Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Sentenza 26 febbraio 2015, n. 22471

Presidente: Santacroce - Estensore: Fumo

RITENUTO IN FATTO

1. El Mostafa Sebbar fu giudicato con rito abbreviato dal giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Piacenza, il quale, con sentenza del giorno 11 luglio 2012, lo dichiarò colpevole dei reati di cui ai capi da 3 a 7, da 32 a 35, da 39 a 45, tutti riferibili alla ipotesi delittuosa ex art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

Le imputazioni, nel dettaglio, sono le seguenti:

- capo 3: detenzione e cessione di 50 gr. di cocaina e offerta di 10 gr. della medesima sostanza;

- capo 4: detenzione e cessione di un chilo di hashish e di 100 gr. di cocaina;

- capo 5: cessione di imprecisato quantitativo delle predette sostanze stupefacenti;

- capo 6: cessione, in due distinte circostanze, di 2 e di 5 gr. di cocaina;

- capo 7: cessione di due dosi di cocaina;

- capo 32: cessione di 100 gr. di hashish;

- capo 33: cessione di un quantitativo non identificato di hashish;

- capo 34: cessione di grammi 469,133 di hashish;

- capo 35: detenzione a fine di spaccio di 500 gr. di hashish;

- capo 39: cessione di quantitativi non accertati, in più riprese, di cocaina;

- capo 40: cessione di quantitativo non accertato di hashish;

- capo 41 cessione di quantitativo non accertato di cocaina;

- capo 42: cessione di cocaina e hashish in quantità non individuata;

- capo 43: cessione delle medesime sostanze (quantitativi non accertati);

- capo 44: detenzione e cessione di 100 gr. di hashish e di 5 gr. di cocaina;

- capo 45: acquisto di 50 gr. di cocaina.

I fatti sono contestati come consumati - in alcune occasioni, individualmente, in altre, in concorso con una o più persone - nei mesi di febbraio 2010 e da ottobre 2010 a marzo 2011, tra Piacenza e provincia, Lodi, Milano, Pieve Porto Moroni, Castel S. Giovanni.

2. Il Giudice di primo grado, riconosciute le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla contestata recidiva, riuniti tutti i delitti ascritti al Sebbar sotto il vincolo della continuazione, applicata la diminuente del rito, lo condannò alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione ed euro 24.000 di multa, oltre alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.

Reato più grave fu considerato quello di cui al capo 4, detenzione e cessione di un chilo di hashish e di 100 gr. di cocaina, per il quale la pena-base fu fissata in anni sei di reclusione ed euro 27.000 di multa, pena qualificata come minimo edittale; per ogni altro reato fu operato un aumento di mesi uno e giorni quindici di reclusione ed euro 500 di multa, pervenendosi così alla pena di anni sette e mesi sei di reclusione ed euro 33.000 di multa, che, in virtù della diminuente del rito, fu portata, appunto, alla pena finale sopraindicata.

3. La Corte di appello di Bologna, con sentenza del 24 maggio 2013, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha assolto Sebbar dai reati di cui ai capi 33 e 41 perché il fatto non sussiste, ha riqualificato il fatto di cui al capo 40 come "offerta in vendita", ha dichiarato assorbito il fatto di cui al capo 42 nel reato di cui al capo 44, e, ribadendo la sussistenza del vincolo della continuazione per tutti i reati, mantenendo ferma la pena-base per il delitto di cui al capo 4 e ribadendo l'aumento per la continuazione come sopra specificato, ha rideterminato la pena in anni cinque di reclusione ed euro 22.000 di multa.

4. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, sviluppando cinque motivi.

4.1. Con il primo, denuncia vizio di motivazione con riferimento alla responsabilità di Sebbar in relazione ai capi 3, 4, 5, 7, atteso che arbitrariamente la Corte di merito, con specifico riferimento al più grave delitto di cui al capo 4, ha escluso che le affermazioni fatte dall'imputato nel corso di una conversazione intercettata fossero state rese in un contesto scherzoso e goliardico. Né può ritenersi, come fanno i giudici di merito, che il Sebbar abbia ammesso, sul punto, le sue responsabilità, atteso che egli si è limitato a chiarire che, in talune occasioni, ha semplicemente svolto il ruolo di intermediario tra venditore e acquirente. Parimenti in maniera distorta sono state interpretate le altre conversazioni, dalle quali - all'evidenza - emerge il fatto che l'imputato voleva semplicemente apparire al suo interlocutore come un soggetto oltremodo scaltro, in grado di ingannare un trafficante di droga (l'originario coimputato Tafsi Rachid) e, al contempo, di essere in ottimi rapporti con lo stesso. Le residue condotte - sempre desunte dal tenore delle conversazioni captate - non sono collocabili nel tempo, ovvero integrano gli estremi di meri atti preparatori, atteso che gli interlocutori non parlavano di cessioni già avvenute, ma semplicemente di richieste ricevute da potenziali acquirenti.

4.2. Con il secondo (e subordinato) motivo, deduce violazione di legge e mancanza di motivazione con riferimento ai medesimi reati e a quello di cui al capo 6, erroneamente considerati in maniera separata dai giudici di merito, trattandosi, viceversa di un unico fatto criminoso, articolato in più condotte, tutte ricomprese in quella di detenzione.

4.3. Con il terzo motivo, deduce ancora violazione di legge e carenza dell'apparato motivazionale in relazione alla riqualificazione operata con riferimento al reato di cui al capo 40, per il quale, viceversa, sarebbe dovuta intervenire assoluzione. La Corte territoriale, invece, come premesso, ha riqualificato la fattispecie in quella di offerta in vendita, non seguita da dazione, definendo l'offerta come "credibile". Ciò tuttavia non è sufficiente, in quanto, per integrare la condotta in questione, l'offerta non deve essere semplicemente credibile, ma effettiva.

4.4. Con il quarto motivo, denuncia i medesimi vizi sopra enunciati a proposito della offerta in vendita, ma con riferimento al reato di cui al capo 43, del quale l'imputato non può considerarsi responsabile, perché l'offerta non è apparsa collegata alla effettiva disponibilità della sostanza stupefacente.

4.5. Con l'ultimo motivo, deduce ancora violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla determinazione della pena, in quanto non è stata riconosciuta l'ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, del t.u. 309/1990, nonché con riferimento alla recidiva a lui addebitata.

5. Il ricorso è stato assegnato alla Terza Sezione penale, la quale, con ordinanza del 2 dicembre 2014, depositata il 22 dello stesso mese, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, ritenendo che il quinto motivo imponesse la valutazione d'ufficio della legalità della pena stabilita per il delitto continuato, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, la quale, dichiarando incostituzionale l'equiparazione quoad poenam tra droghe cosiddette leggere e droghe cosiddette pesanti, equiparazione introdotta dal d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 febbraio 2006, n. 49 (convenzionalmente denominata Fini-Giovanardi), ha determinato la reviviscenza della normativa nel suo assetto precedente, quale scaturente dall'originaria formulazione (cosiddetta legge Jervolino-Vassalli).

5.1. Ha affermato la Terza Sezione che, in caso di sopravvenuta nullità della sentenza, nullità conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma a suo tempo applicata e del relativo trattamento sanzionatorio, la Corte di cassazione deve - di ufficio - farsi carico della relativa questione, così come più volte affermato proprio con riguardo alla ricordata sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale; e ciò anche in presenza di ricorso inammissibile per manifesta infondatezza. Per la verità, la predetta Sezione ricorda anche orientamenti contrari, in base ai quali, viceversa, il giudice di legittimità, in tanto può rilevare la illegalità della pena conseguente a sentenza dichiarativa di incostituzionalità, in quanto il ricorrente abbia, sia pure indirettamente, sollecitato la Corte di cassazione a un controllo di congruità della motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio (Sez. 4, n. 24606 del 12 marzo 2014, Rispoli, Rv. 259365; Sez. 6, n. 15157 del 2 aprile 2014, La Rosa, Rv. 259254), ma aggiunge - comunque - che, nel caso in esame, il ricorso proposto nell'interesse del Sebbar non può ritenersi inammissibile, avendo lo stesso posto in discussione l'apparato motivazionale anche in tema di determinazione del trattamento sanzionatorio.

Si evidenzia poi che, nel caso in esame, alcuni capi di imputazione contestano, alla luce della legge "Fini-Giovanardi", come unitarie condotte delittuose aventi ad oggetto sostanze stupefacenti di diversa natura ("leggere" e "pesanti"), condotte che, alla luce della ricordata sentenza del Giudice delle leggi, non possono più, viceversa, essere considerate come unitarie. Peraltro, proprio il reato di cui al capo 4, vale a dire quello più grave, sul quale, conseguentemente, è stata determinata la pena-base, è relativo, come si è premesso, alla detenzione, in un unico contesto, di cocaina ed hashish; di talché, scindendo le due condotte, si giungerebbe alla paradossale conclusione, in base alla quale dovrebbe essere affermata la responsabilità dell'imputato, non per uno, ma per due distinti reati, con conseguente violazione del principio del divieto della reformatio in pejus.

5.2. Orbene, proprio la reviviscenza della originaria impostazione normativa del t.u. n. 309 del 1990, con la rilevante differenza in termini di trattamento sanzionatorio tra le condotte aventi ad oggetto le sostanze stupefacenti di cui alle tabelle I e III (droghe pesanti), da un lato, e II e IV (droghe leggere), dall'altro, ha posto - rileva la Terza Sezione - problemi di interpretazione, risolti in maniera diversa e contrastante dalla giurisprudenza di legittimità, anche con riferimento all'ipotesi di reato continuato, e precisamente in quei casi nei quali i reati-satellite sono costituiti da condotte criminose aventi ad oggetto sostanze stupefacenti riferibili alle predette tabelle II e IV, atteso che l'aumento di pena effettuato in applicazione dell'art. 81, secondo comma, c.p. è stato operato sotto la (ritenuta) vigenza della legge Fini-Giovanardi e, dunque, presumibilmente, ponendo quale parametro di riferimento una pena che prevedeva un minimo edittale di sei anni di reclusione e un massimo di venti e la multa da 26.000 a 260.000 euro (invece di un minimo di due e un massimo di sei anni e la multa da 5.164 a 77.468 euro).

Peraltro, nel caso in esame, gli aumenti di pena per i reati-satellite, come premesso, sono stati individuati per ciascun reato nella misura "fissa" e omologante (si trattasse di cocaina o di hashish) di un mese e 15 giorni di reclusione e 500 euro di multa.

5.3. Al proposito, la sezione rimettente, evidenziando un flagrante conflitto giurisprudenziale ed elencando le sentenze che si sono pronunciate in un senso o nell'altro, riassume come segue le relative posizioni.

