Corte di cassazione
Sezione VI civile
Ordinanza 17 settembre 2015, n. 18254

Presidente: Ragonesi - Estensore: Acierno

Rilevato che è stata depositata la seguente relazione nel procedimento civile iscritto al R.G. 6410 del 2014:

"La ricorrente, cittadina di nazionalità albanese, ha presentato opposizione davanti al Giudice di Pace di Teramo ai sensi dell'art. 13 d.lgs. 286/1998 avverso il provvedimento di rigetto dell'istanza di revoca, in via di autotutela, del decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Teramo, nei suoi confronti, il 28 marzo 2008.

Il GdP ha rigettato il suddetto ricorso evidenziando, in primo luogo, la mancanza di un obbligo in capo alla Pubblica Amministrazione di avviare un procedimento in base ad un'istanza di revoca e di adottare il relativo provvedimento, poiché "alla base dello stesso deve esserci un interesse pubblico, concreto ed attuale che giustifichi l'eliminatone dell'atto da revocare". In secondo luogo, ha sottolineato che "gli effetti dell'espulsione possono venir meno solo in presenza della speciale autorizzazione di rientro in Italia da parte del Ministero dell'Interno, su istanza dell'interessata" e che "nessun giudizio di sindacabilità può essere operato da parte dello scrivente nei confronti del decreto di espulsione, oggetto di autonomo giudizio e, comunque già passato in giudicato".

Avverso l'ordinanza del Giudice di Pace ha proposto ricorso per cassazione G.L. affidandosi ad un unico, articolato, motivo:

- Violazione ed erronea interpretazione di legge - Omessa valutazione della condizione legittimante l'eliminazione del provvedimento:

(a) la ricorrente sostiene che il Giudice di Pace abbia travalicato e travisato i termini dell'opposizione, atteso che la Prefettura non si è astenuta dalla decisione ma l'ha respinta poiché non sono stati evidenziati nuovi elementi atti a giustificare la rimozione del decreto di espulsione. La G. ha, inoltre, rilevato che sia il provvedimento amministrativo di rigetto di revoca che quello del gdp hanno omesso di valutare la riduzione del divieto da dieci a cinque anni ex Dir. n. 118/2005/CE recepita con il d.l. n. 89 del 2011 conv. nella l. 129 del 2011 oltre alle nuove esigenze personali dalla medesima rappresentate.

Ritiene, infine, la ricorrente che il Giudice di Pace abbia errato nel ritenere necessaria l'autorizzazione al rientro in Italia da parte del Ministero dell'Interno nonostante il periodo di vigenza del divieto di reingresso fosse, alla luce dello jus superveniens, trascorso.

Deve osservarsi che le doglianze di parte ricorrente censurano il provvedimento del Giudice di Pace nella parte in cui ha ritenuto necessario ai fini della revoca del precedente decreto di espulsione la speciale autorizzazione ministeriale prevista dall'art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286 del 1998.

Più in particolare, sostiene la difesa della ricorrente che, una volta trascorso il periodo quinquennale - previsto dalla legge quale limite massimo del divieto di reingresso a seguito di espulsione - lo straniero possa fare rientro nel territorio senza dover adempiere specifiche formalità.

Con sentenza n. 22429 del 2009, la Corte di cassazione aveva ritenuto: "lo straniero destinatario di un decreto prefettizio di espulsione, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, non può fare rientro nel territorio italiano, trascorsi i cinque anni previsti dalla legge ed espressamente menzionati nel decreto, senza autorizzazione del Ministero dell'Interno, esponendosi, in caso di trasgressione di tale divieto, a responsabilità penale e ad un nuovo provvedimento di espulsione. Il decorso del quinquennio rileva al solo fine della legittimazione alla richiesta di reingresso in Italia, che deve comunque essere presentata al Ministero dell'Interno".

Tale orientamento merita di essere riconsiderato dal momento che si fonda sul quadro normativo vigente prima dell'entrata in vigore del citato d.l. n. 89 del 2011 conv. nella l. n. 129 del 2011 di recepimento della Dir. 115/2008/CE. In tale contesto legislativo il divieto di reingresso era decennale salvo la riduzione ad un numero di anni non inferiore a cinque.

Nella formulazione attuale l'art. 13, comma 14, prevede che il divieto di reingresso non possa essere superiore a cinque anni e non inferiore a tre. Nel caso di specie non sembra opinabile che il termine quinquennale sia decorso (il decreto di espulsione è datato incontestatamente 28 marzo 2008) come riferito dal ricorrente.

Oggetto di specifica censura è la necessità di richiedere l'autorizzazione prevista dall'art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998, anche laddove sia decorso il periodo di interdizione quinquennale dal territorio italiano. La disposizione recita testualmente: "lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione non può rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell'Interno. In caso di trasgressione lo straniero è punito con la reclusione da uno a quattro anni ed è nuovamente espulso con accompagnamento immediato alla frontiera...". Il successivo comma 14 stabilisce, per quel che qui interessa, che "il divieto di cui al comma 13 opera per un periodo non inferiore a tre anni e non superiore a cinque anni, la cui durata è determinata tenendo conto di tutte le circostante pertinenti il singolo caso...".

