, laddove i due provvedimenti avessero riguardato lo stesso fatto ovvero più fatti in concorso formale tra loro, oppure integranti ipotesi di aberratio delicti o di aberratio ictus plurioffensiva. Nella versione novellata nel 1995, da un lato è stato ristretto l'ambito applicativo della norma, con la previsione dell'operatività del meccanismo di retrodatazione esclusivamente con riferimento ai casi di connessione qualificata ai sensi dell'art. 12 c.p.p., lett. b) (continuazione tra i reati) e c) limitatamente all'ipotesi di reati connessi per eseguire gli altri (connessione teleologica); dall'altro, introducendo una regola generale di retrodatazione "automatica" ("se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura... i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all'imputazione più grave"): automatismo, tuttavia, non applicabile laddove la seconda ordinanza cautelare veniva emessa dopo il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza ("la disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma").

La portata applicativa della disposizione in esame è stata, infine, ampliata per effetto della sentenza additiva n. 408 del 2005, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità dell'art. 297 c.p.p., comma 3, nella parte in cui "non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento dell'emissione della precedente ordinanza"; ed ulteriormente precisata dalla sentenza n. 233 del 2011, con la quale la Consulta - "reagendo" ad un contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità, che aveva finito per diventare "diritto vivente" - ha dichiarato la illegittimità dello stesso art. 297 comma [3] nella parte in cui, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi, non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l'imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all'adozione della seconda misura.

Nella cornice normativa così tratteggiata, seguendo il percorso argomentativo fissato dalle Sezioni Unite con due decisioni rispettivamente del 2005 e del 2006 (Sez. un., n. 14535/07 del 19 dicembre 2006, Librato, Rv. 235909-10-11; Sez. un., n. 21957 del 22 marzo 2005, P.M. in proc. Rahulia ed altri, Rv. 231057-8-9), con riguardo alla contestazione di reati diversi, variamente collegabili tra loro, è possibile - in linea schematica - riconoscere tre distinte situazioni, alle quali corrispondono altrettante, distinte regole operative. In tutti e tre i casi è, comunque, necessario, perché si possa parlare di "contestazione a catena" e perché possa eventualmente trovare applicazione la disciplina della retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare, che i delitti oggetto della ordinanza cautelare cronologicamente posteriore siano stati commessi in data anteriore a quella di emissione della ordinanza cautelare cronologicamente anteriore (in questo senso, ex plurimis, Sez. 6, n. 31441 del 2012, Rv. 253237; Sez. 6, n. 15821 del 2014, Rv. 259771). Il presupposto della anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all'emissione della prima non ricorre allorché il provvedimento successivo riguarda un reato di associazione e la condotta di partecipazione si sia protratta dopo l'emissione della prima ordinanza.

La prima situazione è quella in cui le due (o più) ordinanze applicative di misure cautelari personali abbiano ad oggetto fatti-reato legati tra loro da concorso formale, continuazione o da connessione teleologica (casi di connessione qualificata), e per le imputazioni oggetto del primo provvedimento coercitivo non sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio. In queste circostanze trova applicazione la disposizione dettata dal primo periodo dell'art. 297 c.p.p., comma 3, che non lascia alcun dubbio sul fatto che la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura o delle misure applicate successivamente alla prima operi automaticamente e, dunque - impiegando le parole delle Sezioni unite di questa Corte - "indipendentemente dalla possibilità, al momento della emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l'esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l'esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure". Automatica retrodatazione della decorrenza dei termini che risponde all'esigenza "di mantenere la durata della custodia cautelare nei limiti stabili dalla legge, anche quando nel corso delle indagini emergono fatti diversi legati da connessione qualificata" (così Corte cost., 28 marzo 1996, n. 89), e che si determina solo se le ordinanze siano state emesse nello stesso procedimento penale (così Sez. un., n. 14535/07 del 19 dicembre 2006, Librato, cit.).