5.3.1. Per un primo indirizzo, una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio in astratto previsto per i reati-satellite non ha più rilievo, atteso che il giudice deve semplicemente aumentare la pena prevista per il reato più grave, facendo confluire in un'unica sanzione tanto la pena-base, quanto gli incrementi dovuti ai reati concorrenti (avendo come limite, nel massimo, semplicemente il triplo della pena-base, purché ovviamente non superiore al cumulo materiale), con la mitigazione di cui all'art. 78 c.p. Ciò anche in base alle pronunce delle Sezioni Unite e in particolare alla risalente sentenza n. 4901 del 1992, ric. Cardarilli ed a quelle successive, in base alle quali, una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati-satellite non esplica più efficacia, in quanto, una volta individuata la sanzione più grave, essi contribuiscono a comporre una sostanziale unità sanzionatoria, disciplinata diversamente in base a regole esplicitamente dettate dal legislatore.

5.3.2. A tale filone giurisprudenziale si contrappongono, rileva sempre la Terza Sezione, altri arresti della Corte di cassazione, per i quali non può essere trascurata la minore o maggiore gravità dei reati-satellite, come desumibile dal trattamento sanzionatorio in astratto previsto per gli stessi; non è infatti indifferente, nella determinazione in concreto degli aumenti di pena da apportare, la gravità del reato posto in continuazione con quello individuato per la determinazione della pena-base, gravità che non può essere apprezzata, appunto, se non in relazione al trattamento sanzionatorio, come determinato dal legislatore, con la conseguenza che, se il più grave trattamento sanzionatorio previsto per il reato-satellite è stato ritenuto incostituzionale, con conseguente reviviscenza di quello precedentemente vigente, ciò ben può influire sulla valutazione della gravità del reato da porre in continuazione e, quindi, sull'aumento di pena da effettuare in applicazione dell'art. 81, secondo comma, c.p. A ciò deve conseguire la necessità di annullare la sentenza connotata da tale pena illegale, con rinvio al giudice di merito (il quale, peraltro, ben potrebbe, a seguito di nuova valutazione, ritenere comunque congrua la pena originariamente stabilita). Ciò in quanto i restaurati (e più favorevoli) limiti edittali impongono necessariamente nuova valutazione con riferimento alla pena da applicare; con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, s'impone, appunto, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

5.3.3. La Sezione rimettente ricorda anche una pronuncia, per così dire "intermedia" tra le due contrapposte posizioni (Sez. 4, n. 44791 dell'11 luglio 2014, Colombo, Rv. 260639), per la quale non sempre è illegale, pur dopo la dichiarata incostituzionalità di cui alla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, la pena per il reato continuato, determinata a seguito degli incrementi conseguenti all'affermazione di responsabilità relativa ai reati satellite aventi ad oggetto condotte afferenti a sostanze stupefacenti cosiddette "leggere", atteso che, dal complesso della motivazione, potrebbe essere possibile dedurre la non utilità dell'annullamento, ben potendo darsi il caso che non ne derivi alcun effetto favorevole all'imputato, essendo stato effettuato l'incremento di pena in misura comunque modesta.

6. Il Primo Presidente, con decreto del 23 dicembre 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando, per la trattazione la odierna udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione per la quale il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite può essere così riassunta: «Se l'aumento di pena irrogato a titolo di continuazione per i delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle "droghe leggere", quando gli stessi costituiscono reati-satellite, debba essere oggetto di specifica rivalutazione, alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per tali violazioni, in conseguenza della reviviscenza della precedente disciplina, determinatasi per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014».

Si tratta dunque di questione attinente alla legalità della pena, da valutarsi all'esito (e per gli effetti) della sentenza sopra ricordatala. È appena il caso di sottolineare che la problematica sorge esclusivamente per le cosiddette "droghe leggere", atteso che solo per esse la reviviscenza dell'art. 73 d.P.R. 309/1990, nella originaria versione (Jervolino-Vassalli), ha determinato la reintroduzione di un regime sanzionatorio di maggior favore per il reo.

Il quesito attiene pertanto, con tutta evidenza, al trattamento sanzionatorio; esso dunque può (deve) essere affrontato necessariamente per ultimo, essendo evidente che la decisione sul quantum (ed eventualmente sul quomodo) di pena va assunta unicamente dopo che siano state affrontate le censure relative alla colpevolezza dell'imputato. Né appare opportuno (e meno che mai necessario), nel giudizio di legittimità, sovvertire tale (logico) ordine di trattazione delle questioni.

Per la verità, nel ricorso, si contesta la affermazione di responsabilità, come premesso, esclusivamente con riferimento ai fatti di cui ai capi 40 e 43 (terzo e quarto motivo), nonché per i fatti di cui ai capi 3, 4, 5, 7 (primo motivo); quantomeno, in via subordinata, si auspica poi la qualificazione delle relative condotte come vari momenti di un'unica, più vasta e articolata, condotta criminosa, da valutarsi unitamente al fatto di cui al capo 6 (seconda censura).

Ne consegue che per i residui capi di imputazione (32, 33, 34, 35, 39, 41, 42, 44), nonché per il capo 6 - eventualmente "arricchito" dalle condotte di cui ai capi 3, 4, 5, 7 - il ricorrente non disconosce la sua responsabilità (e dunque la correttezza della sentenza di appello in ordine all'affermazione dell'an), ma lamenta - unicamente - (ultimo motivo) il mancato riconoscimento della ipotesi di cui al comma 5 dell'art. 73 t.u. stupefacenti, nonché l'applicazione della recidiva (ritenuta dai giudici del merito nella forma specifica, reiterata, infraquinquennale).

Nondimeno, l'indicazione metodologica sopra enucleata (e il conseguente ordine di priorità nella trattazione delle questioni) resta valido, in quanto, deve essere, innanzitutto, verificata l'ammissibilità del ricorso (ed eventualmente la fondatezza di taluna delle censure, diverse da quella sul trattamento sanzionatorio).

Come si anticipava, la Sezione rimettente ha - ovviamente in via puramente delibatoria - giudicato il ricorso non inammissibile e, conseguentemente, ha ritenuto, che, nel caso di specie, non dovesse essere affrontata la questione della rilevabilità della legalità della pena in presenza di ricorso inammissibile.

2. La valutazione può certamente essere condivisa, essendo infondati, come si vedrà, ma non inammissibili, i motivi terzo e quarto ed essendo parzialmente fondato, nei termini che si andranno di seguito ad illustrate, il quinto motivo, attinente, appunto, al tratta mento sanzionatorio.

2.1. I motivi primo e secondo, viceversa sono inammissibili.

Invero la Corte di merito ha adeguatamente chiarito in base a quali considerazioni ha ritenuto che le affermazioni "estratte" dal contesto delle conversazioni intercettate non possano ritenersi espressione di millanteria e, meno che mai, semplici frasi pronunziate ioci causa.

In merito, la sentenza di appello (p. 9) ricorda la confessione resa, sul punto, dall'imputato.

Al proposito, poi, è appena il caso di rilevare che il ricorrente si limita a riproporre censure già prospettate con l'atto di appello e motivatamente respinte dal giudice di secondo grado.

Peraltro, va poi ribadito che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha chiarito, da oltre un decennio (cfr. Sez. 5, n. 13614 del 19 gennaio 2001, Primerano, Rv. 218392 e, da ultimo, Sez. 2, n. 4976 del 12 gennaio 2012, Soriano, Rv. 251812), che le dichiarazioni captate nel corso di attività di intercettazione (regolarmente autorizzata, ovviamente), con le quali un soggetto accusa se stesso e/o altri della commissione di reati hanno integrale valenza probatoria e non necessitano quindi di ulteriori elementi di corroborazione ai sensi dell'art. 192, comma 3, c.p.p.

Parimenti va richiamata quella giurisprudenza (tra le tante, Sez. 6, n. 17619, dell'8 gennaio 2008, Gionta, Rv. 239724) per la quale, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all'apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate.

2.2. Quanto alle condotte dei capi 3, 4, 5, 6, 7, esse, in base alla formulazione letterale e con riferimento a quanto si legge in sentenza, risultano effettivamente tutte aventi ad oggetto sostanza stupefacente (cocaina, ovvero, congiuntamente, cocaina e hashish), tutte tenute approssimativamente nel medesimo arco temporale (per altro indicato come "data anteriore e prossima" al 15 ottobre 2010, ovvero al 18 ottobre dello stesso anno), ma non nello stesso luogo (Castel S. Giovanni, Piacenza, provincia di Piacenza), non in concorso con le medesime persone, non nei confronti dei medesimi cessionari.

Per qual motivo dunque esse debbano essere considerate come un unico reato, piuttosto che (come è stato ritenuto dai giudici del merito) come più reati, unificati dal vincolo della continuazione, il ricorso (p. 15 ss.) non chiarisce, incorrendo quindi, sul punto, nel vizio di genericità, atteso che il difensore si è limitato a definire dette condotte "comportamenti illeciti minori", la cui "compiuta realizzazione" dovrebbe determinare "l'assorbimento in un unico reato".

2.3. Quanto alla riqualificazione delle condotte di cui ai capi 40 e 43, la Corte di merito ha ritenuto che, tra le condotte alternative previste dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 quella della offerta o messa in vendita si perfeziona al momento della manifestazione del soggetto agente di procurare ad altri la sostanza, sempre che ne abbia la disponibilità, anche se non immediatamente (Sez. 6, n. 36818 del 22 maggio 2012, Amato, Rv. 253348; Sez. 1, n. 29670 del 25 marzo 2010, Buffardeci, Rv. 248606).

Così è stata ritenuta non integrante la condotta de qua la semplice promessa di un soggetto, ristretto in carcere, di procurare ad altri sostanza stupefacente, senza aver tuttavia previamente contattato l'ipotetico fornitore "esterno" ed essersi assicurato della disponibilità della droga (Sez. 6, n. 39110 del 16 settembre 2014, Bonanno, Rv. 260463).

È stato tuttavia precisato (ad abundantiam, per vero, da Sez. 1, n. 30288 dell'8 giugno 2011, Rexhepi, Rv. 250798) che integra il reato di intermediazione nella cessione o di concorso nell'altrui offerta in vendita di droga, nella forma consumata, anche il mero accordo a fungere da depositano della sostanza da smistare successivamente a terzi, risultando indifferente se materialmente la sostanza stupefacente sia o meno pervenuta.

E dunque, se, da un lato, va tenuta distinta la ipotesi della offerta da quella della semplice promessa (in quanto quest'ultima si caratterizza per essere incerta an et quando), dall'altro, non può pretendersi che l'offerente abbia presso di sé lo stupefacente, in quanto in tal caso, evidentemente, si integrerebbe la condotta di detenzione.

Il fatto è che l'art. 73, con la sua lunga e dettagliata elencazione di condotte, intende "coprire" (ed equiparare) tutti quei comportamenti che, direttamente o indirettamente, possano consentire, favorire, stimolare, permettere o indurre il commercio e l'uso delle droghe. Si spiega e si giustifica, in tale ottica, la equiparazione di condotte obiettivamente diverse e la omologante anticipazione della soglia di punibilità, di talché sono punite allo stesso modo attività obiettivamente preparatorie (es. coltivazione, raffinazione) e attività che segnano tappe ben più avanzate nell'iter criminis (es., vendita, cessione).