L'interpretazione letterale dei commi appena richiamati porta a ritenere che il legislatore abbia voluto riferire la necessità di ottenere un'autorizzazione da parte del Ministero dell'Interno a tutte quelle ipotesi in cui lo straniero voglia, per particolari ragioni - delle quali dovrà, ovviamente, rendere conto - fare rientro nel territorio italiano prima che il relativo divieto sia scaduto.

Oltre al comma 14 che limita esplicitamente la durata massima del divieto di reingresso ad un periodo che non ecceda i cinque anni, il comma 13 definisce l'autorizzazione in parola in termini di "specialità"; specialità da ricondursi, appunto, ad una situazione particolare che permetta allo straniero espulso un rientro anticipato e, dunque, in deroga al periodo di interdizione previsto dalla legge.

Peraltro, la prima sezione penale della Corte di cassazione ha di recente escluso la configurabilità del delitto d'illecito reingresso nel territorio dello Stato nei confronti di un cittadino straniero precedentemente espulso e rientrato in Italia decorsi sette anni, proprio in considerazione dei nuovi limiti di durata prevista dalla c.d. direttiva rimpatri (Sez. I pen., n. 12220 del 2012). (Lo straniero in questione non aveva inoltrato alcuna richiesta al Ministero dell'Interno). Ne consegue l'impossibilità di ritenere illegittimo il rientro di un cittadino straniero colpito da un decreto di espulsione ove questo avvenga una volta trascorso il periodo di divieto di ingresso, poiché integra l'illecito di cui all'art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998 - con le citate conseguenze in punto di nuova espulsione e perseguibilità penale - la sola ipotesi di ingresso anticipato nel territorio dello Stato senza che via sia stato il rilascio dell'apposita autorizzazione ministeriale.

Ove si consideri la natura della speciale autorizzazione del Ministro dell'Interno, atto che sottende uno specifico esame del caso concreto al fine di valutare la sussistenza delle condizioni per derogare alla durata legale del divieto, appare ancor più irragionevole ritenere che questa sia necessaria quando il termine è scaduto.

Peraltro l'art. 11 della Direttiva soprarichiamata, relativo al divieto di reingresso si fonda sui seguenti capisaldi:

a) La previsione di un termine legale massimo di cinque anni;

b) La possibilità di prevederne il superamento in caso di minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale;

c) La possibilità di sospendere o revocare il divieto in casi particolari (art. 11 § 3).

Ne consegue che la speciale autorizzazione prevista dall'art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286 del 1998 riguardi soltanto le ipotesi di riduzione del termine di operatività del divieto di reingresso indicato nel provvedimento di espulsione, mentre deve ritenersi che una volta decorso tale termine, il divieto non sia più vigente ipso iure e non richieda alcuna ratifica o valutazione delle autorità pubbliche competenti.

La nuova disciplina del divieto di reingresso opera pertanto anche in ordine ai provvedimenti emanati anteriormente alla sua entrata in vigore per i quali sia previsto un termine superiore a quello massimo stabilito dalla nuova legge ma conforme a quello ratione temporis applicabile, se la scadenza non sia ancora maturata una volta entrato in vigore il nuovo regime giuridico più favorevole al cittadino straniero colpito dal provvedimento di espulsione. Tale è la situazione verificatasi nel caso di specie. Il termine decennale previsto nel provvedimento del 2008 non è decorso quando è entrata in vigore la nuova disciplina normativa.

Ne consegue che al provvedimento espulsivo, ancora pienamente efficace sia alla data di scadenza dell'obbligo di recepimento della Direttiva (24 dicembre 2010) che a quella di entrata in vigore del d.l. n. 89 del 2011 (23 giugno 2011) è applicabile il nuovo termine quinquennale, il quale sostituisce automaticamente quello precedente.

Ne consegue che correttamente la parte ricorrente ha richiesto la revoca del provvedimento espulsivo non più efficace ex lege a partire dal 28 marzo 2013.

In conclusione affermare da un lato l'impossibilità di prevedere un divieto di ingresso nel territorio superiore a cinque anni e dall'altro che gli effetti di questo possano permanere all'infinito ove il Ministero dell'Interno lo ritenga opportuno è assunto affetto da un'insanabile contraddizione, dal quale deriverebbe un'eccessiva limitazione della libertà di circolazione degli stranieri coinvolti.

Ove si condividano le suesposte considerazioni il ricorso deve essere accolto".

Il Collegio condivide la relazione osservando che non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto deve essere annullato il provvedimento di diniego della richiesta di revoca del provvedimento espulsivo a carico della cittadina straniera emesso dal Prefetto di Teramo il 28 marzo 2008 in quanto divenuto illegittimo ed inefficace. La sostanziale novità delle questioni trattate induce alla compensazione delle spese processuali dell'intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Annulla il provvedimento impugnato e compensa le spese processuali dell'intero giudizio.