La seconda situazione rappresenta una variante della prima, presupponendo comunque l'accertata esistenza, tra i fatti oggetto delle plurime ordinanze cautelari, di una delle tre forme di connessione qualificata sopra indicate, ma è caratterizzata dall'intervenuta emissione del decreto di rinvio a giudizio per i fatti oggetto del primo provvedimento coercitivo. Tale ipotesi presuppone, ovviamente, che le due o più ordinanze siano state emesse in distinti procedimenti, ma (come hanno chiarito le Sezioni unite nelle più volte richiamate sentenze) è irrilevante che gli stessi siano "gemmazione" di un unico procedimento, vale a dire siano la conseguenza di una separazione delle indagini per taluni fatti, oppure che i due procedimenti abbiano avuto autonome origini. In siffatta diversa situazione si applica la regola dettata dal secondo periodo dell'art. 297 c.p.p., comma 3, sicché la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza (Cass. n. 42442 del 2013, Rv. 257380; n. 50128 del 2013, Rv. 258500; n. 17918 del 2014, Rv. 259713).

Infine, la terza situazione è quella in cui tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari non esista alcuna connessione ovvero sia configurabile una forma di connessione non qualificata, cioè diversa da quelle sopra considerate del concorso formale, della continuazione o del nesso teleologico (per quest'ultimo, nei limiti fissati dal codice). Questa ipotesi, che in passato si riteneva pacificamente non riguardare l'art. 297 c.p.p., comma 3, oggi rientra nel campo applicativo di tale disposizione codicistica per effetto della menzionata sentenza "manipolativa" della Consulta n. 408 del 2005. Ne consegue che la retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della misura cautelare è dovuta "in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l'autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l'adozione delle singole ordinanze".

Il giudice deve, perciò, verificare se al momento dell'emissione della prima ordinanza cautelare non fossero desumibili, dagli atti a disposizione, gli elementi per emettere la successiva ordinanza cautelare, da intendersi - come sottolineato dai Giudici delle leggi - come "elementi idonei e sufficienti per adottare" il provvedimento cronologicamente posteriore. Tale regola vale solo se le due ordinanze siano state emesse in uno stesso procedimento penale, perché se i provvedimenti cautelari sono stati adottati in procedimenti formalmente differenti, per la retrodatazione occorre verificare, oltre che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli elementi idonei a giustificare l'applicazione della misura disposta con la seconda ordinanza, che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del pubblico ministero (così Sez. un., n. 14535/07 del 19 dicembre 2006, Librato, cit.; conf., in seguito, su tale specifico aspetto, Sez. 2, n. 44381 del 25 novembre 2010, Noci, Rv. 248895; Sez. 1, n. 22681 del 27 maggio 2008, Caniello, Rv. 240099; Sez. 6, n. 12610 del 10 dicembre 2012, Rv. 256167).

Il caso in esame rientra nella terza situazione.

Ciò detto deve rilevarsi che è pacifico, perché non disconosciuto dal ricorrente, che la prima ordinanza cautelare del 3 febbraio 2014 è stata emessa sulla base di una richiesta cautelare del 13 maggio 2013, mentre la seconda ordinanza del 10 settembre 2014 è stata emessa a seguito di richiesta del 29 gennaio 2014. La richiesta coercitiva del 13 maggio 2013 è stata presentata in considerazione di una notizia di reato iscritta nell'anno 2011 (procedimento n. 23526/11 RGNR) e ai successivi sviluppi compendiati nell'annotazione riepilogativa della D.I.A. Squadra Mobile di Brescia il 19 gennaio 2012. La seconda richiesta del 29 gennaio 2014 è stata invece formulata in seguito all'iscrizione di una notizia di reato dell'anno 2013 (procedimento n. 10708/13 RGNR) in relazione ad un'informativa conclusiva proveniente dal GICO della Guardia di Finanza del 23 dicembre 2013.

Le due ordinanze sono state quindi emesse in procedimenti penali formalmente differenti, pendenti avanti la stessa autorità giudiziaria, per fatti-reato non legati da connessione qualificata, originati da distinte ed autonome notizie di reato, la cui separazione non è stata frutto di una scelta del P.M.

Come già indicato la giurisprudenza è concorde nell'affermare che non è applicabile la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare (art. 297, comma terzo, c.p.p.) nel caso di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari disposte in procedimenti diversi, pendenti dinanzi alla stessa Autorità Giudiziaria, per fatti diversi tra i quali non vi è connessione qualificata ex art. 12, comma primo, lett. b) e c), c.p.p., là dove si tratti di procedimenti originati da distinte ed autonome notizie di reato, la cui separazione non è stata frutto di una scelta strategica del P.M.

Correttamente pertanto il Tribunale del riesame ha ritenuto inapplicabile l'invocato meccanismo processuale ex art. 297, comma 3, c.p.p.

Il ricorso deve essere respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94 disp. att. c.p.p.

Depositata il 20 ottobre 2015.