Ne consegue che non occorre, come ritiene il ricorrente, che l'offerta sia "effettiva", se con tale termine si vuole intendere - appunto - la possibilità di consegnare illico et immediate "la merce", essendo sufficiente che l'offerente ne abbia la disponibilità (non necessariamente fisica), vale a dire possa procurarsela e smistarla o farla smistare in tempi ragionevoli e con modalità che "garantiscano" il cessionario.

Nel caso in esame, per altro, è lo stesso ricorrente che sostiene che, in alcune occasioni, egli si è posto "semplicemente" come intermediario (al proposito si ricorda la appena citata sentenza Rexhepi e altri della prima sezione); ne consegue che Sebar ben sapeva come, dove, quando procurarsi la sostanza che si impegnava a consegnare a terzi.

3. Tanto chiarito, è possibile passare alla trattazione della problematica per la quale il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni Unite.

E tuttavia un ulteriore (e preliminare) passaggio logico appare necessario. Invero, prima di porsi il problema della incidenza del dictum della Corte costituzionale sul trattamento sanzionatorio in tema di reato continuato, avente ad oggetto condotte relative, ad un tempo, a "droghe leggere" e "pesanti", occorre chiarire quali effetti debba avere la detta pronuncia del Giudice delle leggi sul più "semplice" caso in cui - al di fuori della ipotesi ex art. 81 cpv. c.p. - condotte aventi ad oggetto (solo) "droghe leggere" siano state giudicate (e sanzionate) sotto la apparente vigenza dell'impianto normativo convenzionalmente denominato "Fini-Giovanardi".

3.1. Conviene, allora, ovviamente, prendere le mosse dall'assetto conferito al ricordato testo unico dalla modifica ad esso apportata con il d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito dalla l. 21 febbraio 2006, n. 49 (appunto: "Fini-Giovanardi"), che, con l'inserimento degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, aveva radicalmente modificato la normativa in tema di sostanze stupefacenti e psicotrope, come originariamente disciplinata dal d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 ("Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza", così detta legge "Jervolino-Vassalli").

Invero, l'art. 4-bis, appena citato, aveva uniformato il trattamento sanzionatorio relativo alla produzione, al traffico e alla detenzione di sostanze stupefacenti, così sopprimendo ogni distinzione basata sulla diversa natura delle sostanze droganti, originariamente contenuta nell'art. 73 del ricordato testo unico; la sanzione (unificata) era stata rideterminata nella reclusione da sei a venti anni e nella multa da euro 26.000 a euro 260.000, laddove il testo del ricordato art. 73, prima della modifica del 2005/2006, era connotato da una risposta sanzionatoria modulata (anche) sulla natura delle sostanze illecite "trattate", a seconda che esse fossero inserite nelle tabelle I e III (cosiddette "droghe pesanti": reclusione da otto a venti anni e da euro 25.822 a euro 258.228, originariamente: multa da lire 50 milioni a 500 milioni) ovvero quelle di cui alle tabelle II e IV (cosiddette "droghe leggere": reclusione da due a sei anni e multa da euro 5.164 a euro 77.468, originariamente da lire 10 milioni a 150 milioni).

Peraltro, anche il comma 5 dell'art. 73 aveva subito modifica (ad opera del medesimo art. 4-bis del citato decreto-legge), in quanto la fattispecie del fatto di lieve entità era stata, a sua volta, unificata quoad poenam (vale a dire, anche in questo caso, senza più riferimento alla natura - "pesante" o "leggera" - della sostanza stupefacente), prevedendosi la pena da uno a sei anni di reclusione, congiunta con multa da 3.000 a 26.000 euro.

In conseguenza della unificazione/omologazione del trattamento sanzionatorio, non più influenzato dalla natura della sostanza stupefacente, era stato modificato anche (art. 4-vicies ter) il sistema tabellare, disciplinato dai previgenti artt. 13 e 14 del testo unico, facendo confluire in un'unica tabella tutte le sostanze stupefacenti o psicotrope, precedentemente "distribuite" in più categorie e, quindi, in distinte tabelle.

È da aggiungere, per altro, che, con riferimento al comma 5 dell'art. 73 del testo unico, la disposizione introdotta dalla legge "Fini-Giovanardi" era stata poi oggetto di ulteriore modifica normativa. Infatti l'art. 2, comma 1, lett. a), del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10, aveva ridotto il limite edittale massimo della pena detentiva e - oltretutto - aveva trasformato la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui al comma 5 dell'art. 73, in fattispecie autonoma di reato.

3.2. Ebbene, come è noto (e come più volte ricordato nel corpo della presente sentenza), gli artt. 4-bis e 4-vicies ter della legge "Fini-Giovanardi" sono stati dichiarati (con la sentenza n. 32 del 2014) costituzionalmente illegittimi per violazione dell'art. 77, comma secondo, Cost., poiché il Giudice delle leggi ha riscontrato un «difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto-legge e quelle impugnate, introdotte dalla legge di conversione», che si presentano «diverse per materia e per finalità [...] rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite».

In considerazione del carattere prettamente procedurale del vizio rilevato, la Corte costituzionale ha ritenuto opportuno chiarire che la declaratoria di illegittimità costituzionale attiene ai due articoli nella loro interezza e non alle sole disposizioni relative all'impianto sanzionatorio e al sistema tabellare, che pure avevano costituito specifico oggetto della questione incidentale sollevata, a suo tempo dalla Corte di cassazione (cfr. ordinanza emessa in data 11 giugno 2013 dalla Terza Sezione penale) e conseguentemente ha precisato:

a) che «deve ritenersi che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere applicazione l'art. 73 del d.P.R. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate»; e ciò in quanto, in virtù della efficacia ex tunc della dichiarazione di incostituzionalità, non si è validamente verificato alcun effetto abrogativo;

b) che nessuna incidenza sulle specifiche questioni sollevate può esplicare il jus superveniens (il ricordato d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10), in quanto riguardante disposizioni già ritenute non applicabili nel giudizio a quo e, comunque, non influenti sullo specifico vizio procedurale lamentato dal giudice rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49 del 2006, con riguardo a disposizioni differenti. Si tratta oltretutto, ha osservato la Corte, di modifica normativa successiva a quella censurata e indipendente da quest'ultima;

c) che, prevedendo l'originario testo dell'art. 73 un trattamento sanzionatorio meno severo per gli illeciti concernenti le cosiddette "droghe leggere" (trattamento ben distinto da quello riservato ai reati aventi ad oggetto le cosiddette "droghe pesanti"), compete al giudice ordinario impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della posizione giuridica degli imputati, «tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 c.p., che implica l'applicazione della norma penale più favorevole al reo», con la conseguenza che «analogamente, rientra nei compiti del giudice comune individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, oggetto della presente decisione».

4. Con specifico riferimento a tale ultima prescrizione del Giudice delle leggi, conviene subito chiarire che, per quel che riguarda il trattamento sanzionatorio, esiste, per così dire, un "punto di coincidenza" tra l'assetto della legge "Fini-Giovanardi" e quello della legge "Jervolino-Vassalli", atteso che il minimo della reclusione previsto nella prima, corrisponde, per le "droghe leggere", al massimo di quello prevista dalla seconda (sei anni) e che la sanzione pecuniaria prevista dalla seconda può, in parte, essere ricompresa in quella prevista dalla prima (evidentemente nella "frazione" da 26.000 a 77.468 euro, prevedendo, come si è premesso, la "Jervolino-Vassalli" multa da 5.164 a 77.468 euro e la "Fini-Giovanardi" multa da 26.000 a 260.000 euro).

Si è dunque, per tempo, posto il problema per la giurisprudenza di questa Corte (dopo la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale) della compatibilità - sotto il profilo della legalità della pena - delle sanzioni inflitte dai giudici del merito anteriormente alla ricordata pronunzia della Consulta, con riferimento ad ipotesi di reati aventi ad oggetto "droghe leggere". Tuttavia (ed evidentemente), il problema, in concreto, si è posto con riferimento a quelle sentenze che avevano inflitto trattamenti sanzionatori che, alla luce della reviviscente legge "Jervolino-Vassalli", apparivano formalmente rispettosi del limite legale (in quanto attestati nei limiti sopra indicati per i massimi edittali: sei anni di reclusione ed euro 77.468 di multa), essendo tuttavia detta pena stata determinata sotto la (apparente) vigenza della legge "Fini-Giovanardi". Ciò in quanto, ovviamente, per i trattamenti sanzionatori (relativi a "droghe leggere") eventualmente esorbitanti i limiti del testo unico nella sua originaria versione, non poteva esservi dubbio - alla luce della sentenza della Corte costituzionale del 2014 - che essi fossero da considerare illegali.

5. Al proposito, l'esame della giurisprudenza di questa Corte permette di enucleare due contrapposti orientamenti.

5.1. Per una corrente (nettamente minoritaria), la reviviscenza dell'art. 73 nella originaria versione del 1990 ("Jervolino-Vassalli"), pur comportando la reintroduzione - per le "droghe leggere" - di un trattamento sanzionatorio di maggior favore, non determina eo ipso l'illegalità sopravvenuta della pena inflitta (se non ricompresa nei ripristinati confini edittali), dovendosi viceversa aver riguardo alla giustificazione motivazionale che, in concreto, il giudice del merito ha fornito con riferimento alla quantificazione della pena, ben potendo darsi il caso che, in presenza di motivazione esaustiva, non sia ipotizzabile l'irrogazione di una sanzione inferiore a quella di fatto applicata. E così, in applicazione di tale principio, la Quarta Sezione penale (con la sentenza n. 47278 del 25 settembre 2014, Bronzino, Rv. 260734) ha confermato la sentenza emessa all'esito di giudizio abbreviato, con la quale l'imputato era stato condannato alla pena finale di anni due e mesi otto di reclusione ed euro 30.000 di multa per l'illecita detenzione di 125 grammi circa di hashish e di 27 grammi di cocaina, calcolata partendo dalla pena minima edittale (secondo la "Fini-Giovanardi", ma massima secondo la "Jervolino-Vassalli") ed applicando la riduzione massima prevista sia per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, sia per il rito prescelto.

La pronunzia, tuttavia, è meno significativa di quanto possa apparire, trattandosi di un caso di detenzione "mista" ("droga leggera" e "pesante"), con la conseguenza che già la sola detenzione della cocaina avrebbe reso poco significativa la reviviscenza della normativa anteriore al 2005, influente, come si è ampiamente chiarito, solo in tema di "droghe leggere".

Maggiormente significativa - in quanto pertinente a sola "droga leggera" e quindi pienamente esponenziale di tale orientamento di giurisprudenza - può ritenersi la sentenza Sez. 3, n. 27957 del 12 giugno 2014, Tirocchi, Rv. 259401, in cui il Collegio, pur consapevole che la pena-base applicata (emessa, anche in questo caso, all'esito di giudizio abbreviato) costituisse all'epoca dei fatti il minimo della pena di cui all'art. 73 d.P.R. 309/1990 - ed oggi, dopo la menzionata sentenza di incostituzionalità e la conseguente reviviscenza per le "droghe leggere" dell'art. 73, comma 4, d.P.R. 309/1990 nel testo originano, rappresenti invece il massimo - ha ritenuto che i giudici di merito, investiti della giustificazione motivazionale in ordine alla determinazione della pena, avessero fatto una valutazione di adeguatezza della stessa in ragione dell'entità dello stupefacente sequestrato, vale a dire gr. 1.929 di marijuana, da cui potevano ricavarsi 5.787 dosi, condannando l'imputato, concesse le circostanze attenuanti generiche ed applicata la riduzione per il rito prescelto, alla pena di anni due, mesi 8 di reclusione ed euro 12.000 di multa.

5.2. A tale (numericamente esiguo) orientamento, altro (ben più cospicuo) se ne contrappone, il quale sostiene che, in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità, dovendo trovare applicazione la versione originaria dell'art. 73 d.P.R. 309/1990, si è ripristinato, ovviamente per le sole "droghe leggere", un trattamento sanzionatorio più mite (tra le tante, Sez. 6, n. 14293 del 20 marzo 2014, Antonuccio, Rv. 259062; Sez. 6, n. 15157 del 20 marzo 2014, La Rosa, Rv. 259253; Sez. 6, n. 19241 dell'8 aprile 2014, Pantaloni, Rv. 259367; Sez. 6, n. 19242 dell'8 aprile 2014, Salvaggio, non massimata; Sez. 6, n. 14984 del 5 marzo 2014, Costanzo, Rv. 259355; Sez. 6, n. 14995 del 26 marzo 2014, Lampugnano, Rv. 259359; Sez. 6, n. 19267 del 2 aprile 2014, Festante, Rv. 259370; Sez. 6, n. 21064 del 14 maggio 2014, Napoli, Rv. 259382).

È da notare che, benché nelle sentenze n. 25176 (Amato) e n. 49704 (El Wali) del 2014, la pena-base individuata dal giudice di merito fosse superiore alla sanzione edittale massima reintrodotta per effetto della pronuncia di incostituzionalità (cosicché si configurava una macroscopica illegalità della pena inflitta, per mancato rispetto dei limiti normativamente imposti), nella prima delle due decisioni, si rileva, comunque, che, anche nell'ipotesi in cui la pena-base non avesse aritmeticamente superato i limiti edittali poi reintrodotti, si sarebbe comunque reso necessario effettuarne una rideterminazione, essendo evidente che il calcolo era stato compiuto sulla base di una misura diversa nell'identificazione della pena-base.

Viceversa, nella maggior parte delle pronunzie sopra elencate, la pena applicata rientrava astrattamente (anche dopo l'intervento della Corte costituzionale) nella dosimetria vigente, perché calcolata applicando il limite minimo all'epoca in atto, pari - come si è più volte sottolineato - a quello massimo "reviviscente".

Nondimeno, è stato ritenuto che non potesse giudicarsi correttamente applicato il più severo regime sanzionatorio stabilito dall'art. 73, comma 4, come rideterminato (anche per le "droghe leggere") dalla legge "Fini-Giovanardi" ai reati commessi nella (ritenuta) vigenza di quest'ultima disposizione e che, pertanto, dovesse farsi luogo a una rivisitazione del trattamento sanzionatorio.

Invero, poiché, in base alla sentenza della Corte costituzionale, la norma affetta da un radicale vizio del procedimento legislativo, da un lato, cessa ex tunc di avere efficacia (ai sensi dell'art. 136, primo comma, Cost.), dall'altro, perde anche l'idoneità ad abrogare la disciplina precedente, poiché (e conseguentemente) tale disciplina rivive e deve quindi essere applicata (anche perché più favorevole), ne deriva, inevitabilmente, la illegittimità (originaria, sia pure accertata e dichiarata ex post) della determinazione della pena applicata, nel caso concreto, con riferimento alla sanzione prevista dalla norma incostituzionale.

5.3. In particolare, va notato che, nella sentenza n. 26340/2014 (Di Maggio), si osserva che la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che, in tema di determinazione della pena, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall'art. 133 c.p., quelli ritenuti rilevanti ai fini di un tale giudizio, tant'è che l'irrogazione di una pena-base pari o superiore alla media edittale richiede una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall'art. 133 c.p., valutati ed apprezzati tenendo conto, tanto della funzione rieducativa, quanto di quelle retributiva e preventiva della pena. Con la conseguenza che, quanto più il giudice si avvicina al massimo edittale, tanto più stringente deve essere per lui l'obbligo di motivazione circa l'esercizio del potere discrezionale conferitogli dalla legge.

Per altro, proprio per tale specifica ragione, si è ritenuto che la sentenza impugnata dovesse essere annullata con rinvio, per la rideterminazione della pena, dovendo il giudice di merito (di rinvio) rivalutare i fatti e rideterminare il trattamento sanzionatorio alla luce dei termini edittali originari del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73. Ciò anche se la pena-base, come determinata nel provvedimento impugnato, fosse, di fatto, ricompresa tra il limite minimo e quello massimo previsti dalla disposizione di legge (nuovamente) applicabile, competendo al giudice del rinvio stabilire se, in conseguenza del trattamento (astrattamente) più favorevole sopravvenuto (rectius: ripristinato), la sanzione in concreto irrogata fosse effettivamente congrua in relazione ai parametri fissati nell'art. 133 c.p. e rispettosa dei principi fissati nell'art. 27, terzo comma, Cost.

6. Ebbene ritengono queste Sezioni Unite, affrontando questione preliminare (e pregiudiziale) rispetto a quella specificamente evidenziata con l'ordinanza di rimessione della Terza Sezione, che la tesi maggioritaria sia certamente da condividere e seguire.

Invero, l'unico, obiettivo indicatore della gravità di un reato è il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore, il quale - evidentemente - modula la pena edittale a seconda del disvalore che ritiene di attribuire alle ipotesi criminose, che egli stesso ha enucleato.

Né potrebbe essere diversamente, in quanto il giudice non può sostituirsi al legislatore, al quale ultimo soltanto spetta decidere, nell'esercizio della funzione sovrana di produzione del diritto, se una condotta contraria alla legge debba essere punita (e quindi qualificata) più o meno gravemente di un'altra (cfr. Sez. un., n. 15 del 26 novembre 1997, Varnelli, Rv. 209485-209487).

D'altra parte, il medesimo indice risulta adottato in altre occasioni, nelle quali si deve - del pari - procedere a una valutazione comparativa di gravità tra reati (esempio in materia di competenza: art. 32 c.p.p., o di connessione: art. 47 del medesimo codice).

6.1. Va da sé che, sulla valutazione in astratto compiuta dal legislatore (e di seguito ad essa), si innesta la valutazione in concreto compiuta dal giudice di merito, il quale ha conosciuto tanto il fatto-reato, quanto il suo autore (di persona e/o attraverso gli atti), e che, dunque, è in grado di determinare, nello specifico, il trattamento sanzionatorio da applicare.

Come ebbe, d'altra parte, a chiarire, in una risalente sentenza, la Corte costituzionale (sent. n. 15 del 1962), l'individuazione della pena da parte del giudice non può prescindere dalla considerazione della gravità del reato e della personalità del reo; onde è tipico del carattere della sanzione penale che, pur essendo essa - certamente - prefissata dalla legge, sia poi però, comunque, consentito (e, al contempo, imposto) al giudicante il suo adeguamento alle circostanze concrete.

Infatti, l'ordinamento, tranne casi eccezionali di penalità fisse, non può realizzare un'adeguata corrispondenza della sanzione al fatto illecito, se non mediante la concreta valutazione del singolo caso e con quella determinazione della pena che, volta per volta, ne viene fatta dai giudice «con regolata discrezionalità» (Corte cost., sent. n. 25 del 1967).

6.2. Ma, come è ovvio, la valutazione discrezionale del giudice nella individuazione della pena in concreto da applicare non può prescindere dagli "indicatori astratti" (il minimo e il massimo edittale) che il legislatore gli ha fornito. È nell'ambito di quello spazio sanzionatorio che il giudicante deve compiere la sua valutazione. Con la conseguenza che se detto spazio muta (si restringe o si dilata), mutano inevitabilmente i parametri entro i quali la valutazione in concreto deve essere effettuata.

Per altro, in tema di sostanze stupefacenti, tale spazio sanzionatorio, con il ripristino della distinzione tra "droghe leggere" e "droghe pesanti", conseguente alla sentenza del Giudice delle leggi n. 32 del 2014, è stato sensibilmente ridisegnato, consentendo, di nuovo, il ricorso ad una forbice edittale (tanto per limitarsi alla sola pena detentiva) - da due a sei anni di reclusione - di gran lunga meno ampia (e meno severa) rispetto a quella posta a base delle statuizioni contestate, vale a dire da sei a venti anni di reclusione (tanto che, come si è anticipato, il massimo della prima corrisponde al minimo della seconda), così da comporre un quadro di riferimento non paragonabile a quello tenuto presente al momento delle pronunzie dei giudici del merito e da realizzare, pertanto, un sostanziale ridimensionamento dello stesso disvalore penale del fatto.

Ed è sostanzialmente per tale ragione che, ad esempio, nella sentenza n. 26340/2014 (Di Maggio), si osserva in particolare che la ripristinata distinzione della risposta repressiva (che tiene conto della diversa natura delle sostanze stupefacenti), implicando una così marcata differenza del trattamento sanzionatorio, comporta la necessità di rideterminare la pena in concreto (a suo tempo) ritenuta congrua ed applicata. Invero, una volta mutato il parametro di riferimento, il giudice del merito deve inderogabilmente riesercitare il potere discrezionale conferitogli dagli artt. 132 e 133 c.p.

6.3. A ben vedere, d'altra parte, la giurisprudenza difforme (le ricordate sentenze Bronzino e Tirocchi nn. 47278 e 27957 del 2014) sembra tutta "ritagliata" sul caso specifico esaminato. In sostanza si afferma che, pur essendo mutato il quadro edittale, la pena applicata, rientrante comunque, da un punto di vista meramente aritmetico, nei limiti sanzionatori ripristinati (a seguito della sentenza della Corte costituzionale), non poteva ritenersi inappropriata, considerate le modalità del fatto, come concretamente apprezzate dal giudice del merito. Si tratta dunque, più che dell'affermazione di un principio, di una valutazione di adeguatezza del trattamento sanzionatorio (e della sua giustificazione motivazionale), anche se forse non del tutto compatibile con i poteri cognitivi e i limiti deliberativi del giudice di legittimità.

7. Tutto ciò premesso e chiarito per quel che riguarda gli effetti della reviviscenza della precedente normativa in tema di stupefacenti, con riferimento alla necessità di rideterminare, in generale, il trattamento sanzionatorio, si può ora - finalmente - affrontare la specifica questione rimessa alle Sezioni Unite, attinente, come ampiamente chiarito, alla determinazione del trattamento sanzionatorio nel reato continuato, ricomprendente delitti aventi ad oggetto tanto "droghe pesanti", quanto "droghe leggere".

Si tratta, dunque, di stabilire se, in presenza di condanna per reato continuato, nei casi sopra indicati (avendo ovviamente le condotte inerenti "droghe leggere" assunto il ruolo di reati-satellite), si debba procedere a una rivalutazione del complessivo trattamento sanzionatorio, alla luce, appunto, della più favorevole cornice edittale applicabile per tali ultime violazioni, a seguito della più volte ricordata sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, ovvero se, considerato l'effetto unificante del meccanismo sanzionatorio ex art. 81 cpv. c.p., a tanto non si debba procedere, dal momento che i singoli aumenti di pena si atteggiano come meri "incrementi sanzionatori" della individuata pena-base.

In merito a tale problematica, la giurisprudenza di questa Corte ha adottato soluzioni contrastanti che, come evidenziato nell'ordinanza di rimessione, possono essere ricondotte essenzialmente a due filoni giurisprudenziali, cui se ne può aggiungere un terzo "intermedio".

8. Secondo la Quarta Sezione di questa Corte, infatti, la reintroduzione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, di un differenziato trattamento sanzionatorio tra "droghe leggere" e "pesanti" (trattamento - come è ovvio - più favorevole nel primo caso) comporta la illegalità della pena inflitta per il reato continuato, se la pena-base è stata determinata con riferimento a una condotta avente ad oggetto "droga pesante" e gli aumenti effettuati ai sensi del capoverso dell'art. 81 c.p., sono stati calcolati (anche) con riferimento a condotte aventi ad oggetto "droghe leggere".

Si tratta sostanzialmente di un orientamento che sembra trarre la sua coerenza logica dalle premesse sopra indicate al punto 5.2.

In tal senso si sono espresse le sentenze, tutte facenti capo alla ricordata Quarta Sezione, n. 16245 del 12 marzo 2014, Iori, Rv. 259364; n. 19267 del 2 aprile 2014, Festante, Rv. 259372; n. 22257 del 25 marzo 2014, Guernelli, Rv. 259203; n. 24606 del 12 marzo 2014, Rispoli, Rv. 259366; n. 25211 del 28 febbraio 2014, Pagano, Rv. 259361; n. 30475 del 17 giugno 2014, Libretti, Rv. 260631; n. 36244 del 27 maggio 2014, Di Benedetto, Rv. 260629; n. 43469 del 30 settembre 2014, Hafid, non massimata; n. 49664 del 21 ottobre 2014, Albanese, non massimata; n. 52671 del 6 novembre 2014, Donadi, non massimata.

In tali pronunzie si è osservato che, se, da un lato, è certo che, nella determinazione della pena per il reato continuato, una volta individuata la violazione più grave, i reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria (tanto che il relativo trattamento sanzionatorio "confluisce" nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti), dall'altro, nella determinazione in concreto del quantum di aumento da apportare per i singoli reati-satellite, deve comunque procedersi a una preliminare valutazione di gravità ex art. 133 c.p., sia pure alla luce del meccanismo mitigatorio previsto dal capoverso dell'art. 81 del medesimo codice. Ebbene: la valutazione ponderale dei reati meno gravi non può che avvenire con riferimento agli (effettivi) parametri edittali per tali reati previsti. Da qui la illegalità della "pena finale" in quanto "inquinata" da una valutazione di gravità falsata - in astratto - di tali reati, come reso manifesto dalla sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale.

È evidente infatti - per tale orientamento giurisprudenziale - che la ponderazione a suo tempo effettuata sotto (l'apparente) vigenza, sul punto, della legge "Fini-Giovanardi", non può considerarsi sorretta da adeguata motivazione per la buona ragione che essa risulta inevitabilmente alterata dal diverso quadro normativo di riferimento, caratterizzato dalla sostanziale equiparazione quoad poenam tra sostanze stupefacenti di diversa natura, equiparazione poi dichiarata incostituzionale, con conseguente reviviscenza di un diverso e più mite trattamento sanzionatorio per le "droghe leggere" (e quindi per i reati-satellite).

Ne consegue, necessariamente, l'annullamento con rinvio della sentenza connotata dalla pena illegale, fermo restando che il giudice del rinvio non è, solo per questo, tenuto a ridurre la pena, così da dar vita - sempre e comunque - ad un concreto beneficio per l'imputato, dovendo semplicemente procedere a una rivalutazione del trattamento sanzionatorio, avendo quale parametro di riferimento i limiti edittali della disciplina "recuperata" a seguito della sentenza del Giudice delle leggi, rivalutazione che ben può condurlo a confermare la "pena finale" precedentemente applicata e fermo, si intende, il divieto di reformatio in pejus.

9. Diversamente si sono orientate le sezioni Sesta e Terza di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 12727 del 6 marzo 2014, Rubino, Rv. 258777; Sez. 6, n. 21608 del 25 marzo 2014, Mauti, Rv. 259698; Sez. 6, n. 25807 del 14 marzo 2014, Rizzo, Rv. 259201; Sez. 3, n. 27066 del 30 aprile 2014, Frattolino, Rv. 259392) per le quali la reviviscenza di un trattamento sanzionatorio meno afflittivo per i delitti in tema di stupefacenti aventi ad oggetto "droghe leggere" non comporta la riformulazione del trattamento sanzionatorio nel caso in cui i delitti di cui all'art. 73 d.P.R. 309/1990, aventi ad oggetto tal tipo di stupefacenti, rivestano il ruolo di reati-satellite; e ciò proprio per le peculiari caratteristiche dell'istituto ex artt. 81 cpv. c.p. Invero, una volta individuata la violazione più grave, i "reati minori" perdono, come hanno più volte affermato le Sezioni Unite, la loro autonomia sanzionatoria. Si giunge così alla applicazione di una pena unica ed onnicomprensiva, che deve essere calcolata semplicemente aumentando la pena individuata per il reato più grave con quelle che si ritengono adeguate per i reati-satellite, con riferimento ai quali non rilevano più i limiti legali della pena prevista per i singoli reati.

In particolare, la sentenza n. 12727/2014 (Rubino), basandosi sul dictum di Sez. un., n. 4901 del 27 marzo 1992, Cardarilli, Rv. 191129, e Sez. un., n. 25939 del 28 febbraio 2013, Ciabotti, Rv. 255347 (oltre che di Sez. 1, n. 13003 del 10 marzo 2009, Licciardello, Rv. 243140), ribadisce, dichiaratamente in linea con gli appena ricordati arresti giurisprudenziali, che, una volta individuata la violazione più grave, i reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria e il relativo trattamento sanzionatorio confluisce nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti.

Da ciò consegue la "impermeabilità" del predetto trattamento sanzionatorio (proprio perché unitario ed omologante ex art 81 cpv. c.p.) alle modifiche normative, anche se scaturenti da dichiarazione di incostituzionalità della legge (apparentemente) vigente, al momento del giudizio, con riferimento al reati da "droga leggera".

In sintesi: la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale non ha - per questo filone giurisprudenziale - l'efficacia di "sciogliere" l'unitarietà dell'incremento stabilito per la continuazione, il quale mantiene completa autonomia rispetto alla pena edittale per il delitto ex art. 73 d.P.R. 309/1990 e rimane, così, insensibile alla vicenda costituzionale che ha riguardato tale ultima fattispecie.

Ad abundantiam si osserva (sempre nella ricordata sentenza n. 12727, Rubino, della Sesta Sezione) che la dichiarazione di incostituzionalità è stata conseguenza della inosservanza da parte del legislatore ordinario dell'art. 77, secondo comma, Cost. Si è trattato dunque di una violazione procedurale, come tale rilevata dalla Corte, non di una censura incidente "nel merito" della distinzione, ai fini sanzionatori, tra "droghe leggere" e "droghe pesanti", sulla cui equiparazione quoad poenam, pertanto, il Giudice delle leggi non si è pronunziato.

10. È poi appena il caso di menzionare un terzo orientamento (prima definito "intermedio") - facente comunque capo, ancora una volta, alla Quarta Sezione - tutto centrato sulla valutazione della motivazione della sentenza impugnata (cfr. n. 21558 dell'11 aprile 2014, Tosoni, Rv. 259751; n. 44791 dell'11 luglio 2014, Colombo, Rv. 260639; n. 46825 del 21 ottobre 2014, Cammarata, Rv. 260910; n. 3154 del 15 ottobre 2014, Gallotta, non massimata; n. 2191 del 10 dicembre 2014, Zangaro, non massimata), per il quale la eventuale illegalità della pena conseguente alla dichiarazione di incostituzionalità della equiparazione del trattamento sanzionatorio per le sostanze stupefacenti "pesanti" e "leggere", va valutata con riferimento al caso concreto e dunque alla adeguatezza della giustificazione motivazionale in tema di pena. Si afferma infatti che, quando, tra i reati uniti in continuazione, sono comprese, quali violazioni satellite, fattispecie di detenzione e cessione di sostanze di cui alle tabelle II e IV allegate al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, la pena irrogata prima del sopraggiungere della più favorevole disciplina, determinatasi per effetto della ricordata sentenza della Consulta, non è necessariamente illegale, quando, dal complesso della motivazione, sia possibile evincere l'inutilità della cassazione del provvedimento, non potendone derivare effetti utili all'imputato ricorrente.

Si ritiene, insomma, che, quando sia possibile evincere dalla giustificazione motivazionale esibita dal giudice di merito la marginalità della condotta riguardante le cosiddette "droghe leggere", e la conseguente esiguità dell'aumento applicato dal giudice di merito per il reato-satellite, l'evidente giudizio già operato in merito alla minima gravità del fatto consentirebbe di escludere l'illegalità della pena, nel rispetto del principio di cui all'art. 2 c.p., anche in relazione alla più favorevole normativa sopravvenuta.

In particolare nella sentenza n. 44791/2014 (Colombo), il Collegio osserva che la tesi della assoluta autonomia sanzionatoria del reato continuato, che sarebbe dimostrata dal fatto che perde di rilievo la cornice edittale del reato-satellite, appare non persuasiva ove intesa in termini radicali; ed altrettanto deve dirsi per la tesi antagonista. Invero: l'entità della pena da infliggere per il reato- satellite risente delle circostanze eventualmente accessorie a tale reato, le quali vanno valutate riguardo a ciascuna violazione e non in relazione al complesso delle varie infrazioni, di talché la eventuale circostanza aggravante o diminuente ha effetto sulla pena, solo se si riferisce alla violazione più grave, mentre ha effetto sulla misura dell'aumento (derivante dalla continuazione), allorquando venga riconosciuta in relazione ad altro illecito.

La necessità di una valutazione in concreto è con forza evidenziata anche da Sez. 6, n. 46825 del 21 ottobre 2014, Cammarata, cit., in cui è esclusa la nullità sopravvenuta della pena quale effetto della sentenza costituzionale n. 32/2014 allorquando l'aumento a titolo di continuazione, pur calcolato nella vigenza dei limiti edittali incisi dalla pronuncia di incostituzionalità, sia stato di «sostanziale minimo rilievo» rispetto all'entità della pena complessivamente irrogata (considerazioni non dissimili si leggono in Sez. 4, n. 3154 del 15 ottobre 2014, dep. 2015, Gallotta e altri, non massimata, in cui si considera che la «contentissima misura dei singoli aumenti, consente, anche in ragione della ravvisata continuazione, di non annullare la sentenza» impugnata, giacché proprio la minima dimensione di detti aumenti esclude che possa ravvisarsi una qualsivoglia illegalità sopravventa del trattamento sanzionatorio complessivo, anche a fronte del nuovo quadro sanzionatorio valevole per le "droghe leggere").

10.1. Dunque non sempre, per tale orientamento, deve farsi luogo ad annullamento della sentenza impugnata, poiché le regole processuali (e segnatamente il divieto di reformatio in peius) possono rendere inutile la cassazione del provvedimento, non derivandone effetti utili all'imputato ricorrente. Non è escluso, tuttavia, che possa risultare diversamente: si pensi all'ipotesi della detenzione illecita di elevati quantitativi di droga leggera e di minima quantità di droga pesante, con giudizio negatorio della lieve entità del fatto.

10.2. Conclusivamente, per tale orientamento giurisprudenziale, deve essere verificato l'interesse concreto del ricorrente al provvedimento sollecitato con l'impugnazione, al fine di accertare se lo stesso debba o meno essere annullato con rinvio. Dunque: si dovrà procedere ad annullamento della sentenza impugnata solo nel caso in cui sia possibile ritenere che la pena inflitta possa essere rideterminata dal giudice del rinvio per effetto dell'applicazione della prevalenza della legge penale più favorevole al reo.

10.3. Come si vede, più che un terzo (intermedio) orientamento, si tratta di una sorta di "specificazione" di quello precedentemente illustrato sub 8., un orientamento tutto teso a valorizzare i contorni, non meno dei contenuti, del caso concreto, ma che presuppone, comunque, la necessità di una rivalutazione, che, per mera contingenza, potrebbe determinare il giudice di legittimità a ritenere congruo (anche alla luce del reviviscente quadro sanzionatorio) l'aumento di pena ex art. 81 cpv. c.p. apportato dal giudice di merito e, conseguentemente, la carenza di interesse del ricorrente ad ottenere l'annullamento della sentenza.

11. Tale essendo lo stato della giurisprudenza di legittimità, per affrontare cognita causa il problema demandato alle Sezioni Unite, appare indispensabile aprire la riflessione facendo il punto sulle pronunzie che, in tema di reato continuato, le stesse Sezioni Unite hanno elaborato.

Quanto alla individuazione del reato più grave, in relazione al quale determinare la così detta pena-base, le Sezioni Unite, a conclusione di un processo evolutivo sviluppatosi in varie tappe (n. 14890 del 22 ottobre 1977, Zavatti, Rv. 137328/137329; n. 6219 del 30 aprile 1983, Piccione, Rv. 159726; n. 6220 del 30 aprile 1983, Anaclerio, Rv. 159727), ebbero ad affermare, con la ricordata sentenza n. 4901, Cardarilli del 1992, Rv. 191128, che occorre riferirsi alle valutazioni astratte compiute dal legislatore, ossia occorre aver riguardo alla pena prevista dalla legge per ciascun reato (di specie omogenea: delitti o contravvenzioni), con la conseguenza che la violazione più grave va individuata in quella punita dalla legge più severamente, dovendo però considerarsi sempre il delitto come illecito penale più grave rispetto alla contravvenzione (e dunque anche nel caso in cui la contravvenzione sia punita con pena edittale "quantitativamente" maggiore rispetto a quella prevista per il delitto).

Nondimeno, la sentenza in questione, risolvendo specifica questione, e componendo un annoso contrasto, chiarì che era ben possibile la applicazione dell'istituto delle continuazione tra reati puniti con pene di specie diversa (appunto: delitti e contravvenzioni), superando l'obiezione in base alla quale, il concorso di pene eterogenee (con la conseguente necessità di applicare per i reati - contravvenzionali - satellite pene per essi non previste, con sospetta violazione del principio di legalità), renderebbe impossibile tale operazione "omologante".

Le Sezioni unite rifiutarono tale impostazione, statuendo che «una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati satelliti non esplic[a] più alcuna efficacia proprio per la ragione che, individuata la violazione più grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità, disciplinata e sanzionata diversamente, mediante le regole dettate all'uopo dal legislatore. L'avere questi contemplato tale possibilità, con le conseguenti previsioni punitive, fa perdere notevole consistenza alla pretesa violazione del principio di legalità, dovendosi ogni norma incriminatrice leggere, per quanto riguarda l'aspetto punitivo, come se essa contenesse un'eccezione derogativa della sanzione per il caso che la violazione contemplata vada a comporre un reato continuato. In astratto, non vi sarebbe un tranciante ostacolo ad un aumento della sanzione del reato principale, calcolato sulla base della pena qualitativa edittalmente prevista per il reato o per i reati satelliti, ma è evidente che, così operandosi, si violerebbe il manifesto dettato della legge, che prevede un aumento della pena-base determinata per la più grave delle violazioni, quella pena cioè prevista per il reato più grave e non mediante aumenti derivati da pene di specie diversa. Tale conclusione peraltro appare, come quella a cui si è pervenuti per la identificazione della violazione più grave, la sola idonea ad evitare, nella miriade di interpretazioni fornite per ogni singolo caso, disparità di trattamenti e utilizzazione oltre misura della discrezionalità nel momento della concreta applicazione della sanzione».

D'altra parte, già la Corte costituzionale, rivedendo una sua precedente pronunzia (sent. n. 34 del 1977), e prendendo atto della evoluzione della giurisprudenza di legittimità, aveva avuto modo di affermare che non sussistono ragioni di principio per non dare integrale applicazione all'istituto della continuazione (e ai benefici che esso comporta in ordine alle conseguenze sanzionatorie), quand'anche le pene, che si sarebbero dovute irrogare per le singole violazioni, siano di specie diversa (sent. n. 312 del 1988).

Il principio enucleato dalla sentenza Sezioni Unite Cardarilli trova poi conferma nella successiva pronunzia sempre delle Sez. un., n. 15 del 26 novembre 1997, Varnelli, Rv. 209485/209487, già citata, la quale compie un excursus storico delle modifiche e delle interpretazioni giurisprudenziali (via via sempre più estensive) intervenute sull'art. 81 c.p., riaffermando il principio che, in caso di concorso fra delitto e contravvenzione, "violazione più grave" è sempre il delitto.

Conseguentemente, poiché l'effetto unificante del reato continuato può riguardare sia «più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se di diversa gravità» (come era nella disciplina vigente prima della riforma del 1974), sia «più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge», è evidente - prosegue la sentenza da ultimo citata - che la continuazione estende la sua operatività a norme incriminatrici reciprocamente eterogenee, comportando il cumulo giuridico tra pene diverse, sia nel genere (detentive o pecuniarie), che nella specie (reclusione o arresto, ovvero multa o ammenda e persino, come era già stato ritenuto da Sez. un., n. 6300 del 26 maggio 1984, Falato, Rv. 165179, reclusione comune e reclusione militare).

Ma ciò - si afferma - in tanto è possibile, in quanto i reati meno gravi (destinati dunque a divenire reati-satellite) perdono la loro autonomia sanzionatoria, di talché il relativo trattamento punitivo confluisce nella pena unica, irrogata per tutti i reati concorrenti.

Tale "pena finale", per altro, è certamente da considerarsi pena "legale", così dovendo definirsi, non solo quella prevista - tra minimo e massimo - per le singole fattispecie penali, ma, come avevano già chiarito Sez. un., n. 5690 del 7 febbraio 1981, Viola, Rv. 149259/149263, anche quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, quali sono appunto, tra le altre, quelle concernenti il reato continuato.

11.1. Un excursus completo (e, ovviamente, più aggiornato) sulla evoluzione giurisprudenziale delle Sezioni Unite in tema di reato continuato è certamente contenuto nella recente sentenza delle medesime Sezioni n. 25939 del 2013, Ciabotti, già citata.

Invero, ribadito: a) che nel reato continuato l'individuazione della violazione più grave, ai fini del computo della pena, deve essere effettuata con riguardo alla valutazione compiuta in astratto dal legislatore, b) che sulla pena in concreto da infliggere per tale illecito, deve essere, poi, applicato l'aumento di pena per la continuazione (da contenersi nel limite massimo del triplo della pena-base), la sentenza in questione afferma con decisione (ancora una volta) che i reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria, in quanto il relativo trattamento sanzionatorio "confluisce" nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti. Da qui il più ampio concetto di pena legale, come sopra illustrato (scilicet, non solo quella stabilita dalle singole fattispecie incriminatrici, ma anche quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, quali sono, appunto, tra le altre, quelle concernenti il reato continuato). Ed è, in ultima analisi, tale procedura di omologazione sanzionatoria ciò che consente che il cumulo giuridico possa avvenire tra pene diverse sia nel genere (detentive o pecuniarie) che nella specie (reclusione o arresto ovvero multa o ammenda).

La sentenza in questione tuttavia non manca di sottolineare la necessità che sia individuabile la pena stabilita dal giudice in aumento per ciascun reato-satellite; ciò tanto per consentire la verifica dell'osservanza del limite di cui al terzo comma dell'art. 81 c.p., quanto perché, per l'applicazione di determinati istituti (prescrizione, indulto, estinzione di misure cautelari personali, sostituzione delle pene detentive brevi), il cumulo giuridico deve essere "sciolto" ed i singoli reati devono essere considerati individualmente.

Peraltro, la ancora più recente pronuncia Sezioni Unite, n. 16208 del 27 marzo 2014, C., Rv. 258652/258654, ha avuto modo di chiarire che non può ritenersi violato il divieto di reformatio in peius di cui all'art. 597, comma 3, c.p.p., quando, in sede di giudizio di impugnazione, viene diversamente configurata la struttura del reato continuato (per diversa individuazione o cambio di qualificazione giuridica del reato più grave), anche se, per taluno dei reati - unificati dall'identità del disegno criminoso - sia determinato un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, a condizione - si intende - che la "pena finale" non ne risulti modificata in peius.

E ciò per la buona ragione che la realtà normativa costituita dall'istituto della continuazione è di carattere duttile, che può prestarsi, a seconda delle esigenze, a una lettura unitaria, ovvero ad una analisi frammentata, a seconda delle prospettive che si intendono perseguire. In sintesi: in vista del perseguimento dell'obiettivo del favor rei, coesistono nella figura del reato continuato profili giuridici, tanto di unitarietà, quanto di pluralità.

La unificazione delle pene, resa possibile dalla riconoscibile identità del disegno criminoso (rappresentante, invero, dopo la riforma del 1974, l'unico elemento costitutivo della continuazione, che ne giustifica la diversità di disciplina) integra, ovviamente, un tratto caratteristico della continuazione. Conseguentemente - ripete la giurisprudenza delle Sezioni Unite, riecheggiando precedenti pronunzie - una volta identificato il reato più grave, i reati-satellite assumono il ruolo di semplici elementi dell'incremento sanzionatorio ed in ciò consiste la perdita della loro individualità (salvo, si intende, poi riacquistare la loro "identità" agli effetti della determinazione del limite agli aumenti, che non deve comunque superare quello del cumulo materiale, a norma dell'art. 81, terzo comma, c.p.).

11.2. Le due pronunzie da ultimo menzionate (Ciabotti e C.) si pongono quindi, come si è visto, in linea di stretta continuità rispetto ai precedenti arresti delle Sezioni Unite e in particolare Sez. un., n. 4901 del 27 marzo 1992, Cardarilli, già ampiamente citata, che, facendo leva sulla espressione testuale («è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo»), da un lato, descrive il meccanismo di calcolo (e di unificazione) della pena nel reato continuato, dall'altro, proprio in ragione di tale natura unitaria della sanzione da applicare, ritiene possibile "amalgamare", come si è detto, pene di natura e specie diverse (detentive e pecuniarie e, nell'ambito di esse, quelle conseguenti alla commissione di un delitto con quelle previste per le contravvenzioni).

E tuttavia le sentenze Cardarilli e Ciabotti non mancano di sottolineare che, per essere considerata "legale", la pena per il reato continuato, deve rispettare un duplice limite: uno interno (il multiplo della pena-base, che costituisce il confine dell'aumento da apportare), l'altro esterno (in quanto la pena non può, ai sensi del terzo comma dell'art. 81 c.p., essere superiore a quella «che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti», vale a dire al cumulo materiale).

11.3. Sotto il primo aspetto (limite interno), il reato è certamente considerato unitariamente (e non va dimenticato che la littera legis anteriore al 1974, addirittura si spingeva ad affermare che «le diverse violazioni si considerano come un solo reato) e tale natura unitaria determinava (prima della riforma introdotta con la l. 5 dicembre 2005, n. 261, art. 6) la posticipazione del dies a quo della prescrizione (art. 158, primo comma, c.p.) e determina - ancor oggi - il possibile spostamento del locus commissi delicti (artt. 12, comma 1, lett. b, e 16 c.p.p.), nonché il nuovo decorso del termine di estinzione ex art. 445, comma 2, c.p.p. per più reati patteggiati e unificati ex art 81 c.p. (art. 137 disp. att. c.p.p.).

11.4. Sotto il secondo aspetto (limite esterno), tornano in rilevo, sia pure come ipotetici confini sanzionatori, i margini edittali dei reati-satellite, ma viene in rilievo anche il principio (pur non normativamente sancito, ma ricavabile dal criterio che presiede alla determinazione della violazione più grave) in base al quale la pena del reato-base non può mai essere inferiore a quella prevista come minimo per uno qualsiasi dei reati unificati dal medesimo disegno criminoso, vale a dire dei reati-satellite (cfr. Corte cost., ord. n. 11 del 1997).

11.5. Appare allora evidente che una cosa è la perdita dell'autonomia sanzionatoria del reato-satellite, altro è la conservazione (o, se si vuole, la mancata perdita) dell'incidenza ponderale del singolo reato-satellite nel momento (necessariamente antecedente rispetto a quello della determinazione della "pena complessiva") in cui il giudice si pone a valutare la misura dell'incremento da apportare - in relazione a ciascun "reato minore" - alla pena-base.

Tale aumento è, senza dubbio, obbligatorio rispetto all'an, ma discrezionale con riferimento al quantum, che va determinato - inevitabilmente - non solo in base al numero dei reati-satellite, ma anche in base alla gravità di ciascuno di essi.

Invero, al proposito, non può essere trascurato il dettato del comma 2 dell'art. 533 c.p.p., per il quale, come è noto: «Se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione».

In merito, sempre le Sezioni Unite avevano avuto modo di affermare, già con la ricordata sentenza Falato del 1984, che il giudice deve indicare la pena che, per i singoli reati-satellite, sarebbe stata applicabile in assenza di cumulo giuridico.

Più recentemente sempre le Sezioni Unite (n. 7930 del 21 aprile 1995, Zouine, Rv. 201549) sono giunte ad affermare che è nulla in parte qua, perché non consente il controllo sul buon uso fatto dal giudice del suo potere discrezionale, la sentenza con cui il giudice di merito, nel pronunciare condanna per più reati, determini la pena complessiva, senza alcuna indicazione della pena stabilita per ciascun reato, di quello ritenuto più grave e dell'aumento per la continuazione.

E se poi, in vero, la successiva giurisprudenza (delle sezioni semplici) ha in parte mitigato la severità di tale pronuncia (es. Sez. 4, n. 6853 del 27 gennaio 2009, Maciocco, Rv. 242867, per la quale l'omessa indicazione dei criteri di determinazione della pena, anche nel caso di più reati unificati nella continuazione, non configura una nullità di ordine generale, né una nullità specifica della sentenza di condanna, sicché, in applicazione del principio di tassatività delle nullità, l'anzidetta omissione configura soltanto la mancanza di motivazione della sentenza in ordine alla determinazione della pena, sottraendo all'imputato il controllo sull'uso fatto dal giudice del suo potere discrezionale), resta il fatto che, se pure la pena da applicare per il reato continuato deve essere il risultato di una operazione unitaria, secondo il meccanismo ampiamente sopra illustrato, è tuttavia necessario, per le ragioni sopra specificate (verifica dell'osservanza del limite di cui al comma 3 dell'art. 81, effetti dello scioglimento del cumulo giuridico per la applicazione degli istituti prima elencati) che sia individuabile la pena stabilita dal giudice, in aumento, per ciascun reato-satellite.

11.6. Si pensi - ancora una volta - al fatto che ogni reato, pur conglobato nel cumulo, si prescrive con il decorso del termine che gli è proprio, al fatto che l'indulto è applicabile ai soli reati che in esso rientrano (Sez. un., n. 18 del 16 novembre 1989, Fiorentini, Rv. 183004; Sez. un., n. 2780 del 24 gennaio 1996, Panigoni, Rv. 103975), al fatto che, ai fini della sostituzione delle pene detentive brevi, ex art. 53, ultimo comma, l. 24 novembre 1981, n. 689, la pena del reato continuato si scompone per determinare la porzione di pena suscettibile di sostituzione per quei reati che la ammettono, si pensi ancora, in tema di estinzione di misure cautelari personali, al caso in cui la suddivisione della pena irrogata per i reati-satellite rilevi per il calcolo della durata massima della custodia cautelare o per l'accertamento dell'avvenuta espiazione di pena (Sez. un., n. 1 del 26 febbraio 1997, Mammoliti, Rv. 207940). E così, sempre in tema di misure cautelari e della loro durata, è stato chiarito dalle Sezioni Unite (sent. n. 25956 del 26 marzo 2009, Vitale, Rv. 243589) che, se, in presenza di reato continuato, la predetta custodia è stata applicata solo per reati-satellite (o per taluno di essi), nel caso in cui il giudice del procedimento principale, nell'infliggere la pena per il reato continuato, non abbia, tuttavia, provveduto a specificare gli aumenti per ciascun reato-satellite (aumenti rilevanti - appunto - per il calcolo dei termini di durata massima della custodia cautelare), a tanto deve provvedere il giudice investito della questione cautelare; questi, nel rispetto del limite dell'aumento complessivo di pena risultante dalla sentenza di condanna, deve determinare la frazione di pena riferibile a ciascuno dei reati in continuazione. Nell'adempiere a tale incombenza, specifica significativamente la sentenza appena citata, il giudicante deve avere riferimento «a criteri che tengano conto della [...] natura e oggettiva gravità [dei reati-satellite], secondo l'apprezzamento fattone dal giudice di merito». E che si tratti di principio di carattere generale, il quale deve pertanto ispirare l'intera sfera di operatività dell'istituto della continuazione, lo si deduce (anche) dalle applicazioni che riceve in executivis. E invero si è ritenuto che, se il giudice della cognizione non ha specificato i singoli aumenti per ciascuna violazione, tale compito ricade su quello dell'esecuzione, il quale dunque è tenuto ad individuarli partitamente, qualora - ad esempio - a seguito di depenalizzazione di violazioni componenti il reato continuato, occorra espungere dalla pena complessivamente inflitta quella imputabile a dette violazioni. E ciò in quanto non è consentita la determinazione "forfettaria" della pena, atteso che l'art. 533, comma secondo, c.p.p. prevede che il giudice - prima - "stabilisca" la pena per ciascun reato e - solo successivamente - "determini" quella complessiva, osservando la norma di cui all'art. 81 c.p. (così Sez. 1, n. 4520 del 20 gennaio 2005, Caffaratto, Rv. 230750). D'altra parte, è noto come proprio la continuazione possa essere applicata (o ricalcolata) in sede esecutiva «fino alla conversione della pena detentiva in quella corrispondente pecuniaria, se vi è stata condanna ad una pena detentiva ed una legge posteriore prevede esclusivamente quella pecuniaria» (così Sez. un., n. 6240 del 27 novembre 2014, dep. 2015, Basile, non massimata sul punto, che richiama Sez. 1, n. 14007 del 20 marzo 2007, Fragnito, Rv. 236213, in tema, evidentemente di "sopravvenuta illegalità" della pena).

11.7. È dunque la stessa "visione multifocale" del reato continuato (ora unitaria, ora pluralistica) che dà ragione della necessità della individuazione delle singole pene per i reati-satellite ed è essenziale ai fini della "misura" degli aumenti da apportare alla pena-base.

Come si è anticipato, in vero, la perdita della autonomia sanzionatoria dei reati-satellite nell'ambito del reato continuato non comporta affatto la irrilevanza della valutazione della gravità dei predetti reati, in sé considerati, per l'ottima ragione che il momento sanzionatorio segue quello valutativo e dunque lo presuppone e - ovviamente - si distingue da esso.

Proprio la lettera del comma 2 dell'art. 533 del codice di rito, anzi, impone tale procedura bifasica, una procedura per la quale il giudicante, prima, "stabilisce" la pena per ciascun reato, poi, "determina" la pena da applicare per il reato unitariamente considerato. La seconda fase (la "determinazione") ovviamente presuppone la prima, ridefinendo, in vista della unitaria risposta repressiva, la pena "complessiva" da applicare.

La riprova della fondatezza di tale assunto la giurisprudenza di questa Corte la fornisce con riferimento al tema dell'incidenza delle circostanze in relazione al reato continuato. Invero, se è indubbio che il giudizio di bilanciamento ai sensi dell'art. 69 c.p. deve effettuarsi solo con riguardo alle circostanze inerenti il reato più grave (cfr. Sez. 6, n. 10266 del 25 giugno 1991, Capozza, Rv. 188266; Sez. 5, n. 4609 del 7 marzo 1996, Soggia, Rv. 204840), nondimeno, le circostanze inerenti il reato-satellite, se pure rimangono - come si è appena detto - prive di efficacia nella determinazione della pena-base, devono esser tenute presenti, sia per identificare il reato - in astratto - più grave (appunto: per la determinazione della predetta pena-base), sia per determinare l'aumento che, in relazione a ciascun "reato minore", deve essere apportato alla pena-base. Ed è anzi stato chiarito (Sez. 1, n. 33758 del 10 agosto 2001, Cardamone, Rv. 219893; Sez. 3, n. 1810 del 2 dicembre 2010, R., Rv. 249279) che ciò deve avvenire anche nel caso in cui si tratti di circostanza incompatibile con la violazione più grave.

11.8. Che poi, nella prassi, tale modus operandi sia frequentemente trascurato è circostanza che, nel caso in esame, non può rilevare; ad esso ha appunto inteso "reagire" la sopra menzionata sentenza n. 4520 del 2005 (Caffaratto e altri) della prima sezione di questa Corte.

Non di meno, l'operazione mentale descritta dal ricordato comma 2 dell'art. 533 c.p.p. deve ritenersi, sia pure implicitamente, (sempre) compiuta dal giudice del merito, il quale non è certo autorizzato, in ossequio al criterio unificante del medesimo disegno criminoso, a porre sullo stesso piano reati di obiettiva, diversa gravità, in quanto offensivi di beni giuridici ben differentemente tutelati dal legislatore penale. Non sarà certo indifferente, ad esempio, porre in continuazione con il "reato più grave" una rapina aggravata o un'appropriazione indebita. È ragionevole viceversa ritenere che l'aumento operato per il primo reato (punito con reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e con la multa euro 1.032 a 3.098), sia (e debba essere) ben più consistente rispetto a quella applicabile per il secondo (punito, nell'ipotesi "base", a querela e con reclusione fino a tre anni e multa fino ad euro 1.032).

Si vuol significare: pur dovendo giungere alla determinazione di una pena unitaria, non vi è ragione di attribuire (in ogni caso) il medesimo valore ponderale (o un valore ad sensum) a tutti i reati che costituiscono elementi del cumulo giuridico. La perdita di autonomia sanzionatoria, in altre parole, avviene per il confluire dei trattamenti sanzionatori previsti ed applicabili (in astratto) per ciascun reato in una pena unitaria e "finale" (e in concreto), non come presupposto di tale confluenza.

Invero, se, da un punto di vista funzionale, il reato continuato rappresenta una particolare figura di concorso materiale di reati, unificati - appunto - dalla identità del disegno criminoso e assoggettati - in conseguenza di ciò - al cumulo giuridico delle pene, secondo il meccanismo sanzionatorio previsto per il concorso formale, da un punto di vista strutturale, pur di singoli reati si tratta; di fattispecie, vale a dire, "create" dal legislatore e descritte in corpora normativi. D'altra parte, non può farsi a meno di considerare che l'agire umano è un flusso ininterrotto di ideazione e condotte. Da questo ultimo punto di vista, dunque, l'istituto della continuazione, con la sua visione unitaria dell'operato del soggetto, rappresenta una sorta di "rivincita" della concretezza della natura sulla astrazione del diritto. Si tratta però di una "operazione a ritroso" che il legislatore compie dopo aver idealmente frammentato le condotte per poterle inquadrare in schemi di comodo, allo scopo di reprimere i fatti ritenuti più gravi. Insomma (e come è ovvio) non è certo il legislatore che crea l'agire umano; egli ne estrae, per così dire, alcuni fotogrammi, li cataloga, li descrive e collega ad essi conseguenze giuridiche. Li unisce o li separa a seconda degli scopi che si prefigge, non dovendo certamente rimanere prigioniero delle sue stesse costruzioni intellettuali.

Lo scopo dell'istituto della continuazione (così come quello del concorso formale) è la mitigazione del trattamento sanzionatorio in ragione della ritenuta minore gravità della condotta e dell'elemento volitivo che la sorregge, in quanto l'agente risulta aver superato in un'unica occasione le controspinte (precettive e sanzionatorie) che l'ordinamento predispone a tutela di beni ritenuti meritevoli di protezione da parte del diritto penale.

Ma tale mitigazione non può che avere come termine di paragone la pena astrattamente prevista per i singoli reati. Una volta "stabilita", ai sensi del comma 2 dell'art. 533 del codice di rito, la pena per ciascun reato-satellite, il giudice, considerata la unitarietà del disegno criminoso, procederà ai singoli incrementi sanzionatori ("determinando", così, la pena, in osservanza delle norme sulla continuazione); come è ovvio, ogni reato-satellite "contribuirà" alla determinazione della "pena finale" in base al concreto valore ponderale che il giudicante intenderà - in concreto - attribuirgli, non potendo, tuttavia, il predetto giudicante trascurare la indicazione che - in astratto - gli ha fornito il legislatore con la apposizione dei termini edittali.

12. Nel senso sopra indicato, d'altra parte, sembra essersi anche orientata la Dottrina che si è specificamente occupata del problema. Per essa il giudice non può esimersi dal considerare la pena irrogabile in rapporto alle violazioni "meno gravi", quale ineludibile parametro della successiva, sincretica, ponderazione dell'entità dell'aumento da applicare sulla sanzione pertinente alla "violazione più grave".

Invero, si osserva che questa appare la soluzione "suggerita" da vari indicatori normativi: in primis, lo stesso art. 81 c.p., che pone un limite massimo di estensione dell'aggravamento, coincidente con il cumulo delle singole sanzioni applicabili ai reati avvinti dal vincolo della continuazione. D'altra parte, l'art. 533, comma 2, c.p.p., impone espressamente - come si è ampiamente osservato - di stabilire, prima, la pena per ciascun reato, per poi rivalutarla nel suo complesso, in caso di continuazione, secondo i canoni del cumulo giuridico.

Conseguentemente la pena astrattamente prevista dalle diverse norme incriminatrici deve necessariamente influire sul computo del complessivo trattamento sanzionatorio ex art. 133 c.p., rispetto ad ogni singola violazione.

Dunque: il trattamento sanzionatorio astrattamente previsto dalle diverse norme incriminatrici incide "mediatamente" sulla pena complessivamente applicabile in caso di reato continuato, proponendosi quale non eliminabile parametro di un esercizio di ragionevolezza sanzionatoria da parte del giudicante, e - dunque - di uno specifico onere motivazionale.

13. In conseguenza delle argomentazioni sopra sviluppate, e a scioglimento del quesito posto dalla Sezione rimettente, va allora enunciato il seguente principio di diritto:

«Per i delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. 9 settembre 1990, n. 309, l'aumento di pena calcolato a titolo di continuazione per i reati-satellite in relazione alle così dette "droghe leggere" deve essere oggetto di specifica rivalutazione da parte dei giudici del merito, alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per tali violazioni, a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato la incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies ter della l. 21 febbraio 2006, n. 49 (di conversione del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272) e ha determinato, in merito, la reviviscenza della più favorevole disciplina anteriormente vigente».

14. Il caso sottoposto, con il presente ricorso, alla attenzione di queste Sezioni Unite, per altro, ha una sua peculiarità. Invero, per i reati di cui ai capi 4, 5, 42, 43, 44 ("droghe pesanti" e "droghe leggere" insieme), è stata ritenuta dai giudici del merito la unitarietà della condotta, alla luce della normativa all'epoca (ritenuta) vigente; per i capi 32, 34, 35, 40 ("droghe leggere"), è stata ritenuta la continuazione - così come per tutti gli altri capi - con il più grave reato del capo 4.

Nel momento in cui i giudici del merito emettevano le loro sentenze, sembrava essere in vigore, infatti, il medesimo trattamento sanzionatorio, non rilevando la differenza tra le due categorie di stupefacenti. Una volta intervenuta la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, è rimasto chiarito, non solo che le due condotte non sono equiparabili quoad poenam, ma che in realtà esse danno luogo a due diversi reati, ai sensi della "versione" dell'art. 73 del testo unico n. 309 del 1990 anteriore alle modifiche del 2005/2006.

Si rende dunque necessaria nuova determinazione del trattamento sanzionatorio nei confronti di El Mostafa Sebbar. La pena-base, ovviamente, non potrà che rimanere invariata, essendo quella relativa al più grave reato avente ad oggetto "droghe pesanti" (già individuato come premesso, in quella del capo 4, con la conseguenza: 1) che lo sdoppiamento delle fattispecie (in caso di "droga mista") non potrà risolversi in danno dell'imputato, rimanendo quindi immutata la "pena unica" (sia essa la pena-base del delitto di cui al capo 4 o 42 quella dei capi 5, 42, 43, 44) applicata, all'epoca, sul presupposto della equipollenza tra i due tipi di sostanze stupefacenti; ciò alla luce di quanto premesso al punto 3.2. sub c), in ossequio alla precisazione contenuta nella sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale; 2) che l'aumento per la continuazione, quando abbia ad oggetto condotte relative a sole "droghe leggere", dovrà tener conto - per tutto quanto si è sopra scritto - dei ripristinati limiti edittali (da due a sei anni di reclusione e da euro 5.164 a euro 77.468 di multa), ai sensi del comma 4 dell'art. 73 nella versione "Jervolino-Vassalli".

14.1. Si impone, pertanto, il parziale annullamento con rinvio per nuovo esame (ad altra sezione della Corte di appello di Bologna) della sentenza impugnata, nulla impedendo, per altro, al giudice di rinvio, a seguito di diverso percorso motivazionale, di giungere (eventualmente) al medesimo "risultato" della sentenza che, in parte, si annulla.

L'annullamento riguarda i reati di cui ai capi 32, 34, 35 e 40, tutti relativi a condotte aventi ad oggetto solo "droghe leggere", ed è limitato alle frazioni di pena a suo tempo aggiunte a titolo di continuazione alla pena-base.

14.2. Nel resto il ricorso va, per le ragioni sopra esposte, rigettato.

Va da sé che, in merito alla affermazione di responsabilità del Sebbar con riferimento ai capi sopra indicati, la sentenza di merito deve ritenersi passata in giudicato, come - a fortiori - per i fatti di cui ai capi diversi da quelli sopra elencati (appunto 32, 34, 35, 40).

Il giudice del rinvio, in altre parole, dovrà limitarsi a rideterminare il trattamento sanzionatorio in conseguenza del disposto annullamento e, di riflesso, il trattamento sanzionatorio "finale", quale effetto del nuovo calcolo della pena per il reato continuato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle frazioni di pena determinate a titolo di aumento per la continuazione di cui ai capi 32, 34, 35, 40 e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.

Rigetta nel resto il ricorso.

Depositata il 28 maggio 2